• 🌻 Tournesol Talks : Décrypter les enjeux du numérique avec des experts aujourd’hui rencontre avec Anne Alombert Maître de conférences en philosophie à l’Université Paris 8, spécialisée dans les rapports entre vie, technique et esprit. Elle a étudié à l’École Normale Supérieure de Lyon et est auteure d’une thèse sur Derrida et Simondon. Ses travaux explorent les enjeux des technologies contemporaines et elle a contribué au programme de recherche dirigé par Bernard Stiegler.

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    #IA #controverses #éthique #sciencespo #medialab #intelligenceartificielle #technologie #innovation #société #avenir
    https://www.youtube.com/watch?v=Z04ouls5yB4&feature=shared

  • L’IA : entre fascination et controverses ⚖️
    Plongez au cœur des débats brûlants autour de l’intelligence artificielle (IA) dans cette interview captivante avec Dominique Cardon, professeur de sociologie à Sciences Po, et Valérie Beaudouin, directrice d’études à l’EHESS. #IA #controverses #éthique #sciencespo #medialab #intelligenceartificielle #technologie #innovation #société #avenir
    Dans cet échange éclairant, ils explorent :
    – Les différentes formes de controverses liées à l’IA
    – Les défis de la régulation de ces technologies puissantes
    – Le rôle crucial de l’éthique dans le développement de l’IA
    – La responsabilité des mondes professionnels qui utilisent l’IA

    Visionnez cette interview incontournable pour mieux comprendre les enjeux de l’IA et participer à la construction de son avenir !
    https://www.youtube.com/watch?v=d-04sLEfcRE

    a voir aussi la revue réseaux : https://www.revue-reseaux.fr

  • ’Entre-soi’, ’omerta’, ’défaillances systémiques’... Le rapport de la #commission_d'enquête étrille le fonctionnement du monde sportif | LCP - Assemblée nationale
    https://www.lcp.fr/actualites/entre-soi-omerta-defaillances-systemiques-le-rapport-de-la-commission-d-enquete-

    Dans ce document de plus de 260 pages, que LCP a pu consulter avant sa présentation en conférence de presse mardi à l’Assemblée nationale, la rapporteure Sabrina Sebaihi (Ecologiste) dresse un portrait accablant de l’univers du #sport_français, pointant l’"omerta" et l’opacité qui y ont régné, et y règnent parfois encore, aussi bien concernant les affaires ayant trait aux #violences_sexuelles et psychologiques, aux phénomènes discriminatoires, ou encore à la #gestion_financière parfois hasardeuse des fédérations. Elle confirme d’ailleurs avoir fait face à des « difficultés » pour obtenir des documents auprès de certaines instances, un phénomène « symptomatique », selon elle, du « défaut de #culture_démocratique » qui gangrène les instances sportives.

    De même, la rapporteure déplore les nombreux « mensonges, inexactitudes, approximations, expressions de déni et de désinvolture » auxquels les députés ont été confrontés au cours de leurs auditions. Résultat, pas moins de 7 signalements à la justice pour de possibles parjures ont été effectués à la suite des quelque 92 auditions menées.

    #discriminations

    Le rapport parlementaire : https://www.assemblee-nationale.fr/dyn/16/rapports/cefedespo/l16b2012-ti_rapport-enquete.pdf

  • In questo mondo : qualche riflessione su #Io_Capitano

    Rappresentare il dolore, la pena e la povertà degli altri è sempre un compito delicato e complicato. La migrazione oggi, resa illegale dalla legislazione europea e spettacolarizzata dai media, è il caso più evidente. L’empatia è apparentemente generata solo quando l’anonimato dei corpi stranieri può essere individualizzato per essere raccontato. Poteri e relazioni strutturali più ampie sono solitamente allontanati dal racconto, ridotti a vaghi riconoscimenti. La storia richiede l’identificazione dell’individuo. O, almeno, questo è ciò che ci insegna la nostra cultura.

    Tutto ciò è stato istituzionalizzato sia nella filosofia politica che nei romanzi che raccontano le nostre vite. Tuttavia, è una prospettiva che ci lascia con una povertà di spiegazioni e di comprensione. Nel recente film di Matteo Garrone, Io Capitano, incontriamo tali domande e problemi. Il viaggio di Seydou e del suo amico Moussa dal Senegal attraverso il Sahel e la Libia, e poi il Mediterraneo, è intensamente raccontato in tutti i suoi strazianti dettagli. Seydou, indotto dai suoi rapitori libici a guidare un barcone verso l’Europa, sperimenta tutte le remore morali della sua responsabilità. Nonostante tutto, riesce nella sua impresa. È un eroe e c’è un (temporaneo) lieto fine. Ma sappiamo che non è così. Oltre alle torture in Libia, questi migranti affrontano anche le condizioni di quasi schiavitù in Italia. Senza documenti e protezione, sono soggetti alla condizione di non avere il diritto di avere diritti. Il sogno europeo è spesso un incubo. Intrappolata in questi meccanismi, ulteriormente codificati e rafforzati dal razzismo strutturale, questa non è certo una narrazione che può essere facilmente trasmessa. Soprattutto, se siamo onesti, essa rivela la nostra responsabilità primaria nel racconto. Nel caso del film di Garrone, la costruzione dell’Africa come luogo di estrazione umana e materiale a beneficio dell’Occidente – dalla schiavitù e l’inizio della modernità atlantica ai metalli preziosi dei nostri gioielli e cellulari – riguarda in ultima analisi la costituzione coloniale del presente. Il migrante moderno non è solo un rifugiato economico o uno sgradito portatore di crisi, ma rappresenta piuttosto il ritorno di quella storia repressa.

    Quindi, cosa sto dicendo? Il film di Garrone non avrebbe dovuto essere realizzato? È un fallimento politico ed etico (e quindi estetico)? Le cose non sono mai così semplici. La consolazione delle alternative binarie, persino del ragionamento dialettico, sfugge. Per il momento, siamo bloccati con la narrazione individualizzata, con scelte e orizzonti ridotti a una comprensione soggettiva del mondo che oscura forze più profonde e relazioni più ampie. Il trucco è lavorare su questa imposizione in modo tale da spingerci oltre questi parametri. La risposta umanista all’eroe migrante è insufficiente. Dopo tutto, ci conferma nella nostra formazione del sentimento, quella stessa formazione che ha prodotto il ‘migrante’ contemporaneo attraverso la nostra colonizzazione delle risorse umane e materiali del pianeta.

    Non c’è una formula ovvia o un’alternativa pronta. Si tratta, pensando con il cinema, di un’estetica cinematografica che ci prepara a un’altra etica in cui la nostra posizione e il nostro punto di vista sono messi in discussione, interrotti, persino emarginati o aggirati. Il metodo non può che risiedere nella pratica cinematografica stessa.

    Ho in mente due film che affrontano il percorso etico ed estetico proposto in Io Capitano. Uno è diretto nel suo stile ‘documentaristico’ come il film di Garrone: Cose di questo mondo (2002) di Michael Winterbottom. L’altro, di Abderrahmane Sissako, Aspettando la felicità (2002), suggerisce un modo poetico di riconfigurare le brutali imposizioni della modernità. Mi limito al film di Winterbottom, più vicino per stile e intenti a quello di Garrone, dove entrambi i registi europei affrontano l’alterità di altri mondi che la loro (mia) cultura ha inquadrato e ora punisce. Nel film In This World seguiamo due afghani, Jamal e Enayatullah, provenienti dal campo profughi di Shamshatoo, vicino a Peshawar, nel nord-ovest del Pakistan, mentre cercano di raggiungere Londra attraversando Iran, Kurdistan, Turchia, Italia e Francia. Enayatullah muore per soffocamento nel container che porta loro e altri migranti da Istanbul via mare a Trieste. Jamal alla fine riesce ad arrivare a Londra. La ruvida bellezza del paesaggio, la violenza dei confini e l’avidità dei trafficanti sono presenti in tutta la loro crudezza.

    Anche il giovanissimo Jamal è un eroe semplicemente per essere sopravvissuto a tutte le avversità. Tuttavia, le relazioni sociali che si creano lungo il percorso, dalla vita familiare allargata a Peshawar alla solidarietà in Kurdistan e all’amicizia nella ‘giungla’ di Calais, ci fanno costantemente entrare in un mondo più ampio. Il singolo viaggiatore non è semplicemente parte della migrazione moderna: il campo di Peshawar è presentato all’inizio del film come il prodotto dell’aggressione prima sovietica e poi americana e alleata, dove sono state spesi quasi 8 miliardi di dollari nel 2001 per sganciare delle bombe sull’Afghanistan. Le brutali semplicità della geopolitica trasformano un’odissea personale in una riorganizzazione radicale delle mappe del mondo moderno: dal basso, dai margini, dal silenzio di altre storie. Anche la mia narrazione non riesce a marcare la differenza. Ciò che si nasconde nel linguaggio cinematografico è un eccesso che allude a qualcosa in più della spiegazione verbale. L’immagine contiene sempre un supplemento in più del semplice svolgimento del racconto. Lasciarla per così dire respirare, sottraendoci alla linearità della narrazione, dissemina una complessità in cui la poetica sostiene una politica più opaca ma profonda (lo stesso si può dire del film di Sissako).

    Riflettendo sul film di Matteo Garrone, delle cui opere cinematografiche resto un ammiratore, sia l’idealizzazione della vita familiare in Senegal sia l’impeto incessante della narrazione che ci spinge verso il Mediterraneo e l’Europa ci negano quello spazio: le sue ambiguità e complessità. Le immagini sono drammatiche, i sentimenti ben intesi, ma la sua estetica resta bloccata da un’etica che ha il fiato corto, che non è disposta a scavare più a fondo e nemmeno a lasciare che il migrante abiti una storia e un mondo che non è semplicemente nostro da raccontare.

    Chiaramente, non esiste una soluzione. Solo un viaggio critico perpetuo. Nel continuum coloniale del presente i nostri fallimenti, una volta riconosciuti e registrati, segnano ulteriori percorsi da perseguire.

    http://www.technoculture.it/author/i-chambers
    #film #douleur #empathie #migrations #colonisation #présent_colonial #colonialité_du_présent #Afrique #esthétique #éthique #continuum_colonial

  • Métacartes, des communs pédagogiques pour accompagner les accompagnateurs de transition numérique
    https://framablog.org/2023/10/16/metacartes-des-communs-pedagogiques-pour-accompagner-les-accompagnateurs-

    Nous vous avons déjà parlé à plusieurs reprises du projet « Métacartes » que nous trouvons très pertinent pour aborder des sujets complexes de façon simple (et collective !). Mélanie et Lilian, les créateur⋅ices de cette initiative (et des personnes fabuleuses par ailleurs), … Lire la suite­­

    #Dans_notre_archipel #Enjeux_du_numérique #BiensCommuns #Claviers_invités #cohérence_numérique #Éducation #éthique #médiation #médiation_numérique #Metacartes

  • Immigration : une autre voie est possible, nécessaire, urgente

    « Ne pas accueillir », et « empêcher les gens d’arriver » : à l’heure où, par la voix de #Gérald_Darmanin, la France s’illustre encore dans le #repli, le #rejet et le manquement à ses obligations éthiques et légales les plus élémentaire, il apparait urgent de déverrouiller un débat trop longtemps confisqué. Quelques réflexions alternatives sur la « #misère_du_monde » et son « #accueil », parce qu’on ne peut plus se rendre complice de cinq mille morts chaque année.

    « Ne pas accueillir », et « empêcher les gens d’arriver » : à l’heure où, par la voix de Gérald Darmanin, la France s’illustre encore dans le repli, le rejet et le manquement à ses obligations éthiques et légales les plus élémentaires, et alors que s’annonce l’examen parlementaire d’un projet de loi plus brutal et liberticide que jamais, signé par le même Darmanin, il apparait urgent de déverrouiller un débat trop longtemps confisqué. C’est ce à quoi s’efforce Pierre Tevanian dans le texte qui suit. Dans la foulée de son livre « On ne peut pas accueillir toute la misère du monde ». En finir avec une sentence de mort->, co-signé l’an passé avec Jean-Charles Stevens, et à l’invitation de la revue Respect, qui publie le 21 septembre 2023 un numéro intitulé « Bienvenue » et intégralement consacré à l’accueil des migrants, Pierre Tevanian a répondu à la question suivante : de quelle politique alternative avons-nous besoin ? De son article intitulé « Repenser l’accueil, oser l’égalité », le texte qui suit reprend les grandes lignes, en les développant et en les prolongeant.

    *

    Lorsqu’en juillet 2022 nous mettions sous presse notre ouvrage, « On ne peut pas accueillir toute la misère du monde ». En finir avec une sentence de mort, l’association Missing Migrants recensait 23801 morts en méditerranée pour la décennie passée, ainsi que 797 morts aux frontières Nord et Est de la « forteresse Europe ». Un an plus tard, l’hécatombe s’élève à 20 089 morts en méditerranée et 1052 au Nord et à l’Est [Chiffres produits le 20 septembre 2023]. Soit 5340 vies de plus en un an, fauchées par une politique concertée qui, adossée à ce simple dicton sur la « misère du monde », s’arroge insolemment le monopole de la « raison » et de la « responsabilité ».

    C’est de là qu’il faut partir, et là qu’il faut toujours revenir, lorsqu’on parle d’ « immigration » et de « politique d’immigration ». C’est à ce « reste » consenti de la « gestion » technocratique des « flux migratoires » que nous revenons constamment, opiniâtrement, dans notre livre, afin de ré-humaniser un débat public que cinq décennies de démagogie extrémiste – mais aussi de démagogie gouvernante – ont tragiquement déshumanisé.

    L’urgence est là, si l’on se demande quelle politique alternative doit être inventée, et tout le reste en découle. Il s’agit de libérer notre capacité de penser, mais aussi celle de sentir, de ressentir, d’être affectés, si longtemps verrouillées, intimidées, médusées par le matraquage de ce dicton et de son semblant d’évidence. Ici comme en d’autres domaines (les choix économiques néolibéraux, le démantèlement des services publics et des droits sociaux), le premier geste salutaire, celui qui détermine tous les autres mais nécessite sans doute le principal effort, est un geste d’émancipation, d’empowerment citoyen, de sortie du mortifère « TINA » : « There Is No Alternative ».

    Le reste suivra. L’intelligence collective relèvera les défis, une fois libérée par ce préalable nécessaire que l’on nomme le courage politique. La question fatidique, ultime, « assassine » ou se voulant telle : « Mais que proposez-vous ? », trouvera alors mille réponses, infiniment plus « réalistes » et « rationnelles » que l’actuel « pantomime » de raison et de réalisme auquel se livrent nos gouvernants. Si on lit attentivement notre livre, chaque étape de notre propos critique contient en germe, ou « en négatif », des éléments « propositionnels », des pistes, voire un « programme » alternatif tout à fait réalisable. On se contentera ici d’en signaler quelques-uns – en suivant l’ordre de notre critique, mot à mot, du sinistre dicton : « nous » - « ne pouvons pas » - « accueillir » - « toute » - « la misère du monde ».

    Déconstruire le « nous », oser le « je ».

    Tout commence par là. Se re-subjectiver, diraient les philosophes, c’est-à-dire, concrètement : renouer avec sa capacité à penser et agir, et pour cela s’extraire de ce « on » tellement commode pour s’éviter de penser (« on sait bien que ») mais aussi s’éviter de répondre de ses choix (en diluant sa responsabilité dans un « nous » national). Assumer le « je », c’est accepter de partir de cette émotion face à ces milliers de vies fauchées, qui ne peut pas ne pas nous étreindre et nous hanter, si du moins nous arrêtons de l’étouffer à coup de petites phrases.

    C’est aussi se ressouvenir et se ré-emparer de notre capacité de penser, au sens fort : prendre le temps de l’information, de la lecture, de la discussion, de la rencontre aussi avec les concernés – cette « immigration » qui se compose de personnes humaines. C’est enfin, bien entendu, nourrir la réflexion, l’éclairer en partant du réel plutôt que des fantasmes et phobies d’invasion, et pour cela valoriser (médiatiquement, politiquement, culturellement) la somme considérable de travaux scientifiques (historiques, sociologiques, démographiques, économiques, géographiques [Lire l’Atlas des migrations édité en 2023 par Migreurop.]) qui tous, depuis des décennies, démentent formellement ces fantasmagories.

    Inventer un autre « nous », c’est abandonner ce « nous national » que critique notre livre, ce « nous » qui solidarise artificiellement exploiteurs et exploités, racistes et antiracistes, tout en excluant d’office une autre partie de la population : les résidents étrangers. Et lui substituer un « nous citoyen » beaucoup plus inclusif – inclusif notamment, pour commencer, lorsqu’il s’agit de débattre publiquement, et de « composer des panels » de participants au débat : la dispute sur l’immigration ne peut se faire sans les immigré·e·s, comme celle sur la condition féminine ne peut se faire sans les femmes.

    Ce nouveau « nous » devra toutefois être exclusif lui aussi, excluant et intolérant à sa manière – simplement pas avec les mêmes. Car rien de solidement et durablement positif et inclusif ne pourra se construire sans un moment « négatif » assumé de rejet d’une certaine composante de la « nation française », pour le moment « entendue », « comprise », excusée et cajolée au-delà de toute décence : celle qui exprime de plus en plus ouvertement et violemment son racisme, en agressant des migrant·e·s, en menaçant des élu·e·s, en incendiant leurs domiciles. Si déjà l’autorité de l’État se manifestait davantage pour soutenir les forces politiques, les collectifs citoyens, les élus locaux qui « accueillent », et réprimer celles qui les en empêchent en semant une véritable terreur, un grand pas serait fait.

    Reconsidérer notre « impuissance »… et notre puissance.

    Nous ne « pouvons » pas accueillir, nous dit-on, ou nous ne le pouvons plus. L’alternative, ici encore, consisterait à revenir au réel, et à l’assumer publiquement – et en premier lieu médiatiquement. La France est la seconde puissance économique européenne, la sixième puissance économique du monde, et l’un des pays au monde – et même en Europe – qui « accueille », en proportion de sa population totale, le moins de réfugié·e·s ou d’étranger·e·s. Parmi des dizaines de chiffres que nous citons, celui-ci est éloquent : 86% des émigrant·e·s de la planète trouvent refuge dans un pays « en développement ». Ou celui-ci : seuls 6,3% des personnes déplacées trouvent refuge dans un pays de l’Union européenne [Ces chiffres, comme les suivants, sont cités et référencés dans notre livre, « On ne peut pas accueillir toute la misère du monde ». En finir avec une sentence de mort, op. cit.].

    Reconsidérer notre puissance, c’est aussi, on l’a vu, se rendre attentif au potentiel déjà existant : publiciser les initiatives locales de centres d’accueil ou de solidarités plus informelles, dont il est remarquable qu’elles sont rarement le fait de personnes particulièrement riches. C’est aussi défendre cette « puissance d’accueil » quand elle est menacée par des campagnes d’extrême droite, la valoriser au lieu de la réprimer. C’est donc aussi, très concrètement, abroger l’infâme « délit de solidarité » au nom duquel on a persécuté Cédric Herrou et tant d’autres. Aucun prétexte ne tient pour maintenir ce dispositif « performatif » (qui « déclare » l’accueil impossible, par l’interdit, afin de le rendre impossible, dans les faits). « Filières mafieuses », sur-exploitation des travailleurs sans-papiers, « marchands de sommeil » : tous ces fléaux sociaux pourraient parfaitement être combattus avec un arsenal légal délesté de ce sinistre « délit de solidarité » : le Droit du travail, le Droit du logement, et plus largement tout l’appareil pénal qui réprime déjà toute forme de violence, d’extorsion et d’abus de faiblesse.

    Repenser l’accueil, oser l’égalité.

    Si notre livre combat le rejet et valorise la solidarité, il critique pourtant la notion d’accueil ou celle d’hospitalité, telle qu’elle est mobilisée dans notre débat public. Pour une raison principalement : en entretenant la confusion entre le territoire national et la sphère domestique, le paradigme de l’hospitalité encourage les paniques sociales les plus irrationnelles (à commencer par le sentiment d’ « invasion »), mais aussi les régressions autoritaires les plus nocives (ce fameux « On est chez nous ! », qui assimile les étranger·e·s, fussent-ils ou elles titulaires d’un logement qui leur est propre, d’un bail ou d’un titre de propriété, à des intrus qui nous placent en situation de « légitime défense »). Ce qui est ainsi évacué du débat, c’est ni plus ni moins qu’un principe constitutionnel : le principe d’égalité de traitement de toutes et tous sur le territoire d’une république démocratique. Plusieurs dispositifs légaux, ici encore, seraient à abroger, parce qu’ils dérogent à ce principe d’égalité : la « double peine » , les « emplois réservés » – sans parler de la citoyenneté elle-même, qui gagnerait à être, comme dans la majorité des pays européens, ouvertes au moins partiellement aux résident·e·s étranger·e·s.

    Enfin, bien en deçà de ces mesures tout à fait réalisables, une urgence s’impose : avant de se demander si l’on va « accueillir », on pourrait commencer par laisser tranquilles les nouveaux arrivants. À défaut de les « loger chez soi », arrêter au moins de les déloger, partout où, avec leurs propres forces, à la sueur de leur front, ils ou elles élisent domicile – y compris quand il s’agit de simples tentes, cabanons et autres campements de fortune.

    Repenser le « tout », assumer les droits indivisibles

    Là encore la première des priorités, celle qui rend possible la suite, serait une pédagogie politique, et avant cela l’arrêt de la démagogie. Car là encore tout est connu, établi et documenté par des décennies de travaux, enquêtes, rapports, publiés par des laboratoires de recherche, des institutions internationales – et même des parlementaires de droite [Nous citons dans notre ouvrage ces différents rapports.].

    Il suffirait donc que ce savoir soit publicisé et utilisé pour éclairer le débat, en lieu et place de l’obscurantisme d’État qui fait qu’actuellement, des ministres continuent de mobiliser des fictions (le risque d’invasion et de submersion, le « coût de l’immigration », mais aussi ses effets « criminogènes ») que même les élus de leurs propres majorités démentent lorsqu’ils s’attèlent à un rapport parlementaire sur l’état des connaissances en la matière. Nous l’avons déjà dit : à l’échelle de la planète, seules 6,3% des personnes déplacées parviennent aux « portes de l’Europe » – et encore ce calcul n’inclut-il pas la plus radicale des « misères du monde », celle qui tue ou cloue sur place des populations, sans possibilité aucune de se déplacer. Cette vérité devrait suffire, si l’on osait la dire, pour congédier toutes les psychoses sur une supposée « totalité » miséreuse qui déferlerait « chez nous ».

    À l’opposé de cette « totalité » factice, prétendument « à nous portes », il y a lieu de repenser, assumer et revendiquer, sur un autre mode, et là encore à rebours de ce qui se pratique actuellement, une forme de « totalité » : celle qui sous-tend l’universalité et l’indivisibilité des droits humains, et du principe d’égalité de traitement : « tout » arrivant, on doit le reconnaître, a droit de bénéficier des mêmes protections, qu’il soit chrétien, juif ou musulman, que sa peau soit claire ou foncée, qu’il vienne d’Ukraine ou d’Afghanistan. Le droit d’asile, les dispositifs d’accueil d’urgence, les droits des femmes, les droits de l’enfant, le droit de vivre en famille, les droits sociaux, et au-delà l’ensemble du Droit déjà existant (rappelons-le !), ne doit plus souffrir une application à géométries variables.

    Il s’agit en l’occurrence de rompre, au-delà des quatre décennies de « lepénisation » qui ont infesté notre débat public, avec une tradition centenaire de discrimination institutionnelle : cette « pensée d’État » qui a toujours classé, hiérarchisé et « favorisé » certaines « populations » au détriment d’autres, toujours suivant les deux mêmes critères : le profit économique (ou plus précisément le marché de l’emploi et les besoins changeants du patronat) et la phobie raciste (certaines « cultures » étant déclarées moins « proches » et « assimilables » que d’autres, voire franchement « menaçantes »).

    Respecter la « misère du monde », reconnaître sa richesse.

    Il n’est pas question, bien sûr, de nier la situation de malheur, parfois extrême, qui est à l’origine d’une partie importante des migrations internationales, en particulier quand on fuit les persécutions, les guerres, les guerres civiles ou les catastrophes écologiques. Le problème réside dans le fait de réduire des personnes à cette appellation abstraite déshumanisante, essentialisante et réifiante : « misère du monde », en niant le fait que les migrant·e·s, y compris les plus « misérables », arrivent avec leurs carences sans doute, leurs traumas, leurs cicatrices, mais aussi avec leur rage de vivre, leur créativité, leur force de travail, bref : leur puissance. Loin de se réduire à une situation vécue, dont précisément ils et elles cherchent à s’arracher, ce sont de potentiels producteurs de richesses, en tant que travailleurs et travailleuses, cotisant·e·s et consommateurs·trices. Loin d’être seulement des corps souffrants à prendre en charge, ils et elles sont aussi, par exemple, des médecins et des aides-soignant·es, des auxiliaires de vie, des assistantes maternelles, et plus largement des travailleurs et des travailleuses du care – qui viennent donc, eux-mêmes et elles-mêmes, pour de vrai, accueillir et prendre en charge « notre misère ». Et cela d’une manière tout à fait avantageuse pour « nous », puisqu’ils et elles arrivent jeunes, en âge de travailler, déjà formé·es, et se retrouvent le plus souvent sous-payé·es par rapport aux standards nationaux.

    Là encore, la solution se manifeste d’elle-même dès lors que le problème est bien posé : il y a dans ladite « misère du monde » une richesse humaine, économique notamment mais pas seulement, qu’il serait intéressant de cultiver et associer au lieu de la saboter ou l’épuiser par le harcèlement policier, les dédales administratifs et la surexploitation. L’une des mises en pratique concrète de ce virage politique serait bien sûr une opération de régularisation massive des sans-papiers, permettant (nous sommes là encore en terrain connu, éprouvé et documenté) de soustraire les concerné·e·s des « sous-sols » de l’emploi « pour sans-papiers », véritable « délocalisation sur place », et de leur donner accès aux étages officiels de la vie économique, ainsi qu’au Droit du travail qui le régit.

    Il y a enfin, encore et toujours, ce travail de pédagogie à accomplir, qui nécessite simplement du courage politique : populariser le consensus scientifique existant depuis des décennies, quelles que soit les périodes ou les espaces (états-unien, européen, français, régional), concernant l’impact de l’immigration sur l’activité et la croissance économique, l’emploi et les salaires des autochtones, l’équilibre des finances publiques, bref : la vie économique au sens large. Que ces études soient l’oeuvre d’institutions internationales ou de laboratoires de recherche, elles n’ont cessé de démontrer que « le coût de l’immigration » est tout sauf avéré, que les nouveaux arrivant·e·s constituent davantage une aubaine qu’une charge, et qu’on pourrait donc aussi bien parler de « la jeunesse du monde » ou de « la puissance du monde » que de sa « misère ».

    Redevenir moraux, enfin.

    Le mot a mauvaise presse, où que l’on se trouve sur l’échiquier politique, et l’on devrait s’en étonner. On devrait même s’en inquiéter, surtout lorsque, comme dans ce « débat sur l’immigration », il est question, ni plus ni moins que de vies et de morts. Les ricanements et les postures viriles devraient s’incliner – ou nous devrions les forcer à s’incliner – devant la prise en considération de l’autre, qui constitue ce que l’on nomme la morale, l’éthique ou tout simplement notre humanité. Car s’il est à l’évidence louable de refuser de « faire la morale » à des adultes consentants sur des questions d’identité sexuelle ou de sexualité qui n’engagent qu’elles ou eux, sans nuire à autrui, il n’en va pas de même lorsque c’est la vie des autres qui est en jeu. Bref : l’interdit de plus en plus impérieux qui prévaut dans nos débats sur l’immigration, celui de « ne pas culpabiliser » l’électeur lepéniste, ne saurait être l’impératif catégorique ultime d’une démocratie saine.

    Pour le dire autrement, au-delà de la « misère » que les migrant·e·s cherchent à fuir, et de la « puissance » qu’ils ou elles injectent dans la vie économique, lesdit·es migrant·e·s sont une infinité d’autres choses : des sujets sociaux à part entière, doté·e·s d’une culture au sens le plus large du terme, et d’une personnalité, d’une créativité, irréductible à toute appellation expéditive et englobante (aussi bien « misère » que « richesse », aussi bien « charge » que « ressource »). Et s’il n’est pas inutile de rappeler tout le potentiel économique, toute l’énergie et « l’agentivité » de ces arrivant·e·s, afin de congédier les fictions anxiogènes sur « l’invasion » ou « le coût de l’immigration », il importe aussi et surtout de dénoncer l’égoïsme sordide de tous les questionnements focalisés sur les coûts et les avantages – et d’assumer plutôt un questionnement éthique. Car une société ne se fonde pas seulement sur des intérêts à défendre, mais aussi sur des principes à honorer – et il en va de même de toute subjectivité individuelle.

    Le réalisme dont se réclament volontiers nos gouvernants exige en somme que l’on prenne en compte aussi cette réalité-là : nous ne vivons pas seulement de pain, d’eau et de profit matériel, mais aussi de valeurs que nous sommes fiers d’incarner et qui nous permettent de nous regarder dans une glace. Personne ne peut ignorer durablement ces exigences morales sans finir par le payer, sous une forme ou une autre, par une inexpugnable honte. Et s’il est précisément honteux, inacceptable aux yeux de tous, de refuser des soins aux enfants, aux vieillards, aux malades ou aux handicapé·e·s en invoquant leur manque de « productivité » et de « rentabilité », il devrait être tout aussi inacceptable de le faire lorsque lesdit·es enfants, vieillards, malades ou handicapé·e·s viennent d’ailleurs – sauf à sombrer dans la plus simple, brutale et abjecte inhumanité.

    https://blogs.mediapart.fr/pierre-tevanian/blog/220923/immigration-une-autre-voie-est-possible-necessaire-urgente

    #complicité #Pierre_Tevanian #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #migrations #réfugiés #asile #déshumanisation #There_is_no_alternative (#TINA) #alternative #courage_politique #intelligence_collective #raison #réalisme #re-subjectivation #émotion #fantasmes #phobie #invasion #fantasmagorie #nationalisme #résidents_étrangers #nous_citoyen #racisme #xénophobie #impuissance #puissance #puissance_d’accueil #délit_de_solidarité #solidarité #extrême_droite #performativité #égalité #hospitalité #paniques_sociales #principe_d'égalité #double_peine #emplois_réservés #citoyenneté #hébergement #logement #pédagogie_politique #fictions #obscurantisme_d'Etat #droits_humains #égalité_de_traitement #lepénisation #débat_public #discrimination_institutionnelle #discriminations #déshumanisation #richesse #régularisation #sans-papiers #économie #morale #éthique #humanité #agentivité #potentialité_économique #valeurs
    #ressources_pédagogiques

    ping @isskein @reka @_kg_ @karine4

    • « On ne peut pas accueillir toute la misère du monde » : la vraie histoire de la citation de #Michel_Rocard reprise par #Macron

      Le président de la République a cité, dimanche 24 septembre, la célèbre phrase de Rocard. L’occasion de revenir sur une déclaration à laquelle on a souvent fait dire ce qu’elle ne disait pas.

      C’est à la fois une des phrases les plus célèbres du débat politique français, mais aussi l’une des plus méconnues. Justifiant la politique de fermeté vis-à-vis des migrants arrivés à Lampedusa, Emmanuel Macron a déclaré hier : « On a un modèle social généreux, et on ne peut pas accueillir toute la misère du monde. »

      https://twitter.com/TF1Info/status/1706009131448983961

      La citation est un emprunt à la déclaration de Michel Rocard. La droite aime à citer cette phrase, ce qui est une manière de justifier une politique de fermeté en matière d’immigration en citant un homme de gauche. Tandis que la gauche a souvent tendance à ajouter que le Premier ministre de François Mitterrand avait ajouté un volet d’humanité en rappelant que la France devait aussi « prendre sa part » (ou « s’y efforcer »), et donc que sa formule, loin d’être un appel à la fermeture des frontières, était en réalité un appel à l’accueil.

      En réalité, comme Libération l’avait expliqué en détail il y a quelques années, les choses sont moins simples. Contrairement à ce que la gauche aime dire, cette déclaration de Michel Rocard n’était, initialement, pas vraiment humaniste, et était invoquée par le responsable socialiste pour justifier la politique draconienne vis-à-vis de l’immigration du gouvernement d’alors.

      On retrouve la trame de cette formule dans un discours prononcé le 6 juin 1989 à l’Assemblée nationale (page 1 797 du document) : « Il y a, en effet, dans le monde trop de drames, de pauvreté, de famine pour que l’Europe et la France puissent accueillir tous ceux que la misère pousse vers elles », déclare ce jour-là Michel Rocard, avant d’ajouter qu’il faut « résister à cette poussée constante ». Il n’est nullement question alors d’un quelconque devoir de prendre part à cet afflux.

      A l’époque, le climat est tendu sur la question de l’immigration. L’exclusion d’un collège de Creil de trois élèves musulmanes ayant refusé d’ôter leur foulard a provoqué, en octobre 1989, un vif débat national. En décembre, le FN écrase la législative partielle de Dreux. Les discours sur l’immigration se durcissent. Celui du PS n’échappe pas à la règle, d’autant que la gauche se voit reprocher d’être revenue sur les lois Pasqua. François Mitterrand déclare dans une interview à Europe 1 et Antenne 2, le 10 décembre 1989, que le « seuil de tolérance » des Français à l’égard des étrangers « a été atteint dans les années 70 ». Se met en place le discours qui va être celui du PS pendant quelques années. D’un côté, une volonté affichée de promouvoir l’intégration des immigrés réguliers en place (c’est en décembre 1989 qu’est institué le Haut Conseil à l’intégration). De l’autre côté, un objectif affirmé de verrouiller les flux migratoires, avec un accent mis sur la lutte contre l’immigration clandestine, mais pas seulement. Dans la même interview à France 2 et Europe 1, Mitterrand explique ainsi que le chiffre de « 4 100 000 à 4 200 000 cartes de séjour » atteint selon lui en 1982 ne doit, « autant que possible, pas être dépassé ».

      C’est dans ce contexte, le 3 décembre 1989, que Michel Rocard prononce la formule qui restera dans les mémoires. Michel Rocard est l’invité d’Anne Sinclair dans l’émission Sept sur sept sur TF1. Il précise la nouvelle position de la France en matière d’immigration et le moins qu’on puisse dire c’est que ses propos sont musclés. La France se limitera au respect des conventions de Genève, point final, explique-t-il : « Nous ne pouvons pas héberger toute la misère du monde. La France doit rester ce qu’elle est, une terre d’asile politique […] mais pas plus. […] Il faut savoir qu’en 1988 nous avons refoulé à nos frontières 66 000 personnes. 66 000 personnes refoulées aux frontières ! A quoi s’ajoutent une dizaine de milliers d’expulsions du territoire national. Et je m’attends à ce que pour l’année 1989 les chiffres soient un peu plus forts. »

      Après l’émission, Michel Rocard décline la formule à l’envi lors de ses discours les mois suivants, pour justifier de sa politique d’immigration. Le 13 décembre 1989, il déclare ainsi à l’Assemblée nationale : « Puisque, comme je l’ai dit, comme je le répète, même si comme vous je le regrette, notre pays ne peut accueillir et soulager toute la misère du monde, il nous faut prendre les moyens que cela implique. » Et précise les moyens en question : « Renforcement nécessaire des contrôles aux frontières », et « mobilisation de moyens sans précédent pour lutter contre une utilisation abusive de la procédure de demande d’asile politique ».

      Il la répète quelques jours plus tard, le 7 janvier 1990, devant des socialistes d’origine maghrébine réunis à l’occasion d’un colloque sur l’immigration. « J’ai beaucoup réfléchi avant d’assumer cette formule. Il m’a semblé que mon devoir était de l’assumer complètement. Aujourd’hui je le dis clairement. La France n’est plus, ne peut plus être, une terre d’immigration nouvelle. Je l’ai déjà dit et je le réaffirme, quelque généreux qu’on soit, nous ne pouvons accueillir toute la misère du monde », martèle-t-il devant un parterre d’élus pas très convaincus. Avant de conclure : « Le temps de l’accueil de main-d’œuvre étrangère relevant de solutions plus ou moins temporaires est donc désormais révolu. » Le reportage de France 2 consacré au colloque insiste sur le silence qui s’installe alors dans l’auditoire, avec un gros plan sur le visage dubitatif de Georges Morin, en charge du Maghreb pour le PS et animateur des débats.

      Le Premier ministre recycle son élément de langage dans un discours sur la politique d’immigration et d’intégration prononcé dans l’hémicycle le 22 mai 1990 : « Nous ne pouvons pas – hélas – soulager toutes les misères de la planète. » Le gouvernement reprendra aussi à son compte la petite phrase rocardienne, à l’image de Lionel Stoléru, secrétaire d’Etat auprès du Premier ministre chargé du Plan, qui, face à Jean-Marie Le Pen sur la Cinq le 5 décembre 1989, déclare : « Le Premier ministre a dit une phrase simple, qui est qu’on ne peut pas héberger toute la misère du monde, ce qui veut dire que les frontières de la France ne sont pas une passoire et que quel que soit notre désir et le désir de beaucoup d’êtres humains de venir nous ne pouvons pas les accueillir tous. Le problème de l’immigration, c’est essentiellement ceux qui sont déjà là… » On retrouve le double axe de la politique que revendique le gouvernement : effort pour intégrer les immigrés qui sont présents et limitation au maximum de toute nouvelle immigration.

      Il faudra attendre le 4 juillet 1993 pour une rectification tardive de Michel Rocard, en réaction à la politique anti-immigration de Charles Pasqua, raconte Thomas Deltombe, auteur d’un essai sur l’islamophobie dans les médias, dans un article du Monde diplomatique : « Laissez-moi lui ajouter son complément, à cette phrase », déclare alors Rocard dans Sept sur sept. « Je maintiens que la France ne peut pas accueillir toute la misère du monde. La part qu’elle en a, elle prend la responsabilité de la traiter le mieux possible. »

      Trois ans plus tard, dans une tribune publiée dans le Monde du 24 août 1996 sous le titre « La part de la France », l’ex-Premier ministre assure que sa formule a été amputée et qu’elle s’accompagnait à l’époque d’un « [la France] doit en prendre fidèlement sa part ». Ce qu’il répète dans les pages de Libé en 2009, affirmant ainsi que sa pensée avait été « séparée de son contexte, tronquée, mutilée » et mise au service d’une idéologie « xénophobe ». Pourtant, cette seconde partie — censée contrebalancer la fermeté de la première — reste introuvable dans les archives, comme le pointait Rue89 en 2009. Une collaboratrice de Michel Rocard avait alors déclaré à la journaliste : « On ne saura jamais ce qu’il a vraiment dit. Lui se souvient l’avoir dit. En tout cas, dans son esprit, c’est ce qu’il voulait dire. Mais il n’y a plus de trace. On a cherché aussi, beaucoup de gens ont cherché mais on n’a rien. »

      Quelques années plus tard, en 2013, le chroniqueur de France Inter Thomas Legrand (désormais à Libération) a reposé la question à Michel Rocard, qui a alors assuré avoir retrouvé le texte d’un discours prononcé en novembre 1989 lors du cinquantenaire de la Cimade (Comité inter-mouvement auprès des évacués) . C’est là, affirme le Premier ministre, que la phrase aurait été prononcée. Voici ce que Rocard dit avoir déclaré : « La France ne peut pas accueillir toute la misère du monde, raison de plus pour qu’elle traite décemment la part qu’elle ne peut pas ne pas prendre. » Sauf que le verbatim de son discours n’a jamais été publié. Le site Vie publique ne donne qu’un résumé très sommaire de son intervention (« mise en cause du détournement du droit d’asile et importance de la rigueur dans l’admission des réfugiés »).

      Mais que ces mots aient été, ou pas, prononcés, devant la Cimade, ne change rien au fait qu’entre 1989 et 1990, la phrase a bien été assénée par Michel Rocard sans cette seconde partie, comme une justification de sa fermeté vis-à-vis de l’immigration. Et non comme un encouragement à l’accueil des immigrés.

      https://www.liberation.fr/checknews/on-ne-peut-pas-accueillir-toute-la-misere-du-monde-la-vraie-histoire-de-l
      #Emmanuel_Macron

  • Existe-t-il des #terrains_hostiles aux #chercheuses ?

    Les chercheuses font face à de véritables problématiques de terrain dans le cadre de leurs recherches. Du monde militaire en passant par le monde politique, quelles stratégies doivent-elles adopter pour mener au mieux leurs études en dépit des #risques encourus sur le terrain ?

    Avec

    – Marielle Debos Chercheuse à l’Institut des Sciences sociales du Politique et maître de conférences en sciences politiques à Paris-Nanterre
    – Ioulia Shukan Spécialiste de l’Ukraine, maîtresse de conférences en études slaves à l’Université Paris Nanterre et chercheuse à l’Institut des Sciences sociales du Politique et associée au Centre d’études des mondes russe, caucasien et centre-européen
    - Camille Abescat Doctorante en sciences-politique au sein du Centre de recherches internationale de Sciences Po

    C’est un post sur un réseau social qui nous a alerté la semaine dernière sur la publication dans la revue « Critique internationale » d’un vade-mecum intitulé « Genre, sécurité et éthique. Vade-mecum pour l’enquête de terrain. » (https://www.cairn.info/revue-critique-internationale-2023-3-page-59.htm) Son autrice, #Marielle_Debos, spécialiste de politique en Afrique, l’avait tout d’abord destiné à ses étudiantes. Elle s’interroge sur les risques que prennent les chercheuses sur le terrain et la #responsabilité que ces dernières ont vis-à-vis de leurs interviewées.

    Notre deuxième invitée, Camille Abescat, rend sa thèse sur les députés jordaniens cette semaine. Enfin, Ioulia Shukan, spécialiste de l’Ukraine et la Biélorussie, évoquera le changement de nature de son terrain devenu lieu de guerre, qui, comme toutes les chercheuses spécialisées de cette région, a été énormément sollicitée par les médias tout en ayant de plus en plus de difficultés à enquêter pour renouveler ses approches.

    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/le-temps-du-debat/existe-t-il-des-terrains-hostiles-aux-chercheuses-6589647

    #podcast #audio #terrain_de_recherche #recherche_de_terrain #terrain #recherche #femmes

    ping @_kg_

    • #Genre, #sécurité et #éthique. Vade-mecum pour l’enquête de terrain

      Les questions concrètes et matérielles que l’on se pose sur le terrain ne sont pas détachées des questions théoriques, méthodologiques et éthiques. L’article est composé de deux parties : la première est une introduction sur le genre, la sécurité et l’éthique dans les relations d’enquête, la seconde est un vade-mecum qui donne des conseils pour se protéger et protéger les enquêté·es, en mettant l’accent sur les #violences_sexistes et sexuelles. Je défends l’idée que les chercheuses peuvent réinventer une manière de penser et de faire du terrain, entre injonctions paternalistes à la #prudence et déni des difficultés rencontrées. La sécurité, en particulier celle des femmes et des #minorités, sur le terrain et à l’université suppose aussi une réflexion sur les effets de la #précarité et la persistance de #normes (sexisme, #fétichisation des terrains à risques, idéalisation de l’#immersion_ethnographique) qui peuvent les mettre en danger.

      https://www.cairn.info/revue-critique-internationale-2023-3-page-59.htm
      #vademecum #vade-mecum #violences_sexuelles #VSS #paternalisme

    • #BADASSES : Blog d’Auto-Défense contre les Agressions Sexistes et Sexuelles dans l’Enquête en Sciences sociales

      Manifeste

      « Les anthropologues ne se font pas violer ou harceler, les femmes si » (1)
      Moreno, 1995

      C’est ce qu’écrivait Eva Moreno dans un article témoignant du viol qu’elle a subi lors d’une enquête de terrain vingt ans auparavant. Ne nous méprenons pas : la date n’explique rien. Aujourd’hui encore, les violences sexistes et sexuelles s’immiscent dans la relation d’enquête. Sans grande surprise, la fonction de chercheureuse ne nous protège pas. C’est parce que femme, ou minorité de genre, qu’on est harcelé·e, agressé·e, violé·e ; et en tant que chercheureuse et sur notre espace de travail que cela arrive.

      Loin d’être anecdotiques, les violences sexistes et sexuelles dans l’enquête, tout comme dans l’ESR, sont pourtant invisibilisées : à l’Université, c’est le silence qui règne. Alors que les théories féministes et les études de genre ont largement travaillé sur les violences sexistes et sexuelles, que la sociologie regorge d’outils pour analyser les relations de domination, que la réflexivité dans l’enquête s’est imposée dans les sciences sociales, on ne peut que constater l’absence de la prise en compte de ces violences au sein de nos formations. À l’exception de quelques initiatives personnelles, souvent sous forme de séminaires ou de conseils informels aux jeunes chercheureuses, rares sont les TD de méthodologie où l’on discute de ces problématiques, des ressources dont les étudiant·e·s pourraient se saisir pour mieux penser les méthodes d’enquête, se protéger sur le terrain, et acquérir les outils permettant d’analyser et d’objectiver ces violences.

      Ce constat est le résultat d’un manque de considération certain quant au genre de l’enquête. L’enseignement méthodologique se fait le plus souvent à partir de la condition masculine, le devoir de réflexivité s’imposant alors aux seules femmes et minorités de genre – ce qu’illustre d’ailleurs l’importance qui lui est accordée dans les études de genre et de la sexualité. Telle qu’enseignée aujourd’hui, la démarche de l’enquête tend à valoriser les prises de risques. Au nom d’un imaginaire ancré du·de la chercheureuse aventurier·e, du dépassement de soi et de l’injonction à un terrain spectaculaire, les enquêteurices peuvent être poussé·e·s à se mettre en danger, davantage que dans leur vie quotidienne. Les chercheureuses sont encouragé·e·s à privilégier une forme d’intimité avec leurs enquêté·e·s, ainsi qu’à multiplier les relations et les espaces d’observation informel·le·s. En somme, à “tout prendre” pour collecter de “meilleures” données et ce, sans nécessairement avoir la formation indispensable aux pratiques ethnographiques. Fréquemment, la peur de “gâcher son terrain” ou de “se fermer des portes” redouble les risques encourus. Peut-être devrions-nous rappeler que l’abnégation de soi ne fait pas un bon terrain. Il est impératif de déconstruire ces mythes, qui comme toujours exposent davantage les femmes et minorités de genre. Qui plus est, la précarité systémique dans l’ESR – dont les jeunes chercheureuses sont les premières victimes – accentue voire favorise les prises de risques (conditions d’hébergement, de transport…).

      En tant qu’institution, l’Université se doit de visibiliser ces sujets et d’en faire de véritables enjeux. Il est pour cela nécessaire de (re)donner des moyens aux universités, la baisse drastique des financements et des recrutements empêchant la mise en place de véritables formations méthodologiques – qui nous semblent pourtant être un instrument de lutte contre les violences sexistes et sexuelles, mais aussi plus généralement contre toute forme de violence dans l’enquête. Au-delà des moyens financiers, les universitaires se doivent aussi de prendre à cœur et à corps ces enjeux pour mettre fin au tabou qui entoure le sujet des violences sexistes et sexistes dans l’enquête. Mais leur seule prise en charge par les institutions en retirerait la charge politique et épistémologique. Il ne s’agit pas non plus d’être dépossédé·e·s d’espaces autonomes, d’auto-défense, pour se former, échanger, construire ensemble nos savoirs et créer des solidarités dans un champ académique qui, toujours plus compétitif et précarisé, freinent la mise en place d’initiatives collectives. En complément aux espaces déjà existants dans certaines universités ou collectifs de recherche, ce blog se veut donc être un espace dématérialisé, pour créer du lien, mutualiser les ressources, faire circuler discussions et outils, les rendre accessibles au plus grand nombre et en conserver les traces. Si l’approche par le genre est au cœur de ce blog, celui-ci a aussi vocation à visibiliser les violences racistes, validistes, classistes et, dans une perspective intersectionnelle, voir comment elles s’articulent avec les violences sexistes et sexuelles.

      (1) Si la citation de l’autrice se limite aux femmes, notons que notre réflexion et notre travail incluent de fait les minorités de genre.

      https://badasses.hypotheses.org

  • Quand on est millionnaire, il faut être riche sans trop en avoir l’air, Anne Bory

    La France est désormais le troisième pays, derrière les Etats-Unis et la Chine, abritant le plus de millionnaires en dollars états-uniens, selon le rapport sur la richesse mondiale publié par UBS, le 15 août https://www.ubs.com/global/fr/media/display-page-ndp/fr-20230815-global-wealth-report-2023.html . Ces plus de 2,8 millions de millionnaires vivant en France en 2022 débordent donc largement les quelques milliardaires médiatiquement connus et les dynasties industrielles.
    Ces « élites ordinaires » ont moins attiré les regards sociologiques et médiatiques que la grande bourgeoisie ou les descendants de la noblesse, alors même qu’elles détiennent un capital économique – financier et immobilier – considérable, et qu’elles occupent l’essentiel des positions de pouvoir dans les mondes économique et politique.

    Le récent 140e numéro de la revue Politix, intitulé « Dominer par l’argent », comprend deux contributions consacrées à ces « riches » qui ne revendiquent que ponctuellement le qualificatif et se sentent obligés de légitimer leur position sociale dans un contexte national et international d’augmentation des inégalités. Rachel Sherman a ainsi enquêté auprès d’une quarantaine de couples fortunés vivant à New York. Lorraine Bozouls, elle, s’appuie sur un corpus équivalent, constitué lors d’une enquête par entretiens au sein de deux villes cossues de la banlieue parisienne. Les deux sociologues ont notamment porté un regard attentif aux façons de dépenser l’argent, à la question du logement et aux enjeux de légitimité.
    Si l’argent des « pauvres » est objet de moult contrôles et soupçons – la rituelle polémique autour de l’utilisation des aides sociales destinées à la rentrée scolaire en est un bon exemple –, l’abondance de l’argent des riches ne le place nullement hors d’un maillage étroit de normes sociales. Dans le cas de ces « élites ordinaires », en France comme aux Etats-Unis, #éthique_du_travail et consommation raisonnable sont en effet deux traits qui reviennent avec une fréquence frappante dans les entretiens. Mais ils ne sont pas propres à ce groupe social : on les retrouve dans d’autres groupes sociaux, bien moins dotés économiquement.

    Minimiser ses ressources

    Ces ménages, dans les deux pays étudiés, manifestent ainsi le besoin de s’appuyer sur une éthique du travail, insistant sur les efforts fournis, professionnellement, mais aussi dans le cadre des tâches relevant de la sphère domestique, tendant à minimiser le rôle des ressources héritées, qu’elles soient financières ou immobilières.
    L’article de Rachel Sherman évoque des enquêtés tous millionnaires au moins en patrimoine immobilier qui valorisent leurs pratiques de consommation à moindre coût, l’utilisation de bons de réduction et leur refus d’acheter une voiture neuve tant que leur « vieille voiture » actuelle fonctionne. Lorraine Bozouls montre, elle, comment le recours au crédit pour acheter une résidence principale contribue à euphémiser la richesse : on emprunte « comme tout le monde » plutôt que de payer comptant comme les « plus riches que soi ». Mais si, comme l’a écrit la sociologue Anne Lambert https://www.lemonde.fr/campus/article/2020/06/11/anne-lambert-sociologue-avec-la-crise-les-conditions-d-insertion-dans-la-vie , les classes populaires en « prennent pour vingt-cinq ans » avec des mensualités en proportion plus lourdes, au regard des budgets familiaux, ici, au fil des entretiens, on apprend que le prêt sur vingt ans a été remboursé en sept, ou que la part empruntée est très faible dans le prix d’achat.

    Travailler dur, consommer raisonnablement : on retrouve sans surprise dans les entretiens new-yorkais l’écho très fort à l’éthique protestante du capitalisme analysée par Max Weber. Cet écho existe néanmoins aussi clairement dans les entretiens menés par Lorraine Bozouls auprès de ménages de culture catholique, pratiquants pour certains.

    Ainsi, loin de la consommation ostentatoire déjà analysée par Thorstein Veblen à la toute fin du XIXe siècle, il convient pour ces « millionnaires ordinaires » d’être riches, et très souvent héritiers, sans trop en avoir l’air, à la fois aux yeux des autres et pour soi-même.

    https://www.lemonde.fr/sciences/article/2023/08/30/quand-on-est-millionnaire-il-faut-etre-riche-sans-trop-en-avoir-l-air_618707

    #riches #millionnaires

    • Dominer par l’argent, Politix 2022/4 (n° 140)
      https://www.cairn.info/revue-politix-2022-4.htm

      Ce numéro de Politix a été préparé en 2022 et achevé début 2023, pendant que la France connaissait un de ses mouvements sociaux les plus importants des trente dernières années. Ce dossier thématique n’est pas en lien direct avec la problématique des retraites et ne prétend pas contribuer au débat public sur cette question. Mais il éclaire, à sa façon, l’actualité que nous traversons en disséquant les différentes manières dont les #élites assoient leur #domination et influencent notre monde.
      Le dossier regroupe des contributions qui analysent les relations entre #capital économique et positions de #pouvoir : dans quelle mesure et à quelles conditions la richesse matérielle peut-elle être un ressort de l’accès à, du contrôle sur, et du maintien de ces positions ? À l’heure où la concentration des #richesses dans certains espaces de pouvoir peut paraître parfaitement assumée, les prétentions à l’égalité portées par nos démocraties contemporaines continuent de troubler ce compagnonnage qui, somme toute, pourrait sinon aller de soi. C’est, d’une certaine façon, cette #naturalisation_empêchée qu’explore ce dossier en étudiant des situations concrètes où se mêlent richesse et pouvoir. Plus précisément, ce numéro invite à s’intéresser aux tensions, même légères ou furtives, que fait naître cette relation : lorsque se donne à voir l’inconfort que peut provoquer l’abondance de ressources matérielles quand la pénurie est la règle, lorsqu’apparaissent des tiraillements suscités par l’occupation d’une position de pouvoir, acquise, au moins pour partie, grâce à cette richesse, ou lorsque se décèlent les ajustements, pratiques et symboliques, nécessaires pour contenir ou surmonter ces embarras…

  • Un long fil [de @Themislv_vls] sur les différentes prises de positions de B. STIEGLER ces dernières années, « puisque certains semblent étonnés du partage de ce tweet antisémite »
    https://threadreaderapp.com/thread/1678894070767206407.html

    (...) dès le 22 octobre 2020, en réponse à l’éditorial de Horton, Emily Mendenhall, à l’origine [du concept de syndémie],

    https://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(20)32218-2/fulltext
    🧵explique qu’il est erroné de qualifier le COVID-19 de "syndémie" de façon générale, que le contexte compte et qu’une telle erreur passe complètement à côté de l’intérêt même du concept.
    🧵E. Mendenhall explique ainsi que “la syndémie nous permet de reconnaître comment les facteurs politiques et sociaux favorisent, perpétuent ou aggravent l’émergence et le regroupement des maladies”, citant la Nouvelle Zélande où le leadership politique en réponse à la crise
    🧵a été exemplaire, de telle sorte que le Covid n’y est pas syndémique.
    Le concept n’est donc en aucun cas utilisé pour nier la réalité de la pandémie ni la nécessité d’une prévention.


    cet excellent fil recense les trucages de cette bonimenteuse et bon nombre des membres cultivés des sections d’assaut de l’obscurantisme. n’hésitons pas à le communiquer aux gens de gauche, syndicalistes, révolutionnaires éventuellement intéressés par cette extension de la gauche de droite. ping @rezo

    edit en plus d’inspirer les orientations de LFI, Stiegler siège au comité de surveillance de l’#ARS Aquitaine et est vice-présidente du comité d’#éthique du #CHU de Bordeaux
    .

    #toctoc #pandémie #mensonge #obscurantisme_cultivé #santé_publique #philosophie #Barbara_Stiegler #confusionisme #GBD #protection_ciblée #syndémie (dévoyée) #enfants #minimisers #prévention #Alt_Right #covid_19 #gauche #gauchededroite #antivax #Aude_Lancelin

    • La perspective de B. Stiegler et F. Alla, appliquée au Covid19, combine à la fois une conception particulière de la santé publique et de la prévention, une négligence des droits fondamentaux à la vie et à la santé et une ignorance de l’état des connaissances scientifiques.
      Tout cela participe à l’adoption de positions contraires à l’éthique et à une dérive frôlant l’eugénisme.
      […]
      Enfermée dans un cadre d’analyse bancale rejetant la prévention réduite à un acte médical quand elle relève avant tout de la santé publique, collective, enfermée dans un cadre ouvrant la voie aux idées délétères, contraires à l’éthique, validistes et frôlant l’eugénisme, B. Stiegler continue donc d’ignorer les victimes d’un néolibéralisme qui a porté l’absence de prévention au rang de normes pour la préservation des profits, quoi qu’il en coûte pour la population.
      […]
      On peut sérieusement se demander, et avec inquiétude, pourquoi cette philosophe enfermée dans son récit, étanche à l’éthique et aux faits, tenant un discours si délétère, est encore associée aux luttes de la gauche et aux institutions & autorités sanitaires.

    • tenant un discours si délétère, est encore associée aux luttes de la gauche

      Parce qu’à « gauche » il y a un paquet de gens qui ont les mêmes opinions moisies que cette « philosophe » et qui sont bien contents d’intellectualiser leur connerie en citant Stiegler.

    • Trois ans déjà. L’un des effets politiques parmi les plus décisifs de la pandémie, c’est d’avoir conduit à l’émergence d’une nouvelle gauche de droite. Non gouvernementale cette fois, elle s’est créée « par le bas ». Ce qui la rend autrement dangereuse. Pour ma part, c’est par elle que l’irrespirable domine.
      « Critique » du « système » elle est excrément - le correcteur m’a suggéré un lapsus signifiant, je le garde ! - [extrêmement] composite, elle inclue tout aussi bien politiciens et gauchistes extra-parlementaires, écologistes qu’anarchistes, intellectuels et Gilets jaunes, insiders et outsiders. Terreau d’une fascisation qui n’en porte pas le nom, on la voit et la rencontre partout.
      Headshot. Le taf de snipper réalisé par @Themislv_vls suffira pas. Mais on peut imaginer que d’autres s’en saisiront, pour déciller, pour réouvrir à une position critique, une pensée et des actes qui ne reposeraient pas sur la falsification, la confusion plus ou moins délibérée.

  • Faire ou laisser mourir
    https://laviedesidees.fr/Faire-ou-laisser-mourir

    La distinction entre faire mourir et laisser mourir est au cœur en #éthique médicale. Elle pousse à s’interroger sur ce qui est acceptable par les soignants, et plus généralement de ce que nous attendons de la #médecine. Médecin de soins palliatifs depuis plus de 20 ans, enseignant chercheur à l’Espace éthique Île-de-France, Vianney Mourman est chef du service de médecine de la douleur et de médecine palliative des hôpitaux Lariboisière, Saint-Louis et Robert Debré. Souvent sollicité pour débattre avec (...) #Entretiens

    / Société, médecine, éthique, #euthanasie, #Entretiens_écrits

    #Société
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/202304_ethiquemedic.docx
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/20230404_ethiquemedic.pdf
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/20230404_ethiquemedic.docx

  • Faire ou laisser mourir
    https://laviedesidees.fr/Faire-ou-laisser-mourir.html

    La distinction entre faire mourir et laisser mourir est au cœur en #éthique médicale. Elle pousse à s’interroger sur ce qui est acceptable par les soignants, et plus généralement de ce que nous attendons de la #médecine. Médecin de soins palliatifs depuis plus de 20 ans, enseignant chercheur à l’Espace éthique Île-de-France, Vianney Mourman est chef du service de médecine de la douleur et de médecine palliative des hôpitaux Lariboisière, Saint-Louis et Robert Debré. Souvent sollicité pour débattre avec (...) #Entretiens

    / Société, médecine, éthique, #euthanasie, #Entretiens_écrits

    #Société
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/202304_ethiquemedic.docx
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  • Immoral Code film - Stop Killer Robots
    https://www.stopkillerrobots.org/take-action/immoral-code

    Immoral Code est un documentaire qui s’interroge sur l’impact des robots tueurs dans nos sociétés. Dans un monde où des décisions reposant sur l’intelligence artificielle sont progressivement introduites dans tous les secteurs de la société (soins de santé, #justice pénale, économie, etc.), il importe de questionner cet enjeu. Qu’il s’agisse de préjugés préprogrammés, de protection des données ou de problèmes de confidentialité, ces algorithmes présentent de réelles limites, surtout lorsqu’ils sont appliqués à des systèmes d’armes.

    -- Permalien

    #éthique #robotisation

  • Les assassins végans
    https://taz.de/Bundeswehroffiziere-ueber-Verpflegung/!5920029

    Hitler était végétarien, soit, mais nous pouvons faire mieux. L’Allemagne se dote alors de commandeurs d’assassins végans.

    Ce n’est étonnant qu’au premier regard car la raison d’être des armées teutones n’a jamais été d’abattres les pauvres animaux et plantes. Bien au contraire, depuis Hermann le Chérusque nous éliminenons (avec l’avènement du véganisme le terme "tuer’"est réservé pour les actes d’agression létale contre les plantes) avec grâce les ennemis humains. Notre Frédéric II de Prusse, dit le Grand et ami temporaire de Voltaire fit le choix d’être enterré à côté de ses chiens plutôt qu’avec une épouse ou un ami humain.

    Nous sommes les amis des fleurs et de la nature que nous protégeons avec nos boucliers. Enfin la guerre moderne nous a libéré du fardeau du sacrifice des pauvres chevaux. Nous n’exposons à l’artillerie ennemie plus que les véhicules motorisés et leurs équipages. Nos guerres modernes ne sont plus les boucheries animalières d’avant et leurs victimes civils sont élevés au rang de dommages collatéraux. Il est établi que nous nous battons du côté du progrès.

    Dans l’interview du journal à peine belliciste TAZ deux compères végans expliquent leurs choix étique avec toute la sincérité d’assassins de bonne fois. Qu’ils soient loués ! Ils donnent raison à notre devise éternelle.

    Am deutschen Wesen mag die Welt genesen.

    Bundeswehroffiziere über Verpflegung : „Es gibt kein veganes Menü“

    22.3.2023 von Friederike Gräff - Die vegan lebenden Bundeswehroffiziere Martin A. und Patrick A. fordern vegane Verpflegung für die Truppe. Doch die Bundeswehr ist zögerlich.
    Zwei Männer in Militäruniform

    Fordern bessere vegane Verpflegung in der Truppe: die Bundeswehroffiziere Martin A. und Patrick A Foto: Privat

    taz: Martin A., Patrick A., Veganismus ist nicht das Erste, was man mit der Truppe verbinden würde. Tut man ihr da unrecht?

    Martin A.: Das Thema ist in der Bundeswehr noch nicht weit verbreitet. Doch auch vegetarische Ernährung war vor Jahrzehnten ein Fremdwort für die Truppe und für uns ist die Weiterentwicklung des vegetarischen Gedankens der nächste logische Schritt.

    Empfinden Sie sich als Avantgarde oder als Exoten innerhalb der Bundeswehr?

    Patrick A.: Weder noch. Ich empfinde eine gewisse Verantwortung, anzusprechen, wenn Sachverhalte überarbeitungswürdig sind. Das sind die Regelungen zur Truppenverpflegung.

    Martin A.: Wir sind beide nicht als Veganer in die Streitkräfte eingetreten, sondern haben eine persönliche Entwicklung durchlaufen, die wir auch in unserer Gesellschaft seit einiger Zeit verstärkt erkennen.

    Wie ist die Reaktion der Bundeswehr?

    Patrick A.: Die Bundeswehr begründet zunächst, wie Truppenverpflegung aussehen soll: bedarfsgerecht, vollwertig, ernährungsphysiologisch ausgewogen und an den Erkenntnissen der Ernährungswissenschaft orientiert. Die Bundeswehr ist der Meinung, dass vegane Ernährung diesen Vorgaben nicht entspricht.

    Inwiefern nicht?

    Patrick A.: Die Bundeswehr orientiert sich eng an den Empfehlungen der Deutschen Gesellschaft für Ernährung. Diese weist zwar auf kritische Nährstoffe hin, macht jedoch auch deutlich, dass eine gut geplante vegane Ernährung bedarfsdeckend und gesundheitsförderlich sein kann. Zudem ergäben sich Chancen, die Klimabilanz der Bundeswehr zu verbessern und als zeitgemäßer Arbeitgeber wahrgenommen zu werden.
    Martin A. und Patrick A.

    Oberstleutnant Martin A. und Korvettenkapitän Patrick A. sind Offiziere der Bundeswehr. Während Martin A. (36) aus dem Bereich Operative Kommunikation kommt und in seiner letzten Verwendung Kompaniechef war, fuhr Patrick A. (35) bisher unter anderem als Wachoffizier und Verantwortlicher für den Gefechtsdienst auf Marineschiffen zur See. Beide leben aus ethischen Gründen vegan und teilen hier ausschließlich ihre persönlichen Einblicke und Einschätzungen.

    Die Bundeswehr lehnt nicht den Mehraufwand ab, sondern argumentiert mit dem Nährstoffbedarf der Soldat:innen?

    Patrick A.: Sie geht von einem Mangel kritischer Nährstoffe aus und davon, dass vegane Ernährung qualifiziert begleitet werden müsste. Das könne nicht geleistet werden.

    Welches Angebot gibt es derzeit für Ve­ga­ne­r:in­nen in der Kantine oder bei einem Manöver?

    Patrick A.: Es gibt kein reguläres veganes Angebot. Das Essen ist mischköstlich, stets mit einer vegetarischen Variante. Wir plädieren für eine ernstzunehmende vegane Alternative. Wobei es bei der bedarfsdeckenden veganen Verpflegung eine große Rolle spielt, dass industriell verarbeitete Lebensmittel gemieden und möglichst vollwertige pflanzliche Kost zum Einsatz kommt. Wenn das in der Bundeswehr fest auf dem Verpflegungsplan stehen soll, müssten diese Komponenten zu einem Menü arrangiert und durch die Truppenküchen ausgegeben werden.

    Das passiert nicht?

    Patrick A.: Einen veganen Menüvorschlag schließt die aktuelle Vorschriftenlage kategorisch aus. Dabei entspräche ein solches Angebot einfach der gesellschaftlichen Realität. Einen Hinweis liefern da flexitarische Ernährungsgewohnheiten. Ich sehe viele fleischessende Kameradinnen und Kameraden das vegetarische Angebot bestellen. Wenn das Angebot da ist, wird es genutzt. Bei veganer Kost wird das ähnlich sein.

    Warum sind Sie Veganer geworden?

    Martin A.: Ich habe mich schon vor Jahren mit tierrechtlichen Aspekten befasst. Wenn man mit offenen Augen durch die Welt geht, kommt man um schockierende Bilder aus der Tierhaltungsindustrie, die auch im Rahmen des rechtlich Zulässigen entstehen, kaum herum. Irgendwann war mir das Verdrängen schlicht nicht mehr möglich.

    Patrick A.: Das kann ich unterstreichen, gerade die Bilder von häufig geradezu missbräuchlichen Methoden in der Haltung sogenannter Nutztiere müssen einen zum Umdenken bringen.

    Martin A., Sie sind wegen Ihrer Forderung nach veganer Verpflegung sogar vor Gericht gegangen. Mit Erfolg?

    Martin A.: In dem Verfahren ging es um Verpflegungspauschalen. Ich habe gegen Abrechnungen geklagt, die mir unterstellten, am Verpflegungssystem der Bundeswehr teilnehmen zu können – was mir praktisch jedoch nicht möglich war. Das Gericht hat den Kern meines Anliegens mit einer sehr ausführlichen Urteilsbegründung gestützt. Mir ging es hier vorrangig darum, zu verdeutlichen, dass die vegane Lebensweise grundrechtlichen Schutz genießt.

    Was stand in der Begründung?

    Martin A.: Das Gericht war überzeugt, dass meine ethisch begründete Entscheidung vegan zu leben in den Schutzbereich der Gewissens- und Weltanschauungsfreiheit fällt. Gleichzeitig hat es festgestellt, dass mir eine Teilnahme am derzeitigen Verpflegungsangebot der Bundeswehr nicht möglich ist.

    In der Praxis hat das Gerichtsurteil aber nichts verändert.

    Martin A.: Auf den ersten Blick nicht. Aus dem Urteil leitet sich kein unmittelbarer Anspruch auf vegane Verpflegung ab. Doch das gerichtlich umfassend mitgetragene Argument, dass der Veganismus eine verfassungsrechtlich schützenswerte Lebensweise ist, kann nun anderen vegan lebenden Soldatinnen und Soldaten helfen.

    Gibt es denn Schritte der Bundeswehr auf Sie zu?

    Martin A.: Wir erkennen durchaus etwas Aufmerksamkeit für das Thema. Vergleichsweise prominent erwähnt der jüngste Bericht der Wehrbeauftragten nun das zweite Jahr in Folge die Anliegen von Veganerinnen und Veganern in der Bundeswehr.

    Aber in der Kantine sehen Sie davon noch nichts.

    Martin A.: Konkrete Vorhaben sind uns nicht bekannt, nein. Allerdings ist uns auch bewusst, dass eine Organisation mit den Personalzahlen und den logistischen Anforderungen, wie sie die Bundeswehr hat, nicht von heute auf morgen Entscheidungen solcher Tragweite treffen wird.

    Wie wollen Sie die Bundeswehr überzeugen?

    Martin A.: Eines der größten Hindernisse scheint die Position der Deutschen Gesellschaft für Ernährung darzustellen. Im internationalen Vergleich ist die DGE noch relativ vorsichtig, sich für eine gänzlich vegane Verpflegung auszusprechen. Jedoch nicht, weil es nicht möglich wäre, sondern weil sie der Bevölkerung mehrheitlich eher nicht zutraut, sich umfassend genug mit der eigenen Ernährung auseinanderzusetzen.

    Ist damit überhaupt Bewegung in der Sache denkbar?

    Martin A.: Die Frage ist doch, sind die Streitkräfte gut beraten, die unumgänglich zunehmende Zahl an Veganerinnen und Veganern in der Bundeswehr zu ignorieren, während die DGE zwar Sorge äußert, aber dennoch bestätigt, dass eine gut geplante pflanzliche Ernährung bedarfsdeckend und gesundheitlich vorteilhaft sein kann? Wir können uns diesem Wandel noch lange entgegenstemmen. Doch verzichten wir damit auf die bereits genannten Chancen.

    Wie glauben Sie, verändern Sie als Veganer den Blick auf die Bundeswehr?

    Patrick A.: Ich denke, die Bundeswehr ist heute diverser als viele Außenstehende es glauben mögen. Wir sind Menschen mit unterschiedlichen Religionen, Interessen, Neigungen und eben Ernährungsgewohnheiten.

    Wenn Sie sagen, die Bundeswehr ist diverser, als man es von außen annimmt, ist sie auch linker?

    Patrick A.: Die vegane Ernährung ist ein buchstäblich junges Thema, nachweislich insbesondere bei den 14- bis 29-Jährigen. Und all jenen würde ich pauschal keine politische Orientierung unterstellen. Der Veganismus ist im Mainstream angekommen.

    Martin A.: Wenn wir für junge Menschen, die wir dringend brauchen, auch künftig eine Option darstellen wollen, müssen wir uns einer Vielzahl an Themen stellen – dazu zählt zeitgemäße Verpflegung. Ich sehe auch keinen Widerspruch zwischen Militärdienst und Veganismus. Ich verstehe meinen Dienst im Kern als das Eintreten für Schutzlose, wenn nötig mit zwingender Gewalt. Die Entscheidung für eine möglichst tierleidfreie Lebensweise führt in meinem Fall, auch ganz ohne politische Verortung, zu einer noch deutlicheren Übereinstimmung meiner persönlichen und dienstlichen Wertvorstellungen.

    https://de.m.wikipedia.org/wiki/Am_deutschen_Wesen_mag_die_Welt_genesen

    https://fr.m.wikipedia.org/wiki/Emanuel_Geibel

    #militaire #alimentation #éthique #véganisme #wtf

  • #EmmaGoldman #éthique #anarchisme #émancipation...

    ★ L’ÉTHIQUE ANARCHISTE D’EMMA GOLDMAN - Socialisme libertaire

    ★ Collectif Emma Goldman : nous publions cet article éclairant,
    dont la lecture conserve sa pertinence aujourd’hui.
    Le texte est extrait d’une biographie dans l’ouvrage « Emma Goldman, une éthique de l’émancipation ». 

    « Emma Goldman a été victime, tout particulièrement dans le monde francophone, d’une étrange amnésie qui a fait que le mouvement anarchiste, pourtant si enclin à célébrer son histoire et ses héros, semble parfois aisément oublier qu’il a aussi compté de nombreuses héroïnes », a écrit Normand Baillargeon. Née en Lituanie et morte à Toronto en 1940, Goldman fut à la fois libertaire et communiste, féministe et nietzschéenne. Expulsée des États-Unis d’Amérique, elle trouva refuge, aux côtés de son compagnon Alexandre Berkman, dans la nouvelle Russie soviétique. Son enthousiasme à l’idée de prendre part au processus révolutionnaire porté par Lénine et ses camarades fut de courte durée. Elle tenta en vain d’empêcher le massacre des marins de Kronstadt et, de retour en Europe, publia, en 1923, ses impressions et son analyse de la situation. Sitôt qualifiée de « renégate », elle n’en démordit pas : l’émancipation est avant tout affaire d’éthique (...)

    ▶️ Lire le texte complet…

    ▶️ https://www.socialisme-libertaire.fr/2021/10/l-ethique-anarchiste-d-emma-goldman.html

  • Le manque de main d’œuvre rend gentil : Ces dirigeants qui se mobilisent contre la précarité
    https://www.lefigaro.fr/societes/ces-dirigeants-qui-se-mobilisent-contre-la-precarite-20230312

    « Pour résoudre le problème, tout le monde se tournait vers le gouvernement. Nous estimions, tous deux, que les entreprises pouvaient apporter leur contribution, en matière d’emploi des jeunes et de lutte contre la précarité », raconte Thomas Buberl. Lui et Emmanuel Faber ont alors entrepris de convaincre une dizaine de grands groupes à agir : le Collectif d’entreprises pour une économie plus inclusive était né.
    À la mi-décembre 2018, ils avaient déjà entraîné leurs homologues d’Accor, BNP Paribas, Carrefour, Korian, Schneider Electric, Sodexo et Veolia. Depuis, ce petit groupe informel est devenu un réseau doté d’une gouvernance, avec deux présidents, Thomas Buberl et Sophie Boissard, directrice…

    https://www.collectif-economie-plus-inclusive.fr

    #éthique_washing

    • Citation rectificative :

      Alors que la crise menace nos profits, nous restons plus que jamais mobilisés autour des trois priorités de 2018.

      Nous sommes convaincus que l’enjeu majeur pour nos actionnaires comme pour le pouvoir du capital sur la société reste celui des travailleurs disponibles, alors que les marchés de l’exploitation sont soumis à des bouleversements inédits depuis la crise sanitaire.

      Il nous faut amplifier l’effort en direction des jeunes exploités non diplômés, au plus près des bassins de pauvres (industriels ou pas).

      Il nous faut aussi relever le défi de l’exploitation des vieux, et plus largement contribuer à l’émergence d’un système favorisant leur résistance jusqu’à leur extinction naturelle.

      C’est pourquoi nous voulons aujourd’hui aller plus loin en matière de d’adaptation qualifiante de notre personnel, en nous fixant, d’ici 2025, un objectif global en ce qui concerne la malléabilité des exploités, sans distinction d’âge ou de statut.

      Ces trois dernières années ont permis de construire les fondations d’un collectif engagé, innovant, au service d’une reproduction du capital plus inclusive.

      Nous sommes convaincus que notre démarche est plus que jamais adaptée et payante, et va ravir le monde des employeurs.

  • Fine Dining and the Ethics of Noma’s Meticulously Crafted Fruit Beetle - The New York Times
    https://www.nytimes.com/2023/01/24/dining/noma-fruit-beetle-fine-dining.html?te=1&nl=from-the-times&emc=edit_ufn_2023

    By Tejal Rao

    Jan. 24, 2023

    Since I read this month that Noma would pivot from a full-time restaurant to a kind of food laboratory and pop-up, I’ve been thinking less about the chef René Redzepi and more about Namrata Hegde, an unpaid intern who worked in his Copenhagen kitchen for three months, making fruit beetles.

    Every day, as she told The Times, she spread the jam out, let it set and carved it into various shapes using stencils. She assembled those shapes to form a trompe l’oeil beetle: a glossy, three-dimensional creature made out of fruit leather. Most days, before dinner service, she assembled 120 perfect specimens and pinned each one in a glass box, ready to serve to diners. All the while, she said, she was “forbidden to laugh.”

    In the past, Ms. Hegde’s labor might have been obscured or even dismissed, but in the middle of what felt like a shifting sentiment against the cult of fine dining, it became a crucial detail. It illustrated the unglamorous drudgery of high-end restaurant kitchens, and sounded more like another tedious day at the factory, another lonely shift on the assembly line.

    Maybe it’s not what most people imagined when they thought of this supposedly glamorous world. But at the most extreme and competitive end of fine dining — let’s say, 100 or so restaurants around the world — there’s a fruit beetle on every menu. Not an actual fruit beetle but a number of mind-boggling, technique-driven, labor-intensive dishes. Trophy dishes.

    How do they do it?

    There’s no way around it. This kind of endless grind requires an immense amount of labor. The more workers in the back, willing to do the grunt work necessary, the more elaborate that vision of fine dining can be, like a large-scale art studio.

    Many fine-dining restaurants rely on free labor to compete at this level — and have faced criticism for it. Reporting last June in The Financial Times detailed the immense power that Copenhagen restaurants hold over an unpaid, international work force, drawn to the city’s constellation of star restaurants and vulnerable to dangerous working conditions and bullying.

    It seemed impossible — if one of the best restaurants in the world couldn’t make their business work, then what restaurant could? Over a decade later, after spending the maximum years possible at the top of the list and earning three Michelin stars, Mr. Redzepi called the old fine-dining model “unsustainable” and left many wondering the same thing about his restaurant. Does its pivot mean the end of fine dining? Probably not, no.

    We’ve been here before. What feels different this time is the seismic cultural shift in our tolerance for the idea of auteur-chefs who make cooks suffer for their art. In The Atlantic, the chef Rob Anderson wrote that “the kind of high-end dining Noma exemplifies is abusive, disingenuous, and unethical.” And in a story for Bon Appétit magazine, Genevieve Yam wrote that it was a good thing if the Nomas of the world were closing because “if restaurants can’t figure out a business model where they pay and treat their staff fairly, they simply shouldn’t exist.”

    #Ethique #Restauration #Travail #Sur-exploitation #1% #Marché_de_riches

  • Enjeux climatiques : la recherche ne peut plus produire de la connaissance à tout prix
    https://www.lemonde.fr/sciences/article/2023/01/27/enjeux-climatiques-la-recherche-ne-peut-plus-produire-de-la-connaissance-a-t

    Pour le physicien Pablo Jensen, la crise écologique force les sciences à s’interroger sur le type de savoir qu’elles créent et à s’ouvrir aux recherches menées en dehors des universités.

    Le 14 novembre 2022, le CNRS a publié son bilan carbone : un chercheur émet, en moyenne, 14 tonnes de CO2 par an. Comparer ce chiffre aux 2 tonnes permises par les accords de Paris, activités personnelles comprises, donne le vertige. Car il est difficile d’imaginer comment on pourrait réduire de plus de 80 % les émissions sans repenser profondément les activités de recherche.
    Lire aussi : Article réservé à nos abonnés Devant l’urgence climatique, de plus en plus de scientifiques tentés par la radicalité : « La désobéissance civile est un acte désespéré, pour alerter sur la situation dramatique dans laquelle on est »

    Puis, le 12 décembre, le comité d’éthique du même organisme, le Comets, abandonnait ce qui a été, depuis le début des sciences modernes, la position standard de la plupart des chercheurs : faire avancer la connaissance, c’est forcément bon, à la société de décider ensuite des bonnes ou mauvaises « applications ». Position paresseuse, voire hypocrite, car elle conduit à revendiquer les bonnes applications (médicaments…), en rejetant sur la société les mauvaises (pollutions, bombes…). Le Comets affirme, au contraire, que, face à la gravité de la situation environnementale, la recherche doit tenter d’évaluer ses impacts au préalable, en se demandant si « utiliser ou développer tel grand équipement (accélérateur de particules, grand calculateur) ou travailler sur telle thématique (biologie synthétique, génomique) est susceptible d’engendrer des impacts néfastes pour la biosphère ».

    Je vois là deux signes d’un grand basculement en train de redéfinir les savoirs et leur place dans la société. Pour mieux en saisir l’ampleur, peignons à grands traits les étapes passées. Jusqu’au XVIIe siècle, on vivait dans un monde dominé par le biologique, au niveau de l’économie (agriculture, construction en bois…) ou de la pensée (Aristote). Les sciences modernes ont émergé à la suite d’une double révolution, technique et politique : le déferlement des machines et l’émergence d’individus libres.

    Les nouvelles technologies (imprimerie, navigation, télescope…) ont élargi la connaissance du monde et bousculé les certitudes anciennes. Une nouvelle science « machinique », intimement associée aux réseaux technologiques, a permis une rétroaction positive inédite entre connaissance théorique et croissance industrielle, à l’exemple de la génétique moderne, née dans les laboratoires du brasseur Carlsberg, qui cherchait à stabiliser des levures pour produire de la bière en masse.

    Côté politique, l’urbanisation contribua à l’émergence d’individus confiants en leur capacité à comprendre et à maîtriser le monde. Ces deux révolutions partageaient des valeurs, comme le souci du débat critique, mais ont toujours été en tension, car les sciences prétendent disposer d’un savoir supérieur à l’« opinion » des non-experts, et engendrent des technologies qui bouleversent les sociétés par les marchés, sans débat démocratique.
    S’adapter à un monde devenu fini

    La grande accélération qui s’est ensuivie ébranle désormais la planète entière et impose de recréer des savoirs adaptés à un monde devenu fini. Des savoirs moins dépendants de technologies sophistiquées, et mieux insérés dans nos espaces délibératifs. Il ne s’agit nullement d’un retour romantique à des savoirs prémodernes, mais, au contraire, de l’approfondissement de la révolution démocratique, pour la création de savoirs « terrestres ».

    Concrètement, il s’agira d’abord de mieux financer des savoirs jugés essentiels pour apprendre à vivre dans ce monde fini : mieux comprendre les enchevêtrements entre tous les vivants, l’impact des inégalités, les alternatives low-tech, etc. Plus profondément, il faudra redéfinir ce que sont les savoirs et leur articulation avec les activités sociales. De nombreuses pistes concrètes ont été présentées aux Journées d’été des savoirs engagés et reliés (Jeser), tenues à Lyon, fin août, et organisées par un collectif de onze associations (Mouvement-ser.or).

    Ainsi, la Commission de recherche et d’information indépendantes sur la radioactivité (Criirad) et les observatoires écocitoyens ouvrent à la société civile un savoir expert (mesure de la radioactivité, toxicologie…) pour contrer un monopole privé ou étatique potentiellement opaque. Les Jeser ont aussi donné la parole à des recherches menées en dehors des universités. Ainsi, ATD Quart Monde croise les savoirs des personnes qui connaissent la pauvreté et les savoirs académiques pour créer des connaissances engagées, car l’association veut que « ça change ». Les paysans-boulangers ont, eux, créé une filière entière, allant des semences aux consommateurs, grâce à des savoirs spécifiques sur les variétés de blés paysans, et des outils low tech partagés garantissant leur souveraineté technologique. Tout en dialoguant avec la recherche académique, comme ils l’expliquent dans leur superbe livre Notre pain est politique (La Dernière Lettre, 2019).

    On pourrait imaginer une société parsemée de chercheurs, alternant des périodes d’engagement sur le terrain et d’autres plus en retrait, pour affiner les outils conceptuels de leurs communautés disciplinaires. Comme le proposait Bruno Latour dans son dernier discours à Sciences Po : dans la « nouvelle université des sciences terrestres », les sciences fondamentales auront pour tâche, non d’être une avant-garde trouvant les solutions, mais un « back-office » contribuant à « redéfinir ce que pourrait être le problème », et aidant les professionnels grâce aux « outils les plus avancés ». De quoi redonner aux sciences l’élan qui animait le philosophe John Dewey, pour qui « le futur de la démocratie [était] lié à l’extension de l’attitude scientifique ».

    Pablo Jensen(directeur de recherche CNRS, Laboratoire de physique, chargé de mission Transition écologique à l’ENS Lyon)

    Pablo Jensen est également l’auteur de Deep Earnings chez C&F éditions

    #Pablo_Jensen #Sciences_participatives #Recherche #Ethique #Soutenabilité

  • Éthique du #care ou pacte de solidarité ?
    https://laviedesidees.fr/Ethique-du-care-ou-pacte-de-solidarite.html

    À propos de : Marie Gaille, En soutien à la vie. Éthique du care et #médecine, Vrin. Depuis les années 1980, l’accompagnement des patients est considéré comme une forme de soin à part entière. Cette « éthique du care », devenue une notion-clé en philosophie, est pourtant incluse dans le pacte de solidarité qui régit l’État-providence français.

    #Société #solidarité #éthique

  • Les moyens de la vie bonne
    https://laviedesidees.fr/Peter-Geach-Les-vertus.html

    À propos de : Peter Geach, Les vertus, Vrin. Philosophe, logicien et catholique, Peter Geach reprend la question des dispositions nécessaires pour tenter de mener une vie bonne. Entre ironie et argumentation, son traité des vertus propose un discours à la fois philosophique et religieux.

    #Philosophie #éthique #christianisme #vertu
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/20221228_geach.docx
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/20221228_geach.pdf

  • Filmer la ville et ses acteurs ordinaires
    Rouba Kaedbey
    http://journals.openedition.org/echogeo/23977

    Cet article interroge l’usage d’une approche audiovisuelle dans le cadre d’une thèse en géographie et aménagement. En s’appuyant sur son expérience de réalisation, l’auteure défend l’idée selon laquelle le film serait un outil parfaitement approprié pour mettre en évidence des problématiques de la géographie sociale. Il rend visible et audible des aspects occultés de l’espace social, participant ainsi à la production de la connaissance. Sur le plan méthodologique, l’article met en évidence la façon dont les différentes phases de la réalisation du film, - du tournage jusqu’à la diffusion – servent à alimenter la thèse. Au-delà de ses atouts théoriques et méthodologiques, un film-recherche exige une démarche engagée dont l’auteure tente de montrer les différentes facettes.

    Réflexion très intéressante sur l’usage, les difficultés mais aussi les apports inattendus du film dans une enquête de sciences sociales
    #Beyrouth #hezbollah #racisme #éthique #migrations

  • Ex-Googler Timnit Gebru Starts Her Own AI Research Center | WIRED
    https://www.wired.com/story/ex-googler-timnit-gebru-starts-ai-research-center/?bxid=5cec29ba24c17c4c6465ed0b&bxid=5cec29ba24c17c4c6465ed0b&cndid=57360427&c

    One year ago Google artificial intelligence researcher Timnit Gebru tweeted, “I was fired” and ignited a controversy over the freedom of employees to question the impact of their company’s technology. Thursday, she launched a new research institute to ask questions about responsible use of artificial intelligence that Gebru says Google and other tech companies won’t.

    “Instead of fighting from the inside, I want to show a model for an independent institution with a different set of incentive structures,” says Gebru, who is founder and executive director of Distributed Artificial Intelligence Research (DAIR). The first part of the name is a reference to her aim to be more inclusive than most AI labs—which skew white, Western, and male—and to recruit people from parts of the world rarely represented in the tech industry.

    Gebru was ejected from Google after clashing with bosses over a research paper urging caution with new text-processing technology enthusiastically adopted by Google and other tech companies. Google has said she resigned and was not fired, but acknowledged that it later fired Margaret Mitchell, another researcher who with Gebru co-led a team researching ethical AI. The company placed new checks on the topics its researchers can explore. Google spokesperson Jason Freidenfelds declined to comment but directed WIRED to a recent report on the company’s work on AI governance, which said Google has published more than 500 papers on “responsible innovation” since 2018.

    The fallout at Google highlighted the inherent conflicts in tech companies sponsoring or employing researchers to study the implications of technology they seek to profit from. Earlier this year, organizers of a leading conference on technology and society canceled Google’s sponsorship of the event. Gebru says DAIR will be freer to question the potential downsides of AI and will be unencumbered by the academic politics and pressure to publish that she says can complicate university research.

    DAIR is currently a project of nonprofit Code for Science and Society but will later incorporate as a nonprofit in its own right, Gebru says. Her project has received grants totaling more than $3 million from the Ford, MacArthur, Rockefeller, and Open Society foundations, as well as the Kapor Center. Over time, she hopes to diversify DAIR’s financial support by taking on consulting work related to its research.
    DAIR joins a recent flourishing of work and organizations taking a broader and critical view of AI technology. New nonprofits and university centers have sprung up to study and critique AI’s effects in and on the world, such as NYU’s AI Now Institute, the Algorithmic Justice League, and Data for Black Lives. Some researchers in AI labs also study the impacts and proper use of algorithms, and scholars from other fields such as law and sociology have turned their own critical eyes on AI.

    #Intelligence_artificielle #Timnit_Gebru #Ethique

  • La liberté, par-delà la métaphysique
    https://laviedesidees.fr/La-liberte-par-dela-la-metaphysique.html

    À propos de : Olivier Boulnois, Généalogie de la liberté, Seuil. Sommes-nous libres ou nos actions ont-elles des causes naturelles ? Le problème ainsi posé est une construction métaphysique : le sens authentique de la liberté comme principe d’action a été recouvert, à partir de l’Antiquité tardive, par l’invention du libre arbitre et le poids excessif donné à l’idée de volonté.

    #Philosophie #responsabilité #liberté #causalité

    • La théorie aristotélicienne n’a pas besoin d’une instance centrale d’arbitrage (la volonté), ni de résoudre le problème de son inscription dans le déterminisme physique. La liberté pour Aristote, pensée sur le modèle de l’homme libre dans la Cité, n’est pas un attribut métaphysique, mais s’inscrit dans un horizon éthique et consiste dans la capacité de bien agir.

      L’invention du libre arbitre

      Dès lors, pourquoi et comment les concepts de volonté et de libre arbitre apparaissent-ils ? C’est le résultat d’un processus en trois étapes : l’invention chez les stoïciens de la volonté comme instance de décision (to eph’ hemin), mais dans un cadre déterministe ; l’invention du libre arbitre chez Alexandre d’Aphrodise au IIe siècle de notre ère ; l’attribution du libre arbitre à la volonté chez Augustin au Ve siècle

      #éthique
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  • L’État paternaliste
    https://laviedesidees.fr/Chevallier-Perona-Homo-sapiens-dans-la-cite.html

    À propos de : Coralie Chevallier et Mathieu Perona, Homo sapiens dans la cité. Comment adapter l’action publique à la psychologie humaine, Odile Jacob. Les sciences comportementales ont révolutionné notre compréhension des choix et des actions des individus. Ces approches ouvrent de nouvelles politiques publiques – ce qui soulève d’importantes questions éthiques et politiques.

    #Politique #Économie #État #politique_publique #éthique
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/20221128_perona.docx
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/20221128_perona.pdf

  • L’animal moral
    https://laviedesidees.fr/Morel-La-nature-et-le-bien.html

    À propos de : Pierre-Marie Morel, La nature et le bien. L’éthique d’Aristote et la question naturaliste, Peeters. L’éthique d’Aristote relève bien d’une forme de #naturalisme, mais il s’agit selon Pierre-Marie Morel d’un naturalisme problématique, dans lequel la nature conserve une part d’opacité et se révèle irréductible à tout déterminisme biologique.

    #Philosophie #Aristote #éthique
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/20220921_aristote.pdf
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/20220921_aristote.docx