• Il cotone “sporco e insostenibile” di #Zara ed #H&M e la distruzione del #Cerrado

    La Ong inglese #Earthsight ha condotto un’inchiesta per un anno lungo la filiera di questa fibra tessile: i due marchi della fast fashion avrebbero immesso sul mercato 800mila tonnellate di cotone coltivato su terreni disboscati illegalmente nella savana tropicale che copre un terzo del Brasile. “Il sistema di filiera ‘etica’ su cui si basano questi colossi è fondamentalmente difettoso”

    Se negli ultimi anni avete acquistato vestiti di cotone, asciugamani o lenzuola di H&M o Zara “probabilmente sono macchiati del saccheggio del Cerrado”, un’area ricchissima di biodiversità che copre quasi un quarto della superficie del Brasile. Sam Lawson, direttore della Ong britannica Earthsight, non usa mezzi termini per commentare l’esito dell’inchiesta “Fashion crimes. The European retail giants linked to dirty Brazilian cotton”, pubblicata l’11 aprile, che analizza la lunga e insostenibile filiera di questa fibra dalla produzione (in Brasile) alla lavorazione (in Paesi come Indonesia e Bangladesh), fino alla commercializzazione in Europa (Italia compresa) dove, secondo le stime di Earthsight, i due brand avrebbero messo in commercio prodotti realizzati con 800mila tonnellate di cotone coltivato su terreni disboscati illegalmente nel Cerrado.

    Ma andiamo con ordine. L’inchiesta di Earthsigh prende le mosse proprio dal grande Paese latinoamericano che, negli ultimi dieci anni, ha guadagnato crescente importanza nel mercato globale del cotone, di cui oggi è il secondo esportatore mondiale “e si prevede che entro il 2030 supererà gli Stati Uniti”. Il cuore di questa produzione si concentra in uno degli ecosistemi più fragili e preziosi del mondo: il Cerrado, una grande savana tropicale che ospita una delle più importanti aree di biodiversità al mondo, dove vivono oltre seimila specie di alberi così come centinaia di rettili, mammiferi, anfibi e uccelli.

    La sopravvivenza di questo inestimabile patrimonio è minacciata dalla deforestazione illegale che nel 2023 ha raggiunto livelli record, con un aumento del 43% rispetto al 2022. “Circa la metà della vegetazione nativa del Cerrado è già andata perduta, soprattutto per far posto all’espansione dell’agrobusiness”, evidenzia il report. Milioni di litri d’acqua vengono prelevati regolarmente dai fiumi e dalle falde per irrigare i campi di cotone, la cui coltivazione richiede l’utilizzo di 600 milioni di litri di pesticidi ogni anno.

    L’inchiesta di Earthsight analizza in particolare il ruolo di due dei principali produttori di cotone brasiliani: il gruppo Horita e SLC Agrícola che controllano enormi aziende e centinaia di migliaia di ettari di terreno. “Nel 2014 l’agenzia ambientale dello Stato di Bahia ha rilevato 25mila ettari deforestati illegalmente nelle aziende agricole di Horita a Estrondo -si legge nel report-. Nel 2020 la stessa agenzia ha dichiarato di non essere riuscita a trovare i permessi per altri 11.700 ettari deforestati dall’azienda tra il 2010 e il 2018”. Tra il 2010 e il 2019 l’azienda è stata multata complessivamente più di venti volte, per un totale di 4,5 milioni di dollari, per violazioni ambientali.

    https://i0.wp.com/altreconomia.it/app/uploads/2024/04/7.-Cerrado-accumulated-deforestation-1987-2022.png

    Altrettanto gravi, le denunce rivolte a SLC Agrícola: tre aziende, tutte coltivate a cotone, hanno cancellato per sempre 40mila ettari di Cerrado nativo negli ultimi 12 anni. E, sebbene l’azienda abbia adottato una politica “zero deforestazione” nel 2021, è accusata di aver distrutto altri 1.356 ettari di vegetazione nel 2022. Accuse che hanno spinto il fondo pensionistico pubblico della Norvegia a ritirare i propri investimenti nella società brasiliana.

    Al termine di un lavoro d’inchiesta di un anno -durante il quale hanno analizzato migliaia di registri di spedizione, relazioni aziendali, elenchi di fornitori e siti web– i ricercatori di Earthsight hanno ricostruito la filiera che porta il cotone coltivato illegalmente nel Cerrado nei negozi di Zara ed H&M e poi negli armadi di milioni di persone. I ricercatori hanno identificato otto produttori di abbigliamento asiatici che utilizzano il cotone Horita e SLC e che allo stesso tempo forniscono alle due società di fast fashion milioni di capi di cotone finiti. Tra questi figura l’indonesiana PT Kahatex “il più grande acquirente di cotone contaminato Horita e SLC che abbiamo trovato”. H&M è il secondo cliente dell’azienda indonesiana, da cui ha acquistato milioni di paia di calzini, pantaloncini e pantaloni che sono poi stati messi in vendita nei negozi del gruppo negli Stati Uniti, in Germania, nel Regno Unito, in Svezia, nei Paesi Bassi, in Belgio, in Spagna, in Francia, in Polonia, in Irlanda, in Italia.

    Il cotone sporco del Cerrado è finito anche negli stabilimenti di Jamuna Group, uno dei maggiori conglomerati industriali del Bangladesh: “Nei negozi Zara in Europa, fino ad agosto 2023, sono stati venduti per 235 milioni di euro jeans e altri capi in denim confezionati da Jamuna, circa 21.500 paia al giorno -si legge nel report-. Inditex importa i capi prodotti da Jamuna in Spagna e nei Paesi Bassi, da dove li distribuisce ai suoi negozi Zara, Bershka e Pull&Bear in tutta Europa”. Complessivamente, secondo le stime che i ricercatori hanno elaborato consultando i registri delle spedizioni il Gruppo Horita e SLC Agrícola hanno esportato direttamente almeno 816mila tonnellate di cotone da Bahia verso i mercati esteri tra il 2014 e il 2023. Una quantità di materia prima sufficiente a produrre dieci milioni di capi d’abbigliamento e prodotti per la casa tra lenzuola, tovaglie e tende.

    Ma come è stato possibile, si sono chiesti i ricercatori, che le catene di approvvigionamento dei due marchi di moda siano state “contaminate” da cotone brasiliano legato a deforestazione e land grabbing? “Parte della risposta sta nel fatto che le loro politiche etiche sono piene di falle. Ma soprattutto, il sistema di filiera etica su cui si basano è fondamentalmente difettoso”.

    Il riferimento è al fatto che, nel tentativo di presentarsi come sostenibili e responsabili, i due brand si sono affidati a un sistema di certificazione denominato Better Cotton (BC). “Il cotone che abbiamo collegato agli abusi ambientali a Bahia ne riportava il marchio di qualità. Questo non dovrebbe sorprendere dal momento che Better Cotton è stata ripetutamente accusata di greenwashing e criticata per non aver garantito la piena tracciabilità delle catene di approvvigionamento”, scrivono i ricercatori di Earthsight nel rapporto. Evidenziando come, sebbene dal primo marzo 2024 le regole di BC siano state aggiornate, rimangano comunque una serie di criticità e di punti deboli. A partire dal fatto che il cotone proveniente da terreni disboscati illegalmente prima del 2020 venga ancora certificato.

    “È ormai molto chiaro che i crimini legati ai beni che consumiamo devono essere affrontati attraverso la regolamentazione, non attraverso le scelte dei consumatori -conclude Sam Lawson, direttore di Earthsignt-. Ciò significa che i legislatori dei Paesi consumatori dovrebbero mettere in atto leggi forti con un’applicazione rigorosa. Nel frattempo, gli acquirenti dovrebbero pensarci due volte prima di acquistare il prossimo capo di abbigliamento in cotone”.

    https://altreconomia.it/il-cotone-sporco-e-insostenibile-di-zara-ed-hm-e-la-distruzione-del-cer
    #industrie_textile #coton #mode #déforestation #Brésil #rapport #chiffres #statistiques #SLC_Agrícola #Horita #SLC #fast-fashion #land_grabbing #accaparement_de_terres #Better_Cotton #greenwashing #green-washing

    • Fashion Crimes: The European Retail Giants Linked to Dirty Brazilian Cotton


      Key Findings:

      - The world’s largest fashion brands, H&M and Zara, use cotton linked to land grabbing, illegal deforestation, violence, human rights violations and corruption in Brazil.
      - The cotton is grown by two of Brazil’s largest agribusinesses – SLC Agrícola and the Horita Group – in western Bahia state, a part of the precious Cerrado biome, which has been heavily deforested in recent decades to make way for industrial-scale agriculture.
      - Unlike in the Amazon, deforestation in the Cerrado is getting worse. The biome is home to five per cent of the world’s species. Many face extinction due to habitat loss if current deforestation trends are not reversed.
      - For centuries, traditional communities have lived in harmony with nature. These communities have seen their lands stolen and suffered attacks by greedy agribusinesses serving global cotton markets.
      - The tainted cotton in H&M and Zara’s supply chains is certified as ethical by the world’s largest cotton certification scheme, Better Cotton, which has failed to detect the illegalities committed by SLC and Horita. Better Cotton’s deep flaws will not be addressed by a recent update to its standards.
      - Failure by the fashion sector to monitor and ensure sustainability and legality in its cotton supply chains means governments in wealthy consumer markets must regulate them. Once in place, rules must be strictly enforced.

      https://www.earthsight.org.uk/fashion-crimes

  • « Les #mégabassines provoquent une sécheresse anthropique des cours d’#eau » - POLITIS
    https://www.politis.fr/articles/2024/03/bassines-non-merci-les-megabassines-provoquent-une-secheresse-anthropique-de

    Les bassines sont toujours installées dans des bassins classés zone de répartition des eaux (ZRE) c’est-à-dire des lieux en déficit chronique de ressources en fonction des besoins locaux. C’est le cas pour le bassin de la Sèvre niortaise, pour le bassin du Clain dans la Vienne, pour la Charente… Or, ces endroits ne sont pas arides car il y a des nappes souterraines où, normalement, l’eau peut se stocker naturellement. Ils parlent de réserves de substitution pour faire passer le message qu’en prélevant de l’eau l’hiver, les nappes et les cours d’eau se porteront mieux en été. Or, chaque année, ils peinent à atteindre les volumes d’irrigation autorisée car il y a des arrêtés de sécheresse !

    Cela fait 30 ans qu’on sait qu’on pompe trop dans ces bassins par rapport à la quantité d’eau disponible. Les mégabassines provoquent une sécheresse anthropique. L’objectif originel des bassines, financées à 70 % par de l’argent public via les agences de l’eau, était de respecter la directive cadre européenne sur l’eau de 2000 et la loi sur l’eau et les milieux aquatiques (Lema) de 2006. Dans les endroits où on a des bassines depuis longtemps, comme en Vendée, les cours d’eau sont constamment à sec l’été.

    Dans le bassin des Autistes par exemple, comme ils prélèvent des millions de mètres cubes d’eau à partir du mois de novembre, cela retarde la recharge des nappes phréatiques. Conséquence : s’il ne pleut qu’au début de l’hiver, l’eau est sécurisée pour les grandes plaines céréalières et le maïs, mais pas pour l’eau potable ou pour les milieux aquatiques.

  • #Ikea, le seigneur des forêts

    Derrière son image familiale et écolo, le géant du meuble suédois, plus gros consommateur de bois au monde, révèle des pratiques bien peu scrupuleuses. Une investigation édifiante sur cette firme à l’appétit démesuré.

    C’est une des enseignes préférées des consommateurs, qui équipe depuis des générations cuisines, salons et chambres d’enfants du monde entier. Depuis sa création en 1943 par le visionnaire mais controversé Ingvar Kamprad, et au fil des innovations – meubles en kit, vente par correspondance, magasins en self-service… –, la petite entreprise a connu une croissance fulgurante, et a accompagné l’entrée de la Suède dans l’ère de la consommation de masse. Aujourd’hui, ce fleuron commercial, qui participe pleinement au rayonnement du pays à l’international, est devenu un mastodonte en expansion continue. Les chiffres donnent le tournis : 422 magasins dans cinquante pays ; près d’un milliard de clients ; 2 000 nouveaux articles au catalogue par an… et un exemplaire de son produit phare, la bibliothèque Billy, vendu toutes les cinq secondes. Mais le modèle Ikea a un coût. Pour poursuivre son développement exponentiel et vendre toujours plus de meubles à bas prix, le géant suédois dévore chaque année 20 millions de mètres cubes de bois, soit 1 % des réserves mondiales de ce matériau… Et si la firme vante un approvisionnement responsable et une gestion durable des forêts, la réalité derrière le discours se révèle autrement plus trouble.

    Greenwashing
    Pendant plus d’un an, les journalistes d’investigation Xavier Deleu (Épidémies, l’empreinte de l’homme) et Marianne Kerfriden ont remonté la chaîne de production d’Ikea aux quatre coins du globe. Des dernières forêts boréales suédoises aux plantations brésiliennes en passant par la campagne néo-zélandaise et les grands espaces de Pologne ou de Roumanie, le documentaire dévoile les liens entre la multinationale de l’ameublement et l’exploitation intensive et incontrôlée du bois. Il révèle comment la marque au logo jaune et bleu, souvent via des fournisseurs ou sous-traitants peu scrupuleux, contribue à la destruction de la biodiversité à travers la planète et alimente le trafic de bois. Comme en Roumanie, où Ikea possède 50 000 hectares de forêts, et où des activistes se mobilisent au péril de leur vie contre une mafia du bois endémique. Derrière la réussite de l’une des firmes les plus populaires au monde, cette enquête inédite éclaire l’incroyable expansion d’un prédateur discret devenu un champion du greenwashing.

    https://www.arte.tv/fr/videos/112297-000-A/ikea-le-seigneur-des-forets
    #film #film_documentaire #documentaire #enquête
    #greenwashing #green-washing #bois #multinationale #meubles #Pologne #Mazovie #Mardom_House #pins #Ingvar_Kamprad #délocalisation #société_de_consommation #consumérisme #résistance #justice #Fondation_Forêt_et_citoyens #Marta_Jagusztyn #Basses-Carpates #Carpates #coupes_abusives #exploitation #exploitation_forestière #consommation_de_masse #collection #fast-furniture #catalogue #mode #marketing #neuro-marketing #manipulation #sous-traitance #chaîne_d'approvisionnement #Sibérie #Russie #Ukraine #Roumanie #accaparement_de_terres #Agent_Green #trafic_de_bois #privatisation #Gabriel_Paun #pillage #érosion_du_sol #image #prix #impact_environnemental #FSC #certification #norme #identité_suédoise #modèle_suédois #nation_branding #Estonie #Lettonie #Lituanie #lobby #mafia_forestière #coupes_rases #Suède #monoculture #sylviculture #Sami #peuples_autochtones #plantation #extrême_droite #Brésil #Parcel_Reflorestadora #Artemobili #code_de_conduite #justice #responsabilité #abattage #Nouvelle-Zélande #neutralité_carbone #compensation_carbone #maori #crédits-carbone #colonisation

    • #fsc_watch

      This site has been developed by a group of people, FSC supporters and members among them, who are very concerned about the constant and serious erosion of the FSC’s reliability and thus credibility. The group includes Simon Counsell, one of the Founder Members of the FSC; Hermann Edelmann, working for a long term FSC member organisation; and Chris Lang, who has looked critically at several FSC certifications in Thailand, Laos, Brazil, USA, New Zealand, South Africa and Uganda – finding serious problems in each case.

      As with many other activists working on forests worldwide, we share the frustration that whilst the structural problems within the FSC system have been known for many years, the formal mechanisms of governance and control, including the elected Board, the General Assembly, and the Complaints Procedures have been highly ineffective in addressing these problems. The possibility of reforming – and thus ‘saving’ – the FSC through these mechanisms is, we feel, declining, as power within the FSC is increasingly captured by vested commercial interest.

      We feel that unless drastic action is taken, the FSC is doomed to failure. Part of the problem, in our analysis, is that too few FSC members are aware of the many profound problems within the organisation. The FSC Secretariat continues to pour out ‘good news stories’ about its ‘successes’, without acknowledging, for example, the numerous complaints against certificates and certifiers, the cancellation of certificates that should never have been awarded in the first place, the calls for FSC to cease certifying where there is no local agreement to do so, the walk-outs of FSC members from national processes because of their disillusionment with the role of the economic chamber, etc. etc. etc.

      There has been no honest evaluation of what is working and what is not what working in the FSC, and no open forum for discussing these issues. This website is an attempt to redress this imbalance. The site will also help people who are normally excluded from the FSC’s processes to express their views and concerns about the FSC’s activities.

      Please share your thoughts or information. Feel free to comment on our postings or send us any information that you consider valuable for the site.

      UPDATE (25 March 2010): A couple of people have requested that we explain why we are focussing on FSC rather than PEFC. Shortly after starting FSC-Watch we posted an article titled: FSC vs PEFC: Holy cows vs the Emperor’s new clothes. As this is somewhat buried in the archives, it’s reproduced in full here (if you want to discuss this, please click on the link to go to the original post):
      FSC vs PEFC: Holy cows vs the Emperor’s new clothes

      One of the reasons I am involved in this website is that I believe that many people are aware of serious problems with FSC, but don’t discuss them publicly because the alternative to FSC is even worse. The alternative, in this case is PEFC (Programme for the Endorsement of Forest Certification schemes) and all the other certification schemes (Cerflor, Certflor, the Australian Forestry Standard, the Malaysian Timber Certification Council and so on). One person has suggested that we should set up PEFC-Watch, in order “to be even-handed”.

      The trouble with this argument is that PEFC et al have no credibility. No NGOs, people’s organisations or indigenous peoples’ organisations were involved in setting them up. Why bother spending our time monitoring something that amounts to little more than a rubber stamp? I can just see the headlines: “Rubber stamp PEFC scheme rubber stamps another controversial logging operation!” Shock, horror. The Emperor is stark bollock naked, and it’s not just some little boy pointing this out – it’s plain for all to see, isn’t it?

      One way of countering all these other schemes would be to point out that FSC is better. But, if there are serious problems with FSC – which there are, and if we can see them, so can anyone else who cares to look – then the argument starts to look very shaky.

      FSC standards aren’t bad (apart from Principle 10, which really isn’t much use to anyone except the pulp and paper industry). They say lots of things we’d probably want forest management standards to say. The trouble is that the standards are not being applied in practice. Sure, campaign against PEFC, but if FSC becomes a Holy Cow which is immune to criticism (not least because all the criticism takes place behind closed doors), then we can hardly present it as an alternative, can we?…”

      By the way, anyone who thinks that PEFC and FSC are in opposition should read this interview with Heiko Liedeker (FSC’s Executive Director) and Ben Gunneberg (PEFC’s General Secretary). In particular this bit (I thought at first it must be a mix up between FSC and PEFC, or Liedeker and Gunneberg):

      Question: As a follow-up question, Heiko Liedeker, from your perspective, is there room ultimately for programs like the Australian Forestry Standard, Certfor and others to operate under the FSC umbrella?

      Heiko Liedeker: Absolutely. FSC was a scheme that was set-up to provide mutual recognition between national standard-setting initiatives. Every national initiative sets its standard. Some of them are called FSC working groups, some of them are called something else. In the UK they are called UKWAS. We’ve been in dialogue with Edwardo Morales at Certfor Chile. They are some of the FSC requirements listed for endorsement, we certainly entered into discussion. We’ve been in discussion with the Australian Forestry Standard and other standard-setting initiatives. What FSC does not do is, it has one global scheme for recognizing certification. So we do not, and that’s one of the many differences between FSC and PEFC, we do not require the development of a certification program as such. A standard-setting program is sufficient to participate in the network.

      https://fsc-watch.com

    • Complicit in destruction: new investigation reveals IKEA’s role in the decimation of Romania’s forests

      IKEA claims to be people and planet positive, yet it is complicit in the degradation and destruction of Romania’s forests. A new report by Agent Green and Bruno Manser Fonds documents this destruction and presents clear requests to the furniture giant.

      A new investigative report (https://www.bmf.ch/upload/Kampagnen/Ikea/AG_BMF_report_IKEA_web_EN.pdf) by Agent Green and Bruno Manser Fonds shows a consistent pattern of destructive logging in IKEA-linked forests in Romania, with massive consequences for nature and climate. The findings are based on an analysis of official documents and field investigations of nine forest areas in Romania. Seven of them are owned by the IKEA-related company Ingka Investments and two are public forests supplying factories that produce for IKEA. The analysis uncovers over 50 suspected law violations and bad forest management practices. Biodiversity rich forest areas cut to the ground, intensive commercial logging conducted in ecologically sensitive or even old-growth forests without environmental assessments, dozens of meters deep tractor roads cutting through the forest are just a few of the issues documented.

      Most of the visited forests are fully or partially overlapping with EU protected areas. Some of these forests were strictly protected or under low-intensity logging before Ingka took over. Now they are all managed to maximize wood extraction, with no regard to forest habitats and their vital role for species. Only 1.04% of the total Ingka property in Romania are under a strict protection regime and 8.24% under partial protection. This is totally insufficient to meet EU goals. The EU biodiversity strategy requires the protection of a minimum of 30% of EU land area, from which 10% need to be strictly protected. One key goal is to strictly protect all remaining primary and old-growth forests in the EU.

      At the press conference in Bucharest Gabriel Păun, President of Agent Green, stated: “IKEA/Ingka seem to manage their forests like agricultural crops. Letting trees grow old is not in their culture. Removing entire forests in a short period of time is a matter of urgency for IKEA, the tree hunter. The entity disregards both the written laws and the unwritten ways of nature. IKEA does not practice what they preach regardless of whether it is the European Union nature directives, Romanian national legislation, or the FSC forest certification standard. But as a company with revenues of billions of Euros and Romania’s largest private forest owner, IKEA / Ingka should be an example of best practice.”

      Ines Gavrilut, Eastern Europe Campaigner at the Bruno Manser Fonds, added: “It is high time that IKEA started to apply its declared sustainability goals. IKEA could do so much good if it really wanted to set a good example as a forest owner, administrator, and large wood consumer in Romania and beyond. Needs could also be covered without resorting to destructive logging, without converting natural forests into plantations – but this requires tackling difficult issues such as the core of IKEA’s business model of “fast furniture”. Wood products should not be for fast consumption but should be made to last for decades.”

      Agent Green and Bruno Manser Fonds urge IKEA and the Ingka Group to get a grip on their forest operations in Romania to better control logging companies, not to source wood from national or natural parks, to effectively increase protection and apply forestry close to nature in own forests, to ensure full traceability and transparency of the IKEA supply chain, and allow independent forest oversight by civil society and investigative journalists.

      In August 2021, Agent Green published its first report documenting destruction in IKEA-linked forests in Romania. In May 2023, Agent Green and Bruno Manser Fonds sent an open letter of concern to the Ingka Group and IKEA Switzerland. BMF also started a petition demanding IKEA to stop deforestation in Romania’s protected forest areas and other high conservation value forests.

      The ARTE documentary IKEA, the tree hunter brilliantly tells the story of the real cost of IKEA furniture, the uncontrolled exploitation of wood and human labour.

      https://bmf.ch/en/news/neue-untersuchung-belegt-ikeas-beteiligung-an-der-waldzerstorung-in-rumanien-256

      #rapport

  • En Espagne, les fonds d’investissement achètent en masse des terres agricoles
    https://www.lemonde.fr/economie/article/2024/02/29/en-espagne-les-fonds-d-investissement-achetent-en-masse-des-terres-agricoles

    « Les #terres agricoles constituent un actif alternatif à ceux du secteur #immobilier traditionnel, explique M. Valadas de Albuquerque. Il y a de moins en moins de sols productifs disponibles, alors que la population mondiale augmente, tout comme les besoins alimentaires. Si on y ajoute les effets du changement climatique, un bon sol, avec un bon accès à de l’#eau, vaut de l’or. C’est un actif défensif, qui n’est pas sensible aux grands cycles économiques, et en Espagne les exploitations d’amandiers, par exemple, valent moitié moins cher qu’en Californie. »

    Cette irruption des fonds s’accompagne d’une technicisation de l’agriculture espagnole. Au milieu de ses quelque 220 hectares de pistachiers, plantés en plein champ ou en pépinière au cœur de la province de Cuenca, et en partie destinés à la recherche agronomique, Angel Minaya confirme cette évolution. A 33 ans, ce petit-fils d’agriculteurs très modestes de Castille-La Manche a trop longtemps vu son grand-père s’user dans ses champs de céréales contre quelques pesetas pour regretter le temps des petites exploitations familiales traditionnelles. « C’est bien beau l’amour de la terre, mais l’agriculture doit être rentable, capable de créer de la richesse, de se professionnaliser et de fonctionner comme n’importe quelle entreprise, appliquer des économies d’échelle, se techniciser et améliorer sa productivité », déclare-t-il au Monde.

    Dès qu’il en a eu l’occasion, l’homme a racheté les terres de son aïeul, troqué les céréales pour des vignes, ajouté des amandiers et des oliviers et introduit des moyens techniques modernes dans les champs, avant de dénicher un filon − celui de la pistache − et de créer en 2016 la société Agroptimum. Devenu le principal fournisseur de plants de pistachiers d’Espagne, à partir de semences californiennes, sa société offre aussi des services de conseil et de sous-traitance, allant de la transformation et du suivi de la plantation à l’entretien de l’exploitation.
    Agroptimum emploie cent cinquante personnes et a affiché près de 15 millions d’euros de chiffre d’affaires en 2022. La moitié de ses clients sont des #agriculteurs indépendants, séduits par les promesses de hauts revenus de cette culture en vogue souvent qualifiée de nouvel or vert, tant les pistachiers s’adaptent particulièrement bien au climat sec de Castille, très chaud en été et très froid en hiver, et souvent sujet à des gelées tardives au printemps. L’autre moitié, ce sont des acteurs institutionnels, grandes entreprises ou fonds d’investissement nationaux et internationaux qui, ces dernières années, ont jeté leur dévolu sur les terres agricoles d’Espagne.

    https://justpaste.it/9ghjd

    #agriculture #accaparement #sous-traitance

  • En Nouvelle-Zélande, Ikea accapare des terres et menace les écosystèmes indigènes
    https://disclose.ngo/fr/article/en-nouvelle-zelande-ikea-accapare-des-terres-et-menace-les-ecosystemes-ind

    ​Depuis 2021, la multinationale suédoise a acheté plus de 23 000 hectares de terres en Nouvelle-Zélande afin d’y planter des pins. Objectif : accroître sa production de meubles tout en promettant de compenser ses émissions de CO2. Une opération de greenwashing dénoncée par des Māoris rencontrés par Disclose. Lire l’article

  • Au Brésil, le principal fournisseur d’Ikea accusé d’atteintes à l’environnement
    https://disclose.ngo/fr/article/au-bresil-le-principal-fournisseur-dikea-accuse-datteintes-a-lenvironnemen

    Pollutions chimiques, déforestation illégale… Au Brésil, Ikea se fournit en meubles auprès de l’entreprise Artemobili, accusée de multiples infractions environnementales entre 2018 et 2022. La justice brésilienne pointe aujourd’hui la responsabilité de la firme suédoise. Lire l’article

  • Position et appel des Soulèvements de la terre sur le mouvement agricole en cours
    https://lundi.am/Position-et-appel-des-Soulevements-de-la-terre-sur-le-mouvement-agricole-en

    Si nous nous soulevons, c’est en grande partie contre les ravages de ce complexe agro-industriel, avec le vif souvenir des fermes de nos familles que nous avons vu disparaître et la conscience aiguë des abîmes de difficultés que nous rencontrons dans nos propres parcours d’installation. Ce sont ces industries et les méga-sociétés cumulardes qui les accompagnent, avalant les #terres et les fermes autour d’elles, accélérant le devenir firme de la production agricole, et qui ainsi tuent à bas bruit le monde #paysan. Ce sont ces industries que nous ciblons dans nos actions depuis le début de notre mouvement - et non la classe paysanne.

    Si nous clamons que la liquidation sociale et économique de la paysannerie et la destruction des milieux de vie sont étroitement corrélées - les fermes disparaissant au même rythme que les oiseaux des champs et le complexe agro-industriel resserrant son emprise tandis que le réchauffement climatique s’accélère - nous ne sommes pas dupes des effet délétères d’une certaine écologie industrielle, gestionnaire et technocratique. La gestion par les normes environnementales-sanitaires de l’#agriculture est à ce titre absolument ambigüe. À défaut de réellement protéger la santé des populations et des milieux de vie, elle a, derrière de belles intentions, surtout constitué un nouveau vecteur d’industrialisation des exploitations. Les investissements colossaux exigés par les mises aux normes depuis des années ont accéléré, partout, la concentration des structures, leur #bureaucratisation sous contrôles permanents et la perte du sens du métier.

    Nous refusons de séparer la question écologique de la question sociale, ou d’en faire une affaire de consom’acteurs citoyens responsables, de changement de pratiques individuelles ou de « transitions personnelles » : il est impossible de réclamer d’un éleveur piégé dans une filière hyperintégré qu’il bifurque et sorte d’un mode de production industriel, comme il est honteux d’exiger que des millions de personnes qui dépendent structurellement de l’aide alimentaire se mettent à « consommer bio et local ». Pas plus que nous ne voulons réduire la nécessaire écologisation du travail de la terre à une question de « réglementations » ou de « jeu de normes » : le salut ne viendra pas en renforçant l’emprise des bureaucraties sur les pratiques paysannes. Aucun changement structurel n’adviendra tant que nous ne déserrerons pas l’étau des contraintes économiques et technocratiques qui pèsent sur nos vies : et nous ne pourrons nous en libérer que par la lutte.

    Si nous n’avons pas de leçons à donner aux agriculteur·rices ni de fausses promesses à leur adresser, l’expérience de nos combats aux côtés des paysan·nes - que ce soit contre des grands projets inutiles et imposés, contre les méga-bassines, ou pour se réapproprier les fruits de l’accaparement des terres - nous a offert quelques certitudes, qui guident nos paris stratégiques.

    L’écologie sera paysanne et populaire ou ne sera pas. La #paysannerie disparaîtra en même temps que la sécurité alimentaire des populations et nos dernières marges d’autonomie face aux complexes industriels si ne se lève pas un vaste mouvement social de #reprise_des_terres face à leur #accaparement et leur #destruction. Si nous ne faisons pas sauter les verrous (traités de #libre-échange, dérégulation des prix, emprise monopolistique de l’#agro-alimentaire et des hypermarchés sur la consommation des ménages) qui scellent l’emprise du marché sur nos vies et l’agriculture. Si n’est pas bloquée la fuite en avant techno-solutionniste (le tryptique biotechnologies génétiques - robotisation - numérisation). Si ne sont pas neutralisés les méga-projets clés de la restructuration du modèle agro-industriel. Si nous ne trouvons pas les leviers adéquats de socialisation de l’#alimentation qui permettent de sécuriser les revenus des producteurs et de garantir le droit universel à l’alimentation.

    #revenu #écologie

    (pour mémoire : bucolisme et conflictualité)

    • C’est signé « Les Soulèvements de la Terre - le 30 janvier 2024 » ; c’est pas lundiamiste, c’est SDLTique :-)

    • 😁 merci @colporteur 🙏

      je colle ici un ou deux bouts de l’appel du lundiisme soulevementier, y’a une synthèse paysano-intello avec des chiffres

      Dans le monde, le pourcentage du prix de vente qui revient aux agriculteurs est passé de 40 % en 1910 à 7 % en 1997, selon l’Organisation des Nations unies pour l’agriculture et l’alimentation (FAO). De 2001 à 2022, les distributeurs et les entreprises agroalimentaires de la filière lait ont vu leur marge brute s’envoler de respectivement 188% et 64%, alors même que celle des producteurs stagne quand elle n’est pas simplement négative.
      [...]
      C’est ce pillage de la valeur ajoutée organisé par les filières qui explique, aujourd’hui, que sans les subventions qui jouent un rôle pervers de béquilles du système (en plus de profiter essentiellement aux plus gros) 50% des exploitant·es auraient un résultat courant avant impôts négatif : en bovins lait, la marge hors subvention qui était de 396€/ha en moyenne entre 1993 et 1997 est devenue négative à la fin des années 2010 (-16€/ha en moyenne), tandis que le nombre de paysans pris en compte par le Réseau d’information comptable agricole dans cette filière passe sur cette période de 134 000 à 74 000.

  • Vivre et lutter dans un monde toxique. #Violence_environnementale et #santé à l’âge du #pétrole

    Pour en finir avec les success stories pétrolières, voici une histoire des territoires sacrifiés à la transformation des #hydrocarbures. Elle éclaire, à partir de sources nouvelles, les #dégâts et les #luttes pour la santé au XXe siècle, du #Japon au #Canada, parmi les travailleurs et travailleuses des enclaves industrielles italiennes (#Tarento, #Sardaigne, #Sicile), auprès des pêcheurs et des paysans des « #Trente_Ravageuses » (la zone de #Fos / l’étang de# Berre, le bassin gazier de #Lacq), ou encore au sein des Premières Nations américaines et des minorités frappées par les #inégalités_environnementales en #Louisiane.
    Ces différents espaces nous racontent une histoire commune : celle de populations délégitimées, dont les plaintes sont systématiquement disqualifiées, car perçues comme non scientifiques. Cependant, elles sont parvenues à mobiliser et à produire des savoirs pour contester les stratégies entrepreneuriales menaçant leurs #lieux_de_vie. Ce livre expose ainsi la #tension_sociale qui règne entre défense des #milieux_de_vie et #profits économiques, entre santé et #emploi, entre logiques de subsistance et logiques de #pétrolisation.
    Un ouvrage d’une saisissante actualité à l’heure de la désindustrialisation des #territoires_pétroliers, des #conflits sur la #décarbonation des sociétés contemporaines, et alors que le désastre de #Lubrizol a réactivé les interrogations sur les effets sanitaires des dérivés pétroliers.

    https://www.seuil.com/ouvrage/vivre-et-lutter-dans-un-monde-toxique-collectif/9782021516081

    #peuples_autochtones #pollution #toxicité #livre

    • Ces territoires sacrifiés au pétrole

      La société du pétrole sur laquelle s’est bâtie notre prospérité ne s’est pas faite sans sacrifices. Gwenola Le Naour et Renaud Bécot, co-directeurs d’un ouvrage sur ce sujet, lèvent le voile sur les dégâts causés par cette « pétrolisation » du monde, en France et à l’étranger.

      Si le pétrole et ses produits ont permis l’émergence de notre mode de vie actuel, l’activité des raffineries et autres usines de la pétrochimie a abîmé les écosystèmes et les paysages et a des effets de long terme sur la santé humaine. Dans le livre qu’ils ont coordonné, Vivre et lutter dans un monde toxique (Seuil, septembre 2023), Gwénola Le Naour et Renaud Bécot lèvent le voile sur les dégâts causés par cette « pétrolisation » du monde, selon leurs propres mots. Ils ont réuni plusieurs études de cas dans des territoires en France et à l’étranger pour le démontrer. Un constat d’autant plus actuel que la société des hydrocarbures est loin d’être révolue : la consommation de pétrole a atteint un record absolu en 2023, avec plus de 100 millions de barils par jour en moyenne.

      À la base de votre ouvrage, il y a ce que vous appelez « la pétrolisation du monde ». Que recouvre ce terme ?
      Gwenola Le Naour1. Dans les années 1960, s’est développée l’idée que le pétrole était une énergie formidable, rendant possible la fabrication de produits tels que le plastique, les textiles synthétiques, les peintures, les cosmétiques, les pesticides, qui ont révolutionné nos modes de vie et décuplé les rendements agricoles. La pétrolisation désigne cette mutation de nos systèmes énergétiques pendant laquelle les hydrocarbures se sont imposés partout sur la planète et ont littéralement métamorphosé nos territoires physiques et mentaux.

      L’arrivée du pétrole et de ses dérivés nous est le plus souvent présentée comme une épopée, une success story. On a mis de côté la face sombre de cette pétrolisation, avec ses territoires sacrifiés comme Fos-sur-Mer, qui abrite depuis 1965 une immense raffinerie représentant aujourd’hui 10 % de la capacité de raffinage de l’Hexagone, ou Tarente, dans le sud de l’Italie, où se côtoient une raffinerie, une usine pétrochimique, un port commercial, une décharge industrielle et la plus grande aciérie d’Europe.

      Comment des territoires entiers ont-ils pu être ainsi abandonnés au pétrole ?
      Renaud Bécot2. L’industrie du pétrole et des hydrocarbures n’est pas une industrie comme les autres. Les sociétés pétrolières ont été largement accompagnées par les États. Comme pour le nucléaire, l’histoire de l’industrie pétrolière est étroitement liée à l’histoire des stratégies énergétiques des États et à la manière dont ils se représentent leur indépendance énergétique. L’État a soutenu activement ces installations destinées à produire de la croissance et des richesses. Pour autant, ces industries ne se sont pas implantées sans résistance, malgré les discours de « progrès » qui les accompagnaient.

      Des luttes ont donc eu lieu dès l’installation de ces complexes ?
      G. L. N. Dès le début, les populations locales, mais aussi certains élus, ont compris l’impact que ces complexes gigantesques allaient avoir sur leur environnement. Ces mobilisations ont échoué à Fos-sur-Mer ou au sud de Lyon, où l’installation de la raffinerie de Feyzin et de tout le complexe pétrochimique (le fameux « couloir de la chimie ») a fait disparaître les bras morts du Rhône et des terres agricoles... Quelques-unes ont cependant abouti : un autre projet de raffinerie, envisagé un temps dans le Beaujolais, a dû être abandonné. Il est en revanche plus difficile de lutter une fois que ces complexes sont installés, car l’implantation de ce type d’infrastructures est presque irréversible : le coût d’une dépollution en cas de fermeture est gigantesque et sans garantie de résultat

      Les habitants qui vivent à côté de ces installations finissent ainsi par s’en accommoder… En partie parce qu’ils n’ont pas d’autre choix, et aussi parce que les industriels se sont efforcés dès les années 1960-1970 et jusqu’à aujourd’hui de se conduire en « bons voisins ». Ils négocient leur présence en finançant par exemple des infrastructures culturelles et/ou sportives. Sans oublier l’éternel dilemme entre les emplois apportés par ces industries et les nuisances qu’elles génèrent. Dans le livre, nous avons qualifié ces arrangements à l’échelle des districts pétrochimiques de « compromis fordistes territorialisés ».

      Que recouvre ce terme de compromis ?
      R. B. En échange de l’accaparement de terres par l’industrie et du cortège de nuisances qui l’accompagne, les collectivités locales obtiennent des contreparties qui correspondent à une redistribution partielle des bénéfices de l’industrie. Cette redistribution peut être régulière (via la taxe professionnelle versée aux communes jusqu’en 2010, notamment), ou exceptionnelle, après un accident par exemple. Ainsi, en 1989, après une pollution spectaculaire qui marque les habitants vivant près de Lubrizol en Normandie, l’entreprise a versé 100 000 francs à la municipalité du Petit-Quevilly pour qu’elle plante quatre-vingts arbres dans la ville...

      Mais ce type de compromis a également été très favorable aux industries en leur offrant par exemple des allégements fiscaux de long terme, comme en Sicile près de Syracuse où se situe l’un des plus grands sites chimiques et pétrochimiques qui emploie plus de 7 000 personnes, voire une totale exonération fiscale comme en Louisiane, sur les rives du Mississippi. Des années 1950 aux années 1980, pas moins de 5 000 entreprises sur le sol américain – majoritairement pétrochimiques, pétrolières, métallurgiques ainsi que des sociétés gazières – ont demandé à bénéficier de ces exonérations, parmi lesquelles les sociétés les plus rentables du pays telles que DuPont, Shell Oil ou Exxon...

      Ces pratiques, qui se sont développées surtout lors des phases d’expansion de la pétrochimie, rendent plus difficile le retrait de ces industries polluantes. Les territoires continuent de penser qu’ils en tirent un bénéfice, même si cela est de moins en moins vrai.

      On entend souvent dire, concernant l’industrie pétrolière comme le nucléaire d’ailleurs, que les accidents sont rares et qu’on ne peut les utiliser pour remettre en cause toute une industrie… Est-ce vraiment le cas ?
      G. L. N. On se souvient des accidents de type explosions comme celle de la raffinerie de Feyzin, qui fit 18 morts en 1966, ou celle d’un stock de nitrates d’ammonium de l’usine d’engrais AZF à Toulouse en 2001, qui provoqua la mort de 31 personnes – car ils sont rares. Mais si l’on globalise sur toute la chaîne des hydrocarbures, les incidents et les accidents – y compris graves ou mortels pour les salariés – sont en réalité fréquents, même si on en entend rarement parler au-delà de la presse locale (fuites, explosions, incendies…). Sans oublier le cortège des nuisances liées au fonctionnement quotidien de ces industries, telles que la pollution de l’air ou de l’eau, et leurs conséquences sur la santé.

      Pour qualifier les méfaits des industries pétrochimiques, sur la santé notamment, vous parlez de « violence lente ». Pouvez-vous expliquer le choix de cette expression ?
      G. L. N. Cette expression, créée par l’auteur nord-américain Rob Nixon, caractérise une violence graduelle, disséminée dans le temps, caractéristique de l’économie fossile. Cette violence est également inégalitaire car elle touche prioritairement des populations déjà vulnérables : je pense notamment aux populations noires américaines de Louisiane dont les générations précédentes étaient esclaves dans les plantations…

      Au-delà de cet exemple particulièrement frappant, il est fréquent que ces industries s’installent près de zones populaires ou touchées par la précarité. On a tendance à dire que nous respirons tous le même air pollué, or ce n’est pas vrai. Certains respirent un air plus pollué que d’autres. Et ceux qui habitent sur les territoires dévolus aux hydrocarbures ont une qualité de vie bien inférieure à ceux qui sont épargnés par la présence de ces industries.

      Depuis quand la nocivité de ces industries est-elle documentée ?
      G. L. N. Longtemps, les seules mesures de toxicité dont on a disposé étaient produites par les industriels eux-mêmes, sur la base des seuils fixés par la réglementation. Pourtant, de l’aveu même de ceux qui la pratiquent, la toxicologie est une science très imparfaite : les effets cocktails ne sont pas recherchés par la toxicologie réglementaire, pas plus que ceux des expositions répétées à faibles doses sur le temps long. De plus, fixer des seuils est à double tranchant : on peut invoquer les analyses toxicologiques pour protéger les populations, l’environnement, ou les utiliser pour continuer à produire et à exposer les gens, les animaux, la nature à ces matières dangereuses. Ainsi, ces seuils peuvent être alternativement présentés comme des seuils de toxicité, ou comme des seuils de tolérance… Ce faisant, la toxicologie produit de l’imperceptibilité.

      R. B. Des études alternatives ont cependant commencé à émerger, avec des méthodologies originales. Au Canada, sur les territoires des Premières Nations en Ontario, au Saskatchewan précisément, une étude participative a été menée au cours de la décennie 2010 grâce à un partenariat inédit entre un collectif de journalistes d’investigation et un groupe de chercheurs. En distribuant très largement des kits de mesure, peu coûteux et faciles d’utilisation, elle a permis de démontrer que les populations étaient exposées aux sulfures d’hydrogène, un gaz toxique qui pénètre par les voies respiratoires. Grâce à cette démarche participative, des changements de règlementation et une meilleure surveillance des pollutions ont été obtenus. Il s’agit d’une réelle victoire qui change la vie des gens, même si l’industrie n’a pas été déplacée.

      Qu’en est-il des effets sur la santé de tous ces polluants ? Sont-ils documentés ?
      G. L. N. En France, les seuls travaux menés à ce jour l’ont été autour du gisement de gaz naturel de Lacq, exploité de 1957 à 2013 dans les Pyrénées. Une première étude, conduite en 2002 par l’université, concluait à un surrisque de cancer. Deux autres études ont été lancées plus récemment : une étude de mortalité dévoilée en 2021, qui montre une plus forte prévalence des décès par cancer, et une étude de morbidité toujours en cours. À Fos-sur-Mer, l’étude « Fos Epseal », conduite entre 2015 et 20223, s’est basée sur les problèmes de santé déclarés par les habitants. Ses résultats révèlent que près des deux-tiers des habitants souffrent d’au moins une maladie chronique – asthme, diabète –, ainsi que d’un syndrome nez-gorge irrités toute l’année qui n’avait jamais été identifié jusque-là.

      R. B. Ce que soulignent les collectifs qui évoquent des problèmes de santé liés à l’industrie pétrochimique – maladies chroniques de la sphère ORL, diabètes, cancers, notamment pédiatriques, etc. –, c’est la difficulté de prouver un lien de corrélation entre ces maladies et telle ou telle exposition toxique.

      L’épidémiologie conventionnelle ne le permet pas, en tout cas, car elle travaille à des échelles larges, sur de grands nombres, et est mal adaptée à un déploiement sur de plus petits territoires. C’est pourquoi les collectifs militants et les scientifiques qui travaillent avec eux doivent faire preuve d’inventivité, en faisant parfois appel aux sciences humaines et sociales, avec des sociologues qui vont recueillir des témoignages et trajectoires d’exposition, des historiens qui vont documenter l’histoire des lieux de production…

      Cela suppose aussi la mise au point de technologies, d’outils qui permettent de mesurer comment et quand les gens sont exposés. Cela nécessite enfin une coopération de longue haleine entre chercheurs de plusieurs disciplines, militants et populations. Car l’objectif est d’établir de nouveaux protocoles pour mieux documenter les atteintes à la santé et à l’environnement avec la participation active de celles et ceux qui vivent ces expositions dans leurs chairs.

      https://lejournal.cnrs.fr/articles/ces-territoires-sacrifies-au-petrole

  • #Violences et fabrique de la #subalternité_foncière à #Sihanoukville, Cambodge

    Depuis le milieu des années 2010, la ville de Sihanoukville au Cambodge, principal #port du pays et petit centre de villégiature, fait l’objet d’un #développement_urbain éclair porté par la construction de nouvelles infrastructures de transport et de zones logistiques, de casinos (plus de 150 nouveaux casinos depuis 2015) et la mise en place de #mégaprojets_immobiliers à vocation touristique qui nourrissent une #spéculation_foncière galopante. Ces transformations territoriales sont notamment le fruit d’une coopération technique, politique et économique entre le Cambodge et la #Chine au nom de la #Belt_and_Road_Initiative, la nouvelle politique étrangère globale chinoise lancée en 2013 par #Xi_Jinping. Pour le gouvernement cambodgien, Sihanoukville et sa région doivent devenir, au cours de la prochaine décennie, la seconde plateforme économique, logistique et industrielle du pays après Phnom Penh, la capitale (Royal Government of Cambodia, 2015). Ce développement urbain très rapide a entraîné une évolution concomitante des logiques d’échange et de valorisation des #ressources_foncières. Comme le relève régulièrement la presse internationale, il nourrit d’importants #conflits_fonciers, souvent violents, dont pâtissent en premier lieu les habitants les plus pauvres.

    Cette recherche veut comprendre la place et le rôle de la violence dans le déploiement des mécanismes d’#exclusion_foncière à Sihanoukville. Pour reprendre les mots de Fernand Braudel (2013 [1963]), alors que ces #conflits_fonciers semblent surgir de manière « précipitée », notre recherche montre qu’ils s’inscrivent aussi dans les « pas lents » des relations foncières et de la fabrique du territoire urbain. Dans ce contexte, le jaillissement des tensions foncières convoque des temporalités et des échelles variées dont la prise en compte permet de mieux penser le rôle de la violence dans la production de l’espace.

    Les processus d’exclusion foncière au Cambodge s’inscrivent dans une trajectoire historique particulière. Le #génocide et l’#urbicide [1] #khmers_rouges entre 1975 et 1979, l’abolition de la #propriété_privée entre 1975 et 1989 et la #libéralisation très rapide de l’économie du pays à partir des années 1990 ont posé les jalons de rapports fonciers particulièrement conflictuels, tant dans les espaces ruraux qu’urbains (Blot, 2013 ; Fauveaud, 2015 ; Loughlin et Milne, 2021). Ainsi, l’#appropriation, l’#accaparement et la #valorisation des ressources foncières au Cambodge, et en Asie du Sud-Est en général, s’accompagnent d’une importante « #violence_foncière » tant physique (évictions et répression) que sociale (précarisation des plus pauvres, exclusion sociale), politique (criminalisation et dépossession des droits juridiques) et économique (dépossession des biens fonciers et précarisation).

    Cet article souhaite ainsi proposer une lecture transversale de la violence associée aux enjeux fonciers. Si la notion de violence traverse la littérature académique portant sur les logiques d’exclusion foncière en Asie du Sud-Est (Hall, Hirsch et Li, 2011 ; Harms, 2016) ou dans le Sud global plus généralement (Peluso et Lund, 2011 ; Zoomers, 2010), peu de recherches la placent au cœur de leurs analyses, malgré quelques exceptions (sur le Cambodge, voir notamment Springer, 2015). Par ailleurs, la violence est souvent étudiée en fonction d’ancrages théoriques fragmentés. Ceux-ci restent très divisés entre : 1) des travaux centrés sur le rôle de l’État et des systèmes de régulation (notamment économiques) dans le déploiement de la violence foncière (Hall, 2011 ; Springer, 2013) ; 2) des analyses politico-économiques des formes de dépossession liées aux modes de privatisation du foncier, à la propriété et à l’accumulation du capital, parfois resituées dans une lecture historique des sociétés coloniales et postcoloniales (voir par exemple Rhoads, 2018) ; 3) des approches considérant la violence comme stratégie ou outil mobilisés dans la réalisation de l’accaparement foncier et la répression des mouvements sociaux (voir par exemple Leitner and Sheppard, 2018) ; 4) des analyses plus ontologiques explorant les processus corporels, émotionnels et identitaires (comme le genre) qui découlent des violences foncières ou conditionnent les mobilisations sociales (voir par exemple Brickell, 2014 ; Schoenberger et Beban, 2018).

    Malgré la diversité de ces approches, la notion de violence reste principalement attachée au processus de #dépossession_foncière, tout en étant analysée à une échelle temporelle courte, centrée sur le moment de l’#éviction proprement dit. Dans cet article et à la suite de Marina Kolovou Kouri et al. (2021), nous défendons au contraire une approche multidimensionnelle des violences foncières analysées à des échelles temporelles et spatiales variées. Une telle transversalité semble indispensable pour mieux saisir les différentes forces qui participent de la construction des violences et de l’exclusion foncières. En effet, si les conflits fonciers sont traversés par diverses formes de violences, celles-ci ne découlent pas automatiquement d’eux et sont également déterminées par le contexte social, économique et politique qui leur sert de moule. Ces violences restent ainsi attachées aux différents #rapports_de_domination qui organisent les #rapports_sociaux en général (Bourdieu, 2018 [1972]), tout en représentant une forme d’#oppression à part entière participant des #inégalités et #injustices sociales sur le temps long (Young, 2011).

    Nous voyons, dans cet article, comment des formes de violence variées structurent les rapports de pouvoir qui se jouent dans l’appropriation et la valorisation des ressources foncières, ainsi que dans la régulation des rapports fonciers. Nous montrons que ces violences servent non seulement d’instrument d’oppression envers certains groupes de populations considérés comme « indésirables », mais aussi qu’elles les maintiennent dans ce que nous nommons une « subalternité foncière ». En prenant appui sur Chakravorty Spivak Gayatri (2005) et Ananya Roy (2011), nous définissons cette dernière comme la mise en place, sur le temps long et par la violence, d’une oppression systémique des citadins les plus pauvres par leur #invisibilisation, leur #criminalisation et l’#informalisation constante de leurs modes d’occupations de l’espace. La #subalternité foncière représente en ce sens une forme d’oppression dont la violence est l’un des dispositifs centraux.

    Cet article s’appuie sur des recherches ethnographiques menées à Phnom Penh et à Sihanoukville, entre 2019 et 2021. Elles comprennent un important travail d’observation, la collecte et l’analyse de documents officiels, de rapports techniques, d’articles de presse et de discours politiques, ainsi que la réalisation de près de soixante-dix entretiens semi-directifs (effectués en khmer principalement, parfois en mandarin, et retranscrits en anglais) auprès d’habitants de Sihanoukville, de représentants territoriaux locaux, d’experts et de membres de groupes criminels. Dans ce texte, le codage des entretiens suit la dénomination suivante : « OF » désigne les employés publics, « EX » des experts ayant une connaissance privilégiée du sujet, « RE » les résidents des zones d’habitat précaire et « F » les acteurs de la criminalité ; le numéro qui suit la lettre est aléatoire et sert à distinguer les personnes ayant répondu à l’enquête ; vient ensuite l’année de réalisation de l’entretien. De nombreux entretiens avec les habitants ont été conduits en groupe.

    https://www.jssj.org/article/violences-et-fabrique-de-la-subalternite-fonciere

    #foncier #Cambodge #Chine #violence

  • « Ils nous volent notre eau » : en Jordanie, la colère monte contre Israël
    https://reporterre.net/Ils-nous-volent-notre-eau-en-Jordanie-la-colere-monte-contre-Israel

    « Israël et l’Amérique sont les vrais terroristes », « Nous choisissons la résistance », « Cessez le génocide », proclament les panneaux tenus par les dizaines de milliers de manifestants en colère, chaque vendredi depuis l’offensive israélienne à Gaza, qui a fait au moins 18 000 morts côté palestinien.

    Ce sont les plus grands cortèges depuis le Printemps arabe de 2011 et un véritable séisme politique pour la Jordanie, réputée être le pays le plus calme et le plus stable de tout le Moyen-Orient. L’une des sources de leur mécontentement : l’eau.

    • A mettre en rapport avec le scandale, qui commence à grossir malgré les démentis véhéments, d’un « pont terrestre » venant se substituer au port d’Eilat désormais fermé par les Houthis...
      https://www.raialyoum.com/%d8%a7%d9%84%d8%a3%d8%b1%d8%af%d9%86-%d9%8a%d9%86%d9%81%d9%8a-%d8%a8%d8%b

      نفى الأردن، السبت، ما سماها “ادعاءات” تتعلق بمرور جسر بري عبر المملكة لنقل البضائع إلى إسرائيل.
      جاء ذلك وفق ما أوردته وكالة الأنباء الرسمية “بترا”، نقلا عن مصادر لم تسمها في وزارتي النقل والصناعة والتجارة.
      وقالت الوكالة: “ما يتم تناقله من أخبار منسوبة لوسائل إعلام عبرية ووسائل تواصل اجتماعي عن وجود جسر بري بديل للبحر الأحمر، عبر موانئ دبي مرورا بالسعودية والأردن، لنقل بضائع إلى إسرائيل لا صحة لها أبدا”.
      وأضافت أن “موقف الحكومة واضح بشأن دعم الأشقاء الفلسطينيين والوقوف إلى جانبهم بكل الوسائل”.
      وعبرت المصادر، وفق الوكالة، عن رفضها لمثل هذه الادعاءات التي تهدف إلى “التشويش على الموقف الأردني الثابت تجاه ما يجري في قطاع غزة من عدوان إسرائيلي”.
      والسبت، تداول نشطاء على مواقع التواصل الاجتماعي أنباء عن “البدء بتشغيل الجسر البري من دبي عبر السعودية والأردن إلى حيفا” وذلك في ظل استهداف جماعة “أنصار الله” اليمنية السفن الإسرائيلية أو المتجهة إلى إسرائيل عبر البحر الأحمر، دعما لفلسطين (في إشارة إلى الحرب الإسرائيلية على قطاع غزة المستمرة منذ 7 أكتوبر/ تشرين الأول الماضي).

  • EN COMMUN ! La propriété collective à l’épreuve de la modernité

    Ce film documentaire est issu d’une recherche pluridisciplinaire menée pendant quatre années, sur différents sites en France, par le Centre de recherche en droit Antoine Favre de l’Université Savoie Mont Blanc. A partir d’une pluralité de points de vue, recueillis lors d’entretiens et témoignages, il rend compte de l’évolution et du fonctionnement de propriétés collectives foncières ancestrales, également connues sous le nom de « #communaux » ou « #biens_communaux ». Il s’intéresse en particulier à deux de ces systèmes singuliers et méconnus présents en zone rurale, notamment en région de #montagne : les #sections_de_commune et les #bourgeoisies. Quels rôles ces #communs_fonciers en mutation jouent-ils aujourd’hui à l’échelle des territoires en matière de gestion des ressources naturelles, de cohésion sociale ou de dynamiques patrimoniales ? En quoi ces systèmes peuvent-ils participer à une revivification originale et pertinente de la démocratie locale ? A rebours de l’idée reçue selon laquelle ils seraient condamnés dans la société moderne, le changement de perception dont ils font l’objet à présent les place-t-ils à l’avant-garde de la résolution de certains problèmes territoriaux ou climatiques du XXIème siècle ? Plus largement, à l’intersection de nombreux enjeux de société, ce film alimente une réflexion sur la redéfinition d’un cadre de vie conciliant progrès, #justice_sociale et préservation de l’environnement.

    https://www.youtube.com/watch?v=BclZKvhpww4

    #propriété_collective #terres #foncier #modernité #communs #commons #communs #documentaire #film_documentaire #film #forêt #bois #droits_d'usage #France #Alpes #montagne #élevage #sol #usage_du_sol #biens_communs #biens_de_section #Etat #Etat_moderne #municipalisation #droit_public #agriculture #tradition #terres #patrimoine #communalisation #spoliation #pâturage #loi_2013 #loi #commissions_syndicales #accaparement_de_terres #privatisation #corvées #éoliennes #2013 #préfecture #avant-garde #anachronisme #ignorance #chasse #legs #responsabilité #devoirs #bourgeoisie #droit_collectif #mécénat #communs_fonciers #valeurs

  • #José_Vieira : « La #mémoire des résistances face à l’accaparement des terres a été peu transmise »

    Dans « #Territórios_ocupados », José Vieira revient sur l’#expropriation en #1941 des paysans portugais de leurs #terres_communales pour y planter des #forêts. Cet épisode explique les #mégafeux qui ravagent le pays et résonne avec les #luttes pour la défense des #biens_communs.

    Né au Portugal en 1957 et arrivé enfant en France à l’âge de 7 ans, José Vieira réalise depuis plus de trente ans des documentaires qui racontent une histoire populaire de l’immigration portugaise.

    Bien loin du mythe des Portugais·es qui se seraient « intégré·es » sans le moindre problème en France a contrario d’autres populations, José Vieira s’est attaché à démontrer comment l’#immigration_portugaise a été un #exode violent – voir notamment La Photo déchirée (2001) ou Souvenirs d’un futur radieux (2014) –, synonyme d’un impossible retour.

    Dans son nouveau documentaire, Territórios ocupados, diffusé sur Mediapart, José Vieira a posé sa caméra dans les #montagnes du #Caramulo, au centre du #Portugal, afin de déterrer une histoire oubliée de la #mémoire_collective rurale du pays. Celle de l’expropriation en 1941, par l’État salazariste, de milliers de paysans et de paysannes de leurs terres communales – #baldios en portugais.

    Cette #violence étatique a été opérée au nom d’un vaste #projet_industriel : planter des forêts pour développer économiquement ces #territoires_ruraux et, par le même geste, « civiliser » les villageois et villageoises des #montagnes, encore rétifs au #salariat et à l’ordre social réactionnaire de #Salazar. Un épisode qui résonne aujourd’hui avec les politiques libérales des États qui aident les intérêts privés à accaparer les biens communs.

    Mediapart : Comment avez-vous découvert cette histoire oubliée de l’expropriation des terres communales ou « baldios » au Portugal ?

    José Vieira : Complètement par hasard. J’étais en train de filmer Le pain que le diable a pétri (2012, Zeugma Films) sur les habitants des montagnes au Portugal qui sont partis après-guerre travailler dans les usines à Lisbonne.

    Je demandais à un vieux qui est resté au village, António, quelle était la définition d’un baldio – on voit cet extrait dans le documentaire, où il parle d’un lieu où tout le monde peut aller pour récolter du bois, faire pâturer ses bêtes, etc. Puis il me sort soudain : « Sauf que l’État a occupé tous les baldios, c’était juste avant que je parte au service militaire. »

    J’étais estomaqué, je voulais en savoir plus mais impossible, car dans la foulée, il m’a envoyé baladé en râlant : « De toute façon, je ne te supporte pas aujourd’hui. »

    Qu’avez-vous fait alors ?

    J’ai commencé à fouiller sur Internet et j’ai eu la chance de tomber sur une étude parue dans la revue de sociologie portugaise Análise Social, qui raconte comment dans les années 1940 l’État salazariste avait pour projet initial de boiser 500 000 hectares de biens communaux en expropriant les usagers de ces terres.

    Je devais ensuite trouver des éléments d’histoire locale, dans la Serra do Caramulo, dont je suis originaire. J’ai passé un temps fou le nez dans les archives du journal local, qui était bien sûr à l’époque entièrement dévoué au régime.

    Après la publication de l’avis à la population que les baldios seront expropriés au profit de la plantation de forêts, plus aucune mention des communaux n’apparaît dans la presse. Mais rapidement, des correspondants locaux et des éditorialistes vont s’apercevoir qu’il existe dans ce territoire un malaise, qu’Untel abandonne sa ferme faute de pâturage ou que d’autres partent en ville. En somme, que sans les baldios, les gens ne s’en sortent plus.

    Comment sont perçus les communaux par les tenants du salazarisme ?

    Les ingénieurs forestiers décrivent les paysans de ces territoires comme des « primitifs » qu’il faut « civiliser ». Ils se voient comme des missionnaires du progrès et dénoncent l’oisiveté de ces montagnards peu enclins au salariat.

    À Lisbonne, j’ai trouvé aussi une archive qui parle des baldios comme étant une source de perversion, de mœurs légères qui conduisent à des enfants illégitimes dans des coins où « les familles vivent presque sans travailler ». Un crime dans un régime où le travail est élevé au rang de valeur suprême.

    On retrouve tous ces différents motifs dans le fameux Portrait du colonisé d’Albert Memmi (1957). Car il y a de la part du régime un vrai discours de colonisateur vis-à-vis de ces régions montagneuses où l’État et la religion ont encore peu de prise sur les habitants.

    En somme, l’État salazariste veut faire entrer ces Portugais reculés dans la modernité.

    Il y a eu des résistances face à ces expropriations ?

    Les villageois vont être embauchés pour boiser les baldios. Sauf qu’après avoir semé les pins, il faut attendre vingt ans pour que la forêt pousse.

    Il y a eu alors quelques histoires d’arrachage clandestin d’arbres. Et je raconte dans le film comment une incartade avec un garde forestier a failli virer au drame à cause d’une balle perdue – je rappelle qu’on est alors sous la chape de plomb du salazarisme. D’autres habitants ont aussi tabassé deux gardes forestiers à la sortie d’un bar et leur ont piqué leurs flingues.

    Mais la mémoire de ces résistances a peu été transmise. Aujourd’hui, avec l’émigration, il ne reste plus rien de cette mémoire collective, la plupart des vieux et vieilles que j’ai filmés dans ce documentaire sont déjà morts.

    Comment justement avez-vous travaillé pour ce documentaire ?

    Quand António me raconte cette histoire d’expropriation des baldios par l’État, c’était en 2010 et je tournais un documentaire, Souvenirs d’un futur radieux. Puis lorsqu’en 2014 un premier incendie a calciné le paysage forestier, je me suis dit qu’il fallait que je m’y mette.

    J’ai travaillé doucement, pendant trois ans, sans savoir où j’allais réellement. J’ai filmé un village situé à 15 kilomètres de là où je suis né. J’ai fait le choix d’y suivre des gens qui subsistent encore en pratiquant une agriculture traditionnelle, avec des outils de travail séculaires, comme la roue celte. Ils ont les mêmes pratiques que dans les années 1940, et qui sont respectueuses de l’écosystème, de la ressource en eau, de la terre.

    Vous vous êtes aussi attaché à retracer tel un historien cet épisode de boisement à marche forcée...

    Cette utopie industrialiste date du XIXe siècle, des ingénieurs forestiers parlant déjà de vouloir récupérer ces « terres de personne ». Puis sous Salazar, dans les années 1930, il y a eu un débat intense au sein du régime entre agrairistes et industrialistes. Pour les premiers, boiser ne va pas être rentable et les baldios sont vitaux aux paysans. Pour les seconds, le pays a besoin de l’industrie du bois pour décoller économiquement, et il manque de bras dans les villes pour travailler dans les usines.

    Le pouvoir central a alors même créé un organisme étatique, la Junte de colonisation interne, qui va recenser les baldios et proposer d’installer des personnes en leur donnant à cultiver des terres communales – des colonies de repeuplement pour résumer.

    Finalement, l’industrie du bois et de la cellulose l’a emporté. La loi de boisement des baldios est votée en 1938 et c’est en novembre 1941 que ça va commencer à se mettre en place sur le terrain.

    Une enquête publique a été réalisée, où tout le monde localement s’est prononcé contre. Et comme pour les enquêtes aujourd’hui en France, ils se sont arrangés pour dire que les habitants étaient d’accord.

    Qu’en est-il aujourd’hui de ces forêts ? Subsiste-t-il encore des « baldios » ?

    Les pinèdes sont exploitées par des boîtes privées qui font travailler des prolos qui galèrent en bossant dur. Mais beaucoup de ces forêts ont brûlé ces dernière décennies, notamment lors de la grande vague d’incendies au Portugal de 2017, où des gens du village où je filmais ont failli périr.

    Les feux ont dévoilé les paysages de pierre qu’on voyait auparavant sur les photos d’archives du territoire, avant que des pins de 30 mètres de haut ne bouchent le paysage.

    Quant aux baldios restants, ils sont loués à des entreprises de cellulose qui y plantent de l’eucalyptus. D’autres servent à faire des parcs d’éoliennes. Toutes les lois promues par les différents gouvernements à travers l’histoire du Portugal vont dans le même sens : privatiser les baldios alors que ces gens ont géré pendant des siècles ces espaces de façon collective et très intelligente.

    J’ai fait ce film avec en tête les forêts au Brésil gérées par les peuples autochtones depuis des siècles, TotalEnergies en Ouganda qui déplace 100 000 personnes de leurs terres pour du pétrole ou encore Sainte-Soline, où l’État aide les intérêts privés à accaparer un autre bien commun : l’eau.

    https://www.mediapart.fr/journal/culture-et-idees/021223/jose-vieira-la-memoire-des-resistances-face-l-accaparement-des-terres-ete-

    #accaparement_de_terres #terre #terres #dictature #histoire #paysannerie #Serra_do_Caramulo #communaux #salazarisme #progrès #colonisation #colonialisme #rural #modernité #résistance #incendie #boisement #utopie_industrialiste #ingénieurs #ingénieurs_forestiers #propriété #industrie_du_bois #Junte_de_colonisation_interne #colonies_de_repeuplement #cellulose #pinèdes #feux #paysage #privatisation #eucalyptus #éoliennes #loi #foncier

  • L’agriculture à la loupe
    https://tagrawlaineqqiqi.wordpress.com/2023/11/30/lagriculture-a-la-loupe

    Il y a mille choses qui m’inquiètent concernant l’avenir de notre #Agriculture, et pouvoir observer la manière dont sont structurées les exploitations ajoute des sujets d’inquiétudes supplémentaires. J’vous explique. Il existe plusieurs statuts possibles pour une exploitation agricole : l’exploitation micro-agricole (ça c’est que des bio débarqués de la ville), équivalent de la micro-entreprise, l’exploitation […]

    #Article #chroniques_agricoles #Ruralité #élevage #campagne
    https://0.gravatar.com/avatar/cd5bf583a4f6b14e8793f123f6473b33bb560651f18847079e51b3bcad719755?s=96&d=

  • Paysans, artisans : ils se battent pour une activité qui respecte les #sans-papiers

    En France, l’association #A4 aide des personnes migrantes à être régularisées en les accompagnant vers une activité agricole ou artisanale. Une démarche à rebours de l’immigration utilitariste prônée par le gouvernement.

    « Le but n’est pas de forcer l’installation, seulement d’ouvrir des portes », explique Habib, membre fondateur et salarié de l’#association_d’accueil_en_agriculture_et_artisanat (A4). Depuis 2022, l’organisation aide les personnes migrantes à être régularisées en les accompagnant dans le développement d’une activité agricole ou artisanale décente. Le tout, en préservant les #terres_agricoles au profit de la #paysannerie. Du 9 au 14 octobre, ses membres étaient réunis à La Demeurée, un lieu de création à Saint-Contest près de Caen (Calvados), pour faire le point sur une année et demie d’activité intense.

    L’association gère depuis mai 2023 une ancienne serre industrielle de 3 000 mètres carrés à Lannion (Côtes-d’Armor), mise à disposition par un agriculteur retraité. Omar [], originaire du Soudan, Marie [], Congolaise, et Uma Marka [*], venue d’Amérique du Sud, ont pu y lancer des expérimentations pour la culture de plantes exotiques et tropicales : cacahuètes, gingembre, pastèques, melons, ananas, dattes, etc. Mais l’avenir de cette ferme reste incertain, alors qu’un nouveau PLU est prévu pour 2025.

    « Soit la mairie décide de rendre la parcelle constructible et les serres seront détruites ; soit la parcelle reste agricole et d’autres perspectives peuvent s’ouvrir pour ce lieu », explique Marie. Pour éviter l’artificialisation de ces terres, l’association travaille sur d’autres projets : un #fournil_mobile pour vendre du pain et organiser des ateliers sur le levain, un atelier de #réparation_de_vélos, un lieu de rencontre pour les associations et collectifs locaux. Reste à savoir si cela suffira à faire pencher la balance. « C’est le même problème dans toute la #Bretagne : les terres se vendent à des prix affolants », soupire Tarik, membre fondateur d’A4.

    Outre Lannion, d’autres lieux ont été prospectés dans le #Limousin, en région Provence-Alpes-Côte-d’Azur, dans les départements de l’#Isère et de la #Drôme et à #Saint-Affrique, dans l’Aveyron. Un sixième « voyage-enquête » est prévu en Ariège en 2024. L’objectif est de « faire émerger un réseau de fermes et d’artisans complices » qui pourraient accueillir et embaucher les exilés dans de bonnes conditions, explique Gaël Louesdon, membre du collectif #Reprise_de_terres, qui conseille A4 dans sa recherche de #foncier_agricole.

    Au-delà, ces voyages sont des moments de « découverte des luttes en milieu agricole », insiste Marie. Logique, alors que l’idée de l’association est née dans le cadre des rencontres Reprise de terres, au printemps 2021 sur la zad de Notre-Dame-des-Landes.

    Cette démarche s’inspire des premières enquêtes ouvrières des XIXᵉ et XXᵉ siècles, basées sur des questionnaires remplis par les ouvriers eux-mêmes. Ces dernières visaient à améliorer les conditions de travail en dénonçant le capitalisme, le productivisme et l’exploitation ouvrière. « Seuls les travailleurs connaissent leurs conditions. Et quand on mène une enquête sur ses conditions de vie, on les transforme », explique Paul, membre de l’association et du collectif d’enquêtes militantes Strike.

    En parallèle, l’association travaille sur un guide juridique à destination des personnes migrantes et des artisans et agricultures qui souhaitent les aider. Ce gros projet devait occuper une bonne partie de la réunion de l’association à Caen.

    Savoir-faire et aspirations

    L’objectif est double. D’une part, lutter contre l’#accaparement_des_terres agricoles par l’agro-industrie, qui mobilise « la violence mais aussi les outils juridiques et le droit existants », selon Gaël Louesdon. Mais aussi respecter les savoir-faire et les aspirations des personnes exilées, à l’heure où le gouvernement favorise une « optique utilitariste » de l’immigration, insiste Élise Costé, juriste spécialisée en droit des étrangers et salariée de l’antenne caennaise de l’association de solidarité pour tous les immigrés (Asti).

    De fait, dans le projet de loi asile et immigration, dont l’examen commence ce lundi 6 novembre au Sénat, l’exécutif veut permettre aux #travailleurs_sans-papiers présents sur le territoire depuis trois ans d’obtenir un titre de séjour « métiers en tension » valide un an — une proposition rejetée avec vigueur par la droite et l’extrême droite.

    Cette dérive alimente, selon A4, des scandales d’embauche de travailleurs sans-papiers dans des conditions indignes. « Il faut casser la tentation de l’#agro-industrie d’exploiter des gens », plaide Tarik, qui évoque les entreprises bretonnes #Aviland et #Prestavic, respectivement poursuivies et condamnées pour traite d’êtres humains — en l’occurrence, de dizaines de travailleurs migrants sans-papiers.

    Pour toutes ses actions, l’association cultive l’#entraide et prône une organisation « d’égal à égal », sans distinction entre les aidants et les aidés. Parmi le noyau dur des dix membres les plus actifs d’A4, certains sont passés d’un statut à l’autre, comme Awad, garagiste à Paris devenu chauffeur pour les voyages-enquêtes, Amine, qui développe un projet d’agriculture et de vie en collectif avec des amis, ou encore Habib, soudeur spécialisé dans les fours à pain qui aspire à devenir écrivain. Une approche réparatrice pour des membres souvent éprouvés par leurs expériences passées. « Ça soigne les blessures, sourit Habib. Si ça continue comme ça, on peut changer le monde ! »

    https://reporterre.net/Paysans-artisans-ils-se-battent-pour-une-activite-qui-respecte-les-sans-
    #travail #régularisation #artisanat #agriculture #France #industrie_agro-alimentaire #conditions_de_travail

  • À #Volvic, #Danone accusée d’assécher les ruisseaux pour produire 7 millions de bouteilles plastiques d’eau par jour | La Relève et La Peste
    https://lareleveetlapeste.fr/a-volvic-danone-accusee-dassecher-les-ruisseaux-pour-produire-7-mi

    “Dans ce contexte précis, l’argument du changement climatique est inadapté”, avance le chercheur, chiffres à l’appui : “Entre 1971 et 1999, la pluviométrie moyenne était de 755 millimètre par an. Entre 1999 et 2018, elle était était de 751 millimètre par an. Elle était donc quasi-identique, alors même que le débit des sources a été divisé par 8 et que les prélèvements de la #SEV ont, eux, été multipliés par dix en 40 ans. Et avec tout ça, on voudrait nous faire croire que les prélèvements d’eau par Danone n’y sont pour rien ?”

    Face à cette situation, les demandes de l’association Preva sont claires : en premier lieu, baisser drastiquement les prélèvements de la SEV.

    “Ces prélèvements sont actuellement bien supérieurs à la capacité de renouvellement de la ressource, détaille Sylvie De Larouzière. Ça ne peut plus durer, sachant que le fait même d’embouteiller dans des bouteilles en plastique, qui sont en plus ensuite vendues majoritairement à l’étranger, c’est vraiment un système de l’ancien monde…”

    #eau

  • La « malédiction de l’or » : une tragédie préméditée - Centre tricontinental
    https://www.cetri.be/La-malediction-de-l-or-une

    Riches en ressources minérales, les terres indigènes au Brésil attisent les convoitises, à l’exemple du Territoire Yanomami dans l’État amazonien du Roraima. Sous la présidence de Jair Bolsonaro, les orpailleurs clandestins y ont multiplié les incursions, les abus contre les communautés et les atteintes à l’environnement. Si le retour au pouvoir de Lula marque un répit pour les communautés indigènes, les évolutions politiques internes et la demande croissante en métaux dits « critiques », nécessaires à notre transition énergétique, risquent de relancer de plus belle la course prédatrice à la ressource dans leur territoire.

    #Or #métaux_rares #Amazonie #Accaparement

  • #Propriété_collective des #terres : « Des espaces de résistance face à l’agriculture industrielle et capitaliste »

    basta ! : Dans le secteur agricole, on compte seulement une installation pour deux à trois cessations d’activité, alors qu’un agriculteur sur quatre doit partir à la retraite d’ici 2030. L’accès à la terre est-il le frein principal à l’activité agricole en France ?

    Tanguy Martin : L’accès à la terre est clairement un frein, économique d’abord. La terre, selon les régions, peut coûter assez cher. S’y ajoutent les coûts des bâtiments, du cheptel, des machines, dans un contexte où les fermes n’ont cessé de grandir en taille depuis la fin de la Seconde Guerre mondiale.

    Il y a aussi un principe de défiance : c’est plus facile de vendre ses terres, ou de les louer à son voisin qu’on connaît depuis très longtemps, qu’à quelqu’un qu’on ne connaît pas, qui peut vouloir faire différemment, non issu du territoire... Or, 60 % des gens qui veulent s’installer aujourd’hui ne sont pas issus du milieu agricole. Les freins administratifs se combinent à ce parcours du combattant.

    Aujourd’hui l’accès à la terre se fait par le marché : les terres sont allouées aux gens capables de rentabiliser une ressource, et pas forcément aux gens capables de nourrir un territoire ou de préserver un environnement.

    À partir de quel moment la terre agricole est-elle devenue une marchandise ?

    Jusqu’à la fin de la Seconde Guerre mondiale, la terre est restée un bien de prestige et de pouvoir à travers lequel on maîtrise la subsistance de la population. Mais après 1945, l’agriculture est entrée dans le capitalisme : on commence à faire plus de profit avec la terre et la production de nourriture, voire à spéculer sur le prix de la terre.

    La terre est même depuis devenue un actif financier. Aujourd’hui, les sociétés dites à capitaux ouverts (financiarisées), dont le contrôle peut être pris par des non-agriculteurs, ont fait main basse sur 14 % de la surface agricole utile française. C’est plus d’une ferme sur dix en France [1]. Le phénomène a doublé en 20 ans !

    Peut-on vraiment parler de spéculation sur les terres en France alors même que le prix stagne en moyenne à 6000 euros par hectare depuis plusieurs années ? Il est quand même de 90 000 euros par hectare aux Pays-Bas !

    Depuis quelques années, le prix de la terre stagne et on pourrait en conclure qu’il n’y a pas de spéculation. En réalité, le prix de la terre a globalement augmenté en France sur les 20 dernières années.

    Actuellement, ce prix augmente dans certaines régions et baisse dans d’autres. Les endroits où l’on peut spéculer sur la terre sont globalement ceux où l’agriculture s’est industrialisée : les zones céréalières dans le centre de la France, de betteraves en Picardie, de maïs dans le Sud-Ouest... Là, le prix de la terre continue à augmenter.

    En revanche, il y a des endroits en déprise, notamment les zones d’élevage comme le Limousin, où le prix de la terre peut baisser. Les prix augmentent aussi à proximité des villes et des zones touristiques, où la terre risque de devenir constructible.

    En France, ce sont les Sociétés d’aménagement foncier et d’établissement rural (Safer) qui sont en charge de réguler le marché des ventes des terres agricoles. Elles sont très critiquées. Que faut-il faire de ces organisations ?

    Les Safer ont participé à limiter les inégalités d’accès à la terre et un prix de la terre relativement bas en France. C’est vrai, même s’il y a d’autres explications aussi, comme la plus faible valeur ajoutée produite par hectare en France.

    Pour autant, les Safer doivent encore évoluer pour pouvoir répondre aux enjeux alimentaires et agricoles du 21e siècle, il faut arriver à démocratiser leur gouvernance. Celles-ci restent aujourd’hui très liées aux décisions du syndicalisme majoritaire (de la FNSEA, ndlr). Les Safer doivent aussi devenir plus transparentes. Actuellement, les réunions de décision se tiennent à huis clos : c’est censé protéger les gens qui prennent les décisions pour qu’ils soient éloignés de certaines pressions, mais cela crée une opacité très délétère pour l’institution.

    Un autre élément à revoir, c’est la façon dont on fixe les objectifs politiques des Safer. Ces dernières, quand elles achètent une terre, doivent la revendre à la personne qui répond aux objectifs politiques qui sont notamment fixés dans des documents nommés « schémas directeurs régionaux des exploitations agricoles ».

    Ces documents, écrits par l’État et validés par arrêté préfectoral, décrivent quel type d’agriculture vont viser les Safer et d’autres instances de régulation foncière. Or, ces documents, du fait que le syndicat majoritaire est largement consulté, défendent plutôt la prolongation de l’agriculture vers son industrialisation. Il y a donc un enjeu à ce que ces documents soient écrits pour défendre une agriculture du 21e siècle qui défend l’agroécologie, et des paysannes et paysans nombreux sur les territoires. À ces conditions-là, il n’y a pas de raison de vouloir se passer des Safer.

    Le fait que nous ayons un système qui alloue la terre, non pas en fonction de l’offre et de la demande, mais en vertu d’un projet politique censé répondre à l’intérêt général, est un trésor inestimable en France qu’il faut absolument garder.

    En creux de votre ouvrage se pose la question du rapport à la propriété. Est-il possible de dépasser le modèle du paysan propriétaire ?

    Sur le principe, rien ne justifie le fait qu’à un moment, une personne ait pu dire « cette terre m’appartient ». La terre étant à la fois un lieu d’accueil du vivant et le lieu où l’on produit la nourriture, on peut estimer que la propriété de la terre doit être abolie. Sauf que, dans une société très attachée à la propriété privée, cela paraît utopique.

    Prenons donc le problème d’une autre façon, et voyons ce qu’on peut déjà faire à court terme. Il faut avoir en tête que les agriculteurs ne sont pas majoritairement propriétaires des terres qu’ils travaillent : 60 % de cette surface est louée dans le cadre du fermage. Il y a même des paysan·nes qui décident parfois de ne pas acheter la terre et préfèrent la louer pour éviter de s’endetter.

    D’autre part, on dispose d’une régulation foncière selon laquelle la terre n’est pas une marchandise comme les autres et ne doit pas être uniquement dirigée par le marché. Ces mécanismes juridiques permettent à l’État, aux collectivités locales et aux syndicats agricoles, de définir ensemble qui va accéder à la terre indépendamment du fait que ces personnes soient riches ou pas.

    On a là un embryon qui pourrait faire imaginer un droit de l’accès à la terre en France institué en commun. Il faut renforcer et orienter ces mécanismes – qui ont plein d’écueils ! – vers des enjeux d’alimentation, d’emploi, d’environnement... Chercher à démocratiser la question de l’accès à la terre et « le gouvernement des terres », c’est à la fois une capacité à se prémunir des effets mortifères du capitalisme, et cela permet de penser comment on pourrait gérer les terres autrement.

    Le capitalisme n’est pas une fatalité : il y a d’autres manières d’être au monde, de produire de l’alimentation, de vivre, de sortir d’un monde où le but n’est que la recherche du profit. C’est comme quand on milite pour la sécurité sociale de l’alimentation : la Sécurité sociale en 1946 n’a pas renversé le capitalisme, mais elle a créé des espaces de répits face au capitalisme, extrêmement importants pour que les gens vivent bien et envisagent de transformer la société.

    Le livre dresse un panorama des organisations qui travaillent au rachat des terres pour les mettre à disposition de paysan·nes répondant à des critères socio-environnementaux, avec des règles transparentes d’attribution de l’accès au foncier. Les surfaces acquises restent toutefois modestes. Peut-on uniquement compter sur ce type d’initiatives ?

    Les gens qui s’intéressent à la terre aujourd’hui ont bien compris qu’on n’allait pas abolir la propriété privée demain. Ils ont aussi compris que s’ils voulaient expérimenter d’autres manières de faire de l’agriculture et de l’alimentation, il fallait accéder à la propriété des terres.

    L’idée de la propriété collective, ce n’est pas l’abolition de la propriété privée, mais que des gens se mettent ensemble pour acheter de la terre. C’est ce que fait Terre de Liens en louant ensuite la terre à des paysan·nes qui mettent en œuvre des projets répondant aux enjeux de société, d’emploi, d’environnement, d’entretien du territoire... Mais c’est aussi ce que font d’autres structures de propriété foncière – la Société civile des terres du Larzac, la Terre en commun sur la Zad de Notre-Dame des Landes, Lurzaindia dans le Pays basque, la foncière Antidote, et bien d’autres.

    Tout un tas de gens essaient d’acheter des terres pour en faire des espaces de résistance face à l’agriculture industrielle et capitaliste. Cela permet d’imaginer d’autres rapports à la propriété. Ce sont des lieux d’expérimentation très importants pour susciter de nouveaux imaginaires, apprendre à faire autrement, créer de nouvelles manières d’être au monde.

    Le problème de ces lieux-là, c’est qu’ils ne peuvent pas permettre un changement d’échelle. Cela ne peut pas être la solution de sortie des terres du capitalisme. Comme elles n’abolissent pas la propriété, s’il fallait racheter toutes les terres, cela coûterait des centaines de milliards d’euros.

    Par ailleurs, ces terres ne sont pas à vendre à court terme – une terre se vend en moyenne tous les 75 ans. D’où la nécessité de faire à la fois des expérimentations de propriété collective, tout en ravivant la question de la régulation foncière pour sortir l’agriculture du capitalisme.

    En quoi la lutte de Notre-Dame des Landes, victorieuse en 2018, a reconfiguré les luttes, notamment anticapitalistes, autour des terres ?

    La question agricole et foncière, en France et même en Europe, était très peu investie par les milieux anticapitalistes. L’activisme des gens qui vont s’installer dans la Zad, les coopérations menées avec des syndicats agricoles comme la Confédération paysanne, ont – non sans débats houleux et conflits internes – mené à une lutte assez exemplaire sur un territoire.

    La répression peut être énorme, mais la capacité de résistance aussi. Cette lutte a produit des façons de faire sur le territoire – en termes d’habitat, d’agriculture collective, de vivre ensemble – inspirantes pour toute une génération militant contre le néolibéralisme et le capitalisme. Beaucoup de milieux politiques aujourd’hui parlent de subsistance, d’alimentation, de terres.

    Notre-Dame des Landes marque aussi le fait qu’avec de moins en moins d’agriculteurs dans la société (2,5 % des gens sont des travailleurs de la terre dont 1,9 % sont des agriculteurs au sens légal), les enjeux agricoles ne peuvent être uniquement du ressort des luttes paysannes. La centralité de ces luttes doit être partagée avec d’autres types d’acteurs politiques, notamment des gens qui habitent le territoire sans être forcément paysans.

    La dynamique des Soulèvements de la Terre est-elle un prolongement de Notre-Dame des Landes ?

    En effet, il me semble que Notre-Dame-des-Landes est une inspiration forte de la pensée qui s’agrège autour des Soulèvements, mouvement riche de sa pluralité. Les Soulèvements montrent que les espoirs nés de l’expérimentation à Notre-Dame-des-Landes sont possibles partout et qu’il va falloir faire différemment dans tous les territoires – chaque endroit ayant ses spécificités.

    Les questions de rapport à la terre ont aussi émergé dans l’espace politique des années 1990, avec les luttes au Chiapas, au Mexique, qui continuent d’inspirer les milieux politiques en Europe et en France. Cette circulation des imaginaires de luttes permet de penser des mondes différemment. Les Soulèvements arrivent à fédérer de manière assez importante et repolitisent très clairement ces questions de la terre. Ils portent ces questions sur tous les territoires qui ont envie de s’en emparer en disant : « C’est possible aussi chez vous ».

    Peut-on sortir l’agriculture du capitalisme ? Pour Tanguy Martin, auteur de Cultiver les communs, il faut combiner les expérimentations de propriété collective tout en s’attachant à la régulation foncière.

    https://basta.media/Propriete-collective-des-terres-des-espaces-de-resistance-face-a-l-agricult
    #agriculture #résistance #capitalisme #accès_à_la_terre #terre #financiarisation #spéculation #Sociétés_d’aménagement_foncier_et-d’établissement_rural (#Safer)

  • Accaparement des terres : en Bretagne, des empires agricoles s’étendent à l’abri des regards | Mediapart
    https://www.mediapart.fr/journal/economie-et-social/120923/accaparement-des-terres-en-bretagne-des-empires-agricoles-s-etendent-l-abr

    Combien de groupes agricoles détiennent et exploitent plus de 1 000 hectares en Bretagne ?

    Splann a posé la question à la Safer de Bretagne : « Nous n’en savons rien. » Splann a posé la question à la direction départementale des territoires et de la mer (DDTM) des Côtes-d’Armor : « Nous ne disposons pas du nombre d’exploitants qui possèdent et/ou exploitent plus de 1 000 hectares, et nous n’en avons jamais vu dans les demandes d’autorisation d’exploiter. » Nous avons posé la question à la direction régionale de l’alimentation, de l’agriculture et de la forêt (Draaf) : « Les informations sur la surface agricole dont nous disposons sont celles qui sont comptabilisées au siège de l’exploitation. Au regard de ces éléments, toutes les exploitations bretonnes sont bien en deçà de 1 000 hectares de surface agricole utile. »

    Les services de l’État se refusent à évaluer et à quantifier ces « groupes agricoles ». Impossible alors de lutter réellement contre l’accaparement des terres, pourtant affiché comme un objectif prioritaire.

  • Wounded Knee Occupation 1973
    https://libguides.snhu.edu/c.php?g=1184812&p=8902710

    According to the Salem Press Encyclopedia ...:

    The tiny hamlet of Wounded Knee, the site at which more than two hundred Sioux and others were massacred in 1890, became a symbolic site again as members of the American Indian Movement (AIM) occupied the site during 1973. They quickly were confronted by armored troops and police.

    The seventy-one-day occupation of Wounded Knee began on February 28, 1973. On March 11, 1973, AIM members declared their independence as the Oglala Sioux Nation, defining its boundaries according to the Treaty of Fort Laramie, signed in 1868. At one point, federal officials considered an armed attack on the camp, but the plan ultimately was discarded. Dennis Banks and Russell Means, AIM’s best-known leaders, stated that they would hold out until the U.S. Senate Foreign Relations Committee had reviewed all broken treaties and the corruption of the BIA had been exposed to the world. After much gunfire and negotiation, AIM’s occupation of Wounded Knee ended on May 7, 1973.

    Wounded knee occupation This link opens in a new window

    Johansen, B. E. (2022). Wounded Knee occupation. Salem Press Encyclopedia.

    Primary Sources
    ...
    This primary source provides a firsthand account of Owen Luck, a photojournalist who was present at the occupation of Wounded Knee. He details the event in a visceral and impactful way, describing his engagement with the Lakota people and his experience throughout the event. Click on the link above to access the document.

    A Witness at Wounded Knee, 1973 This link opens in a new window

    Luck, O. (2006). A Witness at Wounded Knee, 1973. The Princeton University Library Chronicle, 67(2), 330-358. https://doi.org/10.25290/prinunivlibrchro.67.2.0330

    The following article is an interview with Delbert Eastman, the Bureau of Indian Affairs police chief at the time of the occupation. It provides a detailed account of the various players in the event and gives a local take on the seige.

    A Tribal Policeman’s Observations of Pine Ridge Reservation (1973) This link opens in a new window

    Reinhardt, A. D. (Ed.). (2015). A Tribal Policeman’s Observations of Pine Ridge Reservation (1973). In Welcome to the Oglala Nation: A Documentary Reader in Oglala Lakota Political History (pp. 178–179). University of Nebraska Press. https://doi.org/10.2307/j.ctt1d9nhjk.56

    Below is the image of a flyer used to rally protesters to the cause of taking back Wounded Knee.

    Prevent a 2nd massacre at Wounded Knee : show your solidarity with the Indian nations This link opens in a n

    American Indian Movement. (1973). Prevent a 2nd massacre at Wounded Knee: Show your solidarity with the Indian nations [Digital Image]

    #USA #histoire #insigènes #american_indians #génocide #accaparement_des_terres

  • La #propriété_foncière, une fiction occidentale

    Dans la région de la #Volta, la #propriété du #sol n’existe pas, la terre n’est pas l’objet de transactions marchandes mais de #partages. D’où vient alors que, dans nos sociétés, nous considérions comme parfaitement légitime ce droit à s’approprier une partie du territoire ?

    #Danouta_Liberski-Bagnoud propose ici un ouvrage d’anthropologie qui entend produire une réflexion générale sur ce que l’on a pris l’habitude d’appeler en sciences sociales, que ce soit en géographie, en anthropologie générale ou en sociologie, « l’#habiter », notion qui renvoie à la façon dont les sociétés se rapportent à l’espace et y composent un monde. Cette notion permet d’éviter toute forme de caractérisation trop précise du rapport des êtres humains à leur lieu de vie.

    On comprend assez vite que ce qui intéresse l’auteure est de mettre en question la centralité et l’universalité de l’#appropriation_privative et des fonctionnements de #marché qui se sont imposées au monde entier à partir des pays industrialisés façonnés par les pratiques commerçantes. Bien qu’elle s’appuie sur les données ethnologiques recueillies sur son terrain, la #région_de_la_Volta (fleuve qui traverse le Burkina-Faso, le Ghana, le Mali, le Bénin, la Côte d’Ivoire et le Togo), l’auteure propose une réflexion large sur la propriété foncière et, plus généralement, sur le rapport que les sociétés humaines entretiennent avec la terre.

    L’essentiel de sa thèse consiste à contester à la fois les institutions internationales dans leur effort pour imposer la #propriétarisation des #terres au nom d’une conception occidentalo-centrée du #développement, et ceux qui parmi les anthropologues ont pu chercher des formes de propriété dans des communautés humaines où ce concept n’a, en réalité, aucune signification. Elle nous invite ainsi, par la comparaison des pratiques, à une réflexion sur nos tendances ethnocentriques et à penser d’autres types de rapport avec la terre que le rapport propriétaire.

    L’ordre dévastateur du marché

    L’auteure montre que les perspectives de #développement_économique par la propriétarisation et la #marchandisation du #foncier telles qu’elles ont pu être portées par les institutions internationales comme la #Banque_mondiale, loin d’aboutir aux perspectives d’amélioration souhaitées, ont conduit plutôt à une forme de « #deshabitation du monde » :

    "Le forçage en terre africaine de la #propriété_privée (autrefois dans les pas de la colonisation, aujourd’hui dans ceux de l’#accaparement_des_terres, de l’#agro-business et de la #spéculation) emporte avec lui toute la violence du rapport déterritorialisé au sol qu’édicte le concept même de propriété privée." (p. 144)

    On peut faire remonter les racines de l’idéologie qui justifie ces politiques à la période moderne en Europe avec #John_Locke qui développa une nouvelle conception de la propriété, les physiocrates qui firent de la terre la source de la richesse et enfin avec le développement de l’#économie_capitaliste qui achève de constituer la terre en une « simple marchandise » (p. 49).

    Dans ce cadre, la thèse de l’anthropologue Alain Testart fait notamment l’objet d’une longue discussion. Celui-ci entendait montrer, contre la croyance défendue par Morgan, par exemple, dans l’existence d’un #communisme_originel, que la plupart des sociétés traditionnelles connaissaient des formes d’appropriation privative et d’aliénation des terres. L’auteure montre, au contraire, que le concept même de propriété est absent des terrains qui sont les siens et qu’interpréter l’habiter des populations de l’aire voltaïque sous le prisme de la propriété privée revient à trahir et à travestir la façon dont elles vivent et parlent de leur rapport à l’espace et à la terre. En réalité, « il ne fait aucun doute que le rapport au sol d’une communauté villageoise [de cette région] est fondé sur le #partage (et le don) de la terre et l’interdit de la vendre » (p. 189). Aussi, face au « forçage du concept moderne de propriété privée » (p. 111), qui est largement le fait d’une approche occidentalo-centrée, l’auteure propose de faire entendre la voix alternative des sociétés voltaïques.

    Le conflit des fictions fondatrices

    Plus généralement, l’auteure reproche à bien des anthropologues d’avoir tendance à projeter des représentations qui leur appartiennent sur les sociétés qu’ils étudient. Pensons aux notions d’animisme ou de perspectivisme qui sont appliquées aux sociétés non européennes, alors même que ces notions ne sont pas endogènes. Y compris les anthropologues qui discutent et relativisent les catégories occidentales comme l’opposition nature-culture continuent de leur accorder un rôle structurant, quand ils cherchent, dans les sociétés non européennes, la façon dont celles-ci se dessinent d’une tout autre manière.

    Au contraire, une approche comparatiste qui englobe nos représentations « conduit au ras des mots et des gestes, dans le détail des pratiques rituelles et ordinaires […] permet le décentrement épistémologique à l’encontre de la métaphysique occidentale » (p. 94). Il s’agit de revenir aux modes d’habiter pour ce qu’ils sont en les comparant aux nôtres, mais sans jamais les confondre, afin de ne pas en biaiser l’analyse par l’usage de concepts qui leur seraient extérieurs et les feraient voir à partir de fictions fondatrices qui ne sont pas les leurs.

    Dans ce cadre méthodologique, le droit de propriété privée foncière relève, selon l’auteure, des fictions juridiques fondatrices proprement occidentales qui ont été importées dans les pays africains avec la colonisation. Or ceux qui voient la terre comme quelque chose qui serait disponible à l’appropriation privative n’ont pas conscience « qu’il s’agit d’une fiction, bien étrange en réalité, car de toute évidence, un terrain n’est pas un objet qui circule, mais un espace indéménageable » (p. 153). Une telle fiction permet de faire comme s’il était possible de séparer un pan de territoire de l’ensemble auquel il appartient, et de le faire circuler par l’échange marchand. Or « la #fiction_économique de la terre marchandise, source de profits financiers, ainsi que la #fiction_juridique d’une terre comme bien privatisable qui est venue la renforcer et la relayer, font assurément figure d’étrangeté hors de la matrice symbolique qui les a engendrées » (p. 260).

    L’existence des fictions juridiques fondatrices manifeste le fait que dans toutes les sociétés « la réalité succombe pour être reconstruite de façon légale » (p. 142). Ainsi « l’agir rituel façonne la réalité, il la (re)construit d’une façon légale, bref, il l’institue » (p. 142). Le monde du rite, comme le monde légal fait « comme si » la réalité était le décalque fidèle de la représentation que l’on s’en fait, alors qu’elle n’en est que l’ombre projetée. Or, comme Polanyi l’a déjà montré, la propriété privée de la terre est une fiction fondatrice des sociétés de marché, mais n’a rien d’universel. À l’inverse, les sociétés de l’aire voltaïque disposent de leurs propres fictions pour déterminer leur rapport à la terre ; or « rares sont les études sur le foncier qui ne recourent pas à des modèles, des théories et des concepts forgés dans l’histoire sédimentée des sociétés occidentales pour analyser les ‘pratiques’ du Sud, en les détachant des systèmes de pensée qui les pénètrent » (p. 210).

    La souveraineté d’une terre inappropriable

    Aussi l’auteure reproche-t-elle à beaucoup d’anthropologues qui ont travaillé sur les sociétés africaines d’avoir projeté des représentations fabriquées en occident sur les sociétés qu’ils étudiaient et aux institutions internationales d’imposer comme une vérité universelle ce qui n’est qu’une fabrication particulière.

    Pour contrer ces tendances théoriques et politiques, l’auteure se concentre sur la figure des « #gardiens_de_la_Terre » qui sont des dignitaires dont le rôle est de délimiter et d’attribuer des terrains aux familles. Du fait du pouvoir qui est le leur, certains ont voulu décrire cette institution dans le cadre des fictions juridiques européo-centrées en les présentant comme des souverains modernes ou des propriétaires éminents à l’image des seigneurs médiévaux. Face à cela, Danouta Liberski-Bagnoud montre que ces « gardiens de la Terre » n’en sont ni les propriétaires ni les souverains, ils sont, en réalité, garants de son #inappropriabilité et, ce faisant, sont au service de sa #souveraineté propre :

    "Dans les sociétés voltaïques […], les hommes n’exercent aucune souveraineté sur la Terre, mais ils sont les sujets de la souveraineté que la Terre exerce sur eux. La Terre n’appartient à personne d’autre qu’à elle-même, nul organe supérieur ne la commande, sa souveraineté ni ne se délègue ni ne se partage entièrement. Cette fiction que construisent les rites et les mythes fonde le régime de partage de la terre. Partage éphémère, non inscrit dans la durée d’un rapport de force, qui tient la durée d’une vie humaine, et répond ainsi à un principe d’#équité, car il empêche toute entreprise qui viserait à l’accumulation de portions de terre, au détriment du reste de la collectivité." (p. 321)

    Cependant, il faut se garder de faire de la Terre une souveraine au sens occidental d’une personnalité juridique qui pourrait imposer sa volonté en dernière instance, parce que ce n’est pas une personne.

    La Terre n’est ni une personne ni un bien (p. 285). Dans les sociétés voltaïques, la Terre est la source intarissable de la vie dans laquelle toute vie doit trouver sa place, et c’est en ce sens qu’elle exerce son pouvoir sur les hommes. La Terre apparaît comme l’instance qui anime le rapport aux espaces qu’elle contient : le village, la brousse, les lieux sacrés, la délimitation de nouveaux espaces voués à la culture sont autant de lieux qui ne peuvent exister qu’avec l’accord de la terre. Le rôle des « gardiens de la Terre » est alors d’assurer l’#harmonie entre l’ordre de la Terre et ceux qui veulent y trouver place. La Terre, dans ce cadre, ne saurait être un bien, elle « n’appartient qu’à elle-même » et son inappropriabilité apparaît comme « la condition d’un mode de l’habiter en commun » (p. 374-375).

    Cette #représentation éloignée de la fiction juridique d’une terre envisagée comme un bien séparable du territoire auquel elle appartient dépend de « la fiction rituelle qui construit la terre comme si elle était la figure de l’autorité suprême, garante du noyau des interdits fondamentaux qui permettent aux sociétés de tenir ensemble » (p. 327-328). En ce sens, la Terre, conçue comme une instance, supporte, ordonne et fait vivre le corps commun de la société et doit être distinguée de la terre conçue comme un simple fonds ; la deuxième est incluse, dépend et ne peut être comprise sans la première. Cette distinction permet ainsi d’opérer un retour critique sur notre civilisation qui aurait ainsi oublié le souci de la Terre dans des fictions qui poussent au contraire à des processus qui favorisent la #déshabitation.

    Le geste théorique comparatiste qu’opère Danouta Liberski-Bagnoud permet de prendre un peu de distance à l’égard de nos représentations en nous montrant qu’il peut exister des rapports à la terre sans propriété privée. Ces autres formes de l’habiter produisent d’autres manières de s’approprier la terre non captatrices et ouvertes sur le #commun. Ce faisant, le geste théorique opéré dans l’ouvrage permet de réfléchir, sous un angle anthropologique, à la notion de fiction juridique beaucoup travaillée en droit, en exhibant ce que nos institutions contiennent d’artifices à la fois factices et producteurs de réalité sociale. Il met ainsi en évidence ce que Castoriadis avait nommé l’institution imaginaire des sociétés. Sur ce plan l’ouvrage, dont bien des formulations sont très évocatrices, revêt toute sa pertinence. Il permet d’ouvrir les horizons d’un autre rapport possible à la Terre sans pour autant laisser croire que les sociétés voltaïques seraient plus authentiques ou plus proches de la nature. Elles entretiennent seulement un rapport autre à la nature qui n’a pas besoin du mythe de la #domination du monde et des choses et qui ne la réduit pas à un ensemble de ressources utiles à exploiter. Le grand intérêt de l’ouvrage réside dans l’usage spéculatif qui est fait de la comparaison étroitement menée entre le rapport occidental à une terre de plus en plus déshabitée avec les formes de l’habiter des peuples de la Volta. Il y a, certes, un risque d’idéalisation, mais, à l’issue de la lecture, on se dit qu’à l’aune des résultats spéculatifs qu’il permet d’obtenir, il mérite d’être couru.

    https://laviedesidees.fr/Liberski-Bagnoud-souverainete-terre
    #livre

    • La Souveraineté de la Terre. Une leçon africaine sur l’habiter

      Les sociétés industrielles ne peuvent plus aujourd’hui s’ériger en modèle de développement. Avant même de détruire, pour l’ensemble des peuples, les équilibres environnementaux, elles se sont engagées dans une forme de déshabitation du monde qui compromet le maintien des formes humanisées de la vie. Sur cette question fondamentale, les systèmes de pensée qui ont fleuri au Sud du Sahara nous apportent un éclairage indispensable – et des pistes de réflexion. Ils nous offrent une leçon précieuse sur une notion marginalisée dans le Droit occidental, mais centrale dans ces systèmes  : l’inappropriable.
      La Terre y est en effet placée hors de tout commerce. Envisagée comme une instance tierce, libre et souveraine, garante des interdits fondamentaux, elle n’appartient qu’à elle-même. Forgée au creuset du rite, cette conception organise toute la vie de la communauté et le partage du sol. Elle est par là même contraire à nos fictions juridiques et économiques qui permettent d’agir comme si la terre était une marchandise circulant entre propriétaires privés, et qui ont pour effet de nous déterritorialiser. Aussi, elle permet un autre mode d’habiter le monde. Cet ouvrage entend montrer quelques voies offertes par des sociétés africaines pour repenser le rapport à la Terre et redonner dès lors un futur aux générations à venir.

      https://www.seuil.com/ouvrage/la-souverainete-de-la-terre-danouta-liberski-bagnoud/9782021515572

  • Il costo nascosto dell’avocado e le nuove “zone di sacrificio” nelle mire dei grandi produttori

    La produzione globale del frutto viaggia verso le 12 milioni di tonnellate nel 2030. Le monocolture intensive interessano sempre più Paesi, compromettendo falde e biodiversità. Dalla Colombia allo Sri Lanka, dal Vietnam al Malawi. Grain ha analizzato la paradigmatica situazione del Messico, dove si concentra il 40% della produzione.

    “La salsa guacamole che viene consumata durante il Super bowl potrebbe riempire 30 milioni di caschi da football”. La stima è di Armando López, direttore esecutivo dell’Associazione messicana dei coltivatori, confezionatori ed esportatori di avocado, che in occasione della finale del campionato di football americano del 12 febbraio scorso ha pagato quasi sette miliardi di dollari per avere uno spazio pubblicitario in occasione dell’evento sportivo più seguito degli Stati Uniti.

    Solo pochi giorni prima, il 2 febbraio, era stata presentata una denuncia contro il governo del Messico presso la Commissione trilaterale per la cooperazione ambientale (organismo istituito nell’ambito dell’accoro di libero scambio tra il Paese, Stati Uniti e Canada) per non aver fatto rispettare le proprie leggi sulla deforestazione, la conservazione delle acque e l’uso del suolo.

    La notizia ha trovato spazio per qualche giorno sui media statunitensi proprio per la concomitanza con il Super bowl, il momento in cui il consumo della salsa a base di avocado tocca il picco. Ed è anche il punto partenza del report “The avocados of wrath” curato da Grain, rete di organizzazioni che lavorano per sostenere i piccoli agricoltori e i movimenti sociali, e dall’organizzazione messicana Colectivo por la autonomia, che torna a lanciare l’allarme sull’altissimo costo ambientale di questo frutto.

    La denuncia presentata alla Commissione trilaterale si concentra sulla situazione nello Stato del Michoacán, che produce il 75% degli avocado messicani. Qui tra il 2000 e il 2020 la superficie dedicata alla coltura è passata da 78mila a 169mila ettari a scapito delle foreste di abeti locali. Oltre alla deforestazione, il documento pone in rilievo lo sfruttamento selvaggio delle risorse idriche, oltre a un uso eccessivo di fertilizzanti e pesticidi che compromettono le falde sotterranee, i fiumi e i torrenti nelle aree limitrofe alle piantagioni.

    “Il Messico non riesce ad applicare efficacemente le sue leggi ambientali per proteggere gli ecosistemi forestali e la qualità dell’acqua dagli impatti ambientali negativi della produzione di avocado nel Michoacán”, denunciano i curatori. Il Paese nordamericano “non sta rispettando le disposizioni della Costituzione messicana e le varie leggi federali sulla valutazione dell’impatto ambientale, la conservazione delle foreste, lo sviluppo sostenibile, la qualità dell’acqua, il cambiamento climatico e la protezione dell’ambiente”.

    Questa vicenda giudiziaria, di cui non si conoscono ancora gli esiti, rappresenta per Grain un’occasione per guardare più da vicino il Paese e la produzione dell’avocado, diventato negli ultimi anni il terzo frutto più commercializzato al mondo, dopo banana e ananas: nel 2021 la produzione globale di questo frutto, infatti, ha raggiunto quota 8,8 milioni di tonnellate (si stima che possa raggiungere le 12 milioni di tonnellate nel 2030) e il 40% si concentra proprio in Messico, una quota che secondo le stime della Fao potrebbe arrivare al 63% entro il 2030.

    Statunitensi ed europei importano circa il 70% della produzione globale e la domanda è in continua crescita anche per effetto di intense campagne di marketing che ne promuovono i benefici nutrizionali. Di conseguenza dal 2011 a oggi le piantagioni di avocado hanno moltiplicato per quattro la loro superficie in Paesi come Colombia, Haiti, Marocco e Repubblica Dominicana. In Sri Lanka la superficie è aumentata di cinque volte. La produzione intensiva è stata avviata anche in Vietnam e Malawi che oggi rientrano tra i primi venti produttori a livello globale.

    Il mercato di questo frutto vale circa 14 miliardi di dollari e potrebbe toccare i 30 miliardi nel 2030: “La maggiore quota di profitti -riporta Grain- vanno a una manciata di gruppi imprenditoriali, fortemente integrati verticalmente e che continuano a espandersi in nuovi Paesi, dove stanno aprendo succursali”. È il caso, ad esempio, delle società californiane Misison Produce e Calvaro Growers. La prima ha aumentato costantemente le sue vendite nel corso degli ultimi anni, fino a superare di poco il miliardo dollari nel 2022, mentre la seconda ha registrato nello stesso anno vendite per 1,1 miliardi.

    “Queste aziende hanno basato la loro espansione su investimenti da parte di pesi massimi del mondo della finanza -scrive Grain-. Mission Produce e Calavo Growers sono quotate alla Borsa di New York e stanno attirando investimenti da parte di fondi hedge come BlackRock e Vanguard. Stiamo assistendo all’ingresso di fondi di private equity e fondi pensione nel settore degli avocado. Mission Produce, ad esempio, si è unita alla società di private equity Criterion Africa partners per lanciare la produzione di oltre mille ettari di avocado a Selokwe, in Sudafrica”.

    Per Grain guardare da vicino a quello che è accaduto in Messico e al modello produttivo messo in atto dalle aziende dell’agribusiness californiane è utile per comprendere a pieno i rischi che incombono sui Paesi che solo in anni recenti hanno avviato la coltivazione del frutto. Lo sguardo si concentra in particolare sullo Stato del Michoacán dove il boom delle piantagioni è avvenuto a scapito della distruzione delle foreste locali, consumando le risorse idriche di intere regioni e a un costo sociale altissimo.

    Secondo i dati di Grain, ogni ettaro coltivato ad avocado in Messico consuma circa 100mila litri di acqua al mese. Si stima che Perù, Sudafrica, Cile, Israele e Spagna utilizzino 25 milioni di metri cubi d’acqua, l’equivalente di 10mila piscine olimpioniche, per produrre gli avocado importati nel Regno Unito. “Mentre continua a spremere le ultime falde già esaurite in Messico, California e Cile, l’industria del settore sta migrando verso altre ‘zone di sacrificio’ -si legge nel report-. Per irrigare l’arida Valle di Olmos in Perù, dove operano le aziende californiane, il governo locale ha realizzato uno dei megaprogetti più contestati e segnati dalla corruzione del Paese: un tunnel di venti chilometri che attraversa la cordigliera delle Ande per portare l’acqua deviata dal fiume Huancabamba a Olmos”. All’eccessivo sfruttamento delle risorse idriche si aggiunge poi il massiccio utilizzo di prodotti chimici nelle piantagioni: nel solo Michoacán, la coltura dell’avocado si porta dietro ogni anno 450mila litri di insetticidi, 900mila tonnellate di fungicidi e 30mila tonnellate di fertilizzanti.

    https://altreconomia.it/il-costo-nascosto-dellavocado-e-le-nuove-zone-di-sacrificio-nelle-mire-
    #avocat #agriculture #Mexique #globalisation #mondialisation #cartographie #visualisation #Michoacán #déforestation #produits_phytosanitaires #fertilisants #pesticides #plantation #fruits #Misison_Produce #Calvaro_Growers #multinationales #financiarisation #bourse #hedge_funds #private_equity #Criterion_Africa #industrie_agro-alimentaire #eau #Pérou #Huancabamba #Olmos #exploitation #insecticides

    • The Avocados of Wrath

      This little orchard will be part of a great holding next year, for the debt will have choked the owner. This vineyard will belong to the bank. Only the great owners can survive, for they own the canneries too... Men who have created new fruits in the world cannot create a system whereby their fruits may be eaten… In the souls of the people the grapes of wrath are filling and growing heavy, growing heavy for the vintage.”

      So wrote John Steinbeck when, perhaps for the first time, the immense devastation provoked by capitalist agribusiness, the subsequent expulsion of peasant families from the Midwest, and their arrival in California in the 1930s became visible.[1] Perhaps, if he were writing today, he would replace grapes with avocados. The business model for this popular tropical fruit is the epitome of agribusiness recrudescent, causing rampant deforestation and water diversion, the eradication of other modes of agriculture, and the expulsion of entire communities from the land.

      Avocados are, after bananas and pineapples, the world’s third-largest fruit commodity. Their production is taking up an ever-growing area and continually expanding into new countries. What are the implications of this worldwide expansion? What forces are driving it? How does this model, working on both global and local scales, manage to keep prices high? How did the current boom, with avocados featured at major sporting events and celebrations of all kinds, come to pass? What are the social repercussions of this opaque business?

      We begin the story on 12 February 2023 in Kansas City at the 57th Super Bowl, American football’s premier annual event. A month earlier, more than 2000 km away in Michoacán, Mexico, tens of thousands of tons of avocados were being packed for shipping. The United States imports 40% of global avocado production and the Super Bowl is when consumption peaks. “The guacamole eaten during the Super Bowl alone would fill 30 million football helmets,” says Armando López, executive director of the Mexican Association of Avocado Growers, Packers, and Exporters (APEAM), which paid nearly $7 million for a Super Bowl ad.[2]

      Despite its limited coverage in US media, the dark side of avocado production was the unwelcome guest at this year’s event. A complaint against the Government of Mexico had recently been filed with the Commission for Environmental Cooperation under the USMCA, accusing the government of tolerating the ecocidal impacts of avocado production in Michoacán.[3]

      Mexico can be seen as a proving ground for today’s avocado industry. Focusing on this country helps tell the story of how the avocado tree went from being a relic of evolutionary history to its current status as an upstart commodity characterized by violence and media-driven consumerism.

      Booming world production

      For a decade now, avocados have been the growth leaders among tropical fruit commodities.[4] Mexico, the world’s largest exporter, accounts for 40% of total production. According to OECD and FAO projections, this proportion could reach 63% in 2030. The United States absorbs 80% of Mexican avocado exports, but production is ramping up in many other countries.

      In 2021, global production reached 8.8 million tons, one third of which was exported, for a value of $7.4 billion. By 2030, production is expected to reach 12 million tons. Within a decade, the average area under cultivation doubled in the world’s ten largest producer countries (see Figure 1). It quadrupled in Colombia, Haiti, Morocco, and the Dominican Republic, and quintupled in Zimbabwe. Production has taken off at a gallop in Malawi and Vietnam as well, with both countries now ranking among the top 20 avocado producers.

      The top 10 countries account for 80% of total production. In some of these, such as Mexico, Peru, Chile, and Kenya (see Table 1), the crop is largely grown for export. Its main markets are the United States and Europe, which together make up 70% of global imports. While Mexico supplies its neighbour to the north all year long, the avocados going to Europe come from Peru, South Africa, and Kenya in the summer and from Chile, Mexico, Israel, and Spain in the winter.[5] The Netherlands, as the main port of entry for the European Union, has become the world’s third-leading exporter.

      Other markets are rapidly opening up in Asia. Kenya, Ethiopia, and recently Tanzania have begun exporting to India and China,[6] while Chinese imports from Peru, Mexico, and Chile are also on the rise. In 2021, despite the pandemic, these imports surpassed 41,000 tons.[7] In addition, US avocado companies have begun cutting costs by sourcing from China, Yunnan province in particular.[8]

      The multimillion dollar “#green_gold” industry

      According to some estimates, the global avocado market was worth $14 billion in 2021 and could reach $30 billion by 2030.[10] The biggest profits go to a handful of vertically integrated groups that are continuing to fan out to new countries, where they are setting up subsidiaries. They have also tightened their control over importers in the main global hubs.
      For two examples, consider the California-based Mission Produce and Calavo Growers. In 2021, Mission Produce reported sales equivalent to 3% of global production,[11] and its sales have risen steadily over the last decade, reaching $1.045 billion in 2022.[12] The United States buys 80% of the company’s volume, with Europe, Japan, and China being other large customers, and it imports from Peru, Mexico, Chile, Colombia, Guatemala, the Dominican Republic, South Africa, Kenya, Morocco, and Israel. It controls 8600 hectares in Peru, Guatemala, and Colombia.[13]

      Calavo Growers, for its part, had total sales of $1.191 billion in 2022.[14] More than half its revenues came from packing and distribution of Mexican, US, Peruvian, and Colombian avocados.[15] The United States is far and away its biggest market, but in 2021 it began stepping up Mexican exports to Europe and Asia.[16]

      South Africa-based Westfalia Fruits is another relevant company in the sector. It has 1200 hectares in South Africa and is expanding to other African and Latin American countries. It controls 1400 hectares in Mozambique and has taken over large exporters such as Aztecavo (Mexico), Camet (Peru), and Agricom (Chile).[17] Its main markets are Europe, the United States, South America, and Asia.[18] Some of its subsidiaries are incorporated in the tax haven of Delaware, and it has acquired importers in the UK and Germany.[19]

      These companies have based their expansion on investment from heavyweight players in the world of finance. Mission Produce and Calavo Growers are listed on the New York Stock Exchange and are attracting investment from such concerns as BlackRock and The Vanguard Group.[20] We are also seeing private equity, endowment, and pension funds moving into avocados; Mission Produce, for example, joined with private equity firm Criterion Africa Partners to launch production of over 1000 hectares of avocados in Selokwe (South Africa).[21]

      In 2020, Westfalia sold shares in Harvard Management Company, the company that manages Harvard University’s endowment fund.[22] Also involved is the Ontario Teachers’ Pension Plan, which in 2017 acquired Australia’s second-largest avocado grower, Jasper Farms. PSP Investments, which manages Canada’s public service sector pensions, made a controversial acquisition of 16,500 hectares in Hawaii for production of avocado, among other crops, and faces grave accusations deriving from its efforts to monopolize the region’s water supply.[23]

      Finally, it has to be emphasized that the expansion enjoyed by these companies has been aided by public funding. For example, South Africa’s publicly owned Industrial Development Corporation (IDC) and the World Bank’s International Finance Corporation (IFC) have supported Westfalia’s incursions into Africa and Latin America under the guise of international development.[24]

      A proving ground for profit and devastation

      To take the full measure of the risks looming over the new areas being brought under the industrial avocado model, it is important to read Mexico as a proving ground of sorts. The country has become the world’s largest producer through a process bound up with the dynamics of agribusiness in California, where avocado production took its first steps in the early twentieth century. The US market grew rapidly, protected from Mexican imports by a 1914 ban predicated on an alleged threat of pests coming into the country.

      This was the genesis of Calavo Growers (1924) and Henry Avocado (1925). California began exporting to Europe and expanding the area under cultivation, reaching a peak of 30,000 hectares in the mid-1980s, when Chile began competing for the same markets.[29] It was then that consortia of California avocado producers founded West Pak and Mission Produce, and the latter of these soon began operations as an importer of Chilean avocados. In 1997, 60% of US avocado purchases came from Chile, but the business collapsed with the signing of the North American Free Trade Agreement (NAFTA).[30] Lobbying by APEAM and the US companies then led to the lifting of the ban on Mexican imports. With liberalization under NAFTA, Mexican avocado exports multiplied by a factor of 13, and their commercial value by a factor of 40, in the first two decades of the twenty-first century.

      The California corporations set up subsidiaries in Mexico and began buying directly from growers, going as far as to build their own packing plants in Michoacán.[31] One study found that by 2005, Mission Produce, Calavo Growers, West Pak, Del Monte, Fresh Directions, and Chiquita had cornered 80% of US avocado imports from Mexico.[32]

      Today, the state of Michoacán monopolizes 75% of the nation’s production, followed by Jalisco with 10% and Mexico state with 5%.[33] In 2019, export-oriented agriculture was a high-profile player in the industry, with public policies being structured around its needs. And if the business had become so profitable, it was because of the strategies of domination that had been deployed by avocado agribusiness and the impacts of these strategies on peasant and community ways of life.[34] The Mexican avocado boom is now reliant on the felling of whole forests. In many cases these are burned down or clear-cut to make way for avocado groves, using up the water supply of localities or even whole regions. The societal costs are enormous.

      In 2021, Mexico produced some 2.5 million tons of avocados; within the preceding decade, nearly 100,000 hectares had been directly or indirectly deforested for the purpose.[35] In Michoacán alone, between 2000 and 2020, the area under avocados more than doubled, from 78,530.25 to 169,939.45 ha.[36] And reforestation cannot easily repair the damage caused by forest destruction: the ecological relationships on which biodiversity depends take a long time to evolve, and the recovery period is even longer after removal of vegetation, spraying of agrotoxins, and drying of the soil.

      In Jalisco, the last decade has seen a tripling of the area under avocado, agave, and berries, competing not only with peasants and the forests stewarded by original peoples, but also with cattle ranchers.[37] “Last year alone,” says Adalberto Velasco Antillón, president of the Jalisco ranchers’ association, “10,000 cattlemen (dairy and beef) went out of business.”[38]

      According to Dr. Ruth Ornelas, who studies the avocado phenomenon in Mexico, the business’s expansion has come in spite of its relative cost-inefficiency. “This is apparent in the price of the product. Extortion garners 1.4% of total revenues,… or 4 to 6 pesos per kilogram of avocados.” It is a tax of sorts, but one that is collected by the groups that control the business, not by the government.[39] According to Francisco Mayorga, minister of agriculture under Vicente Fox and Enrique Calderón, “they collect not only from the farmer but from the packer, the loggers, the logging trucks and the road builders. And they decide, depending on the payments, who gets to ship to Manzanillo, Lázaro Cárdenas, Michoacán and Jalisco. That’s because they have a monopoly on what is shipped to the world’s largest buyer, the United States.”[40]

      By collecting this toll at every link in the chain, they control the whole process, from grower to warehouse to packer to shipper, including refrigeration and the various modes of distribution. And not only do they collect at every step, but they also keep prices high by synchronizing supply from warehouse to consumer.

      Dr. Ornelas says, “They may try to persuade people, but where that doesn’t work, bribes and bullets do the trick. Organized crime functions like a police force in that it plays a certain role in protecting the players within the industry. It is the regulatory authority. It is the tax collector, the customs authority, and the just-in-time supplier. Sadly, the cartels have become a source of employment, hiring halcones [taxi drivers or shoeshine boys working as spies], chemists, and contract killers as required. It seems that they even have economists advising them on how to make the rules.” Mayorga adds: “When these groups are intermingled with governmental structures, there is a symbiosis among growers, criminals, vendors, and input suppliers. If somebody tries to opt out of the system, he may lose his phytosanitary certification and hence his ability to export.” Mayorga stresses that the criminals administer the market and impose a degree of order on it; they oversee the process at the domestic and international levels, “regulating the flow of product so that there is never a glut and prices stay high.” Investment and extortion are also conducive to money laundering. It is very hard to monitor who is investing in the product, how it is produced, and where it is going. Yet the government trumpets avocados as an agri-food success.

      Official data indicate that there are 27,712 farms under 10 hectares in Michoacán, involving 310,000 people and also employing 78,000 temporary workers.[41] These small farms have become enmeshed in avocado capitalism and the pressures it places on forests and water; more importantly, however, the climate of violence keeps the growers in line. In the absence of public policy and governmental controls, and with organized crime having a tight grip on supply chains and world prices, violence certainly plays a role in governance of the industry. But these groups are not the ones who run the show, for they themselves are vertically integrated into multidimensional relationships of violence. It is the investors and large suppliers, leveraged by the endowment, pension, and private equity funds, who keep avocado production expanding around the world.[42]

      A headlong rush down multiple paths

      The Mexican example alerts us to one of the main problems associated with avocado growing, and that is water use. In Mexico, each hectare consumes 100,000 litres per month, on top of the destruction of the biodiverse forests that help preserve the water cycle.[46] A whole other study ought to be devoted to the indiscriminate use of agrotoxins and the resulting groundwater contamination. In Michoacán alone, the avocado crop receives 450,000 litres of insecticides, 900,000 tons of fungicides, and 30,000 tons of fertilizers annually.[47]

      Wherever they are grown, avocados consume an astonishing volume of water. An estimated 25 million m³, or the equivalent of 10,000 Olympic swimming pools, are estimated to be used by Peru, South Africa, Chile, Israel, and Spain to produce the avocados imported into the UK.[48]

      California has maintained its 90% share of the US avocado market, but this situation is not predicted to endure beyond 2050.[49] California’s dire water crisis has been driven to a significant extent by the industrial production of avocados and other fruits, with climate change exacerbating the problem.[50]
      In the Chilean province of Petorca, which accounts for 60% of Chile’s avocado exports, the production of one kilogram of avocados requires 1280 litres of water. Water privatization by the Pinochet dictatorship in 1981 coincided with the rise of the country’s export industry and abetted the development of large plantations, which have drained the rivers and driven out peasant farming.[51] This appears to be one of the reasons why Chile is no longer self-sufficient in this commodity. “We import more than we export now,” said the director of Mission Produce, Steve Barnard, two years ago, stating that avocados were being brought in not only from Peru but also from California.[52]

      Even as it continues to squeeze the last drops of water out of depleted aquifers in Mexico, California, and Chile, the industry is migrating into other sacrifice zones.[53] To water the arid Olmos Valley in Peru, where California’s avocado companies operate, the Peruvian government developed one of the country’s most corrupt and conflict-ridden megaprojects: a 20-km tunnel through the Andes range, built in 2014, to deliver water diverted from the Huancabamba River to Olmos. The project was sold as an “opportunity to acquire farmland with water rights in Peru.”[54]

      Colombia was the next stop on the avocado train, with the crop spreading out across Antioquia and the coffee-growing region, and with even large mining interests joining forces with agribusiness.[55] “Peru is destined to replace much of its avocado land with citrus fruit, which is less water-intensive,” said Pedro Aguilar, manager of Westfalia Fruit Colombia, in 2020, although “water is becoming an absolutely marvelous investment draw, since it is cost-free in Colombia.”[56]

      Sowing the seeds of resistance

      If Mexico has been an experiment in devastation, it has also been an experiment in resistance, as witness the inspiring saga of the Purépecha community of Cherán, Michoacán. In 2012, the community played host to a preliminary hearing of the Permanent Peoples’ Tribunal that condemned land grabbing, deforestation, land conversion, agrotoxin spraying, water depletion, fires, and the widespread violence wielded against the population. It laid the blame for these plagues squarely on timber theft, the avocado industry, berry greenhouses, and agave production.

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      One year earlier, the population had decided to take matters in hand. They were fed up with this litany of injustices and with the violence being inflicted on them by the paramilitary forces of organized crime. Led by the women, the community took up the arduous task of establishing checkpoints marked out by bonfires (which were also used for cooking) throughout the area. Any institution or group that questioned their collective authority was immediately confronted. The newly created community police force is answerable to the general assembly, which in turn reports to the neighbourhood assemblies. A few years ago, the community gated itself to outsiders while working on restoring the forest and establishing its own horizontal form of government with respect for women, men, children, and elders.

      The community then took another step forward, opting for municipal and community autonomy. This was not a straightforward process, but it did finally lead to approval by the National Electoral Institute for elections to take place under customary law and outside the party system. This example spread to other communities such as Angahuan that are also grappling with agribusiness, corruption, and organized crime.[57]

      Clearly, this struggle for tradition-rooted self-determination is just beginning. The cartels, after all, are pursuing their efforts to subdue whole regions. Meanwhile, for their own defence, the people are continuing to follow these role models and declaring self-government.

      An unsustainable model

      “The works of the roots of the vines, of the trees, must be destroyed to keep up the price, and this is the saddest, bitterest thing of all. Carloads of oranges dumped on the ground. The people came for miles to take the fruit, but … men with hoses squirt kerosene on the oranges, and they are angry at the crime, angry at the people who have come to take the fruit. A million people hungry, needing the fruit—and kerosene sprayed over the golden mountains.”[58]

      Per capita consumption of avocados has kept on growing in the importing countries, driven by intense marketing campaigns promoting the nutritional benefits of this food. In the United States alone, consumption has tripled in 20 years.[59] While avocados are sold as a superfood, a convenient veil remains thrown over what is actually happening at the local level, where the farmers are not the ones benefiting. While this global trend continues, various false solutions are proposed, such as water-saving innovations or so-called “zero deforestation” initiatives.

      In this exploitative model, small- and medium-sized growers are forced to take on all the risk while also bearing the burden of the environmental externalities. The big companies and their investors are largely shielded from the public health and environmental impacts.

      As we have said, the growers are not the ones who control the process; not even organized crime has that power. They are both just cogs in the industrial agri-food system, assisting the destruction it wreaks in order to eke out a share of the colossal dividends it offers. To truly understand the workings of the system, one has to study the supply chain as a whole.

      Given these realities, it is urgent for us to step up our efforts to denounce agribusiness and its corrupting, devastating model. The people must organize to find ways out of this nightmare.

      * Mexico-based Colectivo por la Autonomía works on issues related to territorial defence and peasant affairs, through coordination with other Mexican and Latin American social movement organizations, as well as legal defence and research on the environmental and social impacts experienced by indigenous and rural territories and communities.

      Banner image: Mural in Cherán that tells the story of their struggle. This mural is inside the Casa Comunal and is part of a mural revival throughout the city, where there are collective and individual works in many streets and public buildings. This mural is the work of Marco Hugo Guardián Lemus and Giovanni Fabián Gutiérrez.

      [1] John Steinbeck, The Grapes of Wrath Penguin Classics, 1939, 2006.
      [2] Guillermina Ayala, “López: “Un Súper Bowl con guacamole,” Milenio, 11 February 2023, https://www.milenio.com/negocios/financial-times/exportaciones-de-toneladas-de-aguacate-para-la-final-de-la-nfl.
      [3] The USMCA is the trade agreement between Mexico, the United States, and Canada. See also Isabella González, “Una denuncia lleva a la producción mexicana de aguacate ante la comisión ambiental del T-MEC por ecocidio,” El País, 8 February 2023, https://elpais.com/mexico/2023-02-08/una-denuncia-lleva-a-la-produccion-mexicana-de-aguacate-ante-la-comision-amb.
      [4] In what follows, the sources for production volumes, areas under cultivation, and sales are the FAOSTAT and UN Comtrade databases [viewed 25 January 2023]. The source for 2030 projections is OECD/FAO, OECD-FAO Agricultural Outlook 2021–2030, 2021, https://doi.org/10.1787/19428846-en.
      [5] Ruben Sommaruga and Honor May Eldridge, “Avocado Production: Water Footprint and Socio-economic Implications,” EuroChoices 20(2), 13 December 2020, https://doi.org/10.1111/1746-692X.12289.
      [6] See George Munene, “Chinese traders plan on increasing Kenyan avocado imports,” Farmbiz Africa, 1 August 2022, https://farmbizafrica.com/market/3792-chinese-traders-plan-on-increasing-kenyan-avocado-imports; Tanzania Invest, “Tanzania sign 15 strategic agreements with China, including avocado exports,” 5 November 2022, https://www.tanzaniainvest.com/economy/trade/strategic-agreements-with-china-samia.
      [7] USDA, "China: 2022 Fresh Avocado Report, 14 November 2022, https://www.fas.usda.gov/data/china-2022-fresh-avocado-report.
      [8] Global AgInvesting, “US-based Mission Produce is developing its first domestic avocado farm in China,” 8 June 2018, https://www.farmlandgrab.org/post/view/28223-us-based-mission-produce-is-developing-its-first-domestic-avocad.
      [9] Wageningen University & Research, “Improved mango and avocado chain helps small farmers in Haiti,” 2022, https://www.wur.nl/en/project/improved-mango-and-avocado-chain-helps-small-farmers-in-haiti-1.htm.
      [10] See Grand View Research, “Avocado market size, share & trends analysis report by form (fresh, processed), by distribution channel (B2B, B2C), by region (North America, Europe, Asia Pacific, Central & South America, MEA), and segment forecasts, 2022–2030,” 2022, https://www.grandviewresearch.com/industry-analysis/fresh-avocado-market-report; Straits Research, “Fresh avocado market,” 2022, https://straitsresearch.com/report/fresh-avocado-market.
      [11] Mission Produce, “Mission Produce announces fiscal 2021 fourth quarter financial results,” 22 December 2021, https://investors.missionproduce.com/news-releases/news-release-details/mission-produce-announces-fiscal-2021-fourth-quarter-finan.
      [12] Sources: Capital IQ and United States Securities and Exchange Commission, “Mission Produce: Form 10-K,” 22 December 2022, https://investors.missionproduce.com/financial-information/sec-filings?items_per_page=10&page=.
      [13] The company reports that it has had avocado plantations since 2011 on three Peruvian farms covering 3900 ha, in addition to producing blueberries on 400 hectares (including greenhouses) as part of a joint venture called Moruga. See Mission Produce, “Investor relations,” December 2022, https://investors.missionproduce.com; United States Securities and Exchange Commission, “Mission Produce: Form 10-K,” 22 December 2022, https://investors.missionproduce.com/financial-information/sec-filings?items_per_page=10&page=1, and https://missionproduce.com/peru.
      [14] Sources: https://ir.calavo.com; Calavo Growers, “Calavo Growers, Inc. announces fourth quarter and fiscal 2021 financial results,” 20 December 2021, https://ir.calavo.com/news-releases/news-release-details/calavo-growers-inc-announces-fourth-quarter-and-fiscal-2021
      [15] Its main subsidiaries in Mexico are Calavo de México and Avocados de Jalisco; see Calavo Growers, Calavo Growers, Inc. Investor Presentation, 12 December 2022, https://ir.calavo.com/static-files/f4ee2e5a-0221-4b48-9b82-7aad7ca69ea7; United States Securities and Exchange Commission, Calavo Growers, Inc. form 10-K, December 2022, https://ir.calavo.com/static-files/9c13da31-3239-4843-8d91-6cff65c6bbf7.
      [16] Among its main US clients are Kroger (15% of 2022 total sales), Trader Joe’s (11%), and Wal-Mart (10%) Source: Capital IQ. See also “Calavo quiere exportar aguacate mexicano a Europa y Asia,” El Financiero, 8 January 2021, https://www.elfinanciero.com.mx/opinion/de-jefes/calavo-quiere-exportar-aguacate-mexicano-a-europa-y-asia.
      [17] See IDC, “Westfalia grows an empire,” 2018, https://www.idc.co.za/westfalia-grows-an-empire; IFC, Creating Markets in Mozambique, June 2021, https://www.ifc.org/wps/wcm/connect/a7accfa5-f36b-4e24-9999-63cffa96df4d/CPSD-Mozambique-v2.pdf?MOD=AJPERES&CVID=nMNH.3E; https://www.westfaliafruit.com/about-us/our-operations/westfalia-fruto-mocambique; “Agricom y Westfalia Fruit concretan asociación en Latinoamérica,” Agraria.pe, 9 January 2018, https://agraria.pe/noticias/agricom-y-westfalia-fruit-concretan-asociacion-en-latinoamer-15664.
      [18] Marta del Moral Arroyo, “Prevemos crecer este año un 20% en nuestras exportaciones de palta a Asia y Estados Unidos,” Fresh Plaza, 27 May 2022, https://www.freshplaza.es/article/9431020/prevemos-crecer-este-ano-un-20-en-nuestras-exportaciones-de-palta-a-asia-.
      [19] See https://opencorporates.com/companies?jurisdiction_code=&q=westfalia+fruit&utf8=%E2%9C%93.
      [20] For example, in the case of Calavo Growers, BlackRock controls 16%, Vanguard Group 8%, and five other investment 20%; see Capital IQ, “Nuance Investments increases position in Calavo Growers (CVGW),” Nasdaq, 8 February 2023, https://www.nasdaq.com/articles/nuance-investments-increases-position-in-calavo-growers-cvgw; “Vanguard Group increases position in Calavo Growers (CVGW),” Nasdaq, 9 February 2023, https://www.nasdaq.com/articles/vanguard-group-increases-position-in-calavo-growers-cvgw.
      [21] Liam O’Callaghan, “Mission announces South African expansion,” Eurofruit, 8 February 2023, https://www.fruitnet.com/eurofruit/mission-announces-south-african-expansion/248273.article. Criterion Africa Partners invests with funds from the African Development Bank, the European Investment Bank, and the Dutch Entrepreneurial Development Bank (FMO) (Source: Preqin).
      [22] Harvard Management Company subsequently spun out its holdings in Westfalia to the private equity fund Solum Partners; see Lynda Kiernan, “HMC investment in Westfalia Fruit International to drive global expansion for avocados,” Global AgInvesting, 17 January 2020, https://www.farmlandgrab.org/post/view/29422-hmc-investment-in-westfalia-fruit-international-to-drive-global-; Michael McDonald, “Harvard spins off natural resources team, to remain partner,” Bloomberg, 8 October 2020, https://www.farmlandgrab.org/post/view/29894-harvard-spins-off-natural-resources-team-to-remain-partner.
      [23] See “Ontario Teachers’ acquires Australian avocado grower Jasper Farms,” OTPP, 19 December 2017, https://www.farmlandgrab.org/post/view/27774-ontario-teachers-acquires-australian-avocado-grower-jasper-farms; “Canadian pension fund invests in ex-plantation privatizing Hawaii’s water,” The Breach, 23 February 2022, https://www.farmlandgrab.org/post/view/30782-canadian-pension-fund-invests-in-ex-plantation-privatizing-hawai.
      [24] See https://disclosures.ifc.org/enterprise-search-results-home/42280; https://disclosures.ifc.org/project-detail/SII/40091/westfalia-intl. Westfalia is a subsidiary of the South African logging company Hans Merensky Holdings (HMH), whose main shareholders are the Hans Merensky Foundation (40%), IDC (30%), and CFI (20%) (see https://disclosures.ifc.org/project-detail/SII/42280/westfalia-moz-ii).
      [25] Amanda Landon, “Domestication and significance of Persea americana, the avocado, in Mesoamerica,” Nebraska Anthropologist, 47 (2009), https://digitalcommons.unl.edu/cgi/viewcontent.cgi?referer=https://en.wikipedia.org/&httpsredir=1&article=1046&context=nebanthro.
      [26] Ibid., 70.
      [27] Jeff Miller, Avocado: A Global History (Chicago: University of Chicago Press, 2020), https://press.uchicago.edu/ucp/books/book/distributed/A/bo50552476.html.
      [28] Maria Popova, “A ghost of evolution: The curious case of the avocado, which should be extinct but still exists,” The Marginalian, https://www.themarginalian.org/2013/12/04/avocado-ghosts-of-evolution/?mc_cid=ca28345b4d&mc_eid=469e833a4d, citing Connie Barlow, The Ghosts of Evolution: Nonsensical Fruit, Missing Partners, and Other Ecological Anachronisms, https://books.google.com.mx/books/about/The_Ghosts_Of_Evolution.html?id=TnU4DgAAQBAJ&redir_esc=y.
      [29] Patricia Lazicki, Daniel Geisseler, and Willliam R. Horwath, “Avocado production in California,” UC Davis, 2016, https://apps1.cdfa.ca.gov/FertilizerResearch/docs/Avocado_Production_CA.pdf.
      [30] Flavia Echánove Huacuja, “Abriendo fronteras: el auge exportador del aguacate mexicano a United States,” Anales de Geografía de la Universidad Complutense, 2008, Vol. 28, N° 1, https://revistas.ucm.es/index.php/aguc/article/download/aguc0808110009a/30850.
      [31] Calavo Growers, Calavo Growers, Inc. Investor Presentation, 12 December 2022, https://ir.calavo.com/static-files/f4ee2e5a-0221-4b48-9b82-7aad7ca69ea7.
      [32] Flavia Echánove Huacuja, op cit., the evolution of these companies in the sector was different. Chiquita withdrew from the avocado industry in 2012, while for Del Monte, this fruit accounts for a steadily declining share of its sales, reaching 8% ($320 million) in 2021 (see https://seekingalpha.com/article/1489692-chiquita-brands-restructuring-for-value; United States Securities and Exchange Commission, Fresh Del Monte Produce Inc. Form 10-K, 2022; Del Monte Quality, A Brighter World Tomorrow, https://freshdelmonte.com/wp-content/uploads/2022/10/FDM_2021_SustainabilityReportFINAL.pdf. )
      [33] Source: SIAP (http://infosiap.siap.gob.mx/gobmx/datosAbiertos_a.php) [viewed 27 November 2022].
      [34] María Adelina Toribio Morales, César Adrián Ramírez Miranda, and Miriam Aidé Núñez Vera, “Expansión del agronegocio aguacatero sobre los territorios campesinos en Michoacán, México,” Eutopía, Revista de Desarrollo Económico Territorial, no. 16, December 2019, pp. 51–72, https://revistas.flacsoandes.edu.ec/eutopia/article/download/4117/3311?inline=1.
      [35] Enrique Espinosa Gasca states: “The Ministry of the Environment, Natural Resources, and Climate Change (Semadet) in Michoacán acknowledged in March 2019 that in the first twenty years of the millennium, Michoacán has lost a million hectares of its forests, some due to clandestine logging and some due to forest fires set for purposes of land conversion”; “Berries, frutos rojos, puntos rojos,” in Colectivo por la Autonomía and GRAIN, eds, Invernaderos: Controvertido modelo de agroexportación (Ceccam, 2021).
      [36] Gobierno de México, SIACON (2020), https://www.gob.mx/siap/documentos/siacon-ng-161430; idem, Servicio de Información Agroalimentaria y Pesquera (SIAP), http://infosiap.siap.gob.mx/gobmx/datosAbiertos_a.php.
      [37] “Se triplica cosecha de agave, berries y aguacate en Jalisco,” El Informador, 23 December 2021, https://www.informador.mx/Se-triplica-cosecha-de-agave-berries-y-aguacate-en-Jalisco-l202112230001..
      [38] María Ramírez Blanco, “Agave, berries y aguacate encarece precio de la tierra en Jalisco, roba terreno al maíz y al ganado,” UDG TV, 31 January 2023, https://udgtv.com/noticias/agave-berries-aguacate-encarece-precio-tierra-jalisco-roba-maiz.
      [39] Agustín del Castillo, Territorio Reportaje, part 8, “Negocio, ecocidio y crimen,” Canal 44tv, Universidad de Guadalajara, October 2022, https://youtu.be/WfH3M22rrK8

      .
      [40] Agustín del Castillo, Territorio Reportaje, part 7, “La huella criminal en el fruto más valioso del mundo: la palta, el avocado, el aguacate,” Canal 44tv, Universidad de Guadalajara, September 2022, https://www.youtube.com/watch?v=GSz8xihdsTI
      .
      [41] Gobierno de México, Secretaría de Agricultura y Desarrollo Rural, “Productores de pequeña escala, los principales exportadores de aguacate a Estados Unidos: Agricultura,” 29 January 2020, https://www.gob.mx/agricultura/prensa/productores-de-pequena-escala-los-principales-exportadores-de-aguacate-a-estados.
      [42] Our results and arguments coincide with those found in Alexander Curry, “Violencia y capitalismo aguacatero en Michoacán,” in Jayson Maurice Porter and Alexander Aviña, eds, Land, Markets and Power in Rural Mexico, Noria Research. Curry is skeptical of analyses in which violence can be understood in terms of its results, such as the coercive control of a market square or highway. “Such analyses forget that violence is part of a social process, with its own temporal framework,” he writes. It is therefore necessary to frame the process within a broader field of relations of inequality of all kinds, in which the paradox is that legal and illegal actors intermingle at the local, national, and international levels, but in spheres that rarely intersect. The avocado industry cannot be explained by the cartels but by the tangled web of international capitalism.
      [43] See https://www.netafim.com.mx/cultivos/aguacate and https://es.rivulis.com/crop/aguacates.
      [44] Jennifer Kite-Powell, “Using Drip Irrigation To Make New Sustainable Growing Regions For Avocados”, Forbes, 29 March 2022: https://www.forbes.com/sites/jenniferhicks/2022/03/29/using-drip-irrigation-to-make-new-sustainable-growing-regions-for-avocados .
      [45] See Pat Mooney, La Insostenible Agricultura 4.0: Digitalización y Poder Corporativo en la Cadena Alimentaria, ETC Group, 2019, https://www.etcgroup.org/sites/www.etcgroup.org/files/files/la_insostenible_agricultura_4.0_web26oct.pdf. See also Colectivo por la Autonomía and GRAIN, eds, Invernaderos: controvertido modelo de agroexportación.
      [46] Colectivo por la Autonomía, Evangelina Robles, José Godoy, and Eduardo Villalpando, “Nocividad del metabolismo agroindustrial en el Occidente de México,” in Eduardo Enrique Aguilar, ed., Agroecología y Organización Social: Estudios Críticos sobre Prácticas y Saberes (Monterrey: Universidad de Monterrey, Editorial Ítaca, 2022), https://www.researchgate.net/publication/365173284_Agroecologia_y_organizacion_social_Estudios_criticos_sobre_p.
      [47] Metapolítica, “La guerra por el aguacate: deforestación y contaminación imparables,” BiodiversidadLA, 24 June 2019, https://www.biodiversidadla.org/Noticias/La-guerra-por-el-Aguacate-deforestacion-y-contaminacion-imparables.
      [48] Chloe Sutcliffe and Tim Hess, “The global avocado crisis and resilience in the UK’s fresh fruit and vegetable supply system,” Global Food Security, 19 June 2017, https://www.foodsecurity.ac.uk/blog/global-avocado-crisis-resilience-uks-fresh-fruit-vegetable-supply-sy.
      [49] Nathanael Johnson, “Are avocados toast? California farmers bet on what we’ll be eating in 2050,” The Guardian, 30 May 2016, https://www.theguardian.com/environment/2018/may/30/avocado-california-climate-change-affecting-crops-2050.
      [50] GRAIN, “The well is running dry on irrigated agriculture,” 20 February 2023, https://grain.org/en/article/6958-the-well-is-running-dry-on-irrigated-agriculture.
      [51] Danwatch, “Paltas y agua robada,” 2017, http://old.danwatch.dk/wp-content/uploads/2017/05/Paltas-y-agua-robada.pdf.
      [52] Fresh Fruit Portal, “Steve Barnard, founder and CEO of Mission Produce: We now import more to Chile than we export,” 23 August 2021, https://www.freshfruitportal.com/news/2021/08/23/steve-barnard-founder-and-ceo-of-mission-produce-we-now-import-mor.
      [53] Sacrifice zones are “places with high levels of environmental contamination and degradation, where profits have been given priority over people, causing human rights abuses or violations”: Elizabeth Bravo, “Zonas de sacrificio y violación de derechos,” Naturaleza con Derechos, Boletín 26, 1 September 2021, https://www.naturalezaconderechos.org/2021/09/01/boletin-26-zonas-de-sacrificio-y-violacion-de-derechos.
      [54] See Catalina Wallace, “La obra de ingeniería que cambió el desierto peruano,” Visión, March 2022, https://www.visionfruticola.com/2022/03/la-obra-de-ingenieria-que-cambio-el-desierto-peruano; “Proyecto de irrigación Olmos,” Landmatrix, 2012, https://landmatrix.org/media/uploads/embajadadelperucloficinacomercialimagesstoriesproyectoirrigacionolmos201. The costly project was part of the Odebrecht corruption case fought in the context of the “Lava Jato” operation: Jacqueline Fowks, “El ‘caso Odebrecht’ acorrala a cuatro expresidentes peruanos,” El País, 17 April 2019, https://elpais.com/internacional/2019/04/16/america/1555435510_660612.html.
      [55] Liga contra el Silencio, “Los aguacates de AngloGold dividen a Cajamarca,” 30 October 2020, https://www.biodiversidadla.org/Documentos/Los-aguacates-de-AngloGold-dividen-a-Cajamarca.
      [56] “Colombia: Los aguacates de AngloGold dividen a Cajamarca,” La Cola de Rata,16 October 2020, https://www.farmlandgrab.org/post/view/29921-colombia-los-aguacates-de-anglogold-dividen-a-cajamarca.
      [57] See Las luchas de Cherán desde la memoria de los jóvenes (Cherán Ireteri Juramukua, Cherán K’eri, 2021); Daniela Tico Straffon and Edgars Martínez Navarrete, Las raíces del despojo, U-Tópicas, https://www.u-topicas.com/libro/las-raices-del-despojo_15988; Mark Stevenson, “Mexican town protects forest from avocado growers and drug cartels,” Los Angeles Times, https://www.latimes.com/world-nation/story/2022-01-31/mexican-town-protects-forest-from-avocado-growers-cartels; Monica Pellicia, “Indigenous agroforestry dying of thirst amid a sea of avocados in Mexico,” https://news.mongabay.com/2022/06/indigenous-agroforestry-dying-of-thirst-amid-a-sea-of-avocados-in-mex
      [58] The Grapes of Wrath, op. cit.
      [59] USDA, “Imports play dominant role as U.S. demand for avocados climbs,” 2 May 2022, https://www.ers.usda.gov/data-products/chart-gallery/gallery/chart-detail/?chartId=103810.

      https://grain.org/e/6985#_edn36

      #rapport #Grain #land_grabbing #accaparement_des_terres

  • Ces #terres qui se défendent

    Pour son hors-série hivernal, le magazine indépendant Socialter s’associe au collectif Reprise de terres pour s’attaquer à l’accaparement des terres en France et au système productiviste qui le soutient.

    Nous sommes au seuil d’une catastrophe foncière. Dans les dix prochaines années, la moitié des agriculteurs français va partir à la retraite, et c’est près d’un quart du territoire français qui va changer de mains. Un chambardement démographique qui aiguise déjà toutes les convoitises : celles de l’agro-industrie et ses pesticides, des bétonneurs et leurs entrepôts, des aménageurs de territoire et leurs autoroutes. Leur monde se fera sans les vivants et contre eux.

    Alors comment inventer des tactiques foncières, politiques et juridiques pour contrer cet accaparement ? Quelles alliances politiques nouer pour lui opposer un front solide ? Comment résorber les divisions historiques entre #paysannerie et protection du vivant ? Comment dépasser l’opposition entre mise en culture des terres et libre évolution – entre nature et culture ?

    https://fr.ulule.com/hors-serie-socialter-ces-terres-qui-se-defendent

    #résistance #reprise_de_terres #accaparement_des_terres #France #foncier #agriculture #retraite #démographie

    déjà signalé par @halbnar :
    https://seenthis.net/messages/978693

  • La grande corsa alla terra di Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita
    https://irpimedia.irpi.eu/grainkeepers-controllo-filiera-alimentare-globale-emirati-arabi-uniti

    Le aziende controllate dai fondi sovrani delle potenze del Golfo stanno acquistando aziende lungo tutta la filiera dell’agroalimentare, anche in Europa. Con la scusa di garantirsi la propria “sicurezza alimentare” Clicca per leggere l’articolo La grande corsa alla terra di Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita pubblicato su IrpiMedia.

  • Senegal herders demand return of grazing grounds controlled by U.S. firm
    https://news.mongabay.com/2023/03/senegal-herders-demand-return-of-grazing-grounds-controlled-by-u-s-fi

    African Agriculture (AAGR), a U.S. company planning to grow alfalfa for livestock feed in Senegal, is set to launch an initial public offering on the Nasdaq exchange.
    But the land concession it holds used to be part of the Ndiaël nature reserve, a wetland that’s home to many threatened species and a key grazing ground for local herders.
    The land was declassified by presidential decrees without the consultation or agreement of the local population, who are considering suing AAGR in the U.S.
    Hydrologists warn the use of pesticides during the cultivation of alfalfa will contaminate the nearby Lake Guiers, which provides 65% of the capital Dakar’s drinking water.

    #Sénégal #colonialisme #accaparements