• La galassia offshore dei trader ticinesi. Il caso Duferco

    La catena societaria del gruppo Duferco, la più importante azienda di commercio di materie prime di Lugano di Federico Franchini

    È considerato il più importante commerciante d’acciaio del mondo e l’unica multinazionale con sede in Ticino. È la Duferco di Lugano, capostipite e fiore all’occhiello della piazza di trading del Ceresio. Nonostante la sua importanza di lei si sa poco o nulla. Chi la controlla? Quali sono i suoi utili? Attraverso documenti ufficiali area ha ricostruito la sua struttura societaria. Quello che emerge è una galassia complessa che si dirama in diversi paradisi fiscali.

    Rue Guillaume Schneider 6, Lussemburgo. Per ricostruire la catena societaria di Duferco occorre partire da qui. Se il Ticino è il centro operativo delle diverse società legate a questo gruppo, il cuore societario è nel Granducato. È qui, dove si sono trasferite da Guernsey nel 2010, che hanno sede le case madri di quelle che di fatto sono le due Duferco: la Duferco Participations Holding (Dph), legata alla storica proprietà italiana, e la Duferco International Trading Holding (Dith), oggi in mani cinesi. Queste due holding, benché legate tra loro da vincoli storici e di proprietà, vanno considerate come due multinazionali a sé.

    La Duferco del Dragone
    È il 2014 quando il colosso pubblico cinese Hesteel Group acquisisce la maggioranza della Duferco di #Lugano. In realtà, il controllo arriva a monte: Hesteel, tramite una controllata di Singapore, acquisisce la maggioranza della Dith, la società madre delle attività di trading. L’alleanza è tra titani: il secondo produttore d’acciaio del mondo si unisce al principale commerciante di prodotti siderurgici del pianeta. Gli ormai ex azionisti di maggioranza, il fondatore #BrunoBolfo e suo nipote #AntonioGozzi perdono il controllo sulla Dith, ma attraverso l’altra #Duferco, la Dph, mantengono un’importante quota di minoranza nella holding che ora detiene i diritti esclusivi per vendere l’acciaio cinese.

    Dopo Hesteel (61%) e Dph (27%), il terzo azionista di Dith è la Big Brown Dog Holding (12%) di Hong Kong, controllata dal Ceo Matthew De Morgan e nella quale, fino a poco fa, mantenevano qualche briciola gli ucraini dell’Unione Industriale del Donbass (Isd). Prima dell’arrivo di Hesteel, infatti, Bolfo & Co. avevano stretto un accordo strategico con l’Isd che, tramite la cipriota Steelhold, aveva acquisito quote di minoranza della Dith. Oggi, gli oligarchi dell’est sono ormai usciti di scena lasciando spazio ai nuovi padroni dell’acciaio, i dragoni cinesi della provincia di Hebei.

    Il gruppo ha mantenuto la sede operativa in Ticino, dove sono attive sette società tra cui la capostipite della piazza luganese: la Duferco Sa. La Dith è attiva soprattutto nel commercio di acciaio (ma non solo) e dispone di alcune unità produttive come una fabbrica in Macedonia, controllata tramite filiali a Cipro e nel Liechtenstein. La diminuzione della domanda di acciaio cinese e la crisi dei dazi sta pesando sulle performance del gruppo: dopo essere diminuiti del 20% nel 2018, gli utili di Dith sono scesi di un altro 57% nel 2019, issandosi a 26 milioni di dollari.

    Dxt: il gigante sconosciuto
    Ogni anno, Handelszeitung pubblica la lista delle più importanti società elvetiche per cifra d’affari. Nel 2019, per arrivare al Ticino occorreva scendere alla 32esima posizione: qui si trova la Dxt Commodities. Poco nota al grande pubblico, questa azienda è specializzata nel trading d’idrocarburi ed energia elettrica. Dxt è stata fondata nel 1999 dai top manager di Duferco, in collaborazione con alcuni fiduciari di Lugano. Gli stessi, per intenderci, che hanno ideato la tanto discussa ingegneria fiscale della Gucci. Anche per il trading l’asse è sempre quello: Lugano-Lussemburgo. La Dxt è controllata al 95% dalla Dxt International, sede nel Granducato. Una società che ha realizzato 26 milioni di euro di utili nel 2018, grazie soprattutto alla controllata ticinese. La Dxt International è detenuta al 50% da due altre società: la Spelugues Investments, basata nel Delaware e posseduta dal Ceo Benedict Sciortino; e la Dph, la Duferco “italiana”. Oltre alla Dxt, quest’ultima detiene in Ticino, sempre per il tramite di una lussemburghese, anche la metà del gruppo di commercio marittimo Nova Marine.

    Scatole cinesi
    Ma chi controlla la Dph? Il primo scalino a ritroso porta alla Btb Investments, una società che la detiene al 100%. A questo punto l’organigramma si biforca in due rami. Uno va verso altre due entità – la Ultima Holding a sua volta controllata dalla Lagrev Investments – che sembrano portare al manager Antonio Gozzi. L’altro ramo, leggermente maggioritario, conduce alla Bb Holding Investments che, come le altre lussemburghesi citate, ha sede al numero 6 di Rue Guillaume Schneider. La Bb Holding fa capo al vecchio patron, quel Bruno Bolfo che, ancora una volta, sembra avere azzeccato tutte le sue mosse: nel 2019, l’utile netto della sua holding è aumentato del 66% raggiungendo gli 85 milioni di dollari. La Duferco italiana, insomma, sembra rendere di più rispetto a quella cinese. Per mettere al sicuro il suo tesoro milionario, però, Bruno Bolfo ha pensato a uno scalino in più: la Bb Holding è infatti detenuta al 100% da La Sesta Trust, un fondo fiduciario basato nel Liechtenstein. Ultima fermata di una galassia decisamente offshore.

    Mister acciaio e gli amici luganesi

    È l’11 agosto del 1982 quando, presso lo studio del notaio Filippo Solari di Lugano, viene costituita la Duferco Sa. Il gruppo era stato creato qualche anno prima in Brasile dal ligure Bruno Bolfo, un manager con esperienze nell’acciaio in Italia, Stati Uniti e Sudamerica.

    In Ticino, al momento della creazione della Duferco, Bolfo non c’è. A comparire di fronte al notaio sono due figure note del sottobosco finanziario e societario luganese: Elio Borradori, padre dell’attuale sindaco Marco, che diventerà noto per essere stato l’amministratore dei dittatori Saddam Hussein e Ferdinando Marcos, e il suo socio Josef Kraft. Al momento della sua creazione, la maggioranza delle azioni della Duferco saranno detenute da una sconosciuta società del Liechtenstein, la Forward Investment, amministrata dallo stesso Kraft.

    Quando, un anno dopo, viene creata in Lussemburgo la prima Duferco Holding, lo schema si ripete: il controllo è affidato alla Laconfida di Vaduz, la società figlia dello studio legale Borradori e da cui sono transitati molti dei segreti finanziari, più o meno occulti, legati al sottobosco fiduciario luganese. Nel 1990, quando la Duferco decide d’insediare la sua casa madre a Guernsey, la Duferco Holding viene liquidata nel Granducato. Ad occuparsi della liquidazione sono Josef Kraft e Jean-Louis Hurst, suo successore a Laconfida ed ex dirigente del gruppo Ocra, la struttura creata da Tito Tettamanti per la gestione della contabilità parallela dei potentati di mezzo mondo. Hurst entrerà di lì a poco anche nella Duferco di Lugano, nel frattempo diventata sede operativa di quello che si sta profilando come il più grande commerciante di acciaio del pianeta.

    Una società che negli anni ’90 si lancia alla conquista del selvaggio Est in preda al caos delle privatizzazioni del settore siderurgico. In quegli anni, oltre a stringere alleanze con gli oligarchi russi e ucraini, Duferco consolida la propria struttura societaria in Ticino. Per farlo, Bruno Bolfo fa affidamento ad un gruppo di rampanti fiduciari ed esperti fiscali. Nel 1996, infatti, nel Cda di Duferco c’entrano Donato Cortesi e Adelio Lardi, gli ideatori dell’ingegneria fiscale dei giganti della moda che in quegli anni inizieranno a insediarsi in Ticino.

    Nel 1999, Lardi e Cortesi, assieme al già citato Hurst e ai top manager di Duferco, si faranno promotori della nascita di Dufenergy, la società che diventerà Dxt Commodities. Un nome poco noto, ma che oggi è la più importante azienda ticinese per cifra d’affari. Una società che, come abbiamo visto nell’articolo sopra, è controllata di fatto al 50% da una società del Delaware, al 25% da una lussemburghese e al 25% da un trust del Lichtenstein, cassaforte dei tesori di Bruno Bolfo. Insomma, dall’inizio alla fine, i segreti di Duferco portano sempre a Vaduz.

    https://www.areaonline.ch/La-galassia-offshore-dei-trader-ticinesi-Il-caso-Duferco-08bb2900


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    #matière_première #offshore #acier @cdb_77 #suisse #tessin

  • Coronavirus : « Sauvegardons les droits fondamentaux pendant la crise sanitaire »
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2020/03/20/coronavirus-sauvegardons-les-droits-fondamentaux-pendant-la-crise-sanitaire_

    Tribune. Les mesures annoncées par le président de la République imposent à toute la population résidant en France un confinement et une « distanciation sociale » destinés à limiter les risques de propagation du virus Covid-19. Ces mesures, nécessaires, doivent être mises en œuvre en gardant à l’esprit les difficultés de la vie quotidienne qu’éprouvent les personnes les plus précaires et les plus fragiles, et l’exigence de garantir l’égalité de traitement de toutes et de tous comme le plein exercice des droits fondamentaux.

    Dans les circonstances que nous connaissons, les personnes enfermées, isolées, celles qui vivent à la rue, qui ont besoin d’aide sociale pour une partie de leurs besoins fondamentaux, seront les premières à subir une double peine si rien n’est fait pour les accompagner. Ces mesures jettent notamment une lumière cruelle sur les conditions de promiscuité qui prévalent dans les prisons et les centres de rétention administrative que l’hébergement collectif, une hygiène souvent défaillante et des locaux exigus risquent de transformer en foyers de propagation du virus que l’on voudrait combattre.

    Le risque sanitaire touche les hommes, les femmes et les mineurs qui y sont enfermés, ainsi que les professionnels qui les prennent en charge, eux-mêmes susceptibles de transmettre la maladie à leurs proches. En temps ordinaire déjà, nous n’avons de cesse de dénoncer les conditions d’enfermement qui prévalent dans les prisons et les centres de rétention administrative (CRA).

    Les mesures prises ne sont pas à la hauteur de la situation

    La Cour européenne des droits de l’homme a récemment condamné la France considérant les conditions de détention au sein de ses établissements surpeuplés comme un traitement inhumain et dégradant. Pendant la période du confinement toutes ces conditions sont aggravées : les sorties de cellule sont réduites, les soignants mobilisés ailleurs, les enseignants confinés chez eux, la « distanciation sociale » est impossible et les personnes fragiles ne peuvent pas être isolées.
    Article réservé à nos abonnés Lire aussi Coronavirus : « Réduisons le nombre de personnes incarcérées pour de courtes peines ou en fin de peine »

    Le Défenseur des droits, la Contrôleure générale de lieux de privation de liberté et la Commission nationale consultative des droits de l’homme, saisis par des personnes enfermées, par des associations et par des professionnels, ont déjà, chacun dans leur champ de compétence, alerté les ministres de la justice et de l’intérieur sur la situation des lieux d’enfermement. Des associations ou des organisations professionnelles ont également fait entendre leur voix. Des premières décisions ont été prises à la suite de ces interventions, mais elles ne sont pas encore à la mesure des risques encourus.

    Dans les prisons tout d’abord, où les contacts avec l’extérieur, familles et avocats, ont été suspendus, une aide de 40 euros pour le téléphone et la gratuité de la télévision ont été prévues. Et une régulation de l’occupation des maisons d’arrêt a été amorcée sous la forme d’un différé de la mise à exécution des courtes peines d’emprisonnement. Mais des contraintes nouvelles sont apparues : le travail, la scolarité, la formation et les activités sont suspendus et les associations ont cessé leurs activités. Les personnes détenues se trouvent donc souvent enfermées dans la promiscuité au moins vingt-deux heures sur vingt-quatre.

    Faire sortir les personnes vulnérables des maisons d’arrêt

    L’Etat ne peut pas plus longtemps surseoir à la recherche de l’encellulement individuel que la loi lui a, à de nombreuses reprises, imposé en vain. C’est la condition nécessaire pour que l’on puisse considérer que les personnes détenues sont confinées à l’instar de toute la population, et non simplement « entassées ».

    Pour cela, il faut réduire le nombre des personnes détenues dans les maisons d’arrêt à la fois en différant la mise à exécution des courtes peines, comme cela a été commencé, et en prenant de manière rapide et massive les mesures nécessaires pour faire sortir sans délai, et sans s’interdire les voies de la grâce ou de l’amnistie, les personnes détenues les plus proches de leur fin de peine, en particulier les mineurs et les personnes particulièrement vulnérables, dépendantes, ou souffrant de pathologies chroniques ou de troubles mentaux.

    Dans les CRA, les conditions de rétention méconnaissent toutes les directives des autorités sanitaires. Dans certains centres, aucune information n’est donnée à la population retenue, l’hébergement est organisé dans la promiscuité, la restauration collective est maintenue et toute protection, tant de la population retenue que des fonctionnaires de police, fait défaut.

    Dans un contexte de réduction drastique des vols internationaux, la perspective de reconduite des personnes retenues n’est plus envisageable à court terme ; dès lors la mesure de rétention elle-même se trouve dépourvue de fondement juridique car la loi n’autorise la rétention que pour la préparation d’un éloignement. Le maintien d’étrangers en rétention n’est donc pas seulement une prise de risque, c’est aussi une privation de liberté illégale.

    Un haut risque sanitaire

    Pourtant, le ministère de l’intérieur, alors même qu’il existe des « porteurs sains », persiste à envisager le placement en rétention des « étrangers en situation irrégulière qui ne présentent pas de symptômes évocateurs d’une infection par le covid-19 ». La rétention administrative est aujourd’hui une mesure à haut risque sanitaire dépourvue de fondement faute de possibilité d’éloignement.

    Il en est évidemment de même dans les zones d’attente au sein desquelles les conditions sanitaires sont comparables, l’accès au juge non garanti et le refoulement impossible. Aucune autre mesure raisonnable que la fermeture provisoire des centres de rétention et la suspension des placements en zone d’attente n’est donc possible.

    Dans certains établissements de santé (établissements hospitaliers, Ehpad, etc.), même si la situation est différente, la nécessaire protection de la santé des aidants, du personnel soignant et des mandataires justifie, faute de matériel de protection suffisant, l’interruption ou l’espacement des soins, des services d’aide à la personne à destination des plus vulnérables ainsi que de la protection judiciaire des « majeurs protégés ».
    Un appel à des mesures urgentes

    La prise en compte des besoins de ces populations fragiles passe par l’octroi de moyens adaptés à bref délai pour remédier à des situations de grande détresse, et des visites de contrôle régulières des Agences régionales de santé.

    Enfin, au moment où des mesures coercitives visant au maintien à domicile sont prises sur l’ensemble du territoire national, sous peine de sanction, se pose la question du confinement et de la protection des personnes qui vivent à la rue, en campements, en bidonvilles. Les situations sont traitées très différemment selon les lieux du territoire : alors que des campements sont démantelés et conduisent à la circulation de personnes potentiellement infectées, d’autres sont au contraire confinés, empêchant les occupants d’accéder aux points d’eau et aux distributions de repas effectuées à l’extérieur, soit à leurs droits les plus fondamentaux.

    Dans ce contexte, le ralentissement voire la suspension des dispositifs d’accueil des mineurs non accompagnés pose des difficultés revêtant un caractère d’urgence absolue, que ces jeunes soient laissés à la rue, sans protection, ou confinés à l’hôtel, structure bien peu adaptée à leur prise en charge. En tout état de cause, la verbalisation de ces personnes, en l’absence d’attestations justifiant de leur sortie, est particulièrement inappropriée et injuste.

    Nous appelons à ce que les mesures urgentes prises pour répondre à la nature exceptionnelle de ce risque sanitaire soient proportionnées, et à ce que l’Etat mette en œuvre son devoir d’assistance pour assurer l’égale dignité de toutes et de tous.

    Jacques Toubon(Défenseur des droits), Adeline Hazan(Contrôleuse générale des lieux de privation de liberté) et Jean-Marie Burguburu(Président de de la Commission nationale consultative des droits de l’homme)

  • Durant cette période de #confinement, restons en #lien, ne laissons pas la morosité nous gagner. Apportons-nous mutuellement #soutien et #réconfort ! Une pensée, des pistes d’entraide, une réflexion commune pour repenser ce monde qui part en vrille. Et tout ce qui pourra réenchanter un quotidien qui s’assombrit. Faisons vivre notre idéal de #fraternité et de solidarité, quel que soit notre sexe, notre couleur de peau, notre milieu ou notre âge ! Ouvrons l’horizon, faisons germer l’#espoir à partir de cette crise... Montrons qu’un autre monde est possible !


    https://fraternite-covid19.fr/?PagePrincipale
    #solidarité #covid-19 #coronavirus #France #cartographie #visualisation ##COVID-ENTRAIDE #entraide

    Adresse url pour la carte :
    https://covidentraide.gogocarto.fr/annuaire#/carte/@48.27,22.63,4z?cat=all

    • Retournons la « #stratégie_du_choc » en déferlante de #solidarité !

      Depuis une semaine la France est entrée dans une nouvelle réalité vertigineuse. Le Covid-19 n’est plus une « petite grippe », selon nos gouvernants, mais la « pire crise sanitaire depuis un siècle ». Un choc intime qui nous fait trembler pour nos proches et toutes les personnes particulièrement fragiles. Une secousse géopolitique qui fait s’effondrer la mondialisation néolibérale comme un château de cartes. 2019 avait été une année d’incendies ravageurs en Australie, Amazonie et ailleurs, et d’immenses soulèvements populaires. 2020 a d’ores et déjà les traits d’une paralysie totale, une crise systémique majeure.

      Cette pandémie achève de rendre irrespirable la vie dans un système politique et économique délirant, néfaste, mais surtout inutile au moment où un immense besoin de soin se fait sentir. Après être resté attentiste pendant un mois et demi, Emmanuel Macron a promis, pour ne pas perdre la face, que « l’État paiera […] quoi qu’il en coûte ». La « mobilisation générale » est décrétée. « Nous sommes en guerre », paraît-il, contre un « ennemi invisible ».

      Face à cette rhétorique militariste, nous affirmons une autre logique. À « l’union nationale » nous préférons l’entraide générale. À la guerre, nous opposons le soin, de nos proches jusqu’aux peuples du monde entier et au vivant. En France, comme dans les autres pays, nous allons tenir ensemble pour faire face à l’épidémie. Nous allons transformer l’isolement imposé en immense élan d’auto-organisation et de solidarité collective.

      Avec nos voisin.e.s, nos ami.e.s, nos familles, nos proches, nos collègues ; dans nos immeubles, nos rues, nos quartiers, nos villes et nos villages ; notamment en utilisant les réseaux sociaux, nous allons construire l’entraide à la base. Pour aider les plus fragiles qui ne peuvent pas sortir à obtenir de la nourriture. Pour garder les enfants de celles et ceux qui doivent continuer de travailler. Pour partager des informations vérifiées sur la situation. Pour se donner des nouvelles et se réconforter dans cette situation déchirante. Pour soutenir les plus précaires dans leurs luttes pour vivre. Pour faire face à une crise économique, bancaire et financière qui s’annonce dévastatrice malgré les annonces faussement rassurantes des banques centrales. En restant chez nous pour le moment, mais dans la rue dès que possible.

      Face à l’ampleur du bouleversement, même Emmanuel Macron appelle à « innover dans la solidarité ». Mais nous ne sommes pas dupes du fameux « en même temps » : l’entraide que nous construisons n’est pas l’auxiliaire d’un État néolibéral défaillant. Elle ne sera pas le cheval de Troie d’une future « stratégie du choc » à base de télétravail, de « volontariat citoyen » dans des services publics détruits, et de poursuite dans la destruction des acquis sociaux au nom de « l’état d’urgence sanitaire ».

      Notre solidarité est celle du peuple, de ceux d’en bas, qui se serrent les coudes pour survivre et pour vivre dignement. Elle n’a rien à voir avec celle des élites mondiales – facilement dépistées, elles -, qui se retranchent dans leurs palais dorés, protégés et désinfectés pendant que les soignant-e-s sont « au front » sans moyens et fabriquent leurs propres masques de protection en prenant tous les risques.

      Pendant que les travailleurs sociaux et les institutrices gardent leurs enfants, sans consigne officielle pour se protéger, s’exposant à une contamination. Pendant que les plus précaires, les sans logis, sans papiers, sans réseaux sociaux, les intérimaires sans chômage partiel, les « indépendants » contraints au travail en danger ou sans activité, seront encore plus frappé.e.s par la crise. Pendant que les « déjà confiné.e.s », les migrant.e.s enfermé.e.s en centres de rétentions et les prisonnier-e-s voient leur situation encore aggravée. Pendant que les habitant.e.s des quartiers populaires et les personnes racisé.e.s sont parmi les premier.e.s visé.e.s par la répression liée au confinement.

      Jamais l’alternative n’a été si claire, le scandale si palpable : nous jouons notre vie pendant qu’eux gèrent l’économie.

      L’entraide que nous allons construire s’inscrit dans le sillage du soulèvement des peuples partout dans le monde au cours des derniers mois, du Chili au Liban, de l’Algérie au Soudan. Cette vague a répandu sur la planète la nécessité de mettre nos corps en jeu. Le Covid-19 rend indispensable, pour l’heure, leur confinement. Mais révoltées ou confinés, nous mourrons d’un système qui recherche le profit et l’efficacité et pas le soin, le pouvoir et la compétition et pas l’entraide.

      Cette épidémie ravageuse n’est pas une simple réalité biologique. Elle est amplifiée par les politiques néolibérales, la destruction méthodique de l’hôpital et de l’ensemble des services publics. Si ce virus tue autant, c’est aussi parce qu’il n’y a plus assez de soignant.e.s et de lits, pas assez de respirateurs ou parce que l’hôpital tend à devenir une entreprise à flux tendu. Et si nous applaudissons chaque soir à 20h les soignant.e.s, c’est aussi pour contenir notre colère contre les gouvernants qui savaient que la tempête arrivait depuis deux mois sans rien faire.

      Nous appelons donc à renforcer la solidarité et l’auto-organisation pour faire face à la pandémie et la crise systémique, partout où c’est possible, sous toutes les formes imaginables, tout en respectant la nécessité absolue du confinement pour freiner la propagation. Plus particulièrement, nous appelons à rejoindre le réseau de solidarité auto-organisé #COVID-ENTRAIDE FRANCE (https://covid-entraide.fr) qui se constitue dans des dizaines de lieux depuis une dizaine de jours. Nous invitons à créer des groupes d’entraides locaux en ligne et sur le terrain, de notre hameau à notre village, de notre immeuble à notre ville. Nous appelons à recenser les centaines d’initiatives qui se créent à travers une cartographie collaborative (https://covidentraide.gogocarto.fr).

      Ne restons pas sidéré.e.s face à cette situation qui nous bouleverse, nous enrage et nous fait trembler. Lorsque la pandémie sera finie, d’autres crises viendront. Entre temps, il y aura des responsables à aller chercher, des comptes à rendre, des plaies à réparer et un monde à construire. À nous de faire en sorte que l’onde de choc mondiale du Covid-19 soit la « crise » de trop et marque un coup d’arrêt au régime actuel d’exploitation et de destruction des conditions d’existence sur Terre. Il n’y aura pas de « sortie de crise » sans un bouleversement majeur de l’organisation sociale et économique actuelle.

      Il y aura un avant et un après. Nous sommes pour l’instant confiné-e-s, mais nous nous organisons. Et, pour sûr, nous reprendrons les rues, les jardins, les outils de travail, les moyens de communication et les assemblées, ensemble.

      La stratégie du choc doit s’inverser. Cette fois-ci le choc ne servira pas à affermir le contrôle, le pouvoir central, les inégalités et le néolibéralisme, mais à renforcer l’entraide et l’auto-organisation. À les inscrire dans le marbre.

      INFOS :

      Site internet : https://covid-entraide.fr
      Inscrivez votre groupe local ici : https://covidentraide.gogocarto.fr
      Contact : covidentraidefrance@riseup.net

      https://www.terrestres.org/2020/03/21/face-a-la-pandemie-retournons-la-strategie-du-choc-en-deferlante-de-soli
      #épidémie #coronavirus #pandémie

  • Faire comme si de rien n’était, vraiment ? À propos de la « #continuité_pédagogique » en période de confinement.

    Samedi, alors que le premier Ministre annonçait le #confinement, sans annuler les élections, j’ai reçu un énième message sur les « #cours_en_distanciel ». Émanant d’une collègue que j’aime beaucoup, il indiquait qu’elle allait faire ses #cours_en_ligne de telle façon, mais pas de telle autre. La notice venait après des dizaines d’autres, sur Twitter et sur des listes professionnelles, où on continuait à voir circuler des appels à contributions pour des colloques, des appels à projet et bien sûr des trucs et astuces pour faire des cours. Sur mes propres listes institutionnelles, une fièvre s’était emparée de mes collègues dès mercredi pour savoir quels étaient les meilleurs #outils, libres ou non, pour faire des séminaires à distance. Était-ce la douceur d’un soir marseillais ? Je me suis demandée comment les Marseillais·es avaient vécu l’épidémie de 1720 — du moins celles et ceux qui n’avaient pas fui

    Ces enseignant•es qui veulent continuer à enseigner envers et contre tout, auraient-il/elles fait la même chose pendant la peste de 1720 ou l’épidémie de choléra de 1832 ?

    Non. Parce que le numérique n’existait pas, me direz-vous.

    Sommes-nous à ce point (dé)connectés que nous ne parvenons pas à comprendre que nous allons vivre une profonde #perturbation de notre #quotidien, de nos #habitudes, de nos #temps_sociaux ? Que cette perturbation implique déjà de nous occuper de nos proches, nos enfants, nos parents, voire nos voisins dans le besoin, et surtout de s’attacher à ne pas propager le virus, en restant chez soi ?
    Peut-être l’idée de connaître des deuils affleure-t-elle encore à peine à la conscience. Peut-être aussi la paranoïa ne laisse pas de place pour l’information objective. Si le taux de mortalité à 3% de la population affectée est confirmée, il n’est pas de doute que la mort va se rapprocher de nous. Elle va aussi se rapprocher des étudiant·es.
    Ne pouvons-nous aussi nous arrêter d’enseigner quelque temps ? Que veut dire cette « continuité pédagogique » qu’on nous serine à longueur de correspondance institutionnelle ?

    On peut légitimement se demander ce que voulait dire déjà cette « continuité pédagogique », quand les étudiant·es se voyaient retirer leur titre de séjour en cours d’année, quand ils ou elles se retrouvaient sans toit, sans emploi, sans de quoi se nourrir, quand leur présence en cours était si rare, parce qu’ils ou elles devaient travailler ? Que veut dire « continuité pédagogique » aujourd’hui ?
    Ce qui m’interroge davantage encore, c’est le rapport qu’entretiennent mes collègues à leur savoir. Déployer de l’énergie à essayer de mettre en œuvre des #visioconférences, c’est aussi imposer aux étudiant·es la croyance que le savoir universitaire — et son partage dans une relation pédagogique — surpasse tout. Je ne parle des collègues qui ne jurent plus que par les « pédagogies innovantes de type MOOC »2 sans s’être jamais demandé de quels outils et de quelle qualité de connexion les étudiant·es disposaient, confiné·es hors des campus. Je ne parle pas non plus de la croyance en la nécessité d’une relation pédagogique surplombante, de maître à élève, en laquelle semblent adhérer quelques collègues. Est-ce le pouvoir qu’ils ou elles retirent de cette #domination_savante qui justifie cet entêtement ? Ou plus simplement, leur #addiction_au_travail et le #déni de la #pandémie ?
    Dans cette logique, la #relation_pédagogique universitaire serait ainsi tellement éminente pour justifier l’enseignement universitaire et sa validation en tout temps. Même en celui où les collègues enseignant·es, hommes et femmes, parents de jeunes et moins jeunes enfants, enfants de parents âgées, se retrouvent du jour au lendemain sans autre solution que de s’en occuper à temps plein.
    Cela fait plusieurs mois qu’en dépit des signaux les plus crus de destruction massive de l’Université et du Code de l’Éducation, de la pauvreté dramatique de certain·es étudiant·es, de la mise en danger du renouvellement de nos disciplines, faute de recrutements, tout le monde continue, comme si de rien n’était, à faire cours, déposer des ANR, organiser des réunions, faire des colloques, recruter des doctorant·es —en sachant pertinemment qu’ils ou elles n’auront pas de postes après les longues et pénibles années de thèse.Pour autant, ce qui a primé, chez une majorité de collègues universitaires c’est continuer à travailler.
    Avec le COVID-19, je prends conscience d’une #pathologie_pédagogique : celle d’une déconnexion de la vie savante et de la vie tout court. Je ne suis pas sûre d’avoir envie d’entraîner mes etudiant•es dans cette voie névrotique.
    Bien au contraire, c’est d’abord du bien-être de mes étudiant·es et de leurs besoins que je me suis enquise. Je l’ai fait non sans savoir que plusieurs d’entre elleux n’auront pas l’envie de dévoiler une situation délicate ou des soucis de santé physique ou mentale, alors qu’ils ou elles sont loin de leurs proches, quand ils ou elles ont encore de la famille. C’est ensuite — d’abord — et surtout de mon fils, avec qui il va me falloir composer pendant quelques semaines, sans sortir. Bien sûr, je sais qu’il me faudra un temps d’#adaptation, après trois mois de veille et de chroniques quotidiennes sur ce blog, auxquelles je suis devenue dépendante. Par chance, contrairement aux Marseillais·es de 1720, le téléphone et Internet existent pour que mon fils et moi maintenions vivante l’affection qui nous lie à nos proches à l’autre bout de la France et à nos ami·es un peu moins éloigné·es, comme à celles et ceux vivant à l’étranger. Il sera temps bientôt de demander si je peux être utile, auprès de collectifs contre les violences faites aux femmes, de Réseau Éducation Sans Frontière, ou d’autres associations solidaires.

    Lors d’une épidémie du 16e siècle, Claire Dolan avait suivi les trajets quotidiens du notaire pour enregistrer sans relâche baptêmes, décès, dernières volontés, au travers des portes cochères et par les fenêtres3 /. En 1720, le dévouement du chevalier Roze et de l’évêque de Belsunce ont durablement marqué la mémoire des Marseillais·es. Les médecins avaient fui. Ce qui est moins connu, c’est que les habitant·es confinés ont eu aussi une grande confiance dans leur soignant·es, ces « chirurgiens de peste » mercenaires, de basse extraction, recrutés dans tout le royaume pour s’occuper des malades, en l’échange de la promesse de pouvoir s’installer sans frais4. Il est peut-être ridicule de nous comparer avec ces humains d’un autre temps. Pourtant réfléchir à leur histoire et leur expérience de l’épidémie nous tend un miroir5 : quel sera le rôle des universitaires de sciences humaines et sociales en ) 2020 ? Faire des cours en ligne ? (Re)devenir simple citoyen ? Continuer d’élaborer, dans le prolongement de la mobilisation de l’hiver, l’Université de demain ? Ou tout autre chose ?

    Notes :

    Sur l’expérience de la peste et la transformation des institutions de police et de justice, voir la thèse de Fleur Beauvieux, Expériences ordinaires de la peste. La société marseillaise en temps d’épidémie (1720-1724) (EHESS, 2017), à paraître chez David Gaussen éditeur en 2020. [↩]
    Je ne parle même pas des collègues qui, n’ayant jamais envoyé un document .pdf à leurs étudiant·es de leur vie, vantent les MOOC sans les avoir pratiqué et don sans connaître leurs désavantages. [↩]
    Claire Dolan, Le notaire, la famille et la ville (Aix-en-Provence à la fin du XVIe siècle. Toulouse, Presses du Mirail, 1998. [↩]
    Voir la thèse de Jamel El Hadj, Les chirurgiens et l’organisation sanitaire contre la peste à Marseille : 17e-18e siècles (EHESS, 2016). [↩]
    À l’instar de celui que Marc Bloch nous a tendu dans L’étrange défaite, texte rédigé entre juillet et septembre 1940, comme manière de rationnaliser la panique qui venait. [↩]

    https://academia.hypotheses.org/21189

    Je sens que je vais assez rapidement détester ce mot... continuité pédagogique...

    • Le #diktat de la « continuité pédagogique » - concept dont il convient de faire la critique - se traduit par la découverte
      d’une fracture numérique béante dans les usages, les pratiques et dans la possession des outils. L’injonction à mettre en ligne ses cours prend des
      formes parfois autoritaires. Ou alors on voit naître des fayots de service, fiers de montrer leur dernières innovations et autorisés à les envoyer en exemple
      à tous les personnels enseignants.
      Alors que des personnes meurent dans l’hôpital de la même ville, alors que les étudiants et médecins qu’on a formés dans cette université travaillent sans les protections rudimentaires qu’ils devraient avoir et exposent leur santé et peut-être leur vie, j’ai trouvé qu’il y avait une #indécence inouïe à se lancer dans cette folie de la continuité pédagogique.
      Je ne mettrai pas un seul cours en ligne. J’aurai de nombreux échanges avec mes étudiants, ils auront des supports de travail en ligne, ce que je fais depuis des années. Ils travailleront beaucoup, mais il n’y aura aucun cours. Il n’y pas de continuité pédagogique sans cours. La situation effective de l’enseignement
      dans les universités françaises est la suivante : une rupture pédagogique, une rupture de la relation pédagogique. Ce qui se passe et s’invente dans les
      nouvelles relations avec des étudiants et des enseignants confinés, n’est pas de l’ordre de la continuité pédagogique. C’est tout autre chose.

      Pour ce qui est des cours, je dirais ceci : chaque cours mis en ligne aujourd’hui c’est une fraction de poste qui sera perdue demain.
      Mais il y a plus grave : c’est ouvrir la possibilité d’être dessaisi de ce qui fait le plus propre de notre subjectivité, ce que nous inventons dans nos cours et nos recherches et qui se promène à tous les vents sous la forme d’un écrit privé de sa voix.
      Or il n’y a pas de cours à l’université sans des voix vivantes incarnées dans des corps, sans la présence d’un regard, sans l’expérience d’un langage
      qui invente l’inconnu grâce à l’écoute et la présence d’un autre. Un cours, c’est une incarnation. Ce n’est pas un écran. Ce n’est pas ce devant quoi
      je suis 18h par jour depuis que je ne fais plus cours.

      Reçu par email de la part de Pascal Maillard, le 18.03.2020.

      –-----

      Pascal Maillard a publié ce texte, légèrement modifié, sur son blog aussi...

      Continuité ou rupture pédagogique ?

      « Confidence d’un confiné : ne plus faire cours me manque. Ça, c’est une rupture, pas une continuité ». Publication d’une lettre envoyée cette nuit aux personnels de l’université. Contre la rupture numérique, la taylorisation des enseignements et le confinement des esprits.

      Bonsoir,

      Voici le message envoyé ce jour à tous les personnels de l’université de Strasbourg par l’intersyndicale. Je joins à ce mail la motion du CHSCT adoptée à l’unanimité le vendredi 13 et qui a fait l’objet d’un refus du président, lequel a été rattrapé par les décisions nationales. Il nous a accordé seulement un représentant des personnels dans la cellule de crise. Dimanche après-midi on y est allé à trois : à contexte exceptionnel, décisions exceptionnelles. On a obtenu une réunion le 20 pour valider le Plan de continuité d’activité, qui est toujours à l’état de brouillon. On a demandé une nouvelle réunion ce jour pour rendre des avis urgents sur de multiples questions.

      Lundi c’était un peu l’anarchie sur le campus. J’avais demandé dimanche qu’ils désactivent les badges d’accès aux bâtiments et ne valident que les accès des personnels essentiels, mais ils n’ont pas voulu au prétexte qu’il fallait laisser les collègues récupérer leurs affaires. Evidemment beaucoup de collègues dans les bureaux et les labos et des contaminations en plus…

      Aujourd’hui c’était plus calme, mais des cas de contamination sont signalés et la mise en place du télétravail est chaotique. Le diktat de la « continuité pédagogique » - concept dont il convient de faire la critique - se traduit par la découverte d’une fracture numérique béante dans les usages, les pratiques et dans la possession des outils. L’injonction à mettre en ligne ses cours prend des formes parfois autoritaires. Ou alors on découvre des collègues fiers de montrer leur dernières innovations et autorisés à les envoyer en exemple à tous les personnels enseignants. Alors que des personnes meurent dans l’hôpital de la même ville, alors que des étudiants et des médecins qu’on a formés dans cette université travaillent sans les protections rudimentaires qu’ils devraient avoir et exposent leur santé et peut-être leur vie, j’ai trouvé qu’il y avait une indécence inouïe à se lancer dans cette folie de la continuité pédagogique.

      Je ne mettrai pas un seul cours en ligne. J’aurai de nombreux échanges avec mes étudiants, ils auront des supports de travail en ligne, ce que je fais depuis des années. Ils travailleront beaucoup, mais il n’y aura aucun cours. Il n’y pas de continuité pédagogique sans cours. La situation effective de l’enseignement dans les universités françaises est la suivante : une rupture pédagogique, une rupture de la relation pédagogique. Ce qui se passe et s’invente dans les nouvelles relations entre des étudiants et des enseignants confinés, n’est pas de l’ordre de la continuité pédagogique. C’est tout autre chose.

      Pour ce qui est des cours, je dirais ceci : chaque cours mis en ligne aujourd’hui c’est une fraction de poste qui sera perdue demain. C’est une main mise dans l’engrenage de la taylorisation de nos enseignements, après celui de la recherche. Mais il y a encore plus grave : c’est ouvrir la possibilité d’être dessaisis de ce qui fait le plus propre de notre subjectivité, de ce que nous inventons dans nos cours et nos recherches et qui se promène à tous les vents sous la forme d’un écrit privé de sa voix. Or il n’y a pas de cours sans des voix vivantes incarnées dans des corps, sans la présence d’un regard, sans l’expérience d’un langage qui invente l’inconnu grâce à l’écoute et la présence d’un autre. Un cours, c’est une incarnation. Ce n’est pas un écran. Ce n’est pas ce devant quoi je suis 18h par jour depuis que je ne fais plus cours.

      Confidence d’un confiné : ne plus faire cours me manque. Ça, c’est une rupture, pas une continuité.

      Bien à vous,

      Pascal Maillard

      PS 1 : Un exemple de dispositif digne d’intérêt : http://philo.unistra.fr/uploads/media/FAC_PHILO-CONTINUITE_PEDAGOGIQUE.05.Publie2020-03-17.pdf

      PS 2 du 18 mars à 14h30 : L’urgence sanitaire requiert d’appeler tout le monde à la plus grande prudence et à la responsabilité. Les représentants des personnels dans les CHSCT ont un rôle majeur à jouer. Il peuvent sauver des vies, surtout dans un contexte où des présidences et des directions d’université, souvent débordées ou mal informées, n’appliquent pas les règles de précaution et de sécurité qui s’imposent. Il faut être inflexible avec elles et imposer le plus haut degré de sécurité. Aucun personnel dans les locaux universitaires sans masques FFP2 et sans gants. Décontamination de tous les locaux occupés. Que les CHSCT prennent des avis en urgence et les fassent respecter. C’est une question d’heure !

      https://blogs.mediapart.fr/pascal-maillard/blog/180320/continuite-ou-rupture-pedagogique

    • « Je sens que je vais assez rapidement détester ce mot... continuité pédagogique... »
      personnellement j’ai commencé à le détester au premier mail reçu de la présidence de l’université. Je lui ai substitué ce qui me semble être un assez bon synonyme : « continuité bureaucratique »

    • Covid19 : Plan de (dis)continuité académique

      Dans la situation de crise actuelle, les universitaires, et probablement plus largement les enseignants, attendent et reçoivent des instructions pour décider de leur comportement professionnel et personnel. Notre appareil de décision et de diffusion des ordres est mis à rude épreuve. L’impression qui se dégage pour l’instant est que le résultat est confus et anxiogène. En plus des fautes de communication, il convient de noter l’absence de l’information la plus importante en temps de crise : un plan de #priorité clair. Cette absence empêche la bonne réorganisation et surtout corsète les initiatives, empêchant de déployer pleinement le potentiel de nos enseignants.

      Le ministre de l’éducation nationale a introduit sa communication de crise par une série d’annonces erronées : la fermeture des écoles n’est pas envisagées, les enseignants continueront d’aller dans les écoles, les examens et concours de recrutement seront maintenus, le dispositif d’enseignement à distance est prêt… Au final, les écoles sont fermées, les enseignants confinés, les examens annulés, et lundi matin le dispositif d’enseignement à distance s’écroulait.

      Pour l’enseignement supérieur, nous disposons d’un courrier d’instructions sommaires et d’un « #plan_de_continuité_pédagogique » consistant en une collection d’#astuces_pédagogiques (« Tenez compte des horaires », « Encouragez les élèves à réfléchir »), de quelques informations techniques sur des plateformes utilisables, et de points de droit notamment sur les stages.

      Premièrement, les prérogatives des enseignants ne sont jamais clairement identifiées : nous ne savons pas quelles questions seront traitées par la hiérarchie, et quelles sont celles que nous pouvons traiter par nous-mêmes. C’est un frein majeur à la #réorganisation. Deuxièmement, aucun plan de priorités clair n’est établi. Toutes les instructions, parfois contradictoires, sont présentées au même niveau. Or, la gestion d’une #crise est en tout premier lieu une histoire de priorités. Etre privé d’un système de priorité pour guider ses décisions est non seulement anxiogène, mais peut aussi conduire à essayer de tout faire, et donc mal faire et s’épuiser, et ensuite peut créer des dissensions au sein des équipes.

      Une proposition de plan de priorités

      Si la hiérarchie n’est pas en mesure de fournir un plan de priorités, il est urgent que les équipes s’en dotent elle-mêmes. En voici une proposition :

      Préserver la santé de tous les étudiants et personnels, y compris précaires, et de leurs proches.

      Exemples :

      Tous doivent être assurés que leur absence ne sera en aucun cas sanctionné sous quelque forme que ce soit, pour peu qu’elle soit notifiée.
      La #continuité_sanitaire pour les étudiants et personnels isolés : un recensement doit être fait, et un plan nourriture/logement établi.

      Limiter le stress du à l’établissement.

      Exemples :

      Les questions liées aux études pour les étudiants et aux rémunérations pour les personnels précaires ne doivent en aucun cas être source d’un stress supplémentaire et ne doivent pas conduire les personnels à se mettre en danger.
      Toutes les difficultés individuelles, y compris au niveau financier, feront l’objet d’un traitement urgent et généreux.
      Assurer le #moral_collectif.

      Exemples :

      La cohésion des équipes et la confiance des personnels est primordiale dès lorsque la santé et le stress sont gérés.
      En temps de crise, la bonne entente est plus importante que l’atteinte d’objectifs fonctionnels, y compris dans l’environnement familial.

      La continuité des activités scientifiques et pédagogiques.

      Exemple :

      C’est seulement lorsque #santé, #stress et #moral sont gérés que les activités scientifiques et pédagogiques peuvent continuer.
      Préserver l’#environnement_familial en période de confinement est plus important qu’assurer des cours à distance.

      Les validations des études et la complétion des formalités administratives.

      Exemples :

      C’est seulement lorsque santé, stress et moral sont gérés, et que les activités scientifiques et pédagogiques ont continué, qu’une validation des études est envisageable.
      Les formalités administratives ne doivent pas empiéter sur la santé, le stress et le moral de la communauté, ainsi que sur la continuité des activités.

      Ce plan de priorité n’est qu’une proposition. On pourra par exemple estimer que les notes sont plus importantes que les cours. Peu importe, mais il est indispensable de pouvoir se référer à un tel plan pour décider de son comportement, notamment lorsque qu’il est impossible de tout faire correctement. Concrètement, ce plan doit permettre à un enseignant dépassé par l’ampleur des tâches de décider de se concentrer soit sur les notes, soit sur les cours, en étant pleinement rassuré que cette décision ne lui portera pas préjudice.

      Sur la base d’un tel plan, les énergies des enseignants pourront se libérer et se focaliser, ce qui sera éventuellement l’occasion d’expérimenter de nouvelles formes de pédagogie.

      Libérer et ouvrir les enseignements

      A l’heure actuelle, puisque l’injonction est d’assurer une continuité pédagogique, nous cherchons à éviter les cassures, et nous reproduisons donc nos classes physiques dans des environnements virtuels, avec l’illusion que ce sera presque pareil. C’est rater l’occasion d’essayer vraiment de nouvelles formes d’organisation pédagogique. Si le plan de priorités estime les notes secondaires, alors il devient possible de s’affranchir des carcans scolaires, et d’innover à l’échelle d’un établissement.

      A titre d’exemple, il devient alors possible que tous les enseignants qui le souhaitent fassent cours à tous les étudiants qui le souhaitent, et même les autres enseignants, les élèves des collèges et lycées, ainsi que les travailleurs et citoyens. Nous sommes parfaitement capables d’adapter les cours que nous maîtrisons déjà ou de monter des conférences de recherche grand public, et de les assurer en ligne, sous forme de cours magistraux. Les infrastructures techniques sont limitées pour une large interaction, mais pas pour une très large diffusion.

      Dans le contexte actuel, libérés des obligations habituelles, il ne faudrait pas plus d’une journée à une université pour collecter une offre pléthorique d’enseignements faisables en ligne. Aucun problème technique ou organisationnel ne s’oppose à la mise en ligne d’un calendrier par les services de communication, puis à une diffusion la plus large possible, à tous les étudiants mais aussi la presse locale. On mettrait ainsi à disposition de tout le monde une véritable offre de formation, faite en direct à la maison, et diffusée en direct dans les maisons.

      La force des libertés académiques

      La force de ce système est le respect des #libertés_académiques. En fournissant un plan de priorités sans indications concrètes sur sa mise en œuvre, on laisserait les universitaires déployer leur énergie et leur imagination au service de toutes et tous, avec la meilleure vue concrète sur le terrain qu’on puisse avoir. En ne prescrivant pas comment les cours doivent être faits ni ce sur quoi ils doivent porter, en laissant les étudiants choisir ce qui les intéresse et en ouvrant les cours au plus grand nombre, on exploiterait pleinement la véritable puissance de l’Université.

      La crise est une occasion unique de réellement faire de l’interdisciplinarité, de l’éducation initiale, scientifique, populaire et continue, et même de la science citoyenne. Rater cette occasion serait une faute morale pour l’Université.

      http://blog.educpros.fr/julien-gossa/2020/03/18/covid19-plan-de-dis-continuite-academique

    • Testo di Filippo Celata, ricevuto via mail:

      «In giorni di isolamento, comunicazioni a distanza, didattica online, riunioni su skype, è bene ricordare i vantaggi preziosi e insostituibili degli incontri di persona, “faccia a faccia”: stimolano la partecipazione attiva, implicano un maggiore impegno reciproco, scoraggiano a mentire, consentono risposte più rapide, forme di comunicazione non verbale, di capire le reali intenzioni e emozioni dell’interlocutore (‘screening’), facilitano la condivisione di valori e linguaggi specifici, consentono la trasmissione di conoscenze tacite, non codificabili, riservate, rafforzano i legami e la fiducia reciproca, rimuovono l’anonimato, riducono la sostituibilità dell’interlocutore, permettono non solo lo scambio di informazioni pre-esistenti per realizzare obiettivi prestabiliti ma di stabilire questi obiettivi e produrre nuove conoscenze, consentono esiti casuali e non pianificati (serendipità), favoriscono l’informalità, permettono il ‘rush’ (condividere decisioni complesse in tempi rapidi), stimolano l’imitazione, sono meno escludenti e escludibili, non richiedono l’utilizzo di infrastrutture di terzi, sono più efficienti e più efficaci. Le relazioni interpersonali, dice John Urry, possono essere per un po’ gestite e mantenute “a distanza”, ma richiedono di essere per lo meno periodicamente riattivate tramite la compresenza. Ok quindi, coronavirus, che l’isolamento sia totale, ma breve.. ne va dell’infrastruttura sociale che arricchisce e sostiene le nostre relazioni personali, amicali, economiche, politiche..»

    • AMIS PROFS, OÙ EST L’URGENCE ?
      Réflexion de #Bénédicte_Tratnjek (@ville_en) publiée sur Facebook, le 19.03.2020.

      Je me remets sur un pavé, ce sera le dernier « cri » que j’écrirai, chacun s’apaisera ou non s’il le souhaite. Je ne m’y épuiserais plus...

      Je lis sans cesse ces jours-ci que la précipitation et l’urgence nous font faire des choix sur lesquels nous pouvons peut-être prendre le temps de réfléchir.

      Je lis sans cesse ces jours-ci des messages d’amis parents désespérés par la surcharge de travail qui leur tombe dessus.

      Pour les familles, lundi, découverte de tous les mails que nous avons envoyés pour expliquer comment nous allions fonctionner, tous individuellement car la situation a fait que nous n’avons pas pu le préparer collectivement. La situation est ainsi, mais laissons le temps aux familles (nos élèves et leurs parents) de digérer tout ça, de comprendre.

      Je lis depuis des messages qui me font halluciner, totalement. Tel prof qui n’a pas dormi depuis 4 jours pour tout mettre en ligne. Mais c’est quoi ce « tout » ??? Scanner tout ce que nous aurions fait en une heure avec les élèves a-t-il du sens ? Se précipiter est-il efficace ?

      Tel autre prof qui a fait un plan de travail sur 2 semaines pour que les élèves fassent totalement en autonomie une activité. Ce plan de travail magnifique, qui a dû prendre un temps fou pour la mise en page, y insérer des tableaux d’objectifs, d’activités, de compétences et de tout un truc qui ne parle qu’à nous est-il accessible en totale autonomie, peu importe la volonté qui mettront nos élèves et leurs familles ? Il est réfléchi, mais pour nous, pour nos besoins. Peut-être faut-il prendre le temps de réfléchir à être explicites dans le contexte présent, différent mais aussi stimulant intellectuellement.

      Tel autre prof qui écrit se lever à 4h du matin pour faire de multiples activités pour ses élèves, puis être surchargé par ce que les collègues demandent à ses propres enfants et s’en plaindre (une contradiction digne des reportages de Guillaume Meurice s’il en est !), puis retourné une partie de la nuit travailler à surcharger ses élèves. L’expérience des uns et des autres ne doit-elle pas nous enrichir plutôt que nous appauvrir ?

      Nous râlons, à juste titre, de ne pas avoir le temps de faire toutes les demandes annexes qui nous sont demandés : histoire des arts, éducation aux médias et à l’information, etc. N’est-ce pas le moment de se donner le temps, avec nos élèves, de faire tout ce que nous aimerions faire habituellement ? Ce lien histoire/français sur le Moyen Âge que nous n’avons jamais le temps de monter en se disant qu’on ne propose aux élèves qu’une activité commune allégeant ainsi de manière raisonnable (ni trop ni pas assez) notre charge de travail (un coup c’est moi, un coup c’est toi qui dépose une activité aux élèves) et celle des élèves (une activité commune, pas trop longue, pour deux heures « officielles » dans l’emploi du temps « ordinaire »). Ce lien arts plastiques/histoire que nous ne faisons jamais sur l’impressionnisme au XIXe siècle (tu leur fais étudier la gare Saint-Lazare de Monet, je fais une reprise plus tard sur l’industrialisation). Ce lien SVT/géographie sur le développement durable. Ce lien mathématiques/géographie sur les échelles. Je pourrais multiplier les exemples, c’est sans fin. Sans l’injonction des EPI, très lourds, en faisant simple. Réutilisable en plus les années prochaines.

      Réfléchissons ensemble : c’est quoi apprendre ? c’est quoi enseigner ? qu’est-ce que je veux vraiment enseigner à mes élèves ? que doivent-ils vraiment retenir/comprendre/savoir-faire pour se construire comme citoyen, comme humain, comme personnes qui pensent par elles-mêmes ?

      Prenons le temps de ne pas nous imposer à nous-mêmes des urgences qui n’existent pas. Les instructions officielles relèvent de la « continuité » pédagogique. J’ai beau cherché dans le dictionnaire, « continuité » n’est pas synonyme de « totalité » et encore moins de surplus. L’antonyme de continuité n’est pas totalité : c’est discontinuité, absence.

      Nous serions en tort de ne rien donner. Nous sommes en tort de trop donner.

      Trop donner, c’est faire stresser nos élèves et leurs familles. Trop donner, c’est créer un sentiment de dévalorisation chez ceux qui ne parviennent pas à suivre ce rythme. Trop donner, c’est favoriser la fracture numérique. Trop donner, c’est forcer les familles à choisir quel enfant de la fratrie aura le plus de temps de connexion pour répondre à toutes les exigences des profs et quel(s) enfant(s) n’auront pas accès à tout ça et seront vus comme « mauvais élèves » par leurs enseignants. Trop donner, c’est accentuer les inégalités sociales.

      Trop donner, ce n’est peut-être pas enseigner... On ne sait pas faire, on va se tromper, on va tâtonner. Mais avant tout RÉFLÉCHISSONS. OÙ EST L’URGENCE si je n’envoie pas « du lourd » les premiers jours. Tâtonnons avec les élèves, prenons le temps qu’ils comprennent comment faire, de connaître leur rythme, le nôtre aussi.

      ATTENTION À NOS BONNES INTENTIONS ! Nous les avons toutes et tous. Ce n’est pas la question ! L’enfer est pavé de bonnes intentions... Ne pavons pas l’enfer ! Éclairons nos élèves, donnons leur goût d’apprendre autrement, de pouvoir apprendre avec leurs familles et non pas dans les cris et dans les larmes, veillons à ce qu’ils aillent bien.

      Ce qui se passe est stressant pour des enfants et des jeunes. Et va l’être de plus en plus. Ce n’est que le début de cette période. Soyons raisonnables ! Pour nos élèves, pour leurs familles, pour nous aussi, pour nos proches !

      https://www.facebook.com/benedicte.tratnjek/posts/10156750046895059

      Cela complète cet autre texte de Bénédicte que j’avais déjà publié sur seenthis :
      L’#enseignement en temps de #confinement
      https://seenthis.net/messages/831621

    • Fermeture des universités : la #validation du semestre est nécessaire

      Quelques passages choisis :

      -Nous avons eu accès à une note du ministère concernant le "#Plan_de_continuité_pédagogique", prévoyant d’organiser des #examens_à_distance avec "#télésurveillance" via des prestataires privés, comme #TestWe tarifant un examen à 17€ par étudiant-e. À l’Université de Nanterre par exemple, si les 6752 étudiant-e-s de L1 devaient passer un examen via ce
      prestataire cela reviendrait à 114 784€ l’examen pour une université au budget déjà bien affaibli. Imaginez le #coût que cela engendrerait pour notre université de faire passer la totalité des UE d’un semestre avec ce #prestataire à tou-te-s les étudiant-e-s ! Une mauvaise connexion wifi entraînerait l’ajournement de l’étudiant-e à son partiel ?

      –Maintenir les #examens et #partiels dans cette situation pénaliserait les étudiant.e.s les plus défavorisé.e.s socialement pour qui la situation ne leur permettra pas d’étudier dans
      de bonnes conditions. Nous ne sommes pas opposés à la tenue de cours en ligne si des personnes souhaitent les suivre ou les dispenser, or nous pensons qu’aucune #évaluation ou contrôle d’assiduité ne doit en découler, pour les raisons évoquées plus haut.

      –nous rappelons qu’un examen à distance ne peut pas avoir lieu si l’Université ne peut pas vérifier et garantir que chaque candidat-e dispose des moyens techniques pour être évalué-e. Ainsi le stipule l’article D. 611-12 du Code de l’éducation : « La validation des enseignements contrôlée par des épreuves organisées à distance sous forme numérique, doit être garantie par : « 1° La vérification que le candidat dispose des moyens techniques lui permettant le passage effectif des épreuves ; »

      –Ainsi, nous demandons la validation du semestre 2. C’est la seule mesure qui ne pénalise pas les étudiants, que ce soit sur le plan des résultats ou sur le fait qu’elle ne reporte pas le calendrier universitaire.

      –concernant masters, les possibilité de poursuivre la recherche n’étant pas garantie, nous réclamons le report des rendus de mémoires. En effet la réduction de la documentation accessible ne permet pas de satisfaire les exigences scientifiques attendues pour ces travaux.

      –Il nous semble aussi évident que dans un tel contexte les candidatures en Licence (#Parcoursup) et en Master (#eCandidat) doivent être reportées. Prétendre pouvoir maintenir ces dispositifs de sélection à l’entrée des filières dans un contexte de crise sanitaire, où les #conditions_d’études des étudiant-e-s et lycéen-ne-s sont fortement perturbées, ne fait qu’accroître le #stress et l’#angoisse des jeunes.

      –D’autre part il n’est pas acceptable que #CROUS Grenoble maintienne l’obligation de payer le loyer malgré les mesures de confinement alors même que d’autres CROUS, notamment celui de Poitiers, ont suspendu le versement des loyers pour les étudiant-e-s confiné-e-s.

      –Nous tenons à exprimer notre soutien aux personnels qui souhaiteraient exercer leur #droit_de_retrait si ces mesures n’étaient pas respectées.

      –-> Reçu par mail le 20.03.2020

      #privatisation

    • J’ai fait ce que j’aurais dû faire dès le début, remplir mon #ASA pour #garde_d'enfant.

      Chères et chers collègues,

      Dans ce contexte difficile de crise sanitaire et de confinement, la DGESIP met à notre disposition des fiches relatives à la continuité des activités que vous pouvez consulter ici : https://services.dgesip.fr/T712/covid_19. Elles traitent d’un sujet par fiche et sont mises à jour au fil de l’eau.

      En parallèle, notre ministre a rappelé cette semaine la nécessité de veiller à ce qu’aucun étudiant ne se retrouve complètement isolé, même s’il est connecté, suite aux mesures de confinement. Il est important de dispenser des informations régulièrement dans toutes nos formations et, dans la mesure du possible, de proposer des temps d’interaction avec les étudiants pendant ou en marge de nos enseignements (mails, classes virtuelles, forum moodle, etc.). De même, un petit nombre d’entre nous peut se sentir isolé, il nous appartient, en particulier lorsque nous connaissons les collègues, de maintenir le contact.

      Comme précisé précédemment, la plus grande liberté est laissée aux équipes pédagogiques pour mettre en place les adaptations les plus appropriées à chaque enseignement et aux besoins de chaque population d’étudiants. Le SUPTICE (https://suptice.univ-rennes1.fr) est mobilisé pour vous conseiller et, si vous le souhaitez, vous former et vous accompagner. La Direction de la Communication met à jour quotidiennement des pages d’information pour tous, personnels et étudiants avec des Foires aux Questions (https://www.univ-rennes1.fr/covid19-foires-aux-questions-frequently-asked-questions). La possibilité d’organiser une banque de prêt de matériel informatique est à l’étude à la DFVU (https://www.univ-rennes1.fr/interlocuteurs/direction-de-la-formation-et-de-la-vie-universitaire-dfvu) pour les étudiants qui en sont dépourvus et qui se font connaitre auprès de vous. Pour eux également, des pistes pour participer au financement de forfaits internet adéquats sont examinées. Le pôle handicap est également mobilisé.

      Nous remercions les composantes pour le recensement en cours afin d’identifier les étudiants qui ont besoin de matériel, d’aide ou d’accompagnement spécifique durant cette période. Rester attentif au suivi de nos stagiaires sur le territoire, comme à l’étranger, est une autre priorité et vous êtes nombreux à vous impliquer aux cotés des services, dont la DARI (https://www.univ-rennes1.fr/la-direction-des-affaires-et-relations-internationales), le SFCA (https://www.univ-rennes1.fr/la-direction-des-affaires-et-relations-internationales) et le SOIE (https://soie.univ-rennes1.fr). Avec l’aide de la Fondation Rennes 1, un fonds d’aide d’urgence pour les étudiants en mobilité en difficulté à l’étranger en vue de leur rapatriement, est aussi lancé. Le soutien s’organise et se met en place progressivement au fil des jours, à tous les niveaux. Merci à tous pour votre implication.

      Concernant la continuité pédagogique et l’évolution des modalités des enseignements et des formations, les modifications que vous retiendrez peuvent porter sur les calendriers, les contenus et activités pédagogiques et/ou les MCCC des formations. Il convient de systématiquement les faire valider par les responsables de parcours et de mention, en lien avec les directions de composante. La cohérence et la coordination au sein de nos mentions de diplômes demeurent indispensables, tout comme les échanges préalables sont nécessaires au sein des équipes sur les choix que chacun(e) peut être amené(e) à proposer. Partager l’information et échanger, en toutes situations y compris celle-ci, contribue à la qualité de nos formations.

      Je vous remercie au nom des étudiants pour votre engagement et je vous souhaite de vivre du mieux possible cette période.

      Bien à vous,

      Cette lettre, que j’ai reçue via mail le 20.03.2020, a été accompagnée de ce commentaire :

      Face aux injonctions délirantes de notre université (faire de la continuité pédagogique, en anticipant l’organisation à distance des évaluations et aussi en prenant soin de vérifier que nos étudiants vont bien, et maintenant que nos supports numériques sont accessibles aux handicapés, voir mails envoyés par le VP CFVU et le SUPTICE),

      j’ai fait ce que j’aurais dû faire dès le début, remplir mon ASA pour garde d’enfant.

      Cela ne résoudra pas tous les problèmes, évidemment. Mais déjà si nous remplissons massivement ces ASA, ça leur montrera l’#absurdité de leurs #injonctions.

      Quelques heures avant, cette même enseignante avait envoyé ce message à la liste :

      Je ne supporte plus ces injonctions impossibles à mettre en oeuvre pour nos étudiant.es. Merci de m’indiquer quel est le papier à renvoyer (ASA ?) pour dire que je garde mes enfants et ne peux pas travailler.

      J’essaie tant bien que mal de maintenir un lien avec les étudiant.es connecté.es, et notre université nous parle jour après jour de continuité pédagogique. C’est une pression intolérable.

      – Je n’ai absolument pas le temps ni les compétences pour faire dans l’urgence depuis mon domicile des supports de cours à distance adaptés aux étudiant.es en situation de handicap.

      – De nombreux étudiants confinés seuls, y compris non handicapés, m’ont dit déprimer et ne pas réussir à travailler. Je suis plus inquiète pour leur santé mentale et physique que leurs talents mathématiques présents futurs.

      – De nombreux étudiants ne répondent pas aux sollicitations électroniques, je n’ai pas de nouvelles, je ne sais pas où ni comment ils sont confinés.

      – Je n’ai pas envie de culpabiliser de ne pas réussir à tout gérer : les devoirs des enfants, les courses et repas, et les étudiants.

      – Je n’ai pas une situation plus compliquée que d’autres collègues, et j’imagine que dans le confinement, la plupart des collègues sont dans l’impossibilité matérielle, psychogique ou temporelle de répondre à de telles injonctions, si tant est qu’ils sachent rédiger leurs polys en braille.

      Par conséquent, je souhaite être sous le régime de l’ASA pour garde d’enfant de moins de 16 ans plutôt que de télétravail, et si possible rétroactivement depuis lundi 16 mars, date à laquelle l’école des enfants s’est arrêtée.

    • #Concours titulaires de l’enseignement supérieur et de la recherche : un projet de décret en « #distanciel »

      Le jeudi 24 mars 2020, sera soumis au Comité technique du Ministère de l’enseignement supérieur, de la recherche et de l’innovation un projet de décret sur le recours à la visio-conférence pour les concours de chercheur·euses et d’enseignant·s-chercheur·ses.

      Le CTMESR est une instance représentative et consultative, devant laquelle le Ministère a l’obligation de présenter tous ses projets en matières d’emploi, de rémunération et de conditions de travail. Son rôle est de fait limité : s’il ne peut abroger un projet qui lui serait soumis, il peut néanmoins les retarder si ses membres, à l’unanimité le juge insuffisant. Dans ce cas, le MESR est censé reconvoquer le CT pour l’examen d’une nouvelle mouture1.

      Compte tenu de l’importance du sujet, il est utile de faire connaître à la communauté, titulaires ou candidat·es au recrutement, le projet du Ministère, qui ne semble pas bien prendre la mesure de l’épidémie. De fait la question des concours poursuit sous une autre forme celle de la « continuité pédagogique » dont Academia a déjà eu l’occasion de présenter les termes du débat 2.

      Nous avons déjà été surpris par le degré d’impréparation des services nationaux de visio-conférence, type Renavisio, qui a immédiatement indiqué ne pouvoir tenir la surcharge du télétravail. En décembre déjà, la tenue des seules soutenances de thèse avaient été chaotiques. Pourtant, elles se tenaient pour l’essentiel sur site, avec deux ou trois membres à distance, pas en distantiel total. Il semble déjà bien impossible de tenir à distance une réunion à 12 ou 15 membres, sans même parler de qualité de délibération.

      Mais ne boudons pas notre plaisir : faisons l’hypothèse que si les titulaires peuvent se réunir à distance pour l’examen des dossiers, au motif qu’ils ou elles disposent des mêmes conditions d’accès (connexion et matériel) à la visio-conférence, nous savons au bout d’une semaine d’essais infructueux que seuls les logiciels type jeux vidéos arrivent à tenir plus de 10 personnes en ligne de façon stable pendant la durée de la réunion. Mais déjà cette hypothèse se trouve infirmée par les relocalisations pré-confinement de plusieurs titulaires dans des zones rurales au câblage moins puissant ; les conversations sont hâchées, coupées pendant plusieurs minutes, interrompues ; le son est quelquefois exécrable, sans même parler des cris d’enfants au milieu des discussions. Si bien évidemment, on souhaite la réunion de l’ensemble du jury, et pas seulement la poignée de membres qui aura réussi à se connecter sans encombre, on peut donc raisonnablement penser que ces réunions seront matériellement impossibles à tenir3.

      Pour ce qui est des #auditions, la perspective n’est même pas envisageable. Le ministère peut-il fournir à l’ensemble des candidat·es l’équipement et la connexion nécessaire à son domicile ? Non. Alors il y a rupture d’#égalité. Jusqu’à présent, les auditions en visio-conférence pouvaient être organisées sur le site universitaire le plus proche du ou de la candidate, plus rarement au domicile. Dans la situation du confinement, ce sera simplement impossible.

      Cela, c’est sans tenir compte de l’inconnue que représente l’évolution de l’épidémie sur la vie quotidienne. Nous pouvons d’ores et déjà que la séquence examens des dossiers + concours se produira au moment attendu du pic de mortalité, en avril. À un moment où les membres des jurys et les candidat·es, s’ils ou elles ne sont pas affectées dans leur corps, auront sans doute à gérer de près ou à distance un décès d’un parent ou d’un proche — sans parler des difficultés inhérentes à toute épidémie, comme les pénuries, les soucis financiers, etc.

      Il sera regrettable qu’en raison de la gestion irresponsable du Ministère, à l’origine de nombreuses ruptures d’égalité ou d’annulations techniques de concours, les candidat·es subissent par des procédures pour #rupture_d’égalité une #double_peine. Ou pire, qu’arguant de la loi d’exception, le Ministère cesse de considérer que les principes d’#impartialité et d’égalité qui régissent les concours de la #fonction_publique cessent d’opérer.

      –------------

      Décret n° du

      fixant les conditions de recours à la #visioconférence pour l’organisation des concours des chargés de recherche et des directeurs de recherche des établissements publics scientifiques et technologiques et des enseignants-chercheurs des établissements d’enseignement supérieur au titre de l’année 2020

      Publics concernés : chargés de recherche et directeurs de recherche des établissements publics scientifiques et technologiques (EPST) et enseignants-chercheurs des établissements d’enseignement supérieur et de recherche

      Objet : utilisation de la visioconférence pour les études des dossiers, les auditions ainsi que pour les réunions de délibération des jurys des concours de chercheurs et des comités de sélection et autres jurys de recrutement d’enseignants-chercheurs.

      Entrée en vigueur : lendemain de la publication

      Notice : le décret vise à ouvrir à l’ensemble des membres des jurys des concours de chercheurs et des comités de sélection et jurys d’enseignants-chercheurs organisés au titre de l’année 2020 la possibilité d’utiliser la visioconférence pour les études des dossiers, les auditions et les délibérations.

      Références : le décret peut être consulté sur le site Légifrance (http://www.legifrance.gouv.fr).

      Le Premier ministre,

      Sur le rapport du ministre de l’action et des comptes publics, du ministre de l’éducation nationale et de la jeunesse et de la ministre de l’enseignement supérieur, de la recherche et de l’innovation,

      Vu la loi n° 83-634 du 13 juillet 1983 modifiée portant droits et obligations des fonctionnaires, ensemble la loi n° 84-16 du 11 janvier 1984 modifiées portant dispositions statutaires relatives à la fonction publique de l’Etat ;

      Vu le décret n°82-451 du 28 mai 1982 modifié relatif aux commissions administratives paritaires ;

      Vu le décret n°83-1260 du 30 décembre 1983 modifié fixant les dispositions statutaires communes aux corps de fonctionnaires des établissements publics scientifiques et technologiques ;

      Vu le décret n°84-431 du 6 juin 1984 fixant les dispositions statutaires communes applicables aux enseignants-chercheurs et portant statut particulier du corps des professeurs des universités et du corps des maîtres de conférences ;

      Vu le décret n°84-1185 du 27 décembre 1984 modifié relatif aux statuts particuliers des corps de fonctionnaires du centre national de la recherche scientifique ;

      Vu le décret n°84-1207 du 28 décembre 1984 relatif au statut particulier des corps de fonctionnaires de l’Institut national de recherche pour l’agriculture, l’alimentation et l’environnement ;

      Vu le décret n°84-1206 du 28 décembre 1984 relatif aux statuts particuliers des corps de fonctionnaires de l’Institut national de la santé et de la recherche médicale (I.N.S.E.R.M.) ;

      Vu le décret n°85-1060 du 2 octobre 1985 relatif aux statuts particuliers des corps de fonctionnaires de l’Institut de recherche pour le développement (IRD) ;

      Vu le décret n° 86-83 du 17 janvier 1986 relatif aux dispositions générales applicables aux agents contractuels de l’Etat pris pour l’application des articles 7 et 7 bis de la loi n° 84-16 du 11 janvier 1984 portant dispositions statutaires relatives à la fonction publique de l’Etat ;

      Vu le décret n°86-576 du 14 mars 1986 relatif aux statuts particuliers des corps de fonctionnaires de l’Institut national de recherche en informatique et en automatique ;

      Vu le décret n°88-451 du 21 avril 1988 relatif aux statuts particuliers des corps de fonctionnaires de l’Institut national d’études démographiques ;

      Vu le décret n°99-272 modifié du 6 avril 1999 relatif aux commissions paritaires d’établissement des établissements publics d’enseignement supérieur ;

      Vu le décret n°2011-184 du 15 février 2011 relatif aux comités techniques dans les administrations et les établissements publics de l’Etat ;

      Vu le décret n° 2017-1748 du 22 décembre 2017 fixant les conditions de recours à la visioconférence pour l’organisation des voies d’accès à la fonction publique de l’Etat ;

      Vu l’avis du comité technique du ministère de l’enseignement supérieur et de la recherche du ;

      Vu l’avis du comité technique des personnels titulaires et stagiaires de statut universitaire du XXX ;

      Après avis du Conseil d’Etat (section de l’administration),

      Décrète

      Article 1er

      Par dérogation aux dispositions de l’article 7 du décret du 22 décembre 2017 susvisé, et pour les concours organisés au titre de l’année 2020, l’ensemble des membres des jurys des concours d’accès aux corps de chargés de recherche et de directeurs de recherche régis par les dispositions du décret du 30 décembre 1983 susvisé peuvent recourir à la visioconférence pour l’étude des dossiers, les auditions et les délibérations, sous réserve que leur identification et leur participation effective soient garanties.

      Les conditions et modalités du recours à la visioconférence par les membres du jury en matière d’audition sont fixées par l’établissement dans le respect du principe d’égalité de traitement entre les candidats.

      Article 2

      La dernière phrase du 4ème alinéa de l’article 9-2 du décret du 6 juin 1984 susvisé ne s’applique pas aux concours de recrutement de professeur des universités ou de maître de conférences régis par ce même décret organisés au titre de l’année 2020.

      Article 3

      Par dérogation aux dispositions de l’article 7 du décret du 22 décembre 2017 susvisé, et pour les concours organisés au titre de l’année 2020, l’ensemble des membres du jury mentionné à l’article 46-1 du décret du 6 juin 1984 susmentionné peuvent recourir à la visioconférence pour l’étude des dossiers, les auditions et les délibérations, sous réserve que leur identification et leur participation effective soient garanties.

      Les conditions et modalités du recours à la visioconférence par les membres du jury en matière d’audition sont fixées par arrêté ministériel dans le respect du principe d’égalité de traitement entre les candidats.

      Article 4

      Par dérogation aux dispositions de l’article 7 du décret du 22 décembre 2017 susvisé, et pour les concours organisés au titre de l’année 2020, l’ensemble des membres des jurys des concours d’accès aux corps assimilés aux enseignants-chercheurs relevant du décret du 6 juin 1984 susmentionné peuvent recourir à la visioconférence pour l’étude des dossiers, les auditions et les délibérations, sous réserve que leur identification et leur participation effective soient garanties.

      Les conditions et modalités du recours à la visioconférence par les membres du jury en matière d’audition sont fixées par l’établissement dans le respect du principe d’égalité de traitement entre les candidats.

      Article 5

      Les commissions administratives partiaires relevant du décret du 28 mai 1982 susvisé, les commissions consultatives paritaires relevant de l’article 1-2 du décret du 17 janvier 1986 susvisé et les commissions paritaires d’établissement relevant du décret du 6 avril 1999 susvisé, instituées dans les services et les établissements publics du ministère de l’enseignement supérieur, de la recherche et de l’innovation peuvent, pour leurs réunions organisées en 2020, appliquer les dispositions de l’article 42 du décret du 15 février 2011 susvisé.

      Article 6

      Le ministre de l’action et des comptes publics, la ministre de l’enseignement supérieur, de la recherche et de l’innovation et le secrétaire d’Etat auprès du ministre de l’action et des comptes publics sont chargés, chacun en ce qui le concerne, de l’exécution du présent décret, qui sera publié au Journal officiel de la République française.

      Par le Premier ministre :

      Le ministre de l’action et des comptes publics,

      Gérald Darmanin

      La ministre de l’enseignement supérieur, de la recherche et de l’innovation

      Frédérique Vidal

      Le secrétaire d’Etat auprès du ministre de l’action et des comptes publics,

      Olivier Dussopt

      https://academia.hypotheses.org/21391

    • Continuité pédagogique ? Témoignages d’enseignantes-chercheuses

      Nous avons recueilli, au hasard des listes de discussions, sur Twitter, en échangeant avec les collègues, plusieurs témoignages qu’il nous semble indispensable de publier pour saisir la distinction entre ce que j’ai appelé la névrose de la continuité pédagogique,et les tentatives, sincères, désespérées quelquefois, de faire vivre le lien pédagogique, ayant conduit Julien Gossa à lancer un appel pour un plan de (dis)continuité pédagogique. Car l’Université, c’est avant tout ces chaînes de transmission de savoir, qui sont aussi des liens éthiques et des valeurs.

      –-------

      Caroline Muller – Rennes-2

      « Chères toutes, chers tous,Je prends conscience que, dans l’effervescence de la mise en place de la « continuité pédagogique », je ne vous ai sans doute pas assez dit l’essentiel : cette période étrange n’est en aucun cas le moment de paniquer ou stresser sur vos cours. Nous savons que tout le monde n’a pas une bonne connexion internet ou des conditions de travail optimales ; je sais aussi que le confinement a des effets psychologiques qui peuvent rendre difficile la concentration. Mon mail précédent était indicatif : l’idée est de garder un peu d’activité intellectuelle et d’éviter un « décrochage » trop violent, pas de préparer à tout prix tout ce qui était prévu.

      Profitez de vos proches s’ils sont avec vous, jouez à la console, écoutez de la musique, plongez dans Gallica ou toutes ces très belles offres culturelles qui nous parviennent (comme quoi, en temps de crise, on se rend compte qu’on pourrait inventer une culture gratuite et accessible à tous), regardez des films, cuisinez si vous pouvez, faites du yoga (sans vous cogner aux meubles si vous êtes dans 12 mètres carrés), applaudissez aux fenêtres, observez ce que l’événement fait à la société, fomentez la fin du capitalisme, dormez, rêvez, parlez à vos amis, organisez des apéros Skype si vous avez une connexion, écrivez à vos professeur(e)s qui sont là pour vous, ressortez les puzzle et les lego, bref : faites ce qui vous fait du bien. Et n’hésitez pas à m’écrire si vous êtes angoissés. On peut même créer un groupe de discussion si vous avez besoin.
      Pour ceux et celles qui sont salarié(e)s, ces temps sont aussi particulièrement difficiles à gérer, entre inquiétude de contamination, pressions hiérarchiques, injonctions contradictoires et nécessité de subvenir à ses besoins. N’hésitez pas à nous contacter pour nous faire part de toute situation de grande fragilité ou de précarité et surtout ne vous donnez pas une pression supplémentaire quant au suivi de votre cursus : nous trouverons des solutions ensemble le moment venu ».

      –------

      VB – Région Rhône-Alpes

      J’ai quand même un collègue qui nous dit, quand on discute des difficultés des étudiants, « Oui enfin bon c’est peut-être juste de la fainéantise et il ne faudrait pas que nous baissions notre niveau d’exigence ».
      Au même moment une étudiante m’écrivait pour s’excuser de ne pas avoir participé au chat que j’avais planifié, parce qu’elle est caissière en supermarché et fait plus d’heures à cause des absences. Au supermarché, bordel, pendant que nous on est confinés avec nos 2500 bouquins et qu’on glose sur « oui mais alors faudrait pas donner leur semestre aux fainéants ».

      –-------

      CP – Grand Est

      Mail de la hiérarchie demandant, UE par UE, un tableau des aménagements prévus pour la continuité pédagogique, et disant que d’autres formations ont déjà remonté les tableaux le week-end dernier. Je ne sais pas dans quel monde c’est humainement possible. On a besoin de TEMPS là. Jean-Michel Blanquer déteint sur l’ESR ou bien ? Les demandes comminatoires de trucs pas raisonnables et précipités, quand on n’a ni pratique, ni formation, ni anticipation vague du passage en distanciel, ça remet une pièce dans le juke box de l’anxiété.
      Du coup, ma réponse :

      CR – Région Centre – Message envoyé au doyen le 20 mars au doyen

      « Il est clair aujourd’hui que les étudiants sont en train de supporter un stress considérable dans ce système improvisé (improvisation qui n’est la faute de personne) : on leur laisse à penser qu’ils doivent suivre des formations à distance qui seront l’objet d’évaluation.
      De mon point de vue, c’est totalement injuste et irresponsable de notre part.
      Nous savons que les inégalités d’accès à Internet nous obligeront à renoncer à toute évaluation sur les « enseignements » donnés dans ce cadre.

      Il est donc de notre responsabilité de dire clairement le plus vite possible aux étudiants que seuls les cours faits avant la fermeture et éventuellement après la reprise feront l’objet d’une évaluation selon des modalités que nous ignorons aujourd’hui.

      Et, en même temps , leur dire que nous les encourageons malgré tout à ne pas se démobiliser en utilisant les ressources données par les enseignants pour réviser et travailler le reste du programme même si cela ne fera pas partie de ce qui sera évalué. Nos étudiants sont assez intelligents pour comprendre cela.

      C’est ce que nous avons fait pendant et à la suite des grèves de 1995-1996 et 2007-2009 ».

      –----------

      VM – Île-de-France

      « Je me posais déjà la question de l’accès aux outils numériques pour les étudiants, mais j’ai reçu des messages complètement catastrophés d’étudiantes et d’étudiants ces derniers jours : pas d’internet autrement qu’un petit forfait sur le téléphone (donc des devoirs à la main envoyés en photos), un ordi pris d’assaut par la famille, pas de BU, etc.

      Les conditions de confinement sont très variables. Certains sont seuls chez eux, d’autres avec un.e ami.e, d’autres avec leurs parents, leurs frères et sœurs, leurs grands-parents. Certains sont dans leur petite chambre d’étudiants, d’autres dans l’appartement familial, certains en ville, d’autres à la campagne. Certains continuent à travailler pour leur job étudiant, d’autres se demandent comment ils vont faire financièrement maintenant qu’ils n’ont plus cette source de revenus. Certains ont des proches malades, voire sont malades eux-mêmes. Certains ont besoin de travailler pour mettre à distance ce qui nous arrive, d’autres sont trop angoissés pour le faire.

      Comment alors leur demander de rendre des devoirs en laissant peser la menace du contrôle continu ? Et quand nous reviendrons ou pas et tenterons de valider le semestre, comment faire pour que ceux qui n’ont pas pu travailler ne soient pas pénalisés ?

      J’ai donc décidé pour la semaine prochaine de mettre sur notre ENT un cours et une correction d’un commentaire qui était à me rendre hier. Nous ferons une heure de classe virtuelle pour que je réponde à leurs questions et que nous maintenions un lien. Ensuite, je continuerai à mettre à l’heure normale du cours des textes, des articles, des liens, toujours en rapport avec l’histoire, mais pas nécessairement en lien avec la thématique exacte de mon cours. Je conserve aussi 1h d’échange par chat ou par classe virtuelle par semaine pour continuer à apprendre. Ceux qui peuvent et veulent me renvoient les devoirs initialement prévus : je n’en tiendrai compte dans l’évaluation que si cela leur est favorable. Et je vais réfléchir à des modalités d’évaluation raisonnables et justes pour la fin du semestre.

      Il me semble absolument nécessaire de continuer à réfléchir, à lire, à faire preuve d’esprit critique, à échanger des idées et des connaissances avec eux. Mais je ne veux mettre aucun d’eux dans une situation encore plus difficile et stressante ».

      –------

      6° BS – Région Bretagne

      Echange de courriels
      a. Du Département Suptice

      Chers collègues,
      En cette période de crise sanitaire et de confinement, nous sommes tous mobilisés pour assurer une continuité pédagogique auprès de l’ensemble de nos étudiants, notamment par le recours aux outils et aux ressources d’enseignement en ligne. Dans ce contexte, une attention particulière doit être apportée à nos étudiants en situation de handicap.
      C’est pourquoi nous nous faisons le relais des recommandations proposées par Monsieur XXX , enseignant et référent pédagogique Handicap, en matière de consignes pour la création de supports en ligne respectueux des règles d’accessibilité.
      Nous vous invitons à en prendre connaissance et à les appliquer lors de la création de vos supports de cours.
      Restant à votre écoute,
      Bien cordialement
      b. Message de la Présidence

      Chères et chers collègues,
      Dans ce contexte difficile de crise sanitaire et de confinement, la DGESIP met à notre disposition des fiches relatives à la continuité des activités que vous pouvez consulter ici. Elles traitent d’un sujet par fiche et sont mises à jour au fil de l’eau.
      En parallèle, notre ministre a rappelé cette semaine la nécessité de veiller à ce qu’aucun étudiant ne se retrouve complètement isolé, même s’il est connecté, suite aux mesures de confinement. Il est important de dispenser des informations régulièrement dans toutes nos formations et, dans la mesure du possible, de proposer des temps d’interaction avec les étudiants pendant ou en marge de nos enseignements (mails, classes virtuelles, forum moodle, etc.). De même, un petit nombre d’entre nous peut se sentir isolé, il nous appartient, en particulier lorsque nous connaissons les collègues, de maintenir le contact.
      Comme précisé précédemment, la plus grande liberté est laissée aux équipes pédagogiques pour mettre en place les adaptations les plus appropriées à chaque enseignement et aux besoins de chaque population d’étudiants. Le SUPTICE est mobilisé pour vous conseiller et, si vous le souhaitez, vous former et vous accompagner. La Direction de la Communication met à jour quotidiennement des pages d’information pour tous, personnels et étudiants avec des Foires aux Questions. La possibilité d’organiser une banque de prêt de matériel informatique est à l’étude à la DFVU pour les étudiants qui en sont dépourvus et qui se font connaitre auprès de vous. Pour eux également, des pistes pour participer au financement de forfaits internet adéquats sont examinées. Le pôle handicap est également mobilisé.
      Nous remercions les composantes pour le recensement en cours afin d’identifier les étudiants qui ont besoin de matériel, d’aide ou d’accompagnement spécifique durant cette période. Rester attentif au suivi de nos stagiaires sur le territoire, comme à l’étranger, est une autre priorité et vous êtes nombreux à vous impliquer aux cotés des services, dont la DARI, le SFCA et le SOIE. Avec l’aide de la Fondation de l’Université, un fonds d’aide d’urgence pour les étudiants en mobilité en difficulté à l’étranger en vue de leur rapatriement, est aussi lancé. Le soutien s’organise et se met en place progressivement au fil des jours, à tous les niveaux. Merci à tous pour votre implication.Concernant la continuité pédagogique et l’évolution des modalités des enseignements et des formations, les modifications que vous retiendrez peuvent porter sur les calendriers, les contenus et activités pédagogiques et/ou les MCCC des formations. Il convient de systématiquement les faire valider par les responsables de parcours et de mention, en lien avec les directions de composante. La cohérence et la coordination au sein de nos mentions de diplômes demeurent indispensables, tout comme les échanges préalables sont nécessaires au sein des équipes sur les choix que chacun(e) peut être amené(e) à proposer. Partager l’information et échanger, en toutes situations y compris celle-ci, contribue à la qualité de nos formations.
      Je vous remercie au nom des étudiants pour votre engagement et je vous souhaite de vivre du mieux possible cette période.
      Bien à vous, PRESIDENCE
      c. BS, enseignante-chercheuse

      Bonsoir … , chers collègues,

      Je ne supporte plus ces injonctions impossibles à mettre en œuvre pour nos étudiant.es. Merci de m’indiquer quel est le papier à renvoyer (ASA1 pour dire que je garde mes enfants et ne peux pas travailler. Mon directeur d’UFR est super et soutient tous les personnels de l’UFR. J’essaie de mon côté tant bien que mal de maintenir un lien avec les étudiant·es connecté·es, et notre université nous parle jour après jour de continuité pédagogique. C’est une pression intolérable.

      Je n’ai absolument pas le temps ni les compétences pour faire dans l’urgence depuis mon domicile des supports de cours à distance adaptés aux étudiant.es en situation de handicap.
      De nombreux étudiants confinés seuls, y compris non handicapés, m’ont dit déprimer et ne pas réussir à travailler. Je suis plus inquiète pour leur santé mentale et physique que leurs talents mathématiques présents futurs.
      De nombreux étudiants ne répondent pas aux sollicitations électroniques, je n’ai pas de nouvelles, je ne sais pas où ni comment ils sont confinés.
      Je n’ai pas envie de culpabiliser de ne pas réussir à tout gérer : les devoirs des enfants, les courses et repas, et les étudiants.
      Je n’ai pas une situation plus compliquée que d’autres collègues, et j’imagine que dans le confinement, la plupart des collègues sont dans l’impossibilité matérielle, psychologique ou temporelle de répondre à de telles injonctions, si tant est qu’ils sachent rédiger leurs polys en braille.

      Par conséquent, je souhaite être sous le régime de l’ASA pour garde d’enfant de moins de 16 ans plutôt que de télétravail, et si possible rétroactivement depuis lundi 16 mars, date à laquelle l’école des enfants s’est arrêtée.
      Cordialement, BS

      –--------

      Véronique Beaulande- Université Grenoble Alpes

      https://academia.hypotheses.org/21372

    • Ma vie de prof mise a distance : première semaine

      Jean-Michel #Blanquer a assuré la semaine dernière que tout était prêt pour l’enseignement à distance, mais les enseignants n’en avaient même pas été informés. Nous ne devions donc pas compter dans ce dispositif ? Ou bien nous n’étions attendus que comme « petites mains » de son plan génial ? Malaise.

      Travail du weekend : habituellement, je me limite au maximum sur le travail du weekend, pour… avoir une vie de famille, et essayer d’avoir un temps où je décroche du travail*.

      Malgré tout, comme beaucoup de mes collègues, je travaille le weekend. Et là, il y a une urgence exceptionnelle.

      Samedi 14 : J’ai contacté mes collègues de philosophie pour voir comment nous pourrions mutualiser notre travail pour les semaines à venir. Rédaction et lecture de plusieurs mails à différents moments (samedi après-midi, dimanche après-midi). Deux de mes collègues ont de jeunes enfants qu’elles devront garder à la maison, et m’informent qu’elles ne pourront assurer que le minimum.

      Nous ne savons pas encore si nous aurons l’obligation de nous rendre dans nos établissements sur nos horaires de cours habituels. Cet ordre a été donné par certains recteurs. Ce serait absurde, car nous n’avons pas de bureaux, pas de livres, parfois même pas d’ordinateurs pour travailler sur place, évidemment pas de conditions de sécurité sanitaire minimales, mais cela permettrait à notre institution de nous avoir à l’œil comme des petits moutons, dont on pourrait s’assurer qu’ils ne prennent pas du bon temps pendant la fermeture des établissements scolaires…. Cela semble être la première crainte, la première précaution que notre administration souhaite prendre, j’allais dire « à notre égard », mais c’est plutôt « à notre encontre ». Certains proviseurs envisagent même d’organiser des réunions toute la semaine, et tentent d’intimider et d’humilier les professeurs qui protestent au cours du weekend contre ces mesures.

      Échange mail avec la Cheffe d’Etablissement, pour l’informer de mon inquiétude pour les élèves qui n’auront pas accès à Internet (pas d’ordinateur individuel, pas de connexion de qualité suffisante), ou qui devront faire face à d’autres urgences.

      Retour de mail à tous les enseignants dans l’après-midi, qui nous informe qu’il sera de notre responsabilité d’identifier les élèves qui ne se connecteraient pas. Voilà, la responsabilité est pour nous.

      Dimanche : Je me lève à 7h00 du matin, car je suis prise d’une inspiration subite, et j’écris une longue lettre à mes élèves, avec lesquels je n’ai pas pu communiquer de vive voix après l’annonce de la fermeture des établissements scolaires, pour les inviter, en cas de difficultés de connexion, à lire de beaux livres, de ces livres capables de porter et ouvrir le monde. Le meilleur enseignement à distance ! Ce qui ne signifie pas que nous n’avons pas besoin de passeurs ou de passeuses pour accéder aux grands textes. (J’ai soigneusement travaillé la rédaction de ma lettre, car je compte sur le travail de l’écriture pour compenser, un peu, la non présence en chair et en os !).

      Je prends mon petit déjeuner en même temps que j’écris, pour ne pas perdre l’inspiration.

      Envoi de ma lettre vers 9h00. J’espère que mes élèves la trouveront en ouvrant l’ENT lundi. Qu’ils aient au moins ça.

      Je vais voter.

      Visite à ma mère qui a quatre-vingts ans. Dernière visite avant combien de temps ? J’ai mal dans les poumons. La perspective de mourir, peut-être dans les deux ou trois semaines à venir, m’a motivée pour arrêter de fumer. Ma mère, en pleine forme, me dit qu’elle a bien vécu sa vie, et m’invite à ne pas m’inquiéter pour elle.

      18h00 : je réponds à une élève qui a déjà lu ma lettre, et me demande des précisions pour se procurer un livre.

      LUNDI :

      Dès 8h00 (mon horaire de début de travail habituel le lundi) : recherche de ce qui est immédiatement disponible (cours déjà prêts et tapés) pour pouvoir les distribuer au plus vite aux élèves.

      9h30 : rédaction de petites fiches de programme de travail pour les élèves que j’ai habituellement en classe les mardi et mercredi.

      9h45 : première tentative de connexion sur l’ENT (Environnement Numérique de Travail) : inaccessible.

      Recherche de textes, mise sous format PDF de mes cours et de documents.

      Re tentative de connexion à l’ENT : inaccessible.

      J’annonce à mon collègue de philosophie que je ne serai vraisemblablement pas disponible pour la réunion téléphonique que j’avais initialement proposée à 14h00.

      13h00 : Re-tentative de connexion à l’ENT, qui plante. Début d’inquiétude : comment faire pour communiquer avec les élèves ? Recherche de solutions : créer des mailing listes ? Communication par liste de diffusion avec les collègues qui constatent le même plantage de l’ENT, et cherchent et proposent des solutions d’accès, qui ne fonctionnent que très ponctuellement.

      Je commence à organiser le lockdown avec mes fils : lequel ira chez moi, lequel ira chez leur père. Préparation des valises et organisation de l’échange de domicile. Appel à ma maman, à ma sœur, pour lesquelles je suis inquiète, car elles seront seules chez elles.

      14h30 : re-tentative de connexion à l’ENT. Sans succès.

      15h00 : préparation du travail pour les classes que j’ai jeudi. Rédaction de contenu de cours, impression de documents, rédaction d’exercices.

      16h30 : échanges avec collègue de philo sur les cours déjà prêts que nous pouvons partager, et ceux que nous aurions à rédiger.

      J’ai renoncé à l’idée de proposer des petits exercices sur les outils de l’ENT, puisque celui-ci n’est pas accessible.

      Pas d’accès sur le site du CNED, pas de possibilité de tester le dispositif de « classe à la maison ».

      Echanges avec les collègues et avec la Cheffe d’Etablissement, pour voir si nous pouvons créer des mailing listes. La CDE m’invite à patienter, « les choses vont se mettre en place ».

      18h00 : Je vais chercher mon fils et ses valises chez son père. Je dis au-revoir à mes deux autres fils. Je ne sais pas quand je vais les revoir.

      20h00 : tentative de connexion à l’ENT.

      22h30 : je reçois un mail, sur une adresse mail de secours (hors ENT) que j’ai pu communiquer à quelques élèves, de la part d’un élève consciencieux, lequel est très inquiet, car une consigne d’un exercice donné par une collègue de physique ne lui parait pas complète. Je pressens qu’à 22h30, dans les premiers temps de la fermeture des établissements scolaires, et juste avant le lockdown, son inquiétude n’est pas que scolaire. Je transfère sa question à ma collègue. Au passage, il me souhaite « bonne nuit » : c’est mignon, ça ne m’était jamais arrivé, qu’un élève me souhaite « bonne nuit » ; je lui souhaite « bonne nuit » à mon tour. Il me pose d’autres questions, mais je cesse de lui répondre, car je suis… au lit !

      MARDI :

      Je me lève à 6h00. Angoissée ? oui.

      J’en profite pour tenter de me connecter à l’ENT. Je parviens à envoyer un mail.

      Petit déjeuner et douche : je ne sais plus si c’est sur mon temps de travail ou pas : on en est où ?

      Tentative de création et d’envoi sur une mailing liste : ça ne marche pas correctement. Protestation inquiète ou amusée d’élèves, sur l’adresse mail de secours. Je leur réponds. Echanges avec les collègues sur le plantage de l’ENT, sur les possibilités de prendre d’autres chemins de communication avec les élèves. Est-ce légal, est-ce une bonne chose pour eux et pour nous ? Débat sur fond de désarroi et sentiment d’être abandonnés par notre institution. Question à la Cheffe d’Etablissement : je lui demande des instructions claires sur ce point. Elle m’invite à patienter. Certains collègues sont parvenus à créer eux-mêmes des moyens de communication avec les élèves, mais avouent déjà craquer, car ils/elles travaillent 12h00 par jour depuis le weekend.

      L’institution semble s’inquiéter grandement de la manière de nous surveiller, de disposer de nous pour toute nouvelle mission, par exemple, contacter les familles avec nos téléphones personnels, faire des photocopies sur nos imprimantes, mais pas de nous informer ni de nous donner les outils de travail qui nous sont indispensables. Mais qui, parmi nos « managers », nos « super managers », sait ce que c’est qu’un travail de prof ? Aucun. De là à penser que ce que l’on ignore n’existe pas : erreur classique, basique. Et alors, comment exploiter, diriger ce dont on ignore tout, si ce n’est en compartimentant en petites cases méthodiquement, en contrôlant on ne sait pas trop quoi, en mettant tout en pièces, personnes et savoirs ?

      Beaucoup de collègues sont angoissés, car ils/elles ne veulent pas abandonner leurs élèves les plus fragiles : les élèves qui n’auront pas à leur domicile des conditions correctes d’études.

      Rédaction de fiches d’exercices et de contenus. Proposition à mon collègue de philosophie de contenus que je peux mettre à sa disposition, et proposition d’un nouveau programme de travail pour nous, si il est possible de le tenir !

      J’ai des copies en retard : je culpabilise.

      J’ai des bulletins à remplir : pas d’accès à l’ENT.

      Après-midi : je ne sais plus quelle heure, tout se mélange.

      J’ai enfin accès à l’ENT, je poste le maximum d’infos et contenus que je peux à destination des élèves, dans leurs casiers, le cahier de texte, en documents partagés. Pas d’accès à la messagerie. Pas de possibilité de remplir les bulletins. Les élèves n’ont pas accès à l’ENT.

      Echange par mail avec les professeures principales de mes classes, sur leurs adresses personnelles, car pas d’accès à la messagerie de l’ENT. Je leur transmets un scan de mes appréciations et avis sur les élèves pour les prochains conseils de classe.

      J’informe les collègues, avec lesquels je suis en contact, de l’accès possible à l’ENT pour les professeurs.

      Je prends la résolution de respecter le temps de travail pour lequel je suis rémunérée= 80%. En gros, soit quatre jours pleins, soit trois jours pleins plus deux demi-journées.

      Je m’occupe de mon fils qui a un gros coup de déprime ce soir.

      MERCREDI :

      Réveil 6h00 et gros coup de déprime pour moi aussi. Déjà ? Comment est-ce que je vais tenir ? Comment est-ce que l’on va tenir ?

      Échange avec des élèves qui me demandent quel est le travail à faire, sur mails persos, car ils ont difficilement accès à l’ENT ou pas du tout. Je les rassure : je n’exige pas le rendu du travail immédiatement, et je leur donne jusqu’à la fin de la semaine, pour rendre ce travail de préférence, sur l’ENT.

      Rédaction d’un cours pour les élèves de TS pour la semaine prochaine, sur les Propos sur les pouvoirs d’Alain.

      Après-midi : il fait beau, je jardine, et j’alterne la rédaction de mon cours et le jardinage. Le jardinage me fait du bien : être dehors, travailler avec son corps, toucher les plantes et la terre, travailler à la beauté.

      Une élève, inquiète, m’écrit pour me dire que certains des élèves de la classe ont pu avoir accès à l’ENT, mais pas elle. Elle me demande si je peux lui proposer une autre solution. Je lui réponds que non, pour le moment.

      Un élève se plaint de ce que j’ai envoyé trop de messages, et dans des dossiers différents : il ne s’y retrouve plus.

      Un élève n’a pas compris la consigne. En classe, on répète les consignes plusieurs fois, on les écrit au tableau, dans le cahier, on les reformule, on commente. Pas question de jouer à cela par mail, sinon les élèves vont être perdus. Je laisse tomber.

      21h00 : mon compagnon, qui est prof aussi, m’indique qu’il a pu enfin avoir accès à la classe virtuelle du CNED. Je me connecte, je crée des groupes, je poste du contenu : celui que j’ai déjà posté à destination de mes élèves sur l’ENT.

      C’est peut-être la solution pour mon élève qui n’y a pas accès. Je me réjouis d’avoir trouvé la solution, et de pouvoir la lui proposer dès demain matin.

      21h30 : réception de deux photos : un élève à photographié son travail manuscrit. Il a pris soin de bien calligraphier. Je désespère : comment vais-je pouvoir lire et corriger cela ? Comment vais-je m’en sortir, si mes 130 élèves m’envoient, par différents canaux, plusieurs pages manuscrites, copiées sous différents formats ? Comment vais-je pouvoir m’y retrouver : les classer, les lire et les corriger, les rendre ?

      22h00 : j’arrête pour ce soir.

      22h45 : Je supplie mon compagnon, qui répond encore à des mails d’élèves, d’arrêter de travailler. Je suis déjà au lit avec un livre, j’ai hésité à lire le livre de philosophie que j’étudie avec mes élèves, mais finalement, j’ai choisi un roman. Je suis incapable de lire.

      JEUDI :

      Réveil à 6h20 : je progresse, je dors un peu mieux…

      Mon compagnon se lève, prend un petit déjeuner vite fait, et s’installe pour corriger des copies. Je le supplie de définir des horaires de travail.

      Il me propose de venir voir son travail sur la classe en ligne. Je proteste : il est 8h00, je ne suis pas encore au « bureau ».

      8h30 : j’ouvre ma classe virtuelle du CNED : tout ce que j’ai créé la veille, les groupes, et les documents que j’au cru pouvoir mettre à la disposition des élèves a disparu… Que de temps perdu !

      Mon compagnon est en classe virtuelle avec ses élèves, de 9h00 à 10h30. Je regarde comment cela fonctionne.

      Échange de mails pour prendre des nouvelles de collègues que je sais isolés.

      Recherche et rédaction de cours à partager avec mes collègues de philosophie.

      Récréation : je jardine une demie heure. En rentrant dans la maison, je m’arrête devant la porte d’entrée. C’est le choc :

      L’HORREUR DE LA CLÔTURE, LA TERREUR DE L’ENFERMEMENT !

      Je respire. Je bois un café.

      Réponse à quelques mails d’élèves, paumés, qui n’ont pas accès aux documents, ne parviennent pas à les ouvrir. Je reçois par mail un exercice d’élève enregistré dans un format que je ne parviens pas à ouvrir.

      C’est vrai que leur demander un exercice écrit tapé au clavier est une difficulté supplémentaire pour eux. Très difficile pour moi de corriger des exercices rendus manuscrits, très difficile pour eux de composer des écrits sur clavier. Comment faire ?

      Échanges avec des collègues sur la situation.

      14h00 : Je prépare la séance avec les élèves de première prévue demain, sur la révolution astronomique : visionnage et sélection de vidéos (trois heures), rédaction de questions pour guider leur activité (une heure trente).

      J’envisage un rendez-vous avec eux en classe virtuelle via le CNED. Problème : comment faire un cours de philosophie à distance ? Le cours de philosophie suppose un temps de travail et de réflexion des élèves, qu’ils peuvent faire en « autonomie guidée » (les vidéos avec les questions à préparer), mais il suppose aussi un dialogue avec la classe. Cela peut-il fonctionner en classe virtuelle ? Que faire si je n’ai aucune réaction en face de moi ? Vais-je discourir toute seule devant mon écran ? Cela n’a aucun sens.

      Comment lire avec eux un texte ? Comment construire avec eux un problème ? Comment faire sans les visages ?

      Je me propose de donner tout de même rendez-vous aux élèves pour tester le dispositif demain, et pouvoir les écouter et répondre à leurs questions.

      Test du dispositif classe virtuelle chez moi (une heure) : problème de son. Je ne peux ni recevoir, ni émettre.

      J’arrête à 19h00 : ma séquence pour demain n’est pas prête. Je n’ai pas non plus pu adapter le cours que je me proposai d’envoyer à mon collègue : ce sera pour vendredi.

      Copies non corrigées : je culpabilise.

      Bulletins pas encore remplis : je culpabilise.

      Je consulte la messagerie professionnelle.

      Pas de retours d’exercices d’élèves sur l’ENT.

      22h05 : mail d’un élève qui m’annonce qu’il m’envoie son exercice. Pas de pièce jointe.

      22h06 : la pièce jointe.

      22h30 : j’essaie de lire, je n’y arrive pas. Trop de tension, c’est la surchauffe.

      Le bruit commence à courir que l’année scolaire pourrait être prolongée, le bac reporté en juillet…

      VENDREDI :

      Nouveau visionnage des vidéos que j’ai sélectionnées pour les élèves de première. Le deuxième documentaire que j’avais sélectionné n’est plus accessible : il me faut en choisir un autre.

      Vont-ils pouvoir consulter l’ENT, lire les vidéos ? Seront-ils au rendez-vous tout à l’heure ? Aurais-je du son ?

      Ou bien : est-ce que j’aurais travaillé plusieurs heures pour rien ?

      Invitation lancée à mes collègues pour une réunion syndicale, par téléphone, lundi prochain à 16h30 : il faut que l’on puisse réfléchir ensemble à ce que l’on est en train de faire, à ce que l’on nous demande, aux limites que nous rencontrons, et à celles que nous devons poser. Reprendre une réflexion collective et politique.

      Je reçois encore quelques exercices d’élèves, par des canaux différents. Les élèves n’ont pas respecté la consigne de les envoyer sur l’ENT. Pas pu ? Heureusement qu’il n’y en a pas trop : il me faudra vite les classer.

      Une collègue a ouvert un forum de discussion à destination de ses élèves sur l’ENT. Je fais de même pour trois de mes classes, afin de pouvoir répondre à leurs questions et être informée de leurs problèmes matériels. Les questions arrivent tout au long de la journée, sur tous les sujets, et pas seulement celui de la philosophie…

      Des collègues témoignent sur les réseaux sociaux de chefs d’établissements qui leur demandent des preuves de leur travail : horaires de connexion, échanges par mail, par téléphone avec les élèves, fiches de préparation. Ça y est, l’institution retrouve de sa vigueur, la grande surveillance va tenter de se mettre en place. L’institution n’est pas bienveillante. L’institution n’a aucune notion de la confiance. L’institution est aveugle et méfiante.

      13h30. Je m’installe dans ma classe virtuelle. Déconnexion toutes les quarante secondes. Je revisionne une dernière fois les vidéos. Je télécharge les documents que je souhaite partager avec la classe.

      Déconnexion.

      14h30 : Top départ : c’est l’heure du rendez-vous avec les élèves. J’ai le trac.

      J’essaie d’ouvrir ma session, et je reçois le message selon lequel je suis déjà connectée.

      Je réessaie. Dix fois. Je suis déconnectée. Je suis déjà connectée. Déconnectée. Je redémarre l’ordinateur : je suis déjà connectée.

      A 14h45, je reçois un mail d’une élève sur l’adresse mail de secours. Elle ne parvient pas à se connecter. Elle reçoit un message qui lui indique qu’elle est déjà connectée. Nous tournons en rond. Nous finissons par comprendre que nous avons le même lien, et que personne ne peut se connecter…

      Je vérifie : sur mon bloc note, j’ai effectivement deux fois le même lien. Je recherche le mail de confirmation d’inscription reçu du CNED : la messagerie académique ne fonctionne pas.

      Et puis tout d’un coup j’ai mal au dos. Grosse montée d’angoisse. Je devrais sortir, mais, dehors, c’est tellement désespérant.

      J’imagine une « manifestation fantôme » : nous irions à notre tour déposer nos pancartes, nos gilets jaunes, sur une place, au pied des arbres. Demain ?

      https://blogs.mediapart.fr/arielle-kies/blog/200320/ma-vie-de-prof-mise-distance-premiere-semaine

    • Bonjour

      En tant qu’enseignant-chercheur, j’approuve sans réserve la lettre de l’enseignante postée plus haut sur ses interrogations à propos de ce qui se passe du côté des étudiant⋅e⋅s. Du côté des enfants je n’ai pas de souci particulier, j’ai mon fils à la maison, mais c’est un « grand » de terminale, il ne réclame pas une attention constante.

      Pour en revenir au chapitre des étudiant⋅e⋅s, il y a plusieurs choses qui me chiffonnent. J’ai monté dans l’urgence tout un tas de dispositifs pour essayer de continuer à faire mes TP (j’enseigne l’info en IUT, et en ce moment j’ai une longue période de TPs, en programmation, et en administration système, pour ceux qui connaissent). Je passe sur les aspects techniques qui sont hors-sujet dans cette discussion, pour perler du lien aux étudiant⋅e⋅s.

      Le premier jour (mercredi dernier donc) j’ai du avoir 95% de taux de présence et beaucoup d’interaction. En gros : ils ou elles accédaient à distance à une de nos salles à l’université, ce qui était déjà tout un souk, tout en pouvant interagir avec moi par chat, et quand je voyais qu’un problème ou une question était récurrente, je faisais un petit billet sur un forum dédié pour que ça serve aux suivants. 4 groupes dans la journée, 2h chacun. À la fin j’étais nerveusement épuisé, vidé.

      Jeudi j’ai du avoir a peu près le même taux de présence, peut-être un peu moins (même matière, même nombre de groupes). Même état d’épuisement à la fin.

      Vendredi c’était programmation, 4 groupes toujours, elles ou ils bossent chez eux, interagissent par chat (+forum là aussi pour globaliser et pérenniser les retours), me déposent des travaux à évaluer sur un ensemble de points de dépôt correspondant à des étapes dans le projet qu’ils doivent réaliser. 50% de présence... J’appréhende la semaine prochaine, et j’ai pas envie de jouer au flic.

      Bon, tout ça c’est essentiellement du factuel. Ce que je retire de tout ça maintenant : Le « groupe de tête », celles et ceux qui sont toujours en avance sur les autres, s’accommode fort bien de ce mode de fonctionnement. Ils ou elles adorent même. De toutes façon celles ou ceux-là, je pense que tu peux avoir n’importe quelle attitude pédagogique, ils ou elles sont quasi autonomes dans l’acquisition des connaissances. Je dis bien quasi, parce que je sais aussi le nombre de trucs qu’ils ou elles croient savoir et que je corrige mine de rien.

      Vient la masse de celles et ceux pour qui ça se passe pas trop mal, à des degrés divers. Ils avancent à peu près correctement. C’est plus compliqué avec celles et ceux-ci, par manque d’interaction, c’est pas immédiat le chat, et puis ça permet pas tout, et puis je peux pas d’un coup attraper un feutre pour aller gribouiller un truc au tableau. Voilà c’est ça : je ne peux pas alterner mode individuel et mode groupe comme je veux. C’est pas possible. Donc je répète sans arrêt les conseils, je fais les mêmes réponses à x étudiants. C’est extrêmement usant. J’ai beau essayer d’amortir ça en me servant du forum pour faire remonter des informations synthétisées à tou⋅te⋅s, c’est usant.

      Et puis il y a celles et ceux qui s’accrochent mais ont de réelles difficultés pour plein de raisons, personnelles (problèmes de communication, problèmes familiaux...). Là c’est terrible, parce-que tu les sens partir. Tu les sens glisser alors que quand tu les as devant toi tu peux les maintenir à flot, parce que tu es présent, tu as un lien avec eux et tu peux les encourager, d’un mot, d’un geste, d’un regard, de petits riens de la communication qui changent absolument tout. Et là je les vois s’éloigner, et je crains la semaine qui vient, en me demandant combien je vais en perdre d’autres.

      Je pourrais aussi parler de l’étudiant qui m’écris pour me dire qu’il est pompier volontaire et donc réquisitionné, et donc qu’il ne pourra pas suivre mes TP en ligne ; celui qui bosse dans une supérette et qui a aussi été réquisitionné (je vous laisse apprécier la différence entre ces deux réquisitions... le deuxième j’ai été très tenté de lui répondre qu’il devrait foutre son poing dans la gueule de son patron).

      Le vendredi d’avant le confinement, lors de la dernière journée de TP, j’ai demandé aux étudiant⋅e⋅s qui n’auraient pas accès à un ordinateur de tout suite prendre contact avec moi. Je n’ai pas eu de retour, est-ce que ça veut dire qu’il n’y en a pas, je ne sais pas.

      Ce que je sais c’est qu’au final cette histoire de continuité pédagogique c’est la continuité du hamster dans sa roue : on essaie de se persuader qu’on va continuer « presque comme avant », mais en réalité on fait du tri social : les plus faibles vont dégager, sauf que c’est rendu invisible par l’interface technologique. Mais ça va tout à fait dans le sens de l’université voulue par les peigne-culs qui nous gouvernent : le high-tech pour les classes aisées, la caisse du supermarché pour les autres. Le tri social par l’accès aux technologies, et le recul de la réflexion sur le savoir : tournez petits hamsters.

      Bon voilà. En relisant je me dis que c’est un peu le bordel ce texte, je crois que j’avais besoin de dire tout ça, mais maintenant il faudrait faire le tri et revoir le tout sous plusieurs angles.

      Si vous aussi vous êtes confrontés au télé-enseignement j’aimerais bien avoir votre avis et le récit de votre vécu.

    • A la «continuité», le CDNT répond «solidarité» !

      En pleine crise sanitaire, alors que nous devrions tout faire pour faciliter la vie des plus vulnérables d’entre nous, l’injonction à la "continuité" pédagogique tient de l’acharnement. Or, nous ne pouvons accepter de sacrifier nos conditions de travail et les conditions de vie de nos étudiant.e.s pour satisfaire à la seule rhétorique guerrière de nos pouvoirs publics.

      De toute évidence, la pandémie de Covid-19 est une crise sanitaire sans précédent qui exige des mesures économiques et sociales exceptionnelles, à l’instar de ces mesures de confinement que nous nous devons de respecter dans l’intérêt de tou.te.s. Cependant, si la situation est exceptionnelle, nous ne pouvons tolérer que des décisions puissent être prises sans respect du cadre démocratique et du dialogue social. Ainsi, si nous souhaitons bien évidemment que ce temps de confinement soit dédié au partage et à la solidarité, l’injonction à la « continuité pédagogique » qui nous est faite par le gouvernement, et relayée localement par la présidence de notre établissement et nos directions de composantes nous semble complètement déconnectée de la réalité présente et des enjeux actuels. Elle n’est ni réalisable, ni souhaitable, tout en n’ayant pas fait l’objet d’une réelle consultation préalable des équipes pédagogiques et administratives et de leurs organisations représentatives.

      Déconnectée, tout d’abord, parce qu’au moment où nous devons organiser localement de nouvelles solidarités pour faire face au défi posé par le Covid-19 (pour nos familles, pour nos proches, pour nos voisin.e.s, et notamment pour les plus vulnérables d’entre elleux), le maintien d’une activité d’enseignement à distance n’est pas une priorité. Nous ne considérons pas l’enseignement et la recherche comme des activités non-essentielles ; au contraire, nous nous battons depuis des années pour que celles-ci puissent être exercées dans des conditions dignes, et puissent occuper une place d’autant plus importante dans notre société. Mais s’acharner à vouloir « enseigner » alors que nos étudiant.e.s et nous-mêmes avons certainement d’autres priorités tiendrait, pour reprendre ce terme à un camarade strasbourgeois syndiqué au SNESUP, de « l’indécence »[1].

      Irréalisable, ensuite, parce que nous ne disposons pas des moyens adéquats pour maintenir notre activité là où personnels et étudiant.e.s sont inégalement équipé.e.s et disponibles pour enseigner et apprendre. Qu’en est-il de la fracture numérique, là où nous savons qu’une part non-négligeable de nos étudiant.e.s, parmi les plus précaires, ne sont pas équipé.e.s d’ordinateurs personnels à domicile ? Qu’en est-il de la qualité du suivi, quand la principale alternative semble être la seule mise en ligne de nos cours sur une plateforme numérique (ce qui pose des problèmes de propriété intellectuelle au demeurant) ? Qu’en est-il de la qualité du travail, quand nous devons parfois nous occuper de nos enfants ou des personnes les plus vulnérables de notre entourage ?

      Et si cette « continuité pédagogique » n’est pas souhaitable, c’est parce qu’elle s’inscrit en faux avec tout ce pour quoi nous nous battons afin d’améliorer nos conditions de travail et d’étude dans l’ESR. Elle est à la fois un dévoiement du sens de notre métier, qui est un métier de contact et d’accompagnement qui ne saurait être réduit à la seule production de contenus, et une attaque contre nos conditions de travail, en nous imposant une organisation du travail à laquelle nous n’avons pas consentie et qui est inadaptée aux enjeux réels de l’Université.

      Signalons par ailleurs que la dématérialisation de l’enseignement est l’un des objectifs des réformes successives que l’université publique subit depuis plusieurs années. Montrer que notre métier est « dématérialisable », c’est aussi accepter les suppressions de postes que nous connaissons déjà et que nous connaîtrons encore avec cette gestion néo-libérale de l’ESR.

      Nous continuerons à être en contact avec nos étudiant.e.s. Mais si nous le faisons, c’est pour construire de nouvelles solidarités à un moment où nous en avons tou.te.s particulièrement besoin. Nous continuerons à construire l’université publique que nous désirons : une université ouverte et démocratique. Mais nous refusons d’être les promoteur.ices d’une université marchande réduite à la seule production industrielle de connaissances scientifiques. Nous refusons de sacrifier nos existences et celles de nos étudiant.e.s avec pour seule finalité celle de continuer pour continuer. Nous refusons enfin de fermer les yeux sur les profondes inégalités qui existent au sein du corps étudiant et que nous ne ferons qu’aggraver en défendant cette forme d’enseignement à distance : si nous devions défendre l’enseignement à distance, ce serait sous la forme d’un suivi particulier, notamment à destination des personnes qui ne peuvent se rendre à l’Université, mais celui-ci nécessite des moyens dont nous ne disposons pas en l’état.

      En somme, la crise sanitaire actuelle, bien loin de suspendre les enjeux politiques et sociaux face auxquels nous nous engageons depuis plusieurs années, et en particulier depuis le mois de novembre, les exacerbe. Cette situation, d’ores et déjà dénoncée par de nombreux collectifs étudiants, n’est pas digne de notre institution.

      Les inégalités sociales et la précarité étudiante et enseignante continuent d’être pensées "au cas par cas" alors qu’elle constitue une problématique sociale, structurelle que l’ESR semble vouloir continuer d’ignorer. Les réformes en cours, bien que "suspendues" ou "reportées" présentent toujours un danger pour l’avenir de nos retraites, de nos parcours professionnels, et pour l’enseignement et la recherche. Par conséquent, la rétention des notes engagée au premier semestre pour toutes ces raisons reste d’actualité. Nous ne nous "encombrerons pas des casseroles" de celleux qui considèrent à la fois qu’il faut continuer le travail pédagogique et clôturer les luttes engagées jusque-là. Si besoin, nous continuerons de communiquer ces notes aux étudiant.e.s qui en font la demande et nous pourrons faire des attestations au cas par cas si celles-ci sont nécessaires dans le cadre de candidatures à des formations ou de démarches administratives.

      Pour terminer, nous serons vigilant.e.s. à ce que les personnels les plus précaires, les personnels vacataires, soient bel et bien rémunéré.e.s pendant cette période de confinement. Nous demandons à ce titre le versement rapide de leurs salaires dus et que la mensualisation soit effective et scrupuleusement respectée en cette période où ielles en ont plus que besoin, ainsi qu’à l’avenir. Nous serons également vigilant.e.s à ce que cette période ne soit pas l’occasion pour certain.e.s de sanctionner et de contrôler d’autant plus nos collègues. Nous appelons par ailleurs à l’annulation des examens et autres modalités d’évaluation au profit d’une validation du semestre avec une note unique (18/20) pour tou.te.s, ceci en considérant l’impossibilité de garantir des conditions d’examen égalitaires. Enfin, nous souhaitons faire part de notre solidarité à celleux qui luttent au quotidien contre cette crise sanitaire, les personnels de santé, mais aussi les personnels d’entretien, de la distribution, et tous.tes celles.eux qui aident, par leur travail trop souvent invisibilisé, à faire face à cette crise dans les meilleures conditions.

      Force à elles et eux au cours des prochaines semaines !

      Le collectif des doctorant.e.s et non-titulaires de Lyon 2

      https://blogs.mediapart.fr/enseignant-vacataire-en-greve-lyon-2/blog/200320/la-continuite-le-cdnt-repond-solidarite

    • « Restez chez vous » mais « continuez l’activité » : trois temps d’une lecture syndicale pour un paradoxe de crises

      Dans le cadre de la pandémie du COVID-19, nous ne pouvons que saluer la décision du gouvernement de protéger les étudiants et les personnels de l’université, en privilégiant le télétravail pour le plus grand nombre et en accordant des autorisations spéciales d’absences aux personnels lorsque le télétravail n’est pas possible. Nous soutenons de tout cœur les personnels amenés à continuer à se rendre au travail, pour assurer les fonctions vitales de notre Université.

      Cependant, les injonctions du gouvernement sont à la fois « restez chez vous » et « continuez l’activité », et ce paradoxe demande réflexion. La vie de notre université doit effectivement continuer, mais la crise et les réponses gouvernementales et locales appellent des actions et des propositions.

      Dans une demande certaine d’unité nationale, les organisations syndicales continuent à avoir des choses à faire et à dire. Le paradoxe des injonctions gouvernementales contradictoires, ancré dans des crises multiples, nous semble appeler trois temps d’une lecture syndicale, pour aujourd’hui, pour hier et pour demain.

      Aujourd’hui, et dans les jours et les semaines à venir, l’heure est à l’action pour organiser la vie de et dans notre université. Nous saluons et appuyons la volonté des équipes de direction de l’Université de fournir une réponse cohérente et précise qui permette à chacun de s’adapter au mieux aux conséquences graves de cette crise. Concrètement, nous sommes engagés dans cette réponse collective, comme tous les membres de notre communauté académique, mais aussi comme élus au CT, au CHSCT, aux conseils centraux, et comme organisation syndicale. Nous avons porté au CT dématérialisé de ce lundi 23 mars à l’UGA et en réunion intersyndicale avec la présidence de Grenoble-INP un certain nombre de questions portant sur les points suivants :

      · Continuité des rémunérations – Nous saluons les engagements pris par l’UGA et de Grenoble-INP pour garantir la continuité des rémunérations, pour les titulaires, les contractuels et les vacataires. Un problème subsiste concernant les gratifications de stages : en effet, les stages en cours peuvent être arrêtés à la demande des structures d’accueil, ce qui suspend de fait le versement des gratifications. Nous demandons que l’établissement mette en place des aides individualisées, comme le prévoit la "FICHE 6 stage" du courrier du ministère du 17 mars 2020 et conformément à l’article L. 821-1, alinéa 2, du Code de l’éducation.

      · Fracture numérique – Des dispositifs sont mis en place à Grenoble pour tenter de venir en aide aux étudiants confinés dans leur famille, en colocation ou dans les résidences universitaires, mais, à notre connaissance, ceux-ci sont disponibles uniquement par internet (pour le moment). Comment aider les étudiants dénués d’accès à l’internet ? (dans leur vie quotidienne et dans le cadre de leurs études). L’enquête de l’UGA a recensé 45 étudiants dénués d’ordinateur pour suivre les cours. L’UGA leur fournira une tablette afin qu’ils puissent travailler. Cependant, ce nombre nous semble sous-estimé, étant donné que le recensement des étudiants n’est pas terminé dans toutes les composantes.
      Cette fracture touche aussi certains personnels qui -même s’ils ont pu bénéficier des mesures facilitant le télétravail mises en place à l’UGA- n’ont pas forcement tous une connexion internet haut débit, une imprimante, etc… Plus globalement, les outils de travail collaboratifs sont saturés (par exemple, ENT, framapad). Comment envisager la « continuité » du travail dans un cadre aussi inégalitaire ? Ne faudrait-il pas nous concentrer sur l’absolu nécessaire, en acceptant pleinement l’idée que nous travaillions en mode « dégradé » ?

      · Conditions de travail des personnels – Les personnels sont invités à continuer leurs activités administratives. Au-delà d’une simple « relocalisation de l’activité » (de l’université vers la maison), il s’agit d’un changement radical de l’environnement de travail, dans lequel les collectifs de travail sont disloqués et les individus se retrouvent bien souvent livrés à eux-mêmes. Comment organiser des réponses collectives, comment bien répartir les situations et la charge de travail ? Et les conditions de sécurité des personnels qui doivent aller travailler à l’UGA, sont-elles suffisantes, adaptées et respectées ?

      · Continuité pédagogique – Les enseignants sont appelés à assurer la « continuité pédagogique ». Mais comment transposer les cours, travaux dirigés et travaux pratiques, initialement élaborés pour du présentiel, en un contenu à distance, avec une situation dégradée sur le plan pédagogique, qui fait fi de la nécessaire interaction collective ? Comment corriger les inégalités d’accès aux enseignements (que crée cette situation de confinement) pour nos étudiants ? Pouvons-nous décemment organiser des examens ou des évaluations dans ces conditions (comme le prévoit le ministère en proposant de recourir à des sociétés privées pour organiser des examens « dématérialisés ») ? Comment empêcher que les étudiants ne se découragent et n’abandonnent leurs études ? Ces questionnements sont tout à fait en phase avec les inquiétudes légitimes de nos étudiants (voir communiqué en pièce jointe) et nous demandons à la présidence d’y répondre.

      En général, nous insistons sur la nécessité d’alléger le programme des UE, sur le besoin de flexibilité des emplois du temps (par exemple, ne pas suivre forcément les calendriers de cours tels que prévus sur ADE avant le confinement), sur l’utilisation de moyens les plus simples et les plus légers possible pour enseigner à distance, et bien sûr nous insistons pour ne pas contrôler l’assiduité des étudiants lorsqu’ils se connectent aux plateformes numériques (et nous nous opposons à tout moyen de pression à destination des étudiants en général). Des dispositions particulières pour les examens devront aussi être trouvées, afin de ne pénaliser aucun·e étudiant·e face à la fracture numérique.

      · Appels à projets – Les chercheurs et enseignants-chercheurs doivent-ils continuer à répondre aux appels à projets (deux appels IDEX pour la mobilité internationale ont été lancés la semaine dernière, ainsi qu’un appel de Grenoble INP sur les dispositifs bourses présidence …) ? Ces appels ne sont-ils pas un peu « décalés » dans le contexte de confinement global de la population ? Plus généralement, faut-il maintenir la compétition entre collègues ou, au contraire, l’université doit-elle assurer la solidarité entre les personnels qui voient leurs recherches arrêtées, avec parfois des répercussions qui s’étaleront sur plusieurs mois, voire quelques années ?

      · Accréditations – Le report d’un mois de la remontée des dossiers HCERES annoncée par le ministère est une bonne nouvelle mais ne suspend pas le travail. Les responsables pédagogiques doivent-ils continuer d’assurer la préparation de la prochaine accréditation (qui plus est anticipée par rapport aux autres établissements de la vague A) ? doivent-ils dès maintenant organiser la rentrée 2020 comme prévu ? Les contenus ne devront-ils pas être adaptés en septembre, pour tenir compte de la période de confinement et de la dégradation des conditions d’études de nos étudiants ? Et vu des nombreux incidents qui émaillent l’usage des environnements numériques de travail dans les établissements du second degré (voir cet article), ne serait-il pas urgent d’obtenir de la ministre la suspension du processus Parcoursup, comme de toutes les procédures d’inscription en ligne (ecandidat, PEF) dont l’accès n’est plus garanti pour tout le monde ?

      Mais la situation d’aujourd’hui ne peut s’analyser sans revenir dès à présent sur ce qu’était celle d’hier. Dans le domaine de la santé, la solidarité et l’immense respect qui accompagne le dévouement sans limites des personnels hospitaliers ne peut se passer du rappel de la déshérence organisationnelle et matérielle dans laquelle l’hôpital public est placé depuis des années. Dans le domaine de l’éducation, dans l’Enseignement Supérieur et la Recherche, le dévouement des enseignants, des enseignants chercheurs, des chercheurs, des personnels techniques et administratifs pour assurer un minimum de continuité de service ne peut masquer l’incompréhension et la colère qui ont monté depuis des mois face à une politique gouvernementale à la fois libérale et autoritaire, sure d’elle-même et systématiquement sourde et méprisante face à toutes les analyses et revendications portées par les personnels. Jour après jour et depuis des mois, jusqu’au 13 mars, date du début des annonces qui ont mené au confinement que nous connaissons, nous avons dénoncé des projets de loi construits sur les inégalités et la mise en concurrence et en opposition des individus à tous les niveaux. Plus que jamais, ce qui était et reste dans les cartons du gouvernement, retraite à points, LPPR, doit être dénoncé et combattu. Plus que jamais, la défense du service public, de l’hôpital, de l’éducation, de la formation, de la recherche, des transports, de l’énergie, de la culture, du sport, est nécessaire, et nos luttes d’hier construisent, à travers les grandes difficultés d’aujourd’hui, les transformations nécessaires de demain.

      Car effectivement, il va bien falloir penser à demain. Même si nos énergies sont tendues aujourd’hui dans l’engagement individuel et collectif, le souci des proches, la solidarité au quotidien, demain est déjà en vue, et peut proposer le meilleur comme le pire.

      Le meilleur, ce serait que cette pandémie dramatique permette enfin d’affronter les autres crises qui nous menacent, au-delà de la crise sanitaire et de la crise économique – crise climatique, crise démocratique qui oppose des gouvernances inflexibles à des populations qui veulent changer de modèles. Le meilleur, ce serait dans l’ESR de prendre enfin la mesure de ce que devrait être une formation universitaire démocratique et ouverte, une recherche collaborative et libre au service de la société. Le meilleur pourrait être, à l’UGA, de redéfinir comment notre « université d’excellence » constamment soumise aux directives de l’IDEX pourrait redevenir une communauté académique sachant réfléchir collectivement à ses fonctionnements, à ses stratégies et à l’utilisation de ses moyens, et comment l’UGA pourrait construire un plan d’urgence à destination des personnels et des étudiants permettant un redéploiement des ressources de l’IDEX et de l’ANR pour mieux assurer les besoins « de base » de l’université.

      Mais demain peut aussi nous apporter le pire. Les crises fournissent des occasions fortes, pour des lobbys bien organisés à proximité des pouvoirs, de rebattre fortement et durablement les cartes dans une « stratégie du choc » bien décrite par ailleurs (voir ici). Demain est déjà en préparation dans la loi d’urgence du gouvernement, avec des évolutions dangereuses et potentiellement durables de nos conditions de travail (voir ici et là).

      Le débat commence, nous proposons à chacun d’y participer et de ne pas abandonner, dans les solidarités conjoncturelles d’aujourd’hui, la construction de solidarités plus profondes qui devraient être celles de demain …

      Nous appelons nos collègues et nos étudiants à rejoindre toutes les formes de solidarité qui sont en train de se construire : les démarches collectives qui retissent un "tou·te·s ensemble" et toutes les formes d’expression pour soutenir les personnes qui assurent la continuité des soins et de la vie quotidienne, ou analyser sans complaisance les risques de décisions d’un gouvernement "guerrier" sont notre meilleure réponse au confinement !

      Reçu par mail du syndicat SNESUP-FSU, le 23.03.2020

    • Communiqué signé par l’Association 11ème Thèse, la section CNT Sup Recherche Bordeaux, le Collectif Marcel Mauss, le collectif des Précaires de l’ESR de Bordeaux, SOlidaires étudiant-e-s Bordeaux ainsi que SUD Recherche Bordeaux :

      Nous ne sommes pas en guerre, restons vénères et solidaires !

      On s’y attendait : Macron a ordonné le confinement généralisé de la population à compter du mardi 17 mars à midi. Cette mesure fait suite à la décision, jeudi dernier, de fermer tous les établissements scolaires et tous les établissements de l’Enseignement Supérieur et de la Recherche (ESR) à compter du lundi 16 mars, puis à celle du vendredi 13 mars, d’interdire tout rassemblement de plus 100 personnes.

      Ces réponses à la crise sanitaire causée par l’épidémie du Covid-19 cachent mal le fait que cette crise n’est en rien le fruit d’un hasard malheureux. Il s’agit d’une crise sanitaire mais également et surtout d’une crise systémique. Les gouvernements néolibéraux précédents et actuels, ici comme ailleurs, ont participé à en créer les conditions par leur inaction écologique, leurs politiques anti-sociales qui accroissent la vulnérabilité des plus fragiles, et leur démantèlement des services publics de santé. Comme de nombreux chercheurs l’affirment [1], cette crise résulte d’un système d’exploitation de la nature et des humains : la perte de biodiversité liée à la destruction des habitats naturels, l’urbanisation débridée, les élevages industriels intensifs ; autant de facteurs qui concourent aux développements de zoonoses (c’est-à-dire de maladies transmissibles entre animaux humains et non humains) par une promiscuité croissante entre espèces sauvages et domestiques et à la propagation de maladies infectieuses, dont le nombre de crises se multiplient de manière inquiétante à travers le monde ces dernières années (SRAS, grippe aviaire, Ebola, Covid-19, etc.). Par ailleurs, l’amenuisement du soutien à la recherche fondamentale publique, que manifeste la politique de suppression de postes et de réduction des budgets, a conduit à une situation de vulnérabilité face aux risques sanitaires qui aurait pu être évitée [2]. La crise actuelle est le résultat de politiques de démantèlement et de privatisation des services publics de recherche, de santé et d’éducation.

      Les mesures prises dans l’urgence, en décalage avec les
      recommandations de l’OMS et dans la cacophonie d’un gouvernement qui semble ne rien maîtriser de la situation, ne font qu’aggraver la situation des plus précaires et des plus vulnérables. A cela s’ajoute, le tournant autoritaire et répressif que prend l’opération de confinement ordonnée par le gouvernement. Tandis que 100 000 policiers et gendarmes sont déployés dans les rues pour contrôler et mettre des
      amendes à celles et ceux qui ne respecteraient les normes du
      confinement, le mot d’ordre « Restez chez vous » n’empêche pas les employeurs d’imposer aux travailleu.r.se.s des conditions de travail qui mettent en danger leur vie et la santé.

      La mise en place de « plans de continuité d’activités pédagogiques » alors même que les universités sont fermées compte parmi les mesures qui sont en total décalage avec l’urgence de la situation des étudiants et personnels les plus précaires et vulnérables. Cette exigence de continuité pédagogique par voie numérique que cherchent à mettre en place les universités et le ministère de l’éducation nationale relève en effet d’une fausse logique : celle de maintenir « coûte que coûte » un système social et économique qui étale pourtant au grand jour son inadéquation et ses injustices. La précarité n’est pas seulement un concept mais une réalité qui affecte la plupart d’entre nous de façon croissante : c’est l’impossibilité de s’en sortir quand on perd ses maigres sources de revenus en tant qu’étudiant.e salarié.e ; c’est
      l’isolement psychologique et social quand on est étudiant.e étranger.e sans structure de soutien ; c’est l’exposition aux risques sanitaires quand on est personnel BIATSS ; c’est le risque de ne pas être payé quand on est personnel précaire, etc. Ceci expose clairement l’aveuglement du gouvernement actuel qui ne prend aucunement la mesure
      de la nature des problèmes économiques, sociaux et sanitaires que pose l’épidémie du Covid-19.

      L’urgence pour une grande partie des étudiant.e.s aujourd’hui, c’est d’abord le besoin de structures solidaires pour s’alimenter ou se procurer des produits de première nécessité. Il est absolument vital de fournir des autorisations de circuler aux associations et de mobiliser l’entraide. En ces temps de crise, il relève de la responsabilité du
      CROUS de maintenir des distributions de nourriture par solidarité avec les étudiant.e.s en manque de revenus, isolé.e.s psychologiquement, socialement et géographiquement. Rappelons que la moitié des étudiant.e.s doivent travailler pour subvenir à leurs besoins et se retrouvent par conséquent dans une situation critique, en particulier les étudiant.e.s résidant dans des logements du CROUS et les étudiant.e.s étranger.e.s. Sans plus de sources de revenus, sans possibilité d’êtres aidé.e.s par leurs familles, et sans une aide
      sociale d’urgence, les étudiant.e.s vont être les premier.e.s à pâtir d’une longue situation de confinement. Les risques psycho-sociaux pour des étudiant.e.s déjà précarisé.e.s et isolé.e.s sont importants.

      À cet égard la volonté de continuité pédagogique paraît bien loin des réalités du terrain, sans compter qu’elle provoquera une rupture d’égalité, qui accentuera encore la situation de précarité des plus fragiles. Pour rappel en effet, une partie importante des étudiant.e.s salarié.e.s ou des étudiant.e.s résidant dans des logements du CROUS n’ont pas d’accès personnel garanti à internet, ni même d’ordinateur
      portable individuel. Les plus isolé.e.s sont éloigné.e.s de leurs
      familles et n’ont pas d’accès aux ressources culturelles (bibliothèques fermées, peu ou pas de livres sous la main, etc.) pourtant nécessaires
      pour assurer des conditions matérielles et psychologiques propices au suivi de cours numériques et à la préparation des examens. Le simple accès à leur messagerie, essentiel pour être informé.e des directives de la présidence ou de leurs enseignant.e.s, leur est compromis.

      À cet égard, sur le campus bordelais, des personnels et étudiant.e.s mobilisé.e.s ce lundi 16 mars ont pu recueillir des témoignages directs de la détresse des étudiant.e.s qui se sont trouvé.e.s dans l’impossibilité de s’approvisionner (isolement sur le campus, étudiant.e.s étranger.e.s esseulé.e.s, étudiant.e.s se retrouvant sans revenus, structures du CROUS fermées pour l’alimentation, etc.). Plus de 160 étudiant.e.s ont pu être aidé.e.s en urgence pour des besoins de première nécessité, mais c’est une réponse hélas bien dérisoire au regard des dizaines de demandes locales qui ne cessent d’affluer.

      Pour ce qui est des personnels précaires de l’ESR, il est aberrant que la production de cours numériques par télétravail soit exigée de la part des enseignants vacataires. En effet, non seulement, pour le moment, aucune garantie n’a été donnée concernant le paiement de leurs services, mais encore, les moyens techniques fournis par le ministère de l’enseignement supérieur et de la recherche ne sont pas adaptés. Qu’en est-il par ailleurs de la prise en charge des coûts matériels et
      économiques liés au télétravail (ordinateur adapté, accès internet, logiciels payants, imprimante et scanner pour la correction d’éventuels travaux, etc.) ? Dans la situation actuelle, des règles strictes encadrent le télétravail (horaires, jours travaillés, matériel, etc.) et les droits des travailleur.ses doivent être respectés [3][4]. Concernant les personnels BIATSS, et notamment les personnels de nettoyage et de maintenance, les risques sanitaires doivent être précisément évalués et des moyens alloués pour assurer leur sécurité,
      puisque l’injonction qui leur est faite de se rendre sur leurs lieux de travail et la nature de leurs tâches les exposent plus que jamais.

      Au vu des manquements, des risques sanitaires et psycho-sociaux, des précipitations et des incohérences dans les mesures prises, souvent dans la poursuite d’intérêts économiques supposés et jamais dans l’intérêt des travailleur.ses, personnels et étudiant.es, nous appelons tous les personnels précaires et titulaires de l’ESR à exercer leur droit de retrait !

      Si elle rendra d’autant plus manifestes et critiques les situations de précarité économique, psychologique et sociale, la crise du Coronavirus ne doit pas nous faire oublier ni arrêter le combat mené contre la réforme des retraites et la réforme de l’ESR.

      Précaires de l’ESR de Bordeaux, nous renouvelons l’appel au droit de retrait de tous les personnels et à la grève de toutes et tous ! Libérons-nous du temps, mobilisons-nous dans l’entraide aux étudiant.e.s les plus démuni.e.s et isolé.e.s et non pour des « cours numériques » ou pour la préparation d’examens dans ces conditions iniques et selon un calendrier hypothétique !

      Face à la crise actuelle maintenons une vigilance à tous égards pour les travailleurs.ses précaires et vulnérables ! Faisons respecter nos droits et intensifions la lutte contre un système qui nous rend vulnérables !
      Seule une stratégie de solidarité pourra nous permettre de faire face à la crise du Covid-19 et de faire plier le gouvernement ! Tou.te.s pour l’abrogation de la LPPR et du projet de réforme des retraites !!! Une fois le confinement levé, ne nous laissons pas endormir et réinvestissons nos lieux de travail et la rue au service de la lutte sociale ! Penser la suite demande de s’engager maintenant !

      Sources :
      [1]
      https://charliehebdo.fr/2020/02/societe/la-crise-de-la-biodiversite-favorise-les-maladies-infectieuses-emergent
      [2]
      https://lejournal.cnrs.fr/articles/la-science-fondamentale-est-notre-meilleure-assurance-contre-les-epid

      [3]
      https://www.legifrance.gouv.fr/affichTexte.do?cidTexte=JORFTEXT000035994394&categorieLien=id

      [4]
      https://www.legifrance.gouv.fr/affichTexte.do?cidTexte=JORFTEXT000032036983&categorieLien=id

    • Les étudiants face à la pression scolaire : « je n’ai jamais eu autant de travail que depuis le confinement »

      L’Université a affiché cette semaine sa priorité : la « continuité pédagogique », sans considérer les inégalités entre les étudiants, que ce soit au niveau sanitaire, des conditions de confinement ou d’accès aux matériels informatiques : témoignages d’étudiants de l’Université Paris 1 confinés.

      La « continuité pédagogique », c’est tout ou rien : #surcharge_de_travail ou silence Radio du corps enseignants. De la même manière qu’elle avait maintenu des partiels en période de grève, l’université, toujours sous couvert de sa « valeur du diplôme », s’acharne à maintenir une #notation plutôt que de dispenser un enseignement.

      A Paris 1, malgré les directives de la Présidence, les étudiants sont soumis aux exigences inégales de leurs professeurs. La plupart font reposer sur leurs chargés de TD la tâche de rassurer les étudiants, sans leur donner de réelles informations à communiquer. S’il faut reconnaitre que certains ont assoupli le contrôle continu, en évaluant sur la base du volontariat, la majorité laisse les étudiants totalement livrés à eux même.

      Comme le témoigne Maria et Irene* (les prénoms ont été modifiés), étudiantes en Droit, le #stress et la pression sont décuplés : « je suis plus stressée qu’en présentiel. Sous prétexte d’une soi-disant #valeur_du_diplôme, on autorise ce genre de conditions. Il est temps que les étudiants se fassent entendre, on n’est pas des robots ».

      Alors que les étudiants se retrouvent dans des situations très inégalitaires, et que les pressions de la #sélection pèsent sur les élèves, les règles sont pourtant les mêmes pour tout le monde : « je n’ai jamais eu autant de travail que depuis le confinement. Entre les préparations de TD notées, à rendre à heures fixes, auxquelles s’ajoutent les devoirs supplémentaires, les évaluations et les examens en ligne, certains professeurs nous laissent carrément élaborer notre cours tout seul. Dans le meilleur des cas on reçoit les plans, avec des références à des manuels. Les manuels en question peuvent couter plus de 50€, on avait l’habitude de les consulter en bibliothèque, surtout qu’ils ne sont pas tous accessible en ligne. En plus, c’est l’année de la sélection. On a l’impression que l’université s’en fou, est dans le #déni total. Moi j’ai pas d’ordinateur, je galère. Je pense même pas à ceux qui n’ont pas internet, ou qui sont confinés dans un 9m carré. Quand tu sais pas comment payer ton loyer, acheter un livre à 50€, c’est la dernière de tes priorités ».

      Plutôt que d’installer un système d’#entraide entre les étudiants, l’université semble accroître sa logique de #pression_scolaire, le tout pour maintenir la sélection en master 1 et master 2, et nourrir l’illusion de la valeur du diplôme. Dans de telles conditions, elle ne sélectionnera pas sur des compétences, mais bien en fonction de critères sociaux.

      Finalement, cette crise met en lumières tous les problèmes liés à la #précarité_étudiante : un étudiant sur trois est bousier, un sur quatre est salarié, ce seront eux les plus touchés.

      Pour Lucien, étudiant en Histoire de l’art et archéologie, « ce virus n’a fait qu’exacerber les contradictions de classes au sein de notre système éducatif […] C’est comme si la fac fermait les yeux sur les #inégalités entre ses étudiants. Certains élèves sont cloitrés chez eux, seuls, avec un minimum de moyen financier. »

      Comme l’explique Nadia*, étudiante en Économie, une nouvelle fois l’université met de côté ceux qui sont dans des situations précaires, et qui ont par exemple été licenciés ces derniers jours : « Avec le confinement, on a perdu notre boulot. Il faut pas oublier que quand t’es étudiant, t’as pas beaucoup de choix pour travailler. On travaille dans la restauration, ou en tant que baby sitter, la plupart du temps non déclaré. Y a pas de chômage technique quand tu travailles au black. »

      Lola, elle, est en régime terminal : un régime spécifique souvent utilisé par les étudiants qui sont obligés de se salarier à côté de leurs études, ou qui ont des problèmes de santé : « Dans tout ça, on oublie les étudiants en #examen_terminal. Pour nous, on ne sait pas, c’est silence radio. L’administration ne donne aucune réponse claire sur la tenue des examens. On est déjà livrés à nous même toute l’année. Il faut pas oublier qu’on a choisi ce régime pour des raisons de santé, ou parce que notre situation financière ne nous permet pas de vivre avec la bourse et les petits boulots. Là on nous laisse sur le carreau, j’ai l’impression qu’on est même pas considéré dans la gestion de la crise ».

      Face à cette crise, l’obstination dont fait preuve l’université à noter ses étudiants et à maintenir une sélection, malgré leur état de stress, les inégalités de confinement et d’accès à l’enseignement qui les divisent, illustre ce qu’elle est devenue depuis plusieurs années et notamment depuis 2018 et la loi ORE : une institution qui se complet dans un système concurrentiel, au mépris de sa vocation première, l’accessibilité, et l’égalité devant l’instruction.

      https://www.revolutionpermanente.fr/Les-etudiants-face-a-la-pression-scolaire-je-n-ai-jamais-eu-aut

    • « Continuité pédagogique » : Méfiance... - Lettre flash n°10 du 25 mars 2020

      La pandémie provoquée par le Covid-19 a entraîné un certain nombre de mesures sanitaires d’une dimension exceptionnelle. Parmi elles, les mesures de confinement ont un impact très important sur l’ensemble des secteurs de l’Éducation, de l’Enseignement supérieur et de la Recherche. Dans l’état actuel des informations, les établissements devraient continuer à être fermés jusqu’à la fin du mois d’avril. De telles mesures, indispensables, bouleversent les calendriers universitaires du second semestre et posent la question de la continuité du service public de l’ESR, traduite hâtivement et sans précaution en “continuité pédagogique”.

      Les consignes gouvernementales demandent expressément de rester confiné-es et de recourir au télétravail ou au travail à distance. Aucun personnel ne peut être sommé de déroger au confinement, sauf absolue nécessité justifiée par l’organisation concrète de la continuité du service. Les déplacements doivent être réduits à l’essentiel et il convient de ne pas se rendre sur son lieu de travail. Le SNESUP-FSU rappelle que les moyens nécessaires doivent être donnés aux personnels pour qu’ils assurent à distance les missions considérées comme d’absolue nécessité.

      Cela implique par conséquent que des mesures soient prises pour assurer l’égalité dans l’accès aux outils numériques pour l’ensemble des étudiant·es. Et pour les enseignant-es, de mettre en place les moyens de la concertation pour trouver des solutions, dans le respect du confinement, en ce qui concerne les disciplines où le travail à distance est particulièrement difficile voire impossible. Cela implique aussi d’engager la concertation avec les personnels pour étudier les conditions de validation du semestre et de l’année en cours en garantissant l’égalité de traitement pour tou·tes les étudiant-es. L’engagement collectif de toutes et de tous est le meilleur garant de la qualité des formations et des diplômes qui seront délivrés cette année.

      Le SNESUP-FSU rappelle, qu’en tout état de cause, les dispositifs pédagogiques mis en place par les enseignant-es sont transitoires et répondent à une situation tout à fait exceptionnelle. En aucun cas, ils ne peuvent être envisagés de façon pérenne comme des mesures servant à pallier le manque dramatique de postes de titulaires.

      Les personnels de tous les métiers de l’Enseignement Supérieur font preuve de la plus grande responsabilité et de professionnalisme. Les enseignant·es mettent tout en œuvre pour maintenir le lien avec tou·tes leurs étudiant·es. Il faut leur faire confiance. Pour le SNESUP-FSU, l’urgence n’est pas dans le maintien total des contenus des cours mais dans le maintien pour toutes et tous les étudiant·es d’un lien avec les apprentissages et la recherche, dans le respect de la protection due aux agent·es. La situation est suffisamment anxiogène pour rester raisonnable dans les attentes. Elle demande une attention particulière aux difficultés rencontrées par les étudiant·es. L’accompagnement des étudiant·es ne doit pas conduire à la normalisation des pratiques pédagogiques prônée par le ministère et certains établissements. Il est illusoire de chercher à délivrer des notes et des évaluations à un rythme ordinaire et coûte que coûte. Les enseignant·es et les étudiant·es font le maximum en fonction de leurs moyens et de leur vie extra-universitaire. Nous devons accepter de fonctionner dans un mode “dégradé”, respecter les consignes de confinement ainsi que les contraintes et les rythmes nouveaux qu’elles entraînent.

      Dans ce contexte, le SNESUP-FSU réaffirme la nécessité que pour tous les personnels, tous statuts confondus, y compris pour les contractuel·les et les vacataires, l’intégralité du service soit réputé fait et que toutes les heures prévues à l’emploi du temps soient prises en compte pour les rémunérations.

      https://www.snesup.fr/article/continuite-pedagogique-mefiance-lettre-flash-ndeg10-du-25-mars-2020

    • Détenu·es confin·ées : #discontinuité_pédagogique

      Aucun plan de gestion de la crise du COVID-19 en prison n’a vraiment été prévu, à l’instar de l’Italie. On s’achemine donc vers une situation tout aussi explosive : un risque d’épidémie grave ; l’arrêt des contacts avec l’extérieur, des surveillant·es en première ligne d’exposition au virus, des mutineries, des drames.

      Toutes les prisons ne sont pas dans la même situation. Les prisons centrales, pour les longues peines, dont la plupart des personnes incarcérées bénéficient d’une cellule individuelle, sont relativement moins surpeuplées que les maisons d’arrêt. En revanche, les maisons d’arrêts, qui mélangent toutes les peines, sont, quant à elles, vraiment surpeuplées et atteignent aujourd’hui 138%, selon l’Observatoire international des prisons (1e janvier 2020)2.

      On pourrait avoir l’illusion que les détenu∙es étaient déjà confinés. Ce serait ignorer la vie d’une prison : il y a de nouveaux arrivants tout le temps ; des extérieurs qui s’y rendent. Aujourd’hui, familles, avocat∙es, enseignant∙es n’ont plus le droit de s’y rendre. Mais il faut bien administrer la prison : les surveillant·es continuent d’y travailler.

      Des cas de coronavirus ont été déclarés en prison. Vu la surpopulation en détention, le confinement individuel des personnes atteintes est impossible. Le virus risque de se répandre très rapidement, tant chez les personnes détenues que les surveillant∙es. L’épidémie risque d’y être d’autant plus grave que 1° la promiscuité et la surpopulation facilitent les contaminations 2° les bâtiments sont insalubres, l’hygiène insuffisante, les systèmes de santé vétustes. Qui plus est, les populations carcérales s’avèrent particulièrement à risque, en raison de leur mauvais état de santé général.

      Mais ce n’est pas tout : parmi les personnes-cibles de l’épidémie en prison, on risque non seulement les surveillant∙es, donc, mais aussi le personnel de santé. On trouvera bien sûr des personnes condamnées, mais aussi des personnes en incarcération préventive3, soit un quart de la population carcérale (21 000/80 000 personnes détenues)4. Dans la prison surpeuplée de Fresnes, un homme testé positif au coronavirus est mort. Il avait été incarcéré dix jours avant, alors qu’il était très âgé (74 ans) et de santé fragile – indice, s’il en était besoin, des inégalités exacerbées par la situation carcérale, entre un Balkany et un détenu anonyme. Le jour même, deux infirmières y étaient testées positives au coronavirus.

      Quelles sont les mesures qui sont prises ? Pour l’instant, surtout l’arrêt presque total des interventions extérieures, des parloirs, etc. Or beauoup de détenus auront d’immenses difficultés à vivre, physiquement5 et mentalement sans contacts extérieurs. En conséquence, des incidents ont éclaté dans de nombreuses prisons – et même un début de mutinerie à Réau, Perpignan, Angers, Maubeuge, Bois d’Arcy, La Santé6 et des émeutes à Grasse, avec interventions des ERIS et tirs de sommations. Le problème c’est qu’on risque une escalade de la violence : interdiction possible des promenades, par exemple, pour éviter tout regroupement collectif, détenus encore plus à cran, surveillants déjà à cran, sans protection (masques, par ex) encore plus exposés, etc.

      https://twitter.com/AdelineHazan/status/1239986843757826048?ref_src=twsrc%5Etfw%7Ctwcamp%5Etweetembed%7Ctwterm%5E12

      Devant cette situation, la Contrôleuse générale des lieux de privation de liberté a demandé la mise en place de visioconférences pour compenser la fin des parloirs ainsi que la gratuité du téléphone.7

      La seule mesure efficace serait le désengorgement des prisons et la fermeture des centres de rétention8. C’est ce à quoi appellent plusieurs associations, syndicats et la Contrôleuse générale des lieux de privation de liberté elle-même. Ce serait un changement majeur.

      D’autres lieux de privation de liberté sont concernés par l’épidémie : les geôles, en cas de gardes à vue prolongées, et de comparution immédiate. Ces pratiques judiciaires se poursuivent en dépit de risques sanitaires graves.

      Le coronavirus expose tous les dysfonctionnements de notre société. Il suffit de peu de choses pour que tout explose. Ça vaut pour nos services publics exsangue, mais aussi pour les prisons. Et devant la maladie, ce sont toujours les plus fragiles et les plus précaires qui sont aussi le plus exposés.


      *

      Ailleurs dans le monde, on retrouve la même situation explosive. Émeutes, grèves de la fin, destructions matérielles, évasions : les prisons italiennes ont déjà connu plusieurs morts, dans un système pénitentiaire surpeuplé à 130%, où la moitié de la population a plus de 50 ans. Avec 2,2 millions de détenus, les États-Unis abritent les prisons les plus peuplées au monde, laissant craindre une flambée de l’épidémie de coronavirus en milieu carcéral. En Iran, l’un des pays les plus touchés du monde par le coronavirus, 85.000 détenus ont été libérés : il s’agit d’hommes et de femmes condamnés à moins de 5 ans, qui devront finir de purger leur peine à une date indéterminée.

      Le manque de communication claire a des conséquences particulièrement graves en prison, où n’importe quel petit rien peut favoriser la psychose et le développement de rumeurs qui enflent en raison de l’enfermement, des addictions, de la santé mentale fragique des populations carcérales, sans même de l’incompréhension de la situation par les personnes non francophones.

      Mais même dans ces situations-là on traite les détenus de sales privilégiés : un article, intitulé « Nous allons distribuer 100 000 masques en prison », annonce Nicole Belloubet, se trouvent rapidement assortis de commentaires de type « eux ont le droit à des masques, pas nous ! », alors que les masques sont destinés aux surveillant∙es…

      Le 19 mars, le Ministère de la Justice annonce quelques mesures : à partir du lundi 23 mars, chaque détenu aura d’un crédit de 40€ par mois pour téléphoner ; la télé sera gratuite ; les détenus indigents recevront une aide majorée de 40€/mois pour cantiner.

      https://twitter.com/OIP_sectionfr/status/1240602063224156161?s=20

      En revanche, il n’y a aucune continuité pédagogique mise en place en détention. Les enseignant∙es ont été prévenu·es au dernier moment, n’ont rien pu préparer. En l’absence d’Internet, les cours sont suspendus. Simplement.

      https://academia.hypotheses.org/21331
      #prisons #prison

    • Des enfants confiés et confinés à domicile

      « Je suis éducateur dans une association de la protection de l’enfance, dans un service qui intervient auprès de famille où l’enfant est confié par le juge des enfants au département, mais reste domicilié chez leurs parents (chez l’un d’entre eux du moins).

      En cette période, ma collègue et moi-même avons pour directive de ne pas nous rendre dans les familles. Nous sommes donc en lien téléphonique avec elles. En cas d’urgences réelles, que nous nous devons d’évaluer nous-même ou si les familles nous sollicitent, nous pouvons être amené à nous y déplacer.

      Il est compliqué à l’heure actuelle de dire que c’est difficile pour les enfants d’être H24 avec leurs parents sans que ces derniers bénéficient d’un soutien éducatif plus soutenu, comme le demandent les mesures de placement.

      Cependant, nous nous devons de faire confiance, faire confiance en ces parents qui, bien qu’ils aient des compétences (sur lesquelles on s’appuie énormément), peuvent être défaillants ou en difficultés. Je leur tire mon chapeau car ils font au moins pire. Malgré cela, sur les 12 enfants accompagnés, la scolarité est grandement impactée pour plus de la moitié d’entre eux.

      Alors que sur les groupes d’internat de l’association qui accueillent des jeunes confiés quotidiennement, des moyens ont été trouvé pour assurer le minimum de continuité scolaire avec la présence d’éducateurs scolaires et d’éducateurs techniques, les parents auprès desquelles j’interviens, sont livrés à eux-mêmes. Rares sont ceux qui bénéficient d’un accès à un PC où PRONOTE, Maxicours ou le CNED permettent (lorsqu’il y a suffisamment de connexion) d’avoir accès à des supports de cours.

      Certains ont pu se mettre en lien avec l’enseignant pour avoir des documents papiers imprimés. D’autres utilisent simplement leur smartphone pour avoir accès aux plateformes….

      Pour certaines familles, nous avons pu imprimer énormément de documents, et nous leur avons fait parvenir…

      Quelle utopie maintenant ? Celle d’avoir des enfants qui se mettent à travailler d’eux-mêmes, aidés si besoin par leurs parents qui peuvent leur expliquer les cours de physique, chimie, SVT, Français, Histoire-Géographie, Anglais, Espagnol…. Je ne cible pas leurs incompétences, car ils s’essaient tous tant bien que mal. Mais nous même, nous ne sommes pas capables de fournir un tel accompagnement, alors comment demander, à des familles où la problématique est souvent ailleurs, d’assurer cette scolarité ? A cela, s’ajoute les pathologies psychologiques (TDAH, trouble déficit de l’attention avec ou sans hyperactivité, par exemple) et difficultés scolaires de ces enfants qui en temps normal bénéficient d’une scolarité spécifique et/ ou de soins. Cette charge est donc laissée quotidiennement aux parents qui ont probablement d’autres choses à gérer (comme un budget repas par exemple, où l’aide à la cantine scolaire ne fonctionne pas à la maison….).

      Alors, oui, en ces temps de confinement, nous veillons à ce que le domicile reste un environnement sain, moins pire qu’ailleurs. Quitte à passer la scolarité au troisième plans. Tant pis si lorsque le confinement sera terminé, nous auront creusé de nouvelles inégalités… »

      https://www.modop.org/se-relier/#26mars

    • La continuité pédagogique, vraiment ?

      Dès avant la fermeture des établissements le 16 mars dernier, les enseignant.es ont reçu des consignes pour leur demander d’assurer ce qu’on a appelé la “continuité pédagogique” : il fallait aussi rapidement que possible imaginer et mettre en oeuvre des solutions pour continuer d’assurer les cours magistraux et les travaux dirigés, les séminaires et les stages. Face à cette injonction pressante, des solutions ont été très vite expérimentées, dès le début de la semaine dernière. Des solutions très variables, pour ce que j’ai pu en observer dans mon université grenobloise, et dans quelques autres à travers les récits de collègues : certain.es enseignant.es ont pu très rapidement trouver des formes alternatives d’enseignement en utilisant des plateformes collaboratives permettant d’utiliser la vidéo ou l’audio, comme Discord ou Zoom ; d’autres enseignant.es ont enregistré leurs cours dans des fichiers audio ; d’autres enfin, moins habitué.es à utiliser les outils numériques, ont déposé des versions écrites de leurs cours dans les ENT (environnements numériques de travail) de leur établissement. Tout y poussait : la conscience professionnelle, le souhait de maintenir le contact avec les étudiant.es pour éviter les abandons, la crainte de leur faire “manquer” un semestre.

      Il m’a pourtant très vite semblé qu’on mettait en quelque sorte la charrue avant les boeufs et qu’on essayait de mettre ainsi en oeuvre cette “continuité pédagogique”, de façon un peu désordonnée, sans se demander ni si c’était souhaitables, ni si c’était possible et à quelles conditions. Mes interrogations me venaient de mes propres difficultés : comme les autres, je cherchais des solutions, et dans mon cas particulier, j’avais beaucoup de mal à les trouver : comment faire, en effet, pour enseigner les méthodes quantitatives avec R à distance, dans des groupes de TD de plusieurs dizaines d’étudiant.es de deuxième année de licence ou de première année de master de sociologie ? Tout ce que nous avions “en présentiel”, était-il possible de le reconstituer à distance : des ordinateurs suffisamment puissants, des logiciels correctement installés, le travail en groupes, l’accompagnement individuel, face aux écrans ?

      Plutôt que supposer que tout cela était possible, nous avons alors choisi, avec mon collègue Olivier Zerbib qui co-anime avec moi ces travaux dirigés, de réaliser un sondage auprès de nos étudiant.es pour essayer d’évaluer leur capacité à suivre des cours à distance. Ce sont les résultats de ce sondage, que nous avons finalement étendu à la totalité des étudiant.es de licence de sociologie de l’Université Grenoble Alpes ainsi qu’aux quelques étudiants du master (SIRS) “Sociologie de l’innovation et recompositions sociales”, que je voudrais vous présenter rapidement dans ce billet.
      Un sondage sur les capacités à suivre des cours à distance ? Encore faut-il pouvoir même y répondre…

      Le questionnaire de cette mini-enquête a été mis en ligne sur Moodle (la plateforme ENT de l’UGA) le jeudi 19 mars, et il est resté ouvert jusqu’au samedi 21 mars à midi. Les étudiant.es ont été invité.es à y répondre par plusieurs messages envoyés là encore par Moodle, et relayés de différentes façons (pages Facebook, forums Discord, emails personnels…) par les enseignant.es et les étudiant.es de sociologie. Le choix de mesurer la capacité des étudiant.es à suivre des cours à distance à partir d’un sondage sur Moodle était délibéré : cela devait permettre déjà tout simplement de déterminer la proportion des étudiant.es qui recevraient le message les invitant à répondre à ce sondage, par un canal ou un autre, et qui arriveraient à y répondre dans Moodle. La non-participation au sondage pourrait de ce fait être tenue comme un indice d’une très grande difficulté à utiliser même les outils les plus simples à notre disposition pour faire cours à distance, et qui sont aussi ceux que notre établissement nous recommande très fortement d’utiliser.

      De ce point de vue, la conclusion est malheureusement sans ambiguïté. Même après avoir restreint la population étudiée à la liste des étudiant.es qui se sont connecté.es à Moodle au moins une fois depuis le début de l’année universitaire, le taux de réponse général au sondage est très faible (voir tableau ci-dessous).

      Seulement 92 des 334 étudiant.es de sociologie ont pu répondre à l’enquête, soit 28% d’entre eux. Et on constate de fortes disparités : les meilleurs taux de réponse sont observés en L2 et M1, et les plus faibles en L1 et en L3. Ce faible taux de réponse ne s’explique probablement pas fondamentalement par des difficultés “techniques” de connexion : ces étudiant.es ont pratiquement tou.tes des smartphones avec des abonnements internet mobiles, et comme on sait qu’ils.elles sont déjà allé.es au moins une fois sur Moodle depuis le début de l’année universitaire, on peut faire l’hypothèse qu’ils connaissent leur identifiant et leur mot de passe.

      La première explication est liée aux variations de leur “implication”, autrement dit du lien qu’ils.elles ont pu maintenir avec les préoccupations universitaires, ou que nous, enseignant.es, avons pu maintenir. Ce sont les fortes variations du taux de réponse en fonction du niveau qui permettent de le penser. Les meilleurs taux de réponse sont en effet observés en L2 et M1, et les plus faibles en L1 et en L3, et cela peut s’expliquer en partie par le fait que le sondage a été transmis aux étudiant.es de L2 et M1 dans le Moodle de cours où ils m’ont comme enseignant ce semestre : cela a pu favoriser leur implication. On note du reste qu’un sondage similaire réalisé par Olivier Zerbib directement dans son cours de “Sociologie de l’innovation” en L3 a reçu 19 réponses sur 24 inscrit.es au cours, alors que le sondage mis dans le Moodle dans le cours de “sociologie des réseaux” du premier semestre n’a reçu que 4 réponses sur 47. Mais il n’en reste pas moins qu’en L1 le taux de réponse est très faible, et qu’en L2, où les étudiant.es ont reçu plusieurs relances par plusieurs canaux pour répondre au sondage, cette capacité à répondre à une demande très simple dans Moodle en moins de trois jours n’est observable que dans à peine la moitié de la promotion. Et en L2, les ayant vu vendredi juste avant la fermeture, Olivier a pu leur recommander très fortement de rester connectés.

      La seconde explication n’est pas liée aux événements. Avant même d’invoquer des difficultés de connexion liées à la crise sanitaire et au confinement, ou la démobilisation, il faut d’abord tout simplement se demander si même avant le début de cette crise, les étudiant.es de sociologie utilisaient Moodle. Or, la date de la dernière connexion permet de voir que c’est loin d’être le cas de tout.es : en réalité, déjà un quart d’entre eux ne s’étaient pas connectés à Moodle depuis le début du semestre.

      Le résultat : une très faible capacité générale à suivre des cours à distance

      De ce qui précède, il ressort que déjà, même en L2 où le taux de réponse a été “élevé”, c’est en réalité à peine la moitié des étudiant.es qui a pu répondre à un questionnaire de 3 questions dans Moodle. Dans les autres niveaux, que ce soit en licence ou en master, ces taux sont bien moindres. Qu’ont-ils.elles répondu, celles et ceux qui sont parvenu.es à le faire ? Pour évaluer la capacité des étudiant.es de sociologie à suivre des cours à distance, trois questions leur avaient été posées, dont vous trouverez les réponses dans les tableaux ci-dessous, calculées en fonction du niveau de licence et de master.
      Une accès basique à internet apparemment correct, mais un accès compliqué aux plateformes nécessitant un débit élevé et un ordinateur fixe.

      Les réponses à la première question sont pratiquement unanimes : en tout cas parmi celles et ceux qui ont pu répondre au sondage, il n’y a en tout et pour tout que 2 étudiant.es qui n’ont pas les moyens d’accéder aux outils les plus basiques, soit la messagerie électronique et Moodle. Par construction, cela dit, on peut estimer que les étudiant.es qui ont pu répondre à ce sondage sur Moodle après avoir reçu un message sur leur messagerie universitaire disposaient par définition de ces moyens élémentaires de travail à distance. Les réponses à cette question démontrent toutefois qu’il reste possible de communiquer avec cette moitié-là de nos étudiant.es via Moodle et la messagerie universitaire, qu’ils.elles peuvent consulter au moins sur leur smartphone.

      Ils.elles sont déjà un peu plus nombreux.ses, une quinzaine sur la centaine de répondant.es, à ne pas avoir les moyens de suivre des cours à distance qui mobiliseraient des outils plus complexes ou plus gourmands en bande passante, comme les outils et plateformes de visio- ou d’audio-conférence. Les très nombreux commentaires libres donnés en réponse à la dernière question du sondage sont particulièrement éclairants de ce point de vue. Ils permettent en effet de prendre la dimension des très nombreuses difficultés qui vont faire obstacle à la possibilité de suivre des cours et de produire des travaux universitaires en utilisant les outils bureautiques habituels : accès à internet seulement avec des abonnements mobiles dont les plafonds sont très rapidement atteints, difficultés à s’approprier des outils instables, pas d’ordinateur, ordinateurs trop anciens ou pas suffisamment puissants…

      Cela dit, il faut en partie relativiser ces difficultés : sur la quinzaine d’étudiant.es indiquant de telles difficultés, il y en a 9 qui sont en L2. Or, cela tient certainement en partie au fait que le sondage leur ait été diffusé dans le Moodle du TD de méthodes quantitatives, et qu’ils.elles s’inquiètent pour l’utilisation de R à distance et le travail de groupe avec ce logiciel, comme en témoignent les commentaires libres.
      Des conditions de travail dégradées pour un nombre significatif d’étudiant.es

      Enfin, et surtout, la dernière question montre qu’on aurait tort de penser que les obstacles sont seulement techniques. En effet, presque la moitié des étudiant.es de sociologie qui ont pu répondre au sondage ne s’estiment pas dans des “conditions matérielles, intellectuelles, économiques et sociales” (on aurait dû ajouter également “psychologiques” dans la formulation de la question) qui leur permettraient de suivre correctement des cours et d’effectuer leur travail universitaire à distance. Là encore, les commentaires libres sont instructifs : pertes des emplois qui leur permettaient de financer les études, horaires des cours incompatibles avec des obligations professionnelles ou familiales, conditions de logement ne permettant pas de s’isoler pour travailler, anxiété, inquiétudes face au caractère inégalitaire de l’enseignement à distance…


      Le tableau ci-dessus indique aussi qu’il faudrait dissocier les réponses pédagogiques à apporter en L1 de celles pour les autres niveaux de formations. Parmi celles et ceux qui ont pu répondre au sondage, ce sont les étudiant.es de première année qui indiquent le plus nettement qu’ils.elles ne sont pas dans des conditions générales qui leur permettent d’étudier à distance. La question reste de savoir s’il faut en conclure qu’il faut renoncer à le faire, ou au contraire qu’il faut prendre le problème à bras le corps pour leur proposer des solutions pédagogiques spécifiques, parce que l’enjeu est crucial et les conséquences sur le taux d’abandon potentiellement dramatiques.
      La continuité pédagogique, à toutes forces ?

      On peut résumer les résultats qui précèdent en un seul tableau très simple, synthétisant les différents critères utilisés pour mesurer la capacité des étudiant.es à suivre des cours à distance. On utiliser pour cela une échelle unique, allant du simple fait de n’avoir même pas pu répondre au sondage sur Moodle (qu’on appellera le niveau 0 de la capacité à suivre des cours à distance), jusqu’à un niveau 3 correspondant à l’absence totale de difficultés à suivre de tels cours.

      La conclusion reste quantitativement sans ambiguïté : seule une très faible minorité d’étudiant.es est parvenue à nous indiquer qu’elle se trouve dans des conditions générales permettant d’étudier correctement à distance. Cette conclusion peut néanmoins être légèrement nuancée selon les niveaux : en L2, un tiers tout de même des étudiant.es ont pu indiquer qu’ils étaient dans des conditions correctes pour étudier à distance, et c’est le cas également de plus de la moitié des étudiant.es de M1 SIRS (voir tableau ci-dessous). On peut aussi redire que dans le cours de L3 de sociologie de l’innovation animé par Olivier, 18 des 19 étudiant.es qui ont répondu au sondage d’Olivier ont indiqué être en capacité de suivre ce cours à distance. Il en reste tout de même 6 (soit un peu plus de 20%) qui ne le peuvent pas, soit parce qu’ils.elles ne sont pas dans la capacité de le faire, soit parce qu’ils.elles y ont renoncé.

      Dans tous les cas, et probablement même dans le cas des L3, ces proportions ne semblent pas suffisantes pour garantir que la mise en place d’enseignements à distance, et a fortiori d’évaluations de ces enseignements à distance, ne produira pas d’importantes inégalités entre des étudiant.es de sociologie dont les commentaires libres témoignent qu’ils.elles y sont particulièrement sensibles. Comment s’en étonner ? D’une part nos étudiant.es n’appartiennent pas forcément aux mêmes milieux sociaux que d’autres composantes de l’université qui ont mis en place des enseignements à distance sans se préoccuper de la rupture d’équité que cela pouvait occasionner. Et d’autre part, cette attention de nos étudiant.es aux inégalités, nous devrions au contraire en être fier.es, puisque c’est aussi notre métier que de leur en montrer et en démonter les mécanismes.

      En tout état de cause, les résultats de ce sondage plaideraient plutôt en faveur des conclusions suivantes :

      Seulement une très faible minorité des étudiant.es de sociologie de l’UGA se déclare pour l’instant en situation de suivre correctement des cours à distance.
      Dans ces conditions, instaurer des cours à distance dont les évaluations participeraient à la validation du second semestre provoquerait une profonde rupture de l’équité entre les étudiant.es.
      La seule mesure générale qu’il est possible de préconiser au vu de ces résultats est la validation de l’ensemble des enseignements dont les modalités de contrôle n’avaient pas été satisfaites à la date de la fermeture de l’université, ou reposeraient sur des connaissances qui devraient être acquises après cette date.
      La traduction la plus simple possible de cette mesure générale consisterait à valider le second semestre pour l’ensemble des étudiant.es ayant validé des UE de premier semestre, de façon à permettre à ces étudiant.es de poursuivre normalement leurs études sans “perdre” un semestre ou un an.

      Ces conclusions n’interdisent bien entendu pas, dans certains cas particuliers et clairement identifiés, de mettre en place des formes d’activités pédagogiques à distance. Il faut peut-être par exemple appliquer des règles différentes en L1 et dans les niveaux suivants de licence, où les effectifs plus réduits et la socialisation plus ancienne aux études universitaires permettent d’expérimenter des formes pédagogiques alternatives.

      En TD de méthodes quantitatives de L2, avec Olivier, nous allons essayer de continuer à accompagner le travail de nos étudiants sur les données de leur belle enquête sur les couples et le numérique (ils.elles venaient de finir d’en saisir les 1759 questionnaires quand nous avons fermé), en nous appuyant sur Moodle et sur Discord. Plusieurs commentaires libres, et nos échanges de la semaine écoulée avec nos étudiant.es, pointent l’importance du rôle socialisateur de ces initiatives développées par certain.es d’entre nous.

      En master au contraire, il peut être tout-à-fait bénéfique de renoncer aux cours magistraux pour permettre aux étudiant.es de se concentrer sur la rédaction de leurs mémoires de recherche (ils étaient en train de terminer leurs terrains) et de stage (si celui-ci a pu être réalisé, ou peut être réalisé en télétravail), en leur proposant des formes d’accompagnement à distance adaptées (forums, rendez-vous par Skype, séminaires d’accompagnement et de méthodologie de la recherche en ligne…).

      On peut néanmoins redire que toutes ces activités pédagogiques à distance devraient au minimum respecter un certain nombre de règles importantes, pour atténuer la rupture d’équité qu’entraîne leur maintien :

      Ces activités devraient avoir principalement pour fonction de maintenir des formes de communication et de socialisation avec celles et ceux des étudiant.es pour qui elles exercent un effet socialement structurant, qui peut être précieux dans ce contexte de crise.
      Ces activités ne devraient pas être évaluées, ou en tout cas ces évaluations doivent avoir une visée purement pédagogique et ne pas conditionner la validation des enseignements.
      En licence au moins, ces activités ne devraient pas se dérouler seulement en direct sur des plateformes de diffusion vidéo ou audio, dans la mesure où de nombeux.ses étudiant.es n’ont pas la possibilité d’être disponibles aux horaires des cours, ou ne bénéficient pas de conditions permettant de les suivre correctement (pas de wifi, pas d’ordinateur, impossibilité de s’isoler…). Il faudrait que les cours puissent être suivis en différé, et donc que les documents à lire et les enregistrements vidéo et audio restent facilement accessibles même après la fin de la séance.
      Ces activités ne devraient pas obliger les étudiant.es à utiliser un nombre trop élevé de plateformes et d’outils différents. Elles devraient centralement utiliser les possibilités offertes par Moodle et à l’intérieur de Moodle. L’expérience de la semaine écoulée a montré que des étudiant.es avaient apprécié l’utilisation de Discord par certains enseignants, même si là encore nous n’avons aucune garantie du caractère égalitaire du recours à cet outil. Dans tous les cas, on devrait éviter de multiplier les outils utilisés, au gré des initiatives individuelles, et on devrait éviter en particulier les outils nécessitant des ressources techniques trop importantes, et a fortiori les outils payants.

      Et pour clore provisoirement cette présentation des résultats de notre petite enquête, on peut également dire qu’en fonction des solutions adoptées, il faudra certainement en observer avec la plus grande attention les effets, aussi bien sur les étudiant.es et leurs cursus, que sur l’enseignement supérieur même et les évolutions des études universitaires dans les mois et les années à venir. Force est de constater que la crise sanitaire en cours, et en particulier le confinement, fabriquent de fait le consommateur et la consommatrice dont rêvaient les plateformes numériques. Et donc peut-être aussi l’étudiant.e dont rêvaient les établissements d’enseignement supérieur : assigné.e à résidence, moins coûteux.se en locaux et en personnels, privé.e de sa capacité à se mobiliser… En nous précipitant sur les outils numériques permettant de faire cours à distance à un nombre très restreint d’étudiant.es bénéficiant de conditions matérielles, économiques et sociales privilégiées, et disposant aussi des capacités socialement construites à l’auto-discipline que nécessitent les auto-apprentissages, on prend le risque de faire croire que c’est possible, sans se demander ni se soucier ce qui est réellement transmis de cette façon, ni à qui. Quand on a ouvert la boîte de Pandore, il est très difficile de la refermer…

      http://pierremerckle.fr/2020/03/la-continuite-pedagogique-vraiment

    • … et il n’y a toujours pas de masques

      Il y a elle ; elle est chez ses parents au fin fond de quelque part, et ne capte pas grand chose, d’un point de vue informatique je veux dire, elle a bien la 3G mais c’est littéralement au fond du jardin.

      Il y a ma compagne ; elle est professeure de français histoire géographie dans un lycée professionnel. Elle a des classes et des élèves. Elle a des « elle » et des « il » aussi. Il faut qu’elle s’en occupe.

      Il y a mon groupe 2 en DIG2 ; il faut que je m’en occupe, il faut que je m’en occupe, il faut que…

      Il y a lui ; il est réquisitionné et travaille dans l’alimentaire à 125% depuis le début du confinement, il est inquiet pour la suite de ses études.

      Il y a les courses parfois, les repas souvent, la machine et tout le reste.

      Il y a elle ; elle dit que “Nous n’entendons pas demander à un enseignant qui aujourd’hui ne travaille pas, compte tenu de la fermeture des écoles, de traverser la France entière pour aller récolter des fraises gariguette”…

      … et il n’y a toujours pas de masques.

      Il y a iel ; son père/ sa mère est docteur.e/infirmier.ère, iel est inquiète et a du mal à travailler.

      Il y a ma fille ; elle a 7 ans, cette semaine elle a appris deux nouveaux sons sans sa maîtresse. Elle a besoin de ses parents.

      Il y a mon groupe 1 en découverte 2, il ne faut pas que je les oublie, il ne faut pas que je les oublie …

      Il y a lui ; il est juste inquiet, juste angoissé, il n’a jamais vu ça. Il ne sait pas s’il arrivera à finir son semestre.

      Il y a elles et ils ; iels font la queue devant le magasin de fruits et de légumes, une file étrange au milieu d’une route sans voiture. Eloigné.es les un.es des autres d’un mètre au moins ; iels attendent, iels ne parlent pas.

      Il y a le service public télé et radio qui organise une soirée de soutien pour trouver des sous pour le service public hospitalier… et tout le monde a l’air de trouver ça normal de faire nos fonds de poches pour les services publics que nos gouvernements managérisent, déstructurent, détruisent depuis des années.

      … et il n’y a toujours pas de masques.

      Il y a elle, elle a besoin d’une lettre de recommandation. C’est pour partir à l’étranger l’année prochaine. Ah. C’est bien, il y aura une année prochaine…

      Il y a ma fille de 11 ans ; elle a des devoirs tous les jours. On n’a pas d’imprimante alors elle recopie ses leçons à la main. Elle râle un peu mais ça va. Elle a besoin de ses parents.

      Il y a mon amphi de L1 ; il faut que je transforme mon CM en chapitre de livre, il faut que je transforme mon CM en chapitre de livre, …

      Il y a ce mail là, un peu bizarre pour une réunion le 3 juillet…

      Il y a iel ; iel ne comprend pas comment compléter des diaporamas sans support de cours et juste avec des liens internet… moi non plus. Je ne sais pas trop quoi lui dire, ce n’est pas mon cours.

      Il y a les courses parfois, les repas souvent, la machine et tout le reste. Il y a un temps à la fois long et court, bref et étonnamment élastique.

      Il y a les cloches qui sonnent huit heures, on va applaudir sur le balcon toustes celles et ceux qui luttent pour sauver des vies.

      … et il n’y a toujours pas de masques.

      Il y a elle ; par chance elle a pris une UE de sport ce semestre. Cette UE est considérée comme acquise.

      Il y a mes parents ; iels sont âgé.es. Je suis inquiet et j’ai besoin de mes parents. Il y a mon groupe 6 en DIG2, il faut que je m’en occupe, il faut que je m’en occupe, il faut que…

      Il y a lui, par malchance il y pris une ETC disciplinaire comme « égalité femmes hommes » par exemple et doit quand même rendre quelque chose.

      Il y a les courses parfois, les repas souvent, la machine et tout le reste. Il y a un temps à la fois long et court, bref et étonnamment élastique. Il y a les informations qui hantent nos journées.

      Il y a le président ; il a l’air de trouver que finalement l’hôpital c’est pas mal et que ça vaut le coup d’investir dedans.

      … et il n’y a toujours pas de masques.

      Il y a elle ; elle est dans la réserve sanitaire, mobilisable à tout moment. Il y a lui ; il est dans la réserve militaire ; il est mobilisable à tout moment.

      Il y a ma fille ; elle a 13 ans, ses enseignant.es du collège ont pris leur rythme de croisière, elle travaille au moins 5 heures par jour. Elle a besoin de ses parents. Il y a lui ; ils sont à cinq dans un petit appartement, il y a un PC, le papa travaille en télétravail, la maman travaille en télétravail, son frère fait l’école à la maison et ses cours arrivent par internet et sa sœur fait l’école à la maison et ses cours arrivent par internet. Et puis il y a celui qui n’a qu’un téléphone dans sa chambre de 11m² du CROUS.

      Il y a mon groupe de Géo & média, il ne faut pas que je les oublie, il ne faut pas que je les oublie …

      Il y a elle ; elle m’envoie un courriel pour me dire qu’elle est en quatorzaine dans sa chambre ;

      Il y a chamilo, un jour je le ferai griller au-dessus d’un feu de bois ou dans une cheminée,

      Il y a les questions nombreuses qui affluent par courriel : et le confinement ? monsieur, s’il se prolonge ? et les notes monsieur ? comment on fait ? monsieur on n’a pas de nouvelle d’untel ? monsieur, monsieur ?

      Il y a mon groupe 1 en découverte 2, il faut que je m’en occupe, il faut que je m’en occupe…

      Et il y a les miennes de questions. Pourquoi on continue de faire comme si c’était normal ? Comment on va gérer tous les « il » et toutes les « elle » qui se multiplient ces derniers jours et qui ne pourront pas être traité.es comme toustes les autres ?

      Et pour les stages ? il y a elle ou lui qui l’ont déjà et il y a elle ou lui qui ne l’ont pas fait ; comment les noter équitablement ? et quand est-ce qu’on décide d’arrêter la mascarade et d’annoncer que l’année est terminée ? et quand est-ce qu’on admet qu’on n’était pas prêt ? et que ce n’est pas grave ? et qu’en est-ce qu’on arrête le délire sur les maquettes et que l’université nous dit que « c’es bon » on décale tout de trois mois…

      Et quand est-ce qu’on arrête de faire semblant, de faire comme si tout était normal alors que pas grand choses ne l’est en ce moment…

      Et puis, il y a Jérôme Salomon qui prend la parole et qui compte les morts…

      … et il n’y a toujours pas de masques.

      https://academia.hypotheses.org/21695

    • Message d’une promo de l’IUGA à Grenoble :

      Suite à de nombreux échanges entre nous, vous voulons vous faire part de notre avis sur la situation actuelle et les différents travaux demandés.
      Tout d’abord, nous sommes conscients que la période que nous traversons est autant difficile pour nous que pour vous. Cependant, les projets notés que nous devons vous rendre ne semblent pas en adéquation avec ce que nous vivons, et nous voulons vous faire part de notre inquiétude. En effet, nos conditions de travail en cette période de confinement sont toutes très différentes, certains n’ayant plus d’espace de travail approprié, un accès à un internet limité et les différentes ressources auxquelles on peut accéder (bibliothèques, espaces de travail...) étant fermées.
      A des fins égalitaires, il nous paraît injuste de nous noter sur un même piédestal. De plus nous ne reconnaissons pas l’aspect pédagogique de certains travaux, nous avons l’impression de travailler sans rien apprendre, bien loin de la fonction principale d’une université. Nous avons peur que ces notes soient préjudiciables pour la suite de nos études.
      Nous savons que la situation est loin d’être évidente pour vous également mais il nous paraissait important de vous faire part de la situation qui préoccupe l’ensemble de la promo, mais également le corps enseignant de part l’appel a la grève promulguée par certains de vos collègues que nous rejoignons (notamment par la lettre de Sébastien Leroux « Il y a iel » : https://academia.hypotheses.org/21695).
      Par conséquent, et compte tenu de cette situation inédite ne permettant pas une évaluation équitable entre les étudiants, nous souhaiterions une organisation différente nous permettant d’être évalué sur nos réelles capacités (comme ce fut le cas lors du premier semestre) et non sur des travaux n’ayant pour seul but le remplissage d’un bulletin qui n’aura aucune réelle valeur pédagogique.

    • Ma réponse à mon collègue Sébastien Leroux (https://academia.hypotheses.org/21695) :

      Et puis… la colère, et puis …la peur

      « En lisant le texte de mon collègue Sébastien, je me demande comment il fait et comment font mes collègues enseignant·es à la fac qui ont beaucoup de cours à donner ce semestre. Par chance, mon semestre est chargé en automne, mais beaucoup moins au printemps.

      Et je n’ai pas d’enfants. Nous accueillons chez nous à la maison un demandeur d’asile, mais il est majeur, autonome et est surtout une aide… Il nous fait souvent à manger, il nous aide dans les tâches ménagères et aide mon compagnon à terminer les petits travaux qui restent à faire dans notre nouvel appartement.

      Malgré ma situation décidément privilégiée, je n’arrête pas. Il y a des étudiant·es étrangères dont je m’occupe en tant que responsable du master international que je dirige et qui sont en difficulté. Cela m’a pris beaucoup de temps. Mais en réalité, ce n’est pas vraiment cela qui me prend plus de temps. Et ce n’est pas cela qui m’empêche d’avoir du temps et de l’énergie. C’est la multiplication des mails de gestion administrative de la crise. Et ce sont des pensées qui trottent dans la tête, en ces temps bien étranges. Car, comme me l’a dit hier une collègue, on voit tellement clairement avec cette crise qu’on a tout un arsenal prêt pour une guerre, la « vraie guerre », pas celle contre l’ « ennemi invisible » de Macron… On a une armée et des soldats, des bombes, on a mis en place des tactiques et des stratégies… Mais rien pour contrer ce virus, dont son émergence était tout de même « annoncée », comme le dit si bien le microbiologiste Sansonetti ; on est complètement démuni·es. Seule solution : le confinement. Seule solution car il n’y a pas de tests de dépistages, il n’y a pas de masques et il n’y a pas assez de lits dans nos hôpitaux, que les gouvernements successifs ont démantelé, brique par brique.

      Et la colère monte, en pensant à cela. C’est cette colère qui m’empêche de me concentrer. Et qui me pousse à faire ce que fais en temps « normaux », mais ce travail prend désormais plus de temps car aux thèmes habituels s’ajoutent ceux liées à la crise sanitaire : prendre et archiver des infos, les partager. En « temps normaux », je fais ce travail sur mes thèmes de recherche : migrations, réfugiés et frontières. Mais désormais s’ajoutent à cela des infos sur ce virus et cette crise sanitaire, pour que l’info critique puisse circuler. Alors je trie l’info, je la mets sur mon réseau social préféré et sur lequel j’archive des infos depuis des années : seenthis.net. Et en plus, je partage l’info avec celleux qui m’ont dit vouloir se tenir informé·es par des canaux autres que ceux gouvernementaux ou des médias mainstream.

      Du coup, j’ai créé un fil sur seenthis sur la maudite continuité pédagogique, car en tant qu’enseignante, c’est parmi les thèmes qui m’agacent le plus.

      Mais il y a aussi cette autre question, très peu traitée par les médias, celle du lien entre confinement et violences domestiques, dont se préoccupent pas mal de personnes autour de moi, mais dont on parle très peu, en réalité. Car le mot d’ordre est « restez chez vous ». Mais quand le « chez soi » n’est pas un refuge mais un condensé de violence, quoi faire ? Et quand, à vrai dire, on n’a pas du tout de chez soi ?

      (…)

      Et puis, dans notre amap, c’est la trêve hivernale pour notre maraîcher. Pas de légumes, jusqu’au mois de mai. Trop difficile, une vie sans les légumes d’Yvan. Et alors, j’essaie d’organiser un moyen pour ne pas devoir me rendre dans les supermarchés où je ne vais plus depuis que je suis arrivée en France… Il y a un « plan légumes via notre amap ». J’y adhère, je partage avec des ami·es qui, elleux aussi, sont à la recherche de légumes. C’est parti, petit tableau pour regrouper les commandes, organisation de la distribution…

      Tout cela, ça prend du temps. Mais c’est ce qui me donne de la vie et de l’énergie en ces temps de confinement. Confiné·es, mais pas isolé·es. Et alors j’essaie de me dire que c’est une chance peut-être de pouvoir s’organiser autrement, de pouvoir trouver d’autres liens. On peut enfin apprécier une ville sans trafic motorisé. Et ça fait du bien, oh que ça fait du bien ! Je me dis, parfois, qu’il y a de l’espoir… c’est peut-être une chance. Pour repenser notre monde. Un jour, peut-être, on dira « merci coronavirus ». Les gens ont enfin compris que l’hôpital public, c’est essentiel. Que nos maraîchers et maraîchères, sont essentiels. A la survie. A la vie.

      Mais souvent, c’est la peur qui me prend à la gorge. Non pas la peur de ce virus, malgré les nouvelles inquiétantes qui nous arrivent d’Italie, que j’ai commencé à suivre bien avant mes ami·es et collègues ici en France. Je savais que ça allait arriver ici aussi. Cela semble se confirmer : 11 jours de retard sur l’Italie. 11 jours. Et tout sera comme en Italie. Et les nouvelles de Bergame, ça fait peur. Je ne sais pas si le fait d’être de langue maternelle italienne est une chance ou pas, dans ces conditions. Je ne l’ai pas encore compris.

      La peur, je disais… La peur qu’en réalité, dans l’après covid-19, on se réveillera et ça fera mal. La peur que ce que Naomi Klein décrivait pour l’Irak, est en train de se passer ici et maintenant. En Europe, en 2020. La stratégie du choc. C’est cela, la peur qui me prend à la gorge. C’est cela qui m’empêche de penser à ce que je dois faire comme si « tout était normal ». C’est cette peur qui ne me fait pas croire à la « continuité pédagogique ». Pour moi, un seul cours à assurer (et l’appui à un autre), mais je n’arrive pas à m’y mettre vraiment. Pourtant, pour ce cours, les étudiant·es sont là, présent·es. Ielles travaillent et s’y mettent. Avec ma collègue nous avons adapté le cours, et ça a l’air de marcher. Je n’avais pas de nouvelles d’un sous-groupe, j’étais inquiète. Après quelques jours, j’arrive à atteindre les étudiants du groupe, une personne sans internet dans le groupe. Et tout s’écroule. Mais il va bien. C’est ce qui compte. On adaptera. On ne pénalisera pas. Mais j’ai cette étrange impression que ces étudiant·es de L3 GES sont bien plus présent·es que moi. Ou alors ielles jouent. The show must go on. Continuité pédagogique oblige. Je ne sais pas si ielles font semblant ou si ielles y croient vraiment à ce beau projet qu’on était en train de construire ensemble : améliorer l’offre alimentaire des étudiant·es de l’IUGA. Je pense qu’ielles y croient et c’est pour cela qu’ielles sont là, présent·es. Ou peut-être ielles ont juste peur de ne pas avoir les crédits à la fin de l’année. Je pense qu’on ne le saura jamais. Mais je leur suis vraiment très reconnaissante, car ielles me motivent à ne pas lâcher. A les accompagner. On se donne tous les vendredis RV sur Discord. Et ça marche. Parce qu’ielles sont là au RV. Là avec leurs idées et leur envie d’avancer. Juste pour cela, ielles méritent une bonne note. Une belle leçon. »

      https://www.modop.org/se-relier/#29mars

      Le texte complet : https://www.modop.org/wp-content/uploads/2020/03/Et-puis-la-col%C3%A8re-et-puis-la-peur.pdf

    • Lettre ouverte adressée au président de l’université Savoie Mont Blanc par des étudiant.e.s mobilisé.e.s, à travers le syndicat Solidaires Etudiant-es, 31.03.2020

      Monsieur le Président de l’Université Savoie Mont Blanc,

      Le syndicat Solidaire Etudiant·e·s Savoie a pris l’initiative de créer un questionnaire à destination des étudiant·e·s sur la situation actuelle de la crise sanitaire et sociale. Le but de celui-ci est d’identifier les problèmes rencontrés par les étudiant·e·s durant cette période exceptionnelle de confinement pour tou·te·s, en se basant aussi bien sur l’aspect matériel que psychologique. Nous vous adressons donc aujourd’hui, Monsieur le Président, une lettre pour vous faire état de cette situation. 
Nous avons conscience que cette période apporte beaucoup d’inquiétudes, de questions et que les réflexions à distance sont compliquées. Cependant, nous souhaitons faire entendre les voix des étudiant·e·s. Le confinement nous oblige à modifier le déroulement de la fin de ce second semestre tant pour la continuité pédagogique que pour les examens qui devaient se tenir entre le 27 avril et le 16 mai 2020. Les craintes étudiantes concernant les modalités d’évaluation sont plus que présentes. C’est pourquoi nous vous demandons de prendre en considération les conséquences que pourrait avoir le maintien des examens. Aussi, ce questionnaire n’a aucune vocation scientifique ; il a été créé dans l’urgence et en réponse au questionnaire envoyé par la direction LLSH de l’USMB, que nous jugeons insuffisant puisque la seule dimension technique (connexion internet, ou pas) y est abordée. Pourtant, c’est loin d’être l’unique difficulté rencontrée. D’autres facteurs sont tout autant importants, à commencer par l’aspect psychologique, non négligeable, qui compte de cette situation inédite.

      Nous avons voulu connaître la situation des étudiant·e·s. C’était donc le but de notre questionnaire qui a été mis en ligne entre jeudi 26 mars et lundi 30 mars 14 heures. Il a été clôturé temporairement pour nous laisser le temps d’analyser les 808 réponses récoltées à l’heure de ces lignes. Nous le remettrons en ligne suite à la demande de plusieurs personnes. Les questions portent sur les conséquences du confinement ; l’état émotionnel, l’organisation personnelle dans la continuité pédagogique, sur les difficultés à suivre les cours à distance aussi bien au niveau des problèmes de matériel, de connexion qu’au niveau de la mise en place d’un environnement de travail approprié pour étudier.

      Dans un premier temps, nous pensons qu’il est important de souligner le taux d’inquiétude, de stress et d’angoisse incroyablement élevé des étudiant·e·s. En effet, à la question « êtes-tu angoissé·e, stressé·e, inquièt·e ? » 74,6% ont répondu par l’affirmative. Ce niveau d’angoisse extrême est facilement explicable par la crise sanitaire que nous vivons et beaucoup l’ont développé : la peur de tomber malade ou bien qu’un proche le soit a envahi leur quotidien. Face à ce taux particulièrement haut, nous avons cherché à savoir qu’elle était la source de cette inquiétude à travers les études. Le plus évident est d’abord la validation de leur année (506 personnes sur 808 se sentent concernées) mais également les concours reportés (170 sur 808). L’angoisse vis-à-vis des examens s’accroît d’autant plus avec les conditions de travail à la maison, qui ne garantissent pas l’égalité des chances. Certain·e·s étudiant·e·s doivent assurer la continuité pédagogique de leur·s frère·s ou soeur·s en plus de la concentration demandée pour leurs propres études. De même, les conditions de travail sont radicalement changées et ce malgré la volonté des professeur·e·s de bien faire : débit internet insuffisant, partage d’ordinateur avec les autres membres de la famille notamment pour le télétravail, impossibilité d’avoir un endroit au calme et de pouvoir travailler sans être dérangé·e, activités professionnelles qui continuent dans la grande distribution par exemple donc dans des lieux à risques ce qui engendre une inquiétude en plus et une méfiance parfois. Travailler chez soi est difficile pour beaucoup. Sur 808 étudiant·e·s, seulement 176 ont la possibilité de suivre correctement leurs cours, soit 21,8%, ce qui ne représente qu’un cinquième des étudiant·e·s sondé·e·s. C’est peu et insuffisant pour permettre la tenue d’examens en de bonnes conditions. Les étudiant·e·s sont également anxieux·ses face au report des examens ; vous n’êtes pas sans savoir que beaucoup sont obligé·e·s de travailler dès les mois de mai ou juin pour assurer une stabilité financière qui leur permettra d’avoir des conditions de vie décentes (567 étudiant·e·s sondé·e·s sur 808 soit 70,2% déclarent qu’un report des examens aurait des conséquences financières dramatiques pour eux·elles)
Un report des examens en présentiel ne ferait que renforcer le statut déjà précaire des étudiant·e·s. 
Les inquiétudes sont aussi tournées vers les conséquences de cette situation sur les sélections en master, la mobilité étudiante ou encore les stages et concours reportés.
      Nous demandons des décisions à la hauteur de la situation actuelle, égalitaires et équitables pour tou·te·s et surtout qui élimineraient les différents problèmes mentionnés ici.

      Monsieur le Président, nous voulons sincèrement croire en votre « sincère et fidèle soutien dans la situation particulière que nous traversons ». Mais les effets de manche ne suffiront pas aux étudiant·e·s : les actes doivent suivre les discours. Ainsi, vu la situation sanitaire et sociale d’un bon ensemble de vos étudiant·e·s, les modalités d’évaluation classiques ne pourront pas s’appliquer.
      Premièrement, nous demandons la suppression des évaluations en contrôle continu (en ligne) durant la période de confinement et de fermeture de l’Université. Ensuite, en ce qui concerne les contrôles terminaux : un report des examens durant les mois de mai ou de juin, en présentiel, est inconcevable pour différentes raisons : certain·e·s n’auront pas la possibilité de se loger en mai et juin, d’autres se sont déjà engagé·e·s dans des responsabilités professionnelles, familiales ou associatives. Un report des examens en présentiel impliquera de facto des conséquences financières et logistiques nuisant à beaucoup. Comme nous l’avons précédemment évoqué, l’enseignement pédagogique à distance n’est pas possible pour tout un ensemble d’étudiant·e·s, malgré la bonne volonté des différentes équipes pédagogiques. Une évaluation terminale, sur des contenus et relations pédagogiques fragiles de part la distance, que certain·e·s n’auront pas vécu·e·s, est donc totalement incohérente.
      Pour ce même objet, l’alternative numérique est un danger. Nous implorons donc à chacun et chacune ne pas céder à quelque démagogie ou essentialisme que ce soit : non, les « jeunes » ne préfèrent pas, par nature, l’usage du numérique. Si elle peut apparaître comme une solution par défaut, nous y voyons au contraire un outil excluant bon nombre d’entre nous.

      Mais alors... quelles solutions ? Nous demandons la validation de tous les enseignements dont les modalités de contrôle n’ont pas été faites avant la fermeture de l’Université. La condition sine qua non de cette mesure est l’établissement d’une note plancher de 12 pour toutes et tous, ou en fonction des notes correspondantes à celles des UE du premier semestre ou alors la validation automatique. Pour les étudiant·e·s en rattrapages, une solution devra être proposée, en prenant considération des contraintes de ce second semestre.
      Cette modification administrative concernant les notes et la validation du semestre ne signifie pas la fin de la continuité pédagogique, bien au contraire. Beaucoup d’équipes pédagogiques font des efforts considérables pour permettre à toutes et tous d’avoir des éléments et ressources pédagogiques. Nous demandons que cet effort soit maintenu, et que les échanges pédagogiques perdurent.

      Nos sincères salutations,

      Solidaire Etudiant·e·s Savoie

      –-> reçu via la mailing-list Facs et labos en lutte

    • Lettre écrite à l’initiative de plusieurs enseignant.e.s du département des sciences de l’éducation de Paris8

      Bonjour à tous et toutes,
      Nous sommes quelques enseignant·e·s de l’UFR de sciences de l’éducation de l’université
      Paris 8 à nous poser des questions sur ce qui nous arrive et nous tenons à partager avec
      vous nos interrogations.
      Nous voici confiné.e.s pour au moins quinze jours, mais probablement le double si l’on en
      croit les expériences du Hubeï ou d’Italie.
      Nous sommes passé·e·s d’une vie publique et politique intense à une vie resserrée sur
      l’espace domestique. Pourtant rien ne cesse vraiment de nous indigner.
      Paraît-il que les journalistes se sont organisé·e·s pour assurer la « continuité de
      l’information » et nous voici avec un flot continu de discours sur l’évolution à la minute de
      la pandémie, la réaction de nos politiques en temps réel et les soubresauts de la bourse,
      tout ceci bien enrobé « d’unité nationale ». Alors à nous tous et toutes, professionnel·le·s
      de l’éducation de la maternelle à l’université, de prendre nos responsabilités pour assurer
      la « continuité pédagogique » et de faire vivre cette « nation apprenante » dont on voit mal
      ou trop bien (c’est selon) ce qu’elle peut bien signifier ! Nous savons tous et toutes que les
      plus vulnérables seront les plus touché·e·s par le virus, mais aussi par la nécessité
      d’assurer toutes formes de continuité, de s’occuper des proches, de gérer le quotidien.
      La grève prend ainsi une drôle de tournure dans un moment où la défense de nos services
      publics et une plus juste répartition des richesses semblent d’une brûlante actualité. Il ne
      s’agit évidemment pas de contester la décision de confinement mais de ne pas cesser
      d’être critiques et solidaires parce que nous avons cessé de sortir et de nous réunir. Il ne
      s’agit peut-être pas non plus d’assurer une « continuité de la grève » plutôt qu’une
      continuité pédagogique… mais peut-être d’accepter la rupture !
      Cessons de tenter de télé-travailler, tout en essayant de télé-enseigner, de télé-s’éduquer,
      de télé-s’angoisser les un·e·s les autres. Partageons plutôt des ressources, des attentions,
      des idées, des sourires, des réflexions, des lectures...
      Cette année a été chamboulée et tout ne sera pas rattrapé, quelle que soit la date de
      sortie de confinement. Les mouvements sociaux suspendus en plein vol n’ont pas perdu
      de leur pertinence, bien au contraire. La lettre d’un chercheur travaillant sur le coronavirus
      et exposant ces difficultés récurrentes à obtenir des financements pour ses recherches au

      cours des dernières années en est un exemple frappant. Il s’agira donc d’en tenir compte
      et d’avancer à partir de ces données. Peut-être arriverons-nous à trouver les espaces pour
      nous demander collectivement ce que nous avons appris de cette drôle d’année et la
      manière dont ces apprentissages résonnent avec nos projets individuels et collectifs.
      Peut-être arriverons-nous à penser et mettre en oeuvre une université de service public qui
      soit une réelle institution des communs.
      En définitive, nous refusons fermement :
      ● De passer de la grève à la continuité pédagogique sans nous interroger sur ce que
      cela signifie.
      ● Que l’on continue à nous faire croire que notre société peut persévérer dans ses
      routines de vitesse, de performance, de résultats et de compétition généralisée.
      C’est ce qui se joue derrière les injonctions faites aux enseignant·e·s et aux parents
      de continuer l’école à la maison, au détriment des foyers les moins équipés et des
      familles les moins familières de la culture scolaire. C’est ce qui se joue également
      dans l’injonction faite aux élèves et aux étudiant·e·s de continuer à étudier sans
      tenir compte de la grande précarité de certaines situations.
      ● De faire comme si les élèves et les étudiant·e·s pouvaient passer les examens de
      fin d’année comme si de rien n’était alors qu’ils et elles sont matériellement et
      culturellement dans une situation d’inégalité face à l’offre d’apprentissage à
      distance proposée par le ministère de l’éducation et par les universités.
      ● De répondre à l’injonction de télé-enseigner alors que nous nous occupons de nos
      enfants et de nos proches, fonction dont on sait que, socialement, elle incombe
      surtout aux femmes.
      ● De demander à nos élèves et étudiant·e·s de répondre à l’injonction de télé-étudier
      alors que certain·e·s sont dans des situations de précarité, ont des familles à
      charge, n’ont pas cessé leur activité salariée ou dépendent de parents qui n’ont pas
      le temps de les aider à prendre en main les outils numériques.
      ● De taire nos critiques au nom d’une prétendue solidarité qui arrive bien tardivement
      dans le quinquennat présidentiel !
      Nous voulons pouvoir parler de ce qui fâche : l’avenir de nos sociétés mondialisées
      néo-libérales et celui de nos démocraties qui, les unes après les autres, renoncent aux
      libertés fondamentales pour faire face à l’épidémie.
      À partir de là et poing à point contre les inquiétudes, nous voulons adresser les messages
      suivants à nos étudiant.e.s :
      ● La priorité est au soin de soi et de ses proches (idée : une carte des solidarités -
      sans se mettre en danger !)
      ● Si vous rencontrez des difficultés particulières face à cette situation de confinement,
      des professionnel·le·s et des militant·e·s sont disponibles par mail et par téléphone
      pour répondre à vos questions et besoins : violences conjugales (appeler le 3919 – Il
      est déconseillé de sortir, mais il n’est pas interdit de fuir), problème de logement,
      situation de travail, éventuelles questions sur le droit de retrait (lire par exemple le
      communiqué de solidaires étudiant·e·s ).
      Vous pouvez évidemment vous confier aux enseignant·e·s en qui vous avez confiance. Ils
      et elles feront de leur mieux pour vous aider et/ou vous orienter vers les personnes
      compétentes.
      ● Nous tenterons, quoiqu’il arrive, de rester en contact mais sans pression de part et
      d’autre. Nous restons joignables à nos adresses mails et ferons au mieux, avec tout
      ce que nous avons à gérer de quotidien, pour y répondre avec précision.
      ● Le semestre sera validé pour tous les étudiants et toutes les étudiantes qui suivent
      nos cours. Les modalités se discuteront collectivement autant que faire se peut, mais
      chaque enseignant·e·s reste décisionnaire pour les cours qui le concernent.
      Des enseignant·e·s de l’UFR SEPF - Université Paris8.

      –-> reçue le 30.03.2020 via la mailing-list Facs et labos en lutte

    • « Des gens vont mourir, mais il faut que tu passes ton bac »

      Les mots sortent avec difficulté. Le constat est douloureux. « Je suis dépassée », confie Milouda, 51 ans, une femme de ménage qui élève seule ses deux enfants de 11 et 18 ans en Ariège. Elle continue de travailler à un rythme réduit. Comme tous les élèves de France, son fils, qui est en sixième, a du travail à faire. Et cela au nom de la sacro-sainte « continuité pédagogique » voulue par Jean-Michel Blanquer, au mépris des multiples réalités sociales des familles.

      La mère explique que ses difficultés à faire la classe à la maison sont imputables, entre autres, à sa mauvaise maîtrise de l’informatique. Elle dispose d’une tablette mais « n’y arrive pas » et ne possède pas d’imprimante. Il lui est donc difficile de suivre les consignes des enseignants, eux-mêmes assez absents. Une fois, en ces deux semaines, un enseignant a donné un cours d’histoire-géographie à distance. Il s’agit du seul contact que Milouda et son fils ont eu avec le corps enseignant.

      La situation semble inextricable. Cela génère tensions et souffrances pour la mère et son fils. « Je suis à bout, j’ai lâché, je ne peux plus rien faire, on ne fait plus rien du tout. Je n’arrive pas à lui expliquer les cours. Je me sens impuissante de ne pas pouvoir faire d’autres exercices. J’ai du mal à avoir les devoirs aussi, car je n’ai pas le matériel. Comme je suis arrivée tard du Maroc, je n’ai pas le niveau et je ne sais pas quoi faire. Mon fils ne se sent pas bien, il se dit qu’il est nul », soupire Milouda. Son fils sait accéder à l’espace numérique de travail (ENT) seul mais c’est tout.

      Alors, elle veut témoigner pour alerter sur sa situation et celle d’autres familles dans son cas. Elle veut raconter à quel point cette configuration est injuste pour une population modeste déjà oubliée. Milouda doit tout assumer seule, sans aide. « Je me sentais déjà larguée, il fallait que je me batte pour beaucoup de choses. Là, il n’y a rien de pire, on est des sacrifiés. Déjà qu’on avait l’impression que tout le monde se fout de nous… »

      Nordy Granger, responsable de l’association Sorosa, dans la Drôme, connaît les difficultés induites par l’école à distance. Elle accompagne des jeunes mineurs non accompagnés et des jeunes majeurs étrangers scolarisés en lycée professionnel ou en centre de formation d’apprentis (CFA) éventuellement. Les mineurs sont pris en charge par l’Aide sociale à l’enfance (ASE). Il a fallu là encore s’organiser pour faire face à l’école à distance, particulièrement délicate en filière professionnelle.

      « Au début, raconte la responsable, la première semaine, il y a eu un cafouillage, la continuité pédagogique n’a pas été tellement mise en place. Puis, il y a eu une accélération. Les profs ont envoyé des devoirs par mail. »

      Depuis le début de la fermeture des établissements scolaires, il y a deux semaines, des difficultés techniques sur les plateformes officielles de travail à distance ont obligé les enseignants à faire preuve de créativité. Certains ont conçu des groupes WhatsApp. D’autres envoient simplement des consignes et exercices par courriel. Un peu trop parfois.

      Un jeune s’est retrouvé aussi avec 40 pages de travail, avec un rendu la semaine suivante.

      Certains élèves n’ont pas d’adresse mail, d’ordinateur, Internet ou de smartphone. Les éducateurs du département n’ont pas le droit de se déplacer. « Personne ne savait comment procéder. Pour les familles exilées, c’est compliqué. Parfois, elles ne parlent pas français. S’il y a un grand frère ou une grande sœur adolescente qui parle français, il ou elle va expliquer ce que les petits doivent faire. S’il n’y a pas de grands, cela signifie que les petits ne vont pas faire de devoir tout le temps du confinement ? Vont-ils redoubler ? », s’interroge encore Nordy Granger.

      Elle explique qu’ils sont livrés à eux-mêmes. Certains sont francophones mais ont des difficultés à l’écrit et besoin d’un enseignant pour tout comprendre. « Les éducateurs font tout ce qu’ils peuvent, ils sont eux-mêmes en télétravail, ils essaient d’aider par téléphone. Les enseignants de français langue étrangère, le FLE, appellent les élèves pour discuter avec eux et les rassurer. Mais c’est un tel chantier… »

      Alors l’association a décidé de tenir une permanence le mercredi et le samedi, en respectant les règles sanitaires et en filtrant l’accès au local, personne par personne. Ainsi une adolescente de 14 ans est-elle venue faire ses devoirs dans le petit bureau de la permanence, car elle vit dans un squat sans ordinateur.

      Nordy Granger s’inquiète de ces bouleversements de la scolarité, même s’ils sont indépendants de leur volonté. Quid des diplômes ? Comment vont faire les élèves en apprentissage pour valider leur cursus alors que les entreprises – hors BTP – sont à l’arrêt ?

      Elle craint que cela les pénalise pour obtenir un titre de séjour, lequel est conditionné par « suivi réel et sérieux de leurs études ». Or, s’il est écrit que le demandeur n’a pas fait d’effort pour suivre les cours dans son bulletin du troisième trimestre, la préfecture pourrait bien refuser sa délivrance.

      De son côté Aurore, mère de deux enfants, enceinte du troisième et proche du terme, joue de malchance. L’ordinateur familial a planté. Il n’est pas possible de le faire réparer ni d’aller en acheter un nouveau, faute d’avoir le budget et de pouvoir se rendre dans les magasins. Ses enfants, respectivement en sixième et en troisième, se débrouillent avec les smartphones de leurs parents.

      Seulement, il est difficile d’aller sur Pronote, l’une des plateformes utilisées pour l’école à distance, sur un simple téléphone. « Nous avons accès à tous les cours mais impossible d’être évalués », résume Aurore.

      L’école française se distingue pour sa propension à nourrir les inégalités qui la traversent. Ce moment inédit qui voit 12 millions d’élèves suivre leurs cours à distance met au jour ce que tous les observateurs du monde scolaire s’échinent à dénoncer. L’école est loin d’être aveugle aux différences sociales et, pire, elle ne fait pas grand-chose pour les corriger.

      Le ministre de l’éducation nationale l’a reconnu mardi 31 mars sur CNews. Selon Jean-Michel Blanquer, il y a « un grand risque » que la situation actuelle « creuse les inégalités » entre les familles qui ont la possibilité de faire la classe à la maison et les autres. Il a estimé qu’entre 5 et 8 % des élèves ont été perdus par leurs professeurs, qui ne peuvent pas les joindre depuis deux semaines.

      Pour lutter contre cela, un accord a notamment été passé avec La Poste, qui « va permettre à chaque professeur d’envoyer à partir de son ordinateur un document imprimé à un élève qui n’a pas d’équipement numérique ou qu’il n’a pas réussi à joindre autrement », a-t-il détaillé. Des tablettes peuvent être distribuées par des collectivités locales ou des associations aux familles qui n’ont pas d’équipement informatique, a promis le ministre.
      Le système D prévaut

      En attendant, pour les familles comme pour les enseignants, le système D prévaut.

      Virginie*, professeure des écoles dans une école Réseau d’éducation prioritaire (REP) à Pantin, en Seine-Saint-Denis, a fait en sorte de contourner les difficultés des familles de sa classe et a scanné un maximum d’exercices pour faire écrire les petits de CM2. Elle regrette simplement de n’avoir pas pensé à donner des crayons de couleur et des feutres aux élèves les plus démunis, car elle leur a aussi demandé de colorier des cartes et n’est pas sûre que tous possèdent le matériel idoine. Mais dans la précipitation, elle a paré au plus urgent.

      Depuis le début du confinement, Julien enseignant dans le Morbihan, s’occupe de sa classe de CM2 et de ses filles. Comme sa collègue de Pantin, il a veillé à limiter au maximum le stress. Il sait que des familles dysfonctionnent et que mettre une trop grande pression aux petits pourrait créer des conflits dans des foyers déjà violents. Certains n’ont pas d’équipement numérique ou pas de réseau internet. Il a donc évincé tout exercice nécessitant une imprimante et a privilégié les ressources gratuites et activités ludiques. Il fait écrire ses élèves « pour qu’ils ne perdent pas tout ».

      Parce qu’il sait aussi que la réalité scolaire, plus que jamais, est conditionnée par le milieu social des enfants.

      « Je fais attention au vocabulaire que j’emploie dans mes consignes pour ne pas utiliser le jargon pédago incompréhensible pour le commun des mortels. Malgré tout, plein de parents m’écrivent, car leur enfant pleure tous les jours et ne veut rien faire. Je leur dis de le laisser appréhender la situation car c’est incroyable ce qu’on vit. »

      La responsable de l’association Sorosa a contacté les enseignants, « bienveillants » pour leur demander de restreindre les demandes d’impression, « car on ne sait pas comment on va se procurer de l’encre quand on n’aura plus de réserves. Et surtout, on a envie de leur dire d’arrêter de mettre la pression aux élèves ».

      Pour sa part Milouda se débrouille malgré le confinement et réussit à se rendre chez un camarade de son fils, à deux kilomètres de là. « Le problème, c’est que son beau-père est raciste, il refuse que je vienne. Alors, j’y vais très tôt, avant qu’il ne se réveille, je récupère des devoirs que me donne la maman par la fenêtre. Mais elle ne peut pas tout imprimer car elle aussi est en rade. » Mais c’est déjà ça.

      Milouda est inquiète, car son fils a déjà des difficultés à l’école. En temps normal, il fréquente l’aide aux devoirs. Un soutien appréciable mais inaccessible aujourd’hui. « En milieu rural, il n’y a pas de MJC, pas de service public. Il n’y a rien pour les ados, pas de solidarité », regrette-t-elle.

      Des difficultés dans toutes les familles

      Des parents, mieux armés, font eux aussi part de leurs difficultés à assurer la mission qui leur est dévolue. À tel point que la FCPE de Paris a réclamé dans un communiqué qu’il y ait moins de pression sur les parents, les enfants et les enseignants de la part du ministère, qui tient à ce que tout continue.

      Marie a 46 ans et vit à Bayonne avec ses deux enfants de 10 et 2 ans. Adjointe administrative, elle est en télétravail. Son conjoint est à son compte mais avec une activité ralentie. De son propre aveu, elle se sent « privilégiée », même si l’école à la maison n’est pas une sinécure. Elle est très angoissée pour sa fille. Résultat, les premiers jours ont été très tendus.

      Sa fille est en CM1 et reçoit un planning quotidien, « assez ludique », par mail. Une fois par semaine, il y a une classe virtuelle d’une heure pour que tous les élèves se voient. Enfin… pour ceux qui possèdent le matériel informatique idoine… De son côté, Marie explique que tout est chronométré dans la journée de l’écolière.

      « Nous on déborde sur le temps de pause, ce qui nous met la pression. J’ai peur que ma fille n’y arrive pas et qu’elle accumule du retard. » Au bout de quelques jours, la mère de famille s’est dit qu’il fallait dédramatiser et que ce n’était pas grave de louper quelques exercices. « Sinon cela va devenir irrespirable. »

      Même les parents d’adolescents peuvent se sentir submergés. C’est le cas de France, 48 ans. Elle travaille à Paris dans la communication et s’occupe de son fils, élève de première. Celui-ci, comme tous les élèves de son niveau, a connu une année mouvementée, entre les grèves de transports, les blocus contre les « E3C », les nouvelles épreuves de contrôle continu, et maintenant le confinement pour cause de coronavirus. Les jeunes qui préparent un examen attendent encore des réponses claires de la part du ministre pour connaître les modalités du baccalauréat, ce qui ajoute un peu plus d’angoisse.

      La mère de cet adolescent reconnaît tout de go « ne pas être une super pédagogue », malgré ses diplômes de l’enseignement supérieur. « À 17 ans, ce n’est pas sa meilleure période, ni avec moi ni avec lui-même. Famille recomposée. On a un seul ordinateur, pas d’imprimante, ça complique les choses. »

      Elle ne se voit pas non plus dispenser à son fils un cours de sociologie ou disserter avec lui sur Le Rouge et le Noir de Stendhal, au programme, mais qu’elle a lu il y a une éternité.

      Eva* a 40 ans et vit dans le Val-de-Marne. Elle a deux enfants en primaire, en CE2 et en CM2. Responsable des ressources dans une association, elle gère son équipe à distance. Son conjoint est infirmier, donc impossible pour lui de l’aider dans le contexte actuel. Alors, la mère de famille s’est organisée le mieux possible. Elle a constitué des plannings avec des temps de travail, de pause et de déjeuner. Elle s’astreint à une routine avec ses enfants « pour différencier les jours de la semaine ».

      Sur le plan scolaire, Eva explique qu’elle gère au fil de l’eau, surtout avec un fils qui réclame une attention particulière : « On fait comme on peut, on reçoit par mail tout ce qu’il faut faire chaque soir. Autant l’aînée est autonome, elle a peu besoin d’aide. Mais son petit frère est en CE2, avec des difficultés de concentration et d’apprentissage. Ce n’est pas inquiétant mais il ne peut pas travailler tout seul. Et là c’est dur. Avec la maîtresse, il n’y a pas de lien affectif dans la dimension éducative. Là, tout vire au conflit. »

      Elle craint que son fils ne décroche s’il n’écrit pas et ne lit pas régulièrement. « Je vois tout ce qu’il aurait dû faire en une journée et qu’on n’a pas réussi… »
      Et si on arrêtait l’école à la maison ?

      Marwa aussi se démène comme elle peut avec deux enfants atteints de troubles de l’attention. À 43 ans, elle vit dans le VIIIe arrondissement à Paris, un quartier chic. Cette commerciale « à temps partiel » tient à préciser qu’elle élève seule ses deux enfants de 7 et 10 ans et occupe un logement social. Les deux souffrent d’un trouble du déficit de l’attention avec hyperactivité (TDAH).

      La mère a entretenu une relation complexe avec l’école. Victime d’une orientation forcée en BEP secrétariat, elle regrette de n’avoir pu suivre les études longues dont elle rêvait. Elle raconte encore que son fils aîné a subi du harcèlement à l’école plus jeune et craint surtout que ses deux fils ne soient « catalogués comme futurs ratés en allant dans une école de bourgeois sans l’être eux-mêmes ».

      Alors, elle fait en sorte qu’ils poursuivent tant bien que mal leur scolarité, même confinés. L’aîné a été diagnostiqué tardivement, il accuse un retard dans son cursus. Marwa possède « une imprimante mais pas d’encre ». Elle se rend régulièrement à l’école – malgré les dangers – pour récupérer des exercices auprès du directeur.

      Marwa constate que la charge de travail est énorme. Elle tente de s’adapter. « C’est dur pour une maman solo. Ils ne savent pas se canaliser, ça hurle, ça chahute. Le matin, ce sont des piles électriques, impossible de les calmer. Après le déjeuner, j’arrive à avoir un moment d’attention. En temps normal, le premier a un AESH [accompagnant des élèves en situation de handicap − ndlr]. Là, il est greffé à moi. Le dernier arrive à peu près à travailler ; mais au bout d’un quart d’heure, il a besoin d’une pause. »

      Son fils aîné se braque dans un contexte tendu qui exacerbe son hypersensibilité, explique encore Marwa. « Il refuse de faire le minimum et se trouve des excuses. Je me retrouve à me battre pour un exercice. Je me suis battue deux heures pour une fraction… Ce n’est pas mon métier, on est à la maison. Lui-même n’arrive plus à se contenir. L’école le calme, c’est un cadre pour lui, il y a des règles là-bas. »

      D’ordinaire, un enseignant de collège, formé à travailler avec des enfants souffrant d’un TDAH, vient deux fois par semaine, le mercredi et le samedi pour aider les deux fils de Marwa. Ce qui lui permet un peu de souffler. Ce n’est pas le cas en ce moment.

      Aujourd’hui, elle vit mal son isolement et son sentiment d’impuissance. « On nous met une espèce de culpabilité, car on n’a pas toujours les moyens intellectuels ou la méthodologie pour expliquer à nos enfants. Rien que les divisions, ça a changé. On ne les pose plus pareil. » Elle craint qu’à la rentrée, une partie des élèves « ne soit complètement larguée, car dans le VIIIe, c’est marche ou crève ».

      France identifie une multitude « de micro-choses » qui font que c’est stressant. Le contexte général, très anxiogène, la pression volontaire ou involontaire des enseignants et des parents, la masse considérable de travail à rendre, parfois sur des notions à peine survolées en cours.

      « C’est un peu culpabilisant. J’ai l’impression d’être l’artisan de l’échec de nos enfants. Il y aura deux camps. Ceux qui auront su et ceux qui n’auront pas pu. Je ne comprends pas l’acharnement à maintenir tout cela. À part quelques ados qui ont le plaisir de l’apprentissage, on va dégoûter cette génération parce qu’on ne veut pas prendre en compte la réalité. On marche sur la tête. Il y a une pandémie, des gens vont mourir, mais il faut que tu passes ton bac. On ne peut pas fonctionner normalement quand rien ne fonctionne normalement. »

      Eva plaide en faveur d’une solution radicale. Arrêter l’école à la maison. « Il est impossible d’enseigner et de télétravailler en même temps. Stopper les cours desserrerait la pression, mettrait tout le monde à égalité, même si on sait que les CSP+ ne laisseront pas leurs enfants devant la télé. Mais du point de vue de l’institution, il n’y aura pas d’injonction remplie d’un côté et pas de l’autre… »

      Julien, l’enseignant du Morbihan, s’est aussi étonné que sa propre fille, en CM1, ait reçu une somme considérable de travail, une quarantaine de pages. À tel point qu’il a été surpris du nombre de feuilles sorties de l’imprimante qu’il a lancée sans regarder. Sans compter qu’il est difficile d’enseigner à son propre enfant, quand bien même c’est son métier. Lui aussi a dû faire face à des crises avec sa fille, qui s’est braquée à plusieurs reprises.

      Pour toutes ces raisons, il aurait aimé que tous les enseignants n’obéissent pas à la consigne ministérielle et proposent, au lieu des révisions des leçons, des activités pédagogiques. Histoire de réussir à ne pas trop creuser les inégalités dont est percluse l’école française.

      Le professeur ne se fait guère d’illusions : « De toute façon, on dénonce le mythe de l’école républicaine qui abolirait les différences. On savait que c’était faux, mais là, ça l’accentue. Là, le grand public les vit au quotidien, ces inégalités et leurs conséquences, ce qu’on dénonce tous depuis des années. »

      Certaines familles se sont « évanouies dans la nature », constate Virginie. Sur une vingtaine, une petite quinzaine ne donne pas de nouvelles. Les autres se surinvestissent au contraire. « Elles poussent leurs enfants, ce que j’arrivais à contenir quand on était en classe. Ces parents m’envoient cinq messages par jour pour me poser des questions. Ce sont ceux de la classe moyenne qui veulent que leurs enfants prennent l’ascenseur social », analyse Virginie.

      L’enseignante est inquiète des conséquences du confinement, car elle sait que certains sont inscrits sur des sites qui prétendent offrir des cours particuliers efficaces en ces temps inhabituels. « J’ai peur que les parents prennent trop d’initiatives. Quand je vais les récupérer, ils auront vu de nouvelles notions, ça va creuser les inégalités. En fait, cette situation exacerbe les comportements habituels. Ça laisse libre cours à ceux qui s’en fichent et à ceux qui mettent trop de pression à leurs enfants. »

      La « continuité pédagogique » voulue par le ministre Jean-Michel Blanquer suscite de plus en plus de critiques. De nombreux parents, notamment dans les familles modestes, se sentent dépassés. Témoignages de parents qui galèrent.

      https://www.mediapart.fr/journal/france/310320/des-gens-vont-mourir-mais-il-faut-que-tu-passes-ton-bac?onglet=full

    • M. Blanquer, arrêtez de #faire_semblant

      Si l’on en croit M. Le ministre de l’Education nationale, tout est sous contrôle. Tout le monde a trouvé son « rythme de croisière » sur la plateforme Ma classe à la maison, les jeunes de Terminale pourront passer leur bac d’ici la fin du mois de juin, les élèves rattraperont leurs retards d’apprentissage cet été grâce à des modules gratuits…
      Mais M. Blanquer, si vous arrêtiez de faire semblant ?
      Semblant de maîtriser une situation imprévisible, ou à tout le moins imprévue, semblant de faire comme si la continuité pédagogique fonctionnait, semblant de penser que plus de 90 % des élèves n’ont pas « décroché »… Bien sûr, les parents sont reconnaissants du travail réalisé par des professeurs mis en demeure d’enseigner à distance alors même qu’ils n’ont jamais, ou presque, été formés à ces nouvelles pratiques. Bien sûr, les parents ont répondu présent quand le Ministre leur a demandé d’accompagner leurs enfants dans ce processus. Mais voilà, ils n’en peuvent plus ! Ils disent stop à la pression qui s’exerce sur eux et les élèves.
      Ils ne veulent plus qu’on leur donne des dates de sortie de confinement sujettes à caution, recevoir des injonctions sur ce qu’ils devraient faire ou ne pas faire durant leurs vacances, préparer leurs enfants à des examens dont on ne connaît même pas l’organisation, aller chercher des devoirs photocopiés alors qu’ils devraient rester confinés. Tous se plaignent des devoirs trop lourds, du coût matériel induit par cette « continuité pédagogique » ou encore de l’impossibilité de se connecter à Parcoursup en respectant les dates limites.
      Nous, nous ne faisons pas semblant, tous les jours nous devons répondre aux parents stressés par leur difficulté à ne pas perdre pied dans le travail qui est demandé à leur enfants et qui s’ajoute à l’inquiétude causée par la pandémie.
      Désormais, nous exigeons :
      – la suspension immédiate de Parcoursup ;
      – l’arrêt des notes données aux élèves en cette période de confinement ;
      – l’allégement des travaux à réaliser à la maison ;
      – la garantie d’une reprise des cours là où les enseignants les avaient arrêtés le 16 mars dernier ;
      – la garantie que les diplômes des élèves ne prendront en compte que les notes obtenues en présentiel.

      https://www.fcpe.asso.fr/sites/default/files/2020-03/31-03-2020-M%20Blanquer%20arre%CC%82tez%20de%20faire%20semblant%281%29.pdf

    • La #loi_organique_d’urgence, le #Conseil_constitutionnel et la continuité pédagogique

      Démarrons par un point apparemment éloigné de la continuité pédagogique : le Conseil constitutionnel a rendu jeudi 26 mars sa décision sur la « loi organique d’urgence pour faire face à l’épidémie de Covid-19 ». La loi « organique » d’urgence est une loi qui vient compléter la loi « ordinaire » d’urgence du 23 mars dernier, sur un point bien précis : elle suspend jusqu’au 30 juin 2020 les délais dans lesquels doivent être normalement examinées les questions prioritaires de constitutionnalité, « afin de faire face aux conséquences de l’épidémie du virus covid-19 » (article unique de la loi, qui n’a toujours pas été publiée au Journal officiel).

      Les lois organiques sont des lois d’un type très particulier. Leur adoption étant prévue par la Constitution elle-même, elles sont d’une valeur juridique supérieure aux lois ordinaires et doivent être promulguées selon une procédure spéciale fixée à l’article 46 de la Constitution. Entre autres choses, un projet de loi organique ne peut pas « être soumis à la délibération de la première assemblée saisie avant l’expiration d’un délai de quinze jours après son dépôt » (alinéa 2). L’objectif poursuivi par cette règle est simple : si la Constitution de la Ve République impose qu’entre le dépôt du projet de loi organique par le gouvernement sur le bureau de l’Assemblée nationale ou du Sénat et sa discussion par le Parlement, quinze jours au moins se soient écoulés, c’est parce que les lois organiques sont trop importantes pour que l’on puisse prendre le risque de les adopter dans la précipitation.

      Pour la loi organique d’urgence, cette condition n’était pas remplie. Le projet de loi a été déposé mercredi 18 mars 2020 sur le bureau du Sénat et a commencé à être examiné dès le lendemain. Le non-respect du texte de la Constitution était donc indiscutable. Et pourtant… Dans sa décision du jeudi 26 mars, le Conseil constitutionnel ne voit là aucun motif d’inconstitutionnalité. Plus précisément, il estime que « compte-tenu des circonstances particulières de l’espèce, il n’y a pas lieu de juger que cette loi organique a été adoptée en violation des règles de procédure prévues à l’article 46 de la Constitution ». « Compte tenu des circonstances particulières de l’espèce », une demi-phrase, et c’en est tout de l’argumentation juridique. C’est qu’il n’y a pas grand-chose à expliquer, en fait : face à une loi organique qui viole de manière flagrante l’article 46 de la Constitution, le Conseil constitutionnel n’a pas eu d’autre choix que de créer une « théorie des circonstances exceptionnelles » en droit constitutionnel français. C’était, pourrait-on dire, le prix constitutionnel à payer à partir du moment où son choix était de sauver la loi organique.
      On comprend que le Conseil constitutionnel, eu égard à l’âge vénérable de ses membres – 72 ans de moyenne d’âge – et aux risques qui y sont associés, se sente en première ligne face à l’épidémie de covid-19, et panique quelque peu. Mais la décision de jeudi dernier est proprement indigne : indigne de toutes celles et tous ceux qui, des caisses de supermarché aux hôpitaux, sont vraiment en première ligne ; indigne, surtout, des fonctions d’une institution qui, normalement, ne devrait pas avoir vocation – en tout cas pas si facilement – à être aux ordres. Perd-on donc toute lucidité juridique dès que la situation devient exceptionnelle et urgente ?

      C’est à tous les niveaux que cette perte de lucidité juridique s’observe en ce moment, en réalité. L’enseignement supérieur et la recherche, on l’aura compris des différents articles publiés sur Academia depuis le début de l’épidémie, n’échappe pas à ce constat1. Que les circonstances soient exceptionnelles, c’est une chose ; qu’elles autorisent le ministère de l’enseignement supérieur, de la recherche et de l’innovation, et les établissements qui en relèvent, à faire n’importe quoi, c’en est une autre. Pour la communauté de l’ESR, la situation devient très désagréable : englué dans l’urgence de la situation et le bouleversement de nos quotidiens, on regarde, sidéré, les « consignes » tomber. Il est temps, cependant, de reprendre collectivement notre lucidité juridique2, pour ne pas être écrasés par l’exceptionnalité du moment : vérifions une à une la validité de ces injonctions, et faisons la part des choses.
      La continuité pédagogique, certes, mais à quelles conditions juridiques ?

      La continuité pédagogique est la grande injonction du moment, et elle autorise tous les abus. À l’évidence, certains – au ministère, dans les rectorats et dans nos universités – semblent intimement persuadés que le vieux principe juridique de « continuité du service public », associé aux circonstances exceptionnelles qui sont les nôtres, suffit à recouvrir d’un voile de légalité chacune des décisions qui sont prises.

      Qu’il existe un principe de continuité du service public, c’est certain, tout comme il est certain que le juge administratif a toujours été compréhensif vis-à-vis des administrations qui, confrontées à une circonstance exceptionnelle, prenaient quelques largesses avec le droit auquel elles étaient soumises. Mais il serait désastreux que l’on prenne ces deux certitudes pour un argumentaire juridique à toute épreuve : à ce niveau de généralité, il ne s’agit que d’une mauvaise bouillie de droit administratif.

      Commençons plutôt par rappeler une donnée simple. Ni les « plans de continuité pédagogique » divers et variés qui inondent nos boîtes mail, ni les « plans de continuité des activités » (PCA) que tous les établissements arborent désormais pompeusement ne produisent du droit et n’ont pas davantage d’autorité réglementaire. Ils ne le peuvent tout simplement pas : ce sont tantôt des conseils, tantôt des mesures d’organisation des services ; mais, dans tous les cas, ce ne sont pas des mesures d’une force juridique suffisante pour introduire des dérogations au droit de la fonction publique, et encore moins des limitations aux libertés universitaires.

      Reprenons, à partir de là, les choses dans l’ordre. La réalité juridique actuelle dans les universités est bien plus prosaïque qu’on ne le croit, en fait. Elle tient en deux phrases : sur le fondement du décret du 23 mars 2020 « prescrivant les mesures générales nécessaires pour faire face à l’épidémie de covid-19 dans le cadre de l’état d’urgence sanitaire »,

      1° nos universités sont fermées aux « usagers des activités de formation », c’est-à-dire aux étudiants (article 9) ; et
      2° nous n’avons, pas davantage que nos étudiants, le droit d’y accéder, car, pour l’immense majorité d’entre nous, les trajets entre nos domiciles et nos établissements ne sont pas considérés comme des déplacements « insusceptibles d’être différés » (article 3).

      À ce stade, nous ne voyons rien d’autre sur le plan des textes juridiques. Ce ne sont pas les occasions légistiques qui ont manqué, pourtant : une loi et 31 ordonnances ont été publiées au Journal officiel la semaine dernière pour « faire face à l’épidémie », sans compter les multiples décrets et arrêtés. Mais c’est ainsi : le décret du 23 mars 2020 ne dit rien qui pourrait concerner la continuité pédagogique, pas plus que la loi d’urgence du 23 mars 2020. Aucune mesure d’« adaptation provisoire » du décret du 6 juin 1984 – le statut particulier du corps des professeurs des universités et du corps des maîtres de conférences –, et en particulier de son article 7 sur les services d’enseignement, n’a par ailleurs été prise. Et rien n’a été modifié quant aux conditions d’application du décret du 11 février 2016 sur la mise en œuvre du télétravail dans la fonction publique.

      Cette donnée juridique là, ce ne sont pas les « fiches » de la direction générale de l’Enseignement supérieur et de l’Insertion professionnelle qui y changeront quoi que ce soit, pas plus que la flopée de mails de nos présidents d’université. Pour le dire autrement, s’il existe bien un principe de continuité du service public, et quand bien même les circonstances sont exceptionnelles, ni la DGESIP, ni les présidents d’université n’ont un titre juridique suffisant pour ordonner ce que l’on doit faire pour assurer la continuité pédagogique. Il serait très grave que ce principe soit oublié dans le contexte dramatique actuel, et il est crucial de tenir bon sur ce point, alors que les présidents viennent déjà de recevoir des pouvoirs exorbitants pour décider des formes des prochains examens – une question qui relève, pourtant, directement des choix pédagogiques ((Sur les marges de manœuvre considérables qui sont reconnues aux présidents, ainsi que sur les interrogations quant aux concours de recrutement, nous renvoyons aux analyses – encore à approfondir – de l’ordonnance du 27 mars 2020 relative à l’organisation des examens et concours pendant la crise sanitaire née de l’épidémie de covid-19 : « Il n’est pas besoin de beaucoup de mots » : dérogations à tout va dans les universités, 28 mars 2020 et Oups ! Fin prématurée des mandats de présidents d’université ?, 29 mars 2020.)).

      Sans texte juridique, aucun dispositif précis de contrôle ne peut d’ailleurs être introduit. Qui aurait le droit de décider qu’une heure d’enseignement vaut une heure de vidéo ou de son, ou X pages de cours ? Qui aurait le droit de procéder à de telles équivalences, alors même que le bouleversement de notre cadre de travail est sans équivalent ? La règle, si règle il y a, elle est bien simple : chacun fait ce qu’il peut et ce qu’il se sent de faire, selon ses possibilités personnelles et familiales, son environnement de travail et son état psychologique. Personne, en particulier, ne pourra être sanctionné parce qu’il n’a pas assuré l’intégralité de son service : il manquerait un fondement juridique à cela, tout simplement parce que personne n’aura enfreint aucune règle, tant que les règles n’auront pas été modifiées. N’inversons pas l’ordre des choses, tout simplement : ce que fait le droit pour l’instant, ce n’est pas de nous obliger à une quelconque continuité pédagogique ; ce qu’il fait, c’est de nous confiner, donc de nous empêcher d’assurer nos heures d’enseignement relevant de nos obligations statutaires ou de nos contrats.

      Pour que les choses soient parfaitement claires : cela ne signifie pas qu’il n’y a aucune obligation de télétravail. En effet, même si, du côté de la fonction publique, il n’existe pas l’équivalent de l’article L. 1222-11 du code du travail, il ne fait aucun doute qu’en cas de contentieux, le juge administratif soutiendra qu’en période d’épidémie, la mise en œuvre du télétravail doit être considérée comme un aménagement du poste de travail rendu nécessaire pour permettre la continuité du service public et garantir la protection des agents. Mais cela signifie, en revanche, qu’on ne saurait se laisser dicter les conditions de la continuité pédagogique.

      Celle-ci est littéralement nue : faute de fondement juridique, elle n’est qu’une injonction. Bien sûr, il n’est pas impossible que de nouveaux textes soient édictés dans les prochaines semaines ; mais pour l’instant, la continuité pédagogique, ce n’est que ça : une injonction parfois autoritaire, qui se drape dans l’intérêt supérieur de nos étudiants, tout en oubliant qu’elle passe en réalité par pertes et profits la dégradation considérable de la qualité des enseignements que ces mêmes étudiants reçoivent et les inégalités tout aussi considérables que l’on crée entre eux. De ce point de vue, faute de fondement juridique, la continuité pédagogique ne s’apprécie que sur le plan pédagogique, de sorte que chaque enseignant-chercheur et enseignant, au titre de sa liberté d’enseigner, est légitime à apporter sa réponse aux problèmes pédagogiques lourds que soulève l’épisode actuel : combien d’étudiants perdons-nous en route dans toute cette affaire ? Quel est, plus précisément, notre seuil d’acceptabilité ?

      Bref, s’il est évidemment crucial qu’en ces temps tourmentés, nous accompagnions du mieux que l’on peut nos étudiants, il ne faudrait pas, pour autant, que quelques collègues – parfois devenus plus managers que collègues, d’ailleurs – perdent de vue que si continuité pédagogique il y a, elle procède d’abord et avant tout de la bonne volonté et du sens du service public des personnels de l’ESR. Il ne faudrait pas non plus, d’ailleurs, qu’ils perdent de vue que dans tous les cas, l’enseignement n’occupe qu’une partie de nos fonctions : les conditions d’une continuité de la recherche doivent aussi être respectées. Nous devons avoir un peu de temps pour bosser sur nos articles et nos livres, en somme.

      Hors ce dernier point, et quand bien même la « liberté pédagogique » des enseignants de l’éducation nationale n’offre pas le même niveau d’indépendance que les libertés universitaires, on observe que ce constat vaut largement, aussi, pour les collègues enseignant dans le premier degré et dans le second degré. C’est sans doute pourquoi, d’ailleurs, la porte-parole du gouvernement a si vite rétropédalé, mercredi dernier, après ses propos sur les « enseignants qui ne travaillent pas ». Ce n’est pas seulement que ses propos étaient factuellement faux ; c’est qu’ils présentent l’inconvénient d’attirer l’attention sur une réalité juridique dont chacun devrait prendre conscience : si la « continuité pédagogique » est à l’œuvre, c’est d’abord et avant tout en raison de la bienveillance des enseignants à l’égard de leurs élèves, beaucoup plus qu’en raison d’une obligation juridique. C’est aux enseignants qu’il revient d’en déterminer le contenu et la forme.

      Voilà le fin mot : sans nous, l’éducation nationale, l’enseignement supérieur et la recherche ne sont rien, car nous portons le système. Et en ce moment – dans les « circonstances particulières de l’espèce », pour reprendre la formule du Conseil constitutionnel –, nous le portons bien au-delà de ce à quoi nous sommes obligés.

      https://academia.hypotheses.org/21798

    • Message reçu via la mailing-list Facs et labos en lutte, le 17.4.2020 :

      Je partage avec vous un email reçu il y a 2 ans m’indiquant que la visioconférence prise en charge avec un équipement professionnel n’était pas envisageable mais aujourd’hui l’université impose la continuité pédagogique de la même discipline sur la plateforme #moodle avec des heures fixées et un temps imparti pour réaliser le devoir.
      Il paraît évident qu’à présent que les étudiants sont enfermés chez eux avec un ordinateur de fortune et une connexion internet basique, tout devient possible.

      C’est #carnavalesque !

      –-----------

      Bonsoir,

      J’ai lu avec attention votre message concernant $$$$$$$$.
      Je comprends aisément, à l’insistance de vos messages, combien la discipline vous tient à cœur au sein de l’université.

      Toutefois, je tiens à vous informer que le $$$$$$$$ n’est pas référencé dans les maquettes pédagogiques proposées par $$$$$$$$ ... et il n’est donc pas envisageable, sous quelque régime que ce soit, d’organiser un enseignement de $$$$$$$$.

      De manière complètement partagée par l’ensemble de l’équipe pédagogique locale, la formule de la visio conférence reste perçue comme la « pire » des choses quant à l’efficacité pédagogique, notamment, et surtout, pour ce type de matière, basée d’abord (et surtout) sur la notion de « dialogue permanent et fluide ». « L’échange » (réel, et non pas biaisé) avec un enseignant reste primordial si l’on désire garantir un certain niveau de résultat, ce que le système ne permet pas vraiment à ce jour, aussi performant soit-il technologiquement.

      Nos étudiants le savent parfaitement et en ont accepté le principe : le niveau d’exigence attendu dans toutes les matières dispensées présentiellement est perçu par eux comme relativement élevé.

      Je ne voudrais pas néanmoins que vous en concluiez que le $$$$$$$$ restera, par choix institutionnel, à jamais « sinistré » $$$$$$$$.
      S’il est une solution à envisager, je pense qu’il conviendrait de la mettre en œuvre en partenariat avec le service du $$$$$$$$, dont $$$$$$$$ constitue la mission première. A travers lui, des étudiants passionnés isolés pourraient trouver tout à loisir réponse à leurs attentes.
      Je vous invite donc désormais à plutôt vous adresser à $$$$$$$$, qui en est la directrice à $$$$$$$$.

      Ayant je l’espère apporté tous les éclairages nécessaires (et suffisants) à vos préoccupations et à votre démarche,
      Bien cordialement,

      –-> vous avez vu cette phrase, qui date, selon la personne qui envoyé le message, d’il y a 2 ans ??

      "la formule de la #visioconférence reste perçue comme la « pire » des choses quant à l’efficacité pédagogique"

      #visio-conférence

    • Oui à la continuité pédagogique à l’université, mais sans évaluation !

      Plus de 120 enseignants-chercheurs, issus de différentes universités, s’élèvent contre l’évaluation des étudiants pendant cette période de confinement. « Cette continuité pédagogique, imprévue et donc mise en place brutalement, exacerbe les inégalités sociales déjà présentes ». Une évaluation reviendrait à les renforcer davantage.

      Nous vivons une situation de crise exceptionnelle et historique, malgré cela de nombreux acteurs de l’enseignement supérieur sont dans la continuité (des examens, des concours…) comme si tout pouvait se poursuivre normalement. Or pour de nombreux étudiants, la situation actuelle de confinement n’est pas propice pour étudier convenablement à l’université. S’il est ainsi souhaitable de leur proposer des enseignements à distance, les évaluer sur des notions travaillées pendant cette période reviendrait à créer de profondes inégalités.

      Tout comme l’enseignement primaire et secondaire, l’université s’est lancée dans la poursuite des enseignements (cours magistraux, travaux dirigés, parfois même travaux pratiques) effectués avant le début du confinement. Les enseignants et enseignants-chercheurs ont souvent dû faire preuve d’ingéniosité et de ténacité pour continuer sur leur lancée. Contrairement au primaire et au secondaire où les enseignants doivent suivre les directives ministérielles, ceux de l’université ont une certaine liberté sur le contenu et les modalités pédagogiques (notamment l’évaluation) de leurs enseignements.

      Cette continuité pédagogique, imprévue et donc mise en place brutalement, exacerbe les inégalités sociales déjà présentes. En temps normal, elles sont quelque peu lissées : les étudiants peuvent tous assister (au moins en partie) aux cours, même s’ils ont de longs trajets ou s’ils doivent travailler à côté pour subvenir à leurs besoins… L’université met en effet à leur disposition des bibliothèques universitaires pour travailler au calme et utiliser des ressources documentaires, des ordinateurs, du réseau (wifi), parfois des imprimantes… Comme elle ne fournit pas ou peu d’ordinateurs portables aux étudiants ni de connexion Internet « à la maison », cette période de confinement et de « continuité pédagogique » repose uniquement sur les outils et accès au réseau personnels des étudiants.

      Des sondages réalisés récemment auprès d’étudiants de différents instituts montrent qu’un nombre non négligeable d’étudiants dispose uniquement d’un smartphone, ou doit partager ordinateur ou tablette avec le reste de la famille. L’étudiant muni seulement de son smartphone est alors fortement dépendant de son forfait personnel, mais aussi du réseau local. Une de nos étudiantes, confinée à la campagne, doit aller en haut d’une colline pour simplement lire ses mails ! Ne parlons pas de suivre des cours en ligne… Ou de lire un polycopié sur un écran de téléphone. Même avec un ordinateur, la qualité de la connexion peut être insuffisante pour assurer le suivi de cours en ligne avec des vidéos particulièrement gourmandes en termes de débit numérique.

      Au-delà de ces conditions techniques, il faut également bénéficier d’un endroit calme pour travailler pendant une partie substantielle de la journée, ce qui n’a rien d’évident. Dans une filière de l’université Paris Saclay où un sondage auprès des étudiants a été effectué, seuls les deux tiers des étudiants peuvent s’isoler pour travailler. Nombre d’étudiants doivent ainsi composer avec un logement étroit pour une famille, garder des frères et sœurs, etc. Certains doivent poursuivre leur travail alimentaire à côté : une étudiante caissière doit faire plus d’heures qu’en temps normal à cause de l’épidémie, elle est donc moins disponible pour suivre les cours. Il peut en outre y avoir des tensions au sein de la famille, moins perceptibles habituellement. On peut ainsi constater toutes sortes de situations bien réelles, qui sont objectivement un frein à l’apprentissage à distance.

      Malgré cela des cours en ligne ont lieu. On peut ici saluer le travail remarquable fait par les enseignants qui, s’ils sont en général confinés dans de meilleures conditions que leurs étudiants, sont également confrontés à certaines difficultés évoquées plus haut.

      La situation exceptionnelle que nous vivons est particulièrement anxiogène : étudier dans ces conditions est loin d’être optimal. Prolonger alors un cours à distance, en confinement, est une façon de penser à autre chose non seulement pour les étudiants qui peuvent le suivre décemment, mais aussi pour les enseignants. « Je dirais que les cours en visio sont ce qu’il y a de plus constructif et agréable, les rapports humains étant presque absents dans ce confinement, ils permettent d’entretenir du lien et d’entendre la voix de nos professeurs », témoigne ainsi une étudiante de l’Inalco.

      Compte tenu de toutes ces raisons, il est important que les enseignants poursuivent tant bien que mal leurs cours et travaux dirigés par l’intermédiaire d’outils de visualisation en ligne. En revanche, ces parties de cours effectuées depuis le début du confinement ne doivent pas faire l’objet d’une évaluation des étudiants ⎼⎼ à distance ou pas ⎼⎼ visant à l’attribution d’une note comptant dans la scolarité, sous peine d’amplifier les inégalités entre eux. Des examens pourront éventuellement se tenir à l’issue du confinement, dans les locaux des universités, et non en ligne, et ne devront pas porter sur des concepts vus pendant le confinement.

      Le service public d’enseignement supérieur fait un travail admirable pour le suivi pédagogique des étudiants à distance. Néanmoins, les processus d’enseignement à distance mis en place doivent faire figure d’exception et non devenir une norme, rien ne peut remplacer la présence physique d’un enseignant dans le processus d’apprentissage. « Par rapport à un cours présentiel, chaque activité me demande deux fois plus de temps. Les cours en ligne me demandent un travail très important et j’ai du mal à tout assimiler. Apprendre un concept seul ou avec de faibles interactions est beaucoup plus compliqué qu’en présentiel. » rapporte une étudiante de l’université Grenoble Alpes.

      https://blogs.mediapart.fr/les-invites-de-mediapart/blog/220420/oui-la-continuite-pedagogique-l-universite-mais-sans-evaluation

  • « Algotaylorism », plus Web la vie - Culture / Next
    https://next.liberation.fr/arts/2020/03/09/algotaylorism-plus-web-la-vie_1781079

    A Mulhouse, une quinzaine d’artistes explorent l’impact des technologies et de la mondialisation sur nos façons de travailler et de produire. Franchement, ne devriez-vous pas être en train de travailler plutôt que de lire ces lignes ? Dans l’exposition « Algotaylorism » à la Kunsthalle de Mulhouse (Haut-Rhin), on est reçu dans des termes tout aussi cavaliers. Au bout d’un vaste open space blanc, dans lequel on distingue des bureaux et des écrans, une culpabilisante phrase est écrite en grosses lettres (...)

    #art #algorithme #addiction #SocialNetwork #travail

  • Sensor Tower Secretly Owns Ad Blocker And VPN Apps That Collect User Data
    https://www.buzzfeednews.com/article/craigsilverman/vpn-and-ad-blocking-apps-sensor-tower

    Sensor Tower, a popular analytics platform for tech developers and investors, has been secretly collecting data from millions of people who have installed popular VPN and ad-blocking apps for Android and iOS, a BuzzFeed News investigation has found. These apps, which don’t disclose their connection to the company or reveal that they feed user data to Sensor Tower’s products, have more than 35 million downloads.

    Since 2015, Sensor Tower has owned at least 20 Android and iOS apps. Four of these — Free and Unlimited VPN, Luna VPN, Mobile Data, and Adblock Focus — were recently available in the Google Play store. Adblock Focus and Luna VPN were in Apple’s App Store. Apple removed Adblock Focus and Google removed Mobile Data after being contacted by BuzzFeed News. The companies said they continue to investigate.
    Advertisement

    Once installed, Sensor Tower’s apps prompt users to install a root certificate, a small file that lets its issuer access all traffic and data passing through a phone. The company told BuzzFeed News it only collects anonymized usage and analytics data, which is integrated into its products. Sensor Tower’s app intelligence platform is used by developers, venture capitalists, publishers, and others to track the popularity, usage trends, and revenue of apps.

    Armando Orozco, an Android analyst for Malwarebytes, said giving root privileges to an app exposes a user to significant risk.

    “Your typical user is going to go through this and think, Oh, I‘m blocking ads, and not really be aware of how invasive this could be,” he said.

    Le «consentement» est vraiment un piège

    Apple and Google restrict root certificate privileges due to the security risk to users. Sensor Tower’s apps bypass the restrictions by prompting users to install a certificate through an external website after an app is downloaded.

    Luna VPN, for example, shows a notification that offers the ability to block ads on YouTube if a user adds the Adblock extension, another SensorTower product. This kick-starts a process that results in a root certificate installation.

    #Analytics #Add_Blockers #Consentement

  • Gaîté Lyrique | La start-up nation : un cirque sans filet
    https://gaite-lyrique.net/evenement/la-start-up-nation-un-cirque-sans-filet

    Entrepreneur ou travailleur précaire ? Bienvenue dans l’entreprécariat, un néologisme forgé par Silvio Lorusso, chercheur et artiste, qui nous guide à travers un monde où le changement est considéré comme naturel et sain, quoi qu’il apporte. Son premier livre publié intitulé Entreprecariat : Everyone Is an Entrepreneur, Nobody Is Safe (ed. it. Krisis Publishing, 2018 ; ed. angl. Onomatopee, 2019) dépeint un monde peuplé de posters de motivations, d’outils pour améliorer la productivité, de bureaux (...)

    #livre #marketing #addiction #algorithme #travail #GigEconomy #conditions #technologisme

  • Instagram, Facebook : Jeunes et réseaux sociaux, clap de fin ?
    https://www.femina.fr/article/instagram-facebook-jeunes-et-reseaux-sociaux-clap-de-fin

    Certes, ils quittent Facebook, un « truc de vieux » – comprendre « un truc de parents » – pour Gabin, 17 ans. D’après une étude Diplomeo publiée en 2019, c’est un fait : le réseau social aux 2,5 milliards d’utilisateurs dans le monde, dont 37 millions en France, n’attire plus les ados. Près de 17 % des jeunes Français confient avoir supprimé Facebook de leur smartphone, 22 % chez les 16-18 ans et 15 % chez les 19-25 ans. Plus surprenant, ils auraient aussi tendance à bouder leur smart-phone et même à quitter Instagram et Snapchat. « Je n’y crois pas ! » tranche la mère de Gabin. Et pourtant… Tous les jeunes ne forment pas un groupe uniforme de « digital natives » (enfants du numérique) scotchés à leur portable. Certains, en effet, se déconnectent et d’autres refusent d’être trop connectés.
    Les prémices du ras-le-bol

    Une étude publiée en 2018 dans le quotidien britannique The Guardian avait déjà confirmé cette tendance, précisant même que 63 % des collégiens et lycéens britanniques seraient contents si les réseaux sociaux n’avaient jamais été inventés ! Parmi eux, Amanuel, une lycéenne de 16 ans, qui expliquait : « Sur Instagram, je présentais comme la plupart des gens une version malhonnête de moi-même. » Mais aussi Sharp, 13 ans : « Je préfère ne pas savoir ce que les autres pensent de moi. » Et en France ? « Je préfère passer mon temps dans le monde réel plutôt que sur mon téléphone, assure Khady, 19 ans, qui, au passage, confie avoir rencontré une situation de cyberharcèlement quand elle était au collège. Forcément, ça m’a vaccinée… » Les jeunes se déclarent rarement anti-réseaux sociaux sans un déclic. Parfois, la prise de conscience peut aussi prendre du temps. Quand, pour leur livre-enquête Portables : la face cachée des ados (Flammarion), les journalistes Céline Cabourg et Boris Manenti ont rencontré des centaines d’ados, ceux-ci s’interrogeaient moins sur une possible déconnexion que sur leurs usages hyperconnectés. « Mais c’était en 2016 », nuance Boris Manenti. Depuis, une enquête de l’institut de recherche Ampere Analysis, menée auprès de 9 000 internautes, a confirmé que les 18-24 ans avaient considérablement changé d’attitude à l’égard des médias sociaux en peu de temps. Alors que 66 % de cette tranche d’âge étaient d’accord en 2016 avec l’affrmation « les médias sociaux sont importants pour moi », ils ne sont plus que 57 % en 2018.

    Une saturation observée par Anne Cordier, maîtresse de conférences en sciences de l’information et de la communication et auteure de Grandir connectés (C & F) : « Depuis sept ans, je surveille l’évolution d’une quinzaine de jeunes, actuellement âgés de 24 ans et plutôt issus de milieux défavorisés. Tous évoquent depuis leurs 17 ans ce flux d’informations qui les bombarde, des diffcultés à se concentrer, ainsi que le désir de renouer avec des liens qu’ils estiment plus authentiques. Ils ont commencé par mettre en place des rituels de déconnexion très ponctuels, comme “oublier” le portable dans une autre pièce lorsqu’ils travaillent ou le retourner pour être tranquilles et ne pas être dérangés par les alertes de notifications. Une jeune fille me confiait : “C’est comme la glace. Quand on en mange trop et que l’on a fait le tour de tous les parfums, on frôle l’indigestion !” »

    La chercheuse Mary Jane Kwok Choon montre ainsi que tous les étudiants qui ont déconnecté finissent certes par revenir sur les réseaux sociaux au bout de cinq à quatorze jours mais toujours plus « responsables ». « Par exemple, ils “nettoient” leur profil sur Facebook ou ailleurs, veillent à ne pas être identifiés sur les photos, à moins publier ou à moins “liker” les statuts des autres », détaille Anne Cordier, pour qui la déconnexion absolue serait au fond un fantasme d’adulte. Lola, 18 ans, qui organise régulièrement chez elle des soirées détox digitale pour doper l’ambiance, l’a bien compris : « On éteint nos portables… seulement après avoir prévenu nos parents qui pourraient s’inquiéter ! » sourit-elle. D’après un rapport américain**, quatre adolescents sur dix ont peur que leur père ou leur mère soit « accro » au portable !

    #Médias_sociaux #Culture_numérique #Anne_Cordier #Adolescents

    • à 20 piges je détestais les forums et refusais d’avoir un mail. En vrai l’équation sous-jacente jeune-alors-devrait-aimer-la-tech n’a évidemment aucun fondement, à part la tech qui se croit jeune parce que toujours plus neuve.

    • Je me souviens un jour d’une couv de Télérama sur « les jeunes » : n’étaient figurés que des appareils électroniques. J’étais encore à peu près jeune à l’époque, et je ne comprenais pas pourquoi il n’y avait pas de bières et de capotes sur leur couv de vieux cons néophiles.

      Sinon Sherry Turkle a déjà pas mal parlé de jeunes et des réseaux sociaux : saturation, angoisse liée à l’image, déconnexion, tout y était en 2012.
      http://blog.ecologie-politique.eu/post/Seuls-ensemble

  • Close to the Machine by Ellen Ullman | Pushkin Press
    https://www.pushkinpress.com/product/close-to-the-machine

    Close to the Machine has become a cult classic : Ellen Ullman’s humane, insightful, and beautifully written memoir explores the ever-complicating intersections between people and technology ; the strange ecstasies of programming ; the messiness of life and the artful efficiency of code. It is a deeply personal, prescient account of working at the forefront of computing. With a new introduction by Jaron Lanier, author of You Are Not a Gadget “By turns hilarious and sobering, this slim gem of (...)

    #travail #livre #addiction #technologisme

  • Éducation à la sexualité : « Les filles sont toujours jugées » | Au coeur du Planning
    https://www.planning-familial.org/fr/le-planning-familial/au-coeur-du-planning-6-education-la-sexualite-les-filles-sont-tou

    A Marseille, on appelle une fille, une « gadji », un garçon, un « gadjo ». « Gadji, gadjo », c’est le titre qu’a donné le Planning familial à une pièce de théâtre sur les relations fille-garçons. Jouée dans le cadre de l’Education à la sexualité au collège et au lycée, elle est suivie de groupes de parole entre filles, d’un côté, et entre garçons, de l’autre, pour libérer la parole. On y parle de réputation, de jupes trop courtes, d’inégalités homme-femme, de "revenge porn"... Et de comment agir face à ces inégalités et à la violence. Ave un mini bonus à la fin. Durée : 32 min. Source : Le planning familial

    https://assets-do.pippa.io/shows/5e21f56f92ea561174b59492/1583313858432-4181b575f7a4cdf3ba0f99951a5423dc.mp3

  • Comment garantir l’#équité des #algorithmes ?
    https://www.banquedesterritoires.fr/comment-garantir-lequite-des-algorithmes

    « Code source opaque », « paramètres parfois contestables »… le récent rapport de la Cour des comptes étrillant l’algorithme Parcoursup (https://www.ccomptes.fr/system/files/2020-02/20200225-09-TomeII-infrastructures-numeriques-enseignement-superieur-et-rec) pour l’affectation universitaire des lycéens ne pouvait mieux tomber pour illustrer la table ronde « Intelligence artificielle, les algorithmes source d’équité ou de #discrimination » organisée dans le cadre des Assises de la cohésion numérique territoriale le 27 février 2020 à Paris. Si le problème a pris une acuité particulière avec l’omniprésence du numérique dans notre quotidien, il est cependant loin d’être nouveau.

    #biais_algorithmiques #racisme #logiciel_compas #États-Unis #contrôle #administration #deep_learning #programmation #apprentissage_profond #règles_culturelles

    Rapport de la #Cnil mentionné dans l’article : https://www.cnil.fr/fr/comment-permettre-lhomme-de-garder-la-main-rapport-sur-les-enjeux-ethiques-des-

  • Césars : « Désormais on se lève et on se barre » | Virginie Despentes
    https://www.liberation.fr/debats/2020/03/01/cesars-desormais-on-se-leve-et-on-se-barre_1780212

    Je vais commencer comme ça : soyez rassurés, les puissants, les boss, les chefs, les gros bonnets : ça fait mal. On a beau le savoir, on a beau vous connaître, on a beau l’avoir pris des dizaines de fois votre gros pouvoir en travers de la gueule, ça fait toujours aussi mal. Tout ce week-end à vous écouter geindre et chialer, vous plaindre de ce qu’on vous oblige à passer vos lois à coups de 49.3 et qu’on ne vous laisse pas célébrer Polanski tranquilles et que ça vous gâche la fête mais derrière vos jérémiades, ne vous en faites pas : on vous entend jouir de ce que vous êtes les vrais patrons, les gros caïds, et le message passe cinq sur cinq : cette notion de consentement, vous ne comptez pas la laisser passer. Source : (...)

    • Et vous savez très bien ce que vous faites - que l’humiliation subie par toute une partie du public qui a très bien compris le message s’étendra jusqu’au prix d’après, celui des Misérables, quand vous convoquez sur la scène les corps les plus vulnérables de la salle, ceux dont on sait qu’ils risquent leur peau au moindre contrôle de police, et que si ça manque de meufs parmi eux, on voit bien que ça ne manque pas d’intelligence et on sait qu’ils savent à quel point le lien est direct entre l’impunité du violeur célébré ce soir-là et la situation du quartier où ils vivent.

    • https://medias.liberation.fr/photo/1297226-adele-haenel-walked-out-of-the-cesars-paris.jpg?modified_a

      oui on est les connasses, on est les humiliées, oui on n’a qu’à fermer nos gueules et manger vos coups, vous êtes les boss, vous avez le pouvoir et l’arrogance qui va avec mais on ne restera pas assis sans rien dire. Vous n’aurez pas notre respect. On se casse. Faites vos conneries entre vous. Célébrez-vous, humiliez-vous les uns les autres tuez, violez, exploitez, défoncez tout ce qui vous passe sous la main. On se lève et on se casse. C’est probablement une image annonciatrice des jours à venir. La différence ne se situe pas entre les hommes et les femmes, mais entre dominés et dominants, entre ceux qui entendent confisquer la narration et imposer leurs décisions et ceux qui vont se lever et se casser en gueulant. C’est la seule réponse possible à vos politiques. Quand ça ne va pas, quand ça va trop loin ; on se lève on se casse et on gueule et on vous insulte et même si on est ceux d’en bas, même si on le prend pleine face votre pouvoir de merde, on vous méprise on vous dégueule. Nous n’avons aucun respect pour votre mascarade de respectabilité. Votre monde est dégueulasse. Votre amour du plus fort est morbide. Votre puissance est une puissance sinistre. Vous êtes une bande d’imbéciles funestes. Le monde que vous avez créé pour régner dessus comme des minables est irrespirable. On se lève et on se casse. C’est terminé. On se lève. On se casse. On gueule. On vous emmerde.

    • Il n’y a rien de surprenant à ce que vous ayez couronné Polanski : c’est toujours l’argent qu’on célèbre, dans ces cérémonies, le cinéma on s’en fout. Le public on s’en fout.

      Le public a été voire en masse le dernier Polansky, la cérémonie ne se foute pas du tout du public. C’est le public qui se fout des violé·es. Le public se branle sur du porno plusieurs fois par semaine et il est aussi misogyne et violophile que le jury des césars.
      Le public ce qu’il a préféré du cinéma franças c’est « Qu’est-ce qu’on a encore fait au Bon Dieu ? » qui à la 4eme place au Box office, Polansky est 32eme un peu derrière Nicky Lason, autre fleuron du ciné français.
      –----
      On se casse, Ok, c’est bien mais ou on va si on quitte la Macronie avec nos talons hauts et notre robe de soirée de femmes-cis-non-dominée ? on va en Trumpie, en Poutinie, ou en Sevrerinie ? Ou il est ce pays sans viol et sans violophiles ou on irait si on se casse ? Il n’existe même pas en rêve !

    • Césars : « Désormais on se lève et on se barre », par #Virginie_Despentes

      Que ça soit à l’Assemblée nationale ou dans la culture, vous, les puissants, vous exigez le #respect entier et constant. Ça vaut pour le #viol, les exactions de votre #police, les #césars, votre #réforme des #retraites. En prime, il vous faut le #silence de #victimes.

      Je vais commencer comme ça : soyez rassurés, les puissants, les boss, les chefs, les gros bonnets : ça fait mal. On a beau le savoir, on a beau vous connaître, on a beau l’avoir pris des dizaines de fois votre gros pouvoir en travers de la gueule, ça fait toujours aussi #mal. Tout ce week-end à vous écouter geindre et chialer, vous plaindre de ce qu’on vous oblige à passer vos lois à coups de #49-3 et qu’on ne vous laisse pas célébrer #Polanski tranquilles et que ça vous gâche la fête mais derrière vos jérémiades, ne vous en faites pas : on vous entend jouir de ce que vous êtes les vrais #patrons, les gros #caïds, et le message passe cinq sur cinq : cette notion de #consentement, vous ne comptez pas la laisser passer. Où serait le fun d’appartenir au clan des #puissants s’il fallait tenir compte du consentement des #dominés ? Et je ne suis certainement pas la seule à avoir envie de chialer de #rage et d’#impuissance depuis votre belle #démonstration_de_force, certainement pas la seule à me sentir salie par le spectacle de votre orgie d’#impunité.

      Il n’y a rien de surprenant à ce que l’académie des césars élise #Roman_Polanski meilleur réalisateur de l’année 2020. C’est #grotesque, c’est #insultant, c’est #ignoble, mais ce n’est pas surprenant. Quand tu confies un budget de plus de 25 millions à un mec pour faire un téléfilm, le message est dans le budget. Si la lutte contre la montée de l’antisémitisme intéressait le cinéma français, ça se verrait. Par contre, la voix des opprimés qui prennent en charge le récit de leur calvaire, on a compris que ça vous soûlait. Alors quand vous avez entendu parler de cette subtile comparaison entre la problématique d’un cinéaste chahuté par une centaine de féministes devant trois salles de cinéma et Dreyfus, victime de l’antisémitisme français de la fin du siècle dernier, vous avez sauté sur l’occasion. Vingt-cinq millions pour ce parallèle. Superbe. On applaudit les investisseurs, puisque pour rassembler un tel budget il a fallu que tout le monde joue le jeu : Gaumont Distribution, les crédits d’impôts, France 2, France 3, OCS, Canal +, la RAI… la main à la poche, et généreux, pour une fois. Vous serrez les rangs, vous défendez l’un des vôtres. Les plus puissants entendent défendre leurs #prérogatives : ça fait partie de votre élégance, le viol est même ce qui fonde votre style. La loi vous couvre, les tribunaux sont votre domaine, les médias vous appartiennent. Et c’est exactement à cela que ça sert, la #puissance de vos grosses fortunes : avoir le #contrôle_des_corps déclarés #subalternes. Les #corps qui se taisent, qui ne racontent pas l’histoire de leur point de vue. Le temps est venu pour les plus riches de faire passer ce beau message : le #respect qu’on leur doit s’étendra désormais jusqu’à leurs bites tachées du sang et de la merde des enfants qu’ils violent. Que ça soit à l’#Assemblée_nationale ou dans la #culture - marre de se cacher, de simuler la gêne. Vous exigez le respect entier et constant. Ça vaut pour le viol, ça vaut pour les exactions de votre #police, ça vaut pour les césars, ça vaut pour votre réforme des retraites. C’est votre politique : exiger le silence des victimes. Ça fait partie du territoire, et s’il faut nous transmettre le message par la #terreur vous ne voyez pas où est le problème. Votre #jouissance_morbide, avant tout. Et vous ne tolérez autour de vous que les valets les plus dociles. Il n’y a rien de surprenant à ce que vous ayez couronné Polanski : c’est toujours l’#argent qu’on célèbre, dans ces cérémonies, le #cinéma on s’en fout. Le public on s’en fout. C’est votre propre puissance de frappe monétaire que vous venez aduler. C’est le gros budget que vous lui avez octroyé en signe de soutien que vous saluez - à travers lui c’est votre puissance qu’on doit respecter.

      Il serait inutile et déplacé, dans un commentaire sur cette cérémonie, de séparer les corps de cis mecs aux corps de cis meufs. Je ne vois aucune différence de comportements. Il est entendu que les grands prix continuent d’être exclusivement le domaine des #hommes, puisque le message de fond est : #rien_ne_doit_changer. Les choses sont très bien telles qu’elles sont. Quand #Foresti se permet de quitter la fête et de se déclarer « écœurée », elle ne le fait pas en tant que meuf - elle le fait en tant qu’individu qui prend le risque de se mettre la profession à dos. Elle le fait en tant qu’individu qui n’est pas entièrement assujetti à l’#industrie_cinématographique, parce qu’elle sait que votre #pouvoir n’ira pas jusqu’à vider ses salles. Elle est la seule à oser faire une blague sur l’éléphant au milieu de la pièce, tous les autres botteront en touche. Pas un mot sur Polanski, pas un mot sur #Adèle_Haenel. On dîne tous ensemble, dans ce milieu, on connaît les mots d’ordre : ça fait des mois que vous vous agacez de ce qu’une partie du public se fasse entendre et ça fait des mois que vous souffrez de ce qu’Adèle Haenel ait pris la parole pour raconter son histoire d’enfant actrice, de son point de vue.

      Alors tous les corps assis ce soir-là dans la salle sont convoqués dans un seul but : vérifier le #pouvoir_absolu des puissants. Et les puissants aiment les violeurs. Enfin, ceux qui leur ressemblent, ceux qui sont puissants. On ne les aime pas malgré le viol et parce qu’ils ont du talent. On leur trouve du #talent et du style parce qu’ils sont des violeurs. On les aime pour ça. Pour le courage qu’ils ont de réclamer la #morbidité de leur #plaisir, leur #pulsion débile et systématique de destruction de l’autre, de #destruction de tout ce qu’ils touchent en vérité. Votre plaisir réside dans la #prédation, c’est votre seule compréhension du style. Vous savez très bien ce que vous faites quand vous défendez Polanski : vous exigez qu’on vous admire jusque dans votre #délinquance. C’est cette exigence qui fait que lors de la cérémonie tous les corps sont soumis à une même #loi_du_silence. On accuse le #politiquement_correct et les réseaux sociaux, comme si cette #omerta datait d’hier et que c’était la faute des féministes mais ça fait des décennies que ça se goupille comme ça : pendant les cérémonies de cinéma français, on ne blague jamais avec la susceptibilité des patrons. Alors tout le monde se tait, tout le monde sourit. Si le violeur d’enfant c’était l’homme de ménage alors là pas de quartier : police, prison, déclarations tonitruantes, défense de la victime et condamnation générale. Mais si le violeur est un puissant : #respect et #solidarité. Ne jamais parler en public de ce qui se passe pendant les #castings ni pendant les prépas ni sur les tournages ni pendant les promos. Ça se raconte, ça se sait. Tout le monde sait. C’est toujours la loi du silence qui prévaut. C’est au respect de cette consigne qu’on sélectionne les employés.

      Et bien qu’on sache tout ça depuis des années, la #vérité c’est qu’on est toujours surpris par l’outrecuidance du pouvoir. C’est ça qui est beau, finalement, c’est que ça marche à tous les coups, vos saletés. Ça reste #humiliant de voir les participants se succéder au pupitre, que ce soit pour annoncer ou pour recevoir un prix. On s’identifie forcément - pas seulement moi qui fais partie de ce sérail mais n’importe qui regardant la cérémonie, on s’identifie et on est humilié par procuration. Tant de silence, tant de #soumission, tant d’empressement dans la #servitude. On se reconnaît. On a envie de crever. Parce qu’à la fin de l’exercice, on sait qu’on est tous les employés de ce grand merdier. On est humilié par procuration quand on les regarde se taire alors qu’ils savent que si Portrait de la jeune fille en feu ne reçoit aucun des grands prix de la fin, c’est uniquement parce qu’Adèle Haenel a parlé et qu’il s’agit de bien faire comprendre aux victimes qui pourraient avoir envie de raconter leur histoire qu’elles feraient bien de réfléchir avant de rompre la loi du silence. Humilié par procuration que vous ayez osé convoquer deux réalisatrices qui n’ont jamais reçu et ne recevront probablement jamais le prix de la meilleure réalisation pour remettre le prix à Roman fucking Polanski. Himself. Dans nos gueules. Vous n’avez décidément #honte de rien. Vingt-cinq millions, c’est-à-dire plus de quatorze fois le budget des Misérables, et le mec n’est même pas foutu de classer son film dans le box-office des cinq films les plus vus dans l’année. Et vous le récompensez. Et vous savez très bien ce que vous faites - que l’#humiliation subie par toute une partie du public qui a très bien compris le message s’étendra jusqu’au prix d’après, celui des Misérables, quand vous convoquez sur la scène les corps les plus vulnérables de la salle, ceux dont on sait qu’ils risquent leur peau au moindre contrôle de police, et que si ça manque de meufs parmi eux, on voit bien que ça ne manque pas d’intelligence et on sait qu’ils savent à quel point le lien est direct entre l’impunité du violeur célébré ce soir-là et la situation du quartier où ils vivent. Les réalisatrices qui décernent le prix de votre impunité, les réalisateurs dont le #prix est taché par votre #ignominie - même combat. Les uns les autres savent qu’en tant qu’employés de l’#industrie_du_cinéma, s’ils veulent bosser demain, ils doivent se taire. Même pas une blague, même pas une vanne. Ça, c’est le #spectacle des césars. Et les hasards du calendrier font que le message vaut sur tous les tableaux : trois mois de grève pour protester contre une réforme des retraites dont on ne veut pas et que vous allez faire passer en force. C’est le même message venu des mêmes milieux adressé au même peuple : « Ta gueule, tu la fermes, ton consentement tu te le carres dans ton cul, et tu souris quand tu me croises parce que je suis puissant, parce que j’ai toute la thune, parce que c’est moi le boss. »

      Alors quand Adèle Haenel s’est levée, c’était le sacrilège en marche. Une employée récidiviste, qui ne se force pas à sourire quand on l’éclabousse en public, qui ne se force pas à applaudir au spectacle de sa propre humiliation. Adèle se lève comme elle s’est déjà levée pour dire voilà comment je la vois votre histoire du réalisateur et son actrice adolescente, voilà comment je l’ai vécue, voilà comment je la porte, voilà comment ça me colle à la peau. Parce que vous pouvez nous la décliner sur tous les tons, votre imbécillité de séparation entre l’homme et l’artiste - toutes les victimes de viol d’artistes savent qu’il n’y a pas de division miraculeuse entre le #corps_violé et le #corps_créateur. On trimballe ce qu’on est et c’est tout. Venez m’expliquer comment je devrais m’y prendre pour laisser la fille violée devant la porte de mon bureau avant de me mettre à écrire, bande de bouffons.

      Adèle se lève et elle se casse. Ce soir du 28 février on n’a pas appris grand-chose qu’on ignorait sur la belle industrie du cinéma français par contre on a appris comment ça se porte, la robe de soirée. A la guerrière. Comme on marche sur des talons hauts : comme si on allait démolir le bâtiment entier, comment on avance le dos droit et la nuque raidie de #colère et les épaules ouvertes. La plus belle image en quarante-cinq ans de cérémonie - Adèle Haenel quand elle descend les escaliers pour sortir et qu’elle vous applaudit et désormais on sait comment ça marche, quelqu’un qui se casse et vous dit merde. Je donne 80 % de ma bibliothèque féministe pour cette image-là. Cette leçon-là. Adèle je sais pas si je te male gaze ou si je te female gaze mais je te love gaze en boucle sur mon téléphone pour cette sortie-là. Ton corps, tes yeux, ton dos, ta voix, tes gestes tout disait : oui on est les connasses, on est les humiliées, oui on n’a qu’à fermer nos gueules et manger vos coups, vous êtes les boss, vous avez le pouvoir et l’#arrogance qui va avec mais on ne restera pas assis sans rien dire. Vous n’aurez pas notre #respect. #On_se_casse. Faites vos conneries entre vous. Célébrez-vous, humiliez-vous les uns les autres tuez, violez, exploitez, défoncez tout ce qui vous passe sous la main. On se lève et on se casse. C’est probablement une image annonciatrice des jours à venir. La différence ne se situe pas entre les hommes et les femmes, mais entre dominés et dominants, entre ceux qui entendent confisquer la narration et imposer leurs décisions et ceux qui vont se lever et se casser en gueulant. C’est la seule réponse possible à vos politiques. Quand ça ne va pas, quand ça va trop loin ; on se lève on se casse et on gueule et on vous insulte et même si on est ceux d’en bas, même si on le prend pleine face votre pouvoir de merde, on vous méprise on vous dégueule. Nous n’avons aucun respect pour votre #mascarade_de_respectabilité. Votre monde est dégueulasse. Votre amour du plus fort est morbide. Votre puissance est une puissance sinistre. Vous êtes une bande d’#imbéciles_funestes. Le monde que vous avez créé pour régner dessus comme des minables est irrespirable. On se lève et on se casse. C’est terminé. On se lève. On se casse. On gueule. On vous emmerde.

      https://www.liberation.fr/debats/2020/03/01/cesars-desormais-on-se-leve-et-on-se-barre_1780212

    • Il y a une sorte de dimension religieuse dans ces cérémonies cinéphiles. Comme chez les Aztèques dans leur rites sacrificiels où l’on droguait les prisonnier·ères avant de les allonger sur un autel pour leur ouvrir la poitrine et en extirper leur cœur palpitant. Les « dieux » aiment le sang et si si on se laisse convaincre par leurs prêtres qu’on va gagner l’éternité en se soumettant à leurs fantasmes, on se fera fatalement arracher le cœur. C’est à dire déposséder de notre part la plus intime d’êtres vivants et pensants et donc nous briser. Les aristocrates, de quelque obédience soient-ils, exigent avant toute chose la soumission de leurs subordonné·es. Et ils ont même poussé leur perversité sans limite à faire accepter au langage commun le qualificatif de « nobles ».
      Et si toutes ces célébrations dilatoires n’étaient qu’une mise en abyme du mauvais scénario que nous subissons depuis 2016, année précédant la dernière élection présidentielle en date ?

      #aristocratie_guerrière #théocratie #nos_bons_maîtres #R.A.G.E.

    • Césars : ce que veut dire #quitter_la_salle

      La « #honte » exprimée par Adèle Haenel vendredi, lors de la cérémonie, est une expérience morale et politique qui permet de sortir du statut de victime pour construire une résistance collective.

      De la 45e cérémonie des césars, il ne faudra retenir que l’« exit » de plusieurs femmes dont Adèle Haenel qui quitte la salle en se fendant d’un « c’est une honte », Florence Foresti qui refuse de venir clôturer la soirée et qui écrira ce mot sur Instagram : « écœurée ». Ce sont des mots de l’émotion et aussi du discernement. De la honte à l’écœurement se déploie une contre-scène à la masculinité affirmée des césars : une même puissance de nommer le mal, de faire jaillir l’indécence d’une situation.

      Généralement la honte est du côté de la personne vulnérable qui, non seulement, est victime d’une violence mais ne parvient pas à s’extirper de la honte d’être violentée. La honte s’y affirme alors en honte d’avoir honte. Une personne agressée est traversée par les souffrances dont elle est l’objet mais elle est aussi saisie par l’incapacité de s’extirper de cette scène de violence qui se met à vivre dans la vie psychique sous forme de rumination mélancolique ou d’état de paralysie hypothéquant l’avenir.
      Un dispositif masculiniste

      La honte peut cependant avoir une autre signification : dans le jugement « c’est une honte », le terme de honte est renvoyé au lauréat du césar, Polanski, mais plus profondément encore au dispositif masculiniste des césars comme dispositif de pouvoir qui maintient les femmes à leur place et annule les scandales de genre. Surtout, la phrase d’Adèle Haenel contribue à désingulariser la situation des césars pour la projeter sur toutes les autres situations de ce type. La honte est alors une expérience morale et politique qui permet de sortir de la singularité de la victime pour construire une résistance collective et politique. Elle est le discernement du juste à même la perception d’une injustice typique d’un état des rapports de pouvoir.

      Le terme d’écœurement parachève cette forme de résistance. Il indique l’écart entre ce qui aurait dû être (tout sauf Polanski meilleur réalisateur) et ce qui est ; il le dénonce pour construire la possibilité d’une voix collective du refus. Albert Hirschman, dans un livre important, Exit, Voice and Loyalty avait, en 1970, souligné que, face aux défaillances des institutions, les individus ont le choix entre trois comportements : prendre la porte de sortie (exit), prendre la parole (voice) ou se résigner (loyalty). Adèle Haenel, Cécile Sciamma, Florence Foresti et toutes les personnes qui sont sorties de la salle ont montré que l’« exit » était bien le commencement de la voix.

      Face au courage de celles qui partent, il y a le cynisme de ceux qui verrouillent toutes les positions et se cramponnent pour que rien ne change. Le débat sur l’indépendance de l’œuvre face à l’artiste risque alors fort d’être un leurre. Tout d’abord, Roman Polanski a toujours affirmé jusqu’à J’accuse (en se comparant à Dreyfus à travers les rouages de persécution qu’il affirme lui-même vivre) que son cinéma était en lien avec sa vie, ce qui est le cas de bien des artistes d’ailleurs. Ensuite, il n’est pas sûr que le terme d’œuvre soit le plus adéquat pour évoquer un film tant l’industrie culturelle y est présente. L’Académie des césars elle-même incarne cette industrie puisque les quelque 4 700 votants, dont la liste est confidentielle, appartiennent aux différents métiers du cinéma. Pas plus que l’œuvre, la défense de l’artiste en être d’exception ne tient.
      De la reconnaissance des « grands hommes »

      Et les femmes ? On sait combien elles ont du mal à convaincre dès qu’elles souhaitent faire un film ; elles ne disposent jamais des mêmes budgets que les hommes. La remise du prix de meilleur réalisateur à Roman Polanski relève du maintien d’un ordre des grandeurs, lequel impose la reconnaissance des « grands hommes » envers et contre tout ; le film qui coûte cher et mérite d’être honoré est masculin. Tout ceci a été rappelé au milieu du cinéma qui s’y est largement plié, hormis la sortie d’Adèle Haenel, de Cécile Sciamma, de l’équipe du film et d’une centaine de personnes. Malgré les sketches de Florence Foresti et le discours d’Aïssa Maïga sur la diversité, il a été réaffirmé que le monde du cinéma appartient aux hommes hétérosexuels et qu’à ce titre, il repose sur un schéma précis quant aux positions les plus visibles : les hommes comme metteurs en chef ou acteurs, les femmes comme actrices.

      Dans le milieu des réalisateurs, les « grandes femmes » n’existent pas et il n’est pas d’actualité qu’elles commencent à apparaître. On se souvient qu’en 1979, Ariane Mnouchkine fut nommée pour « le meilleur réalisateur » et pour le meilleur film. Elle n’obtint aucun des deux prix ; ils furent attribués à Christian de Chalonge et à son film l’Argent des autres. Molière est resté dans notre imaginaire culturel mais qui se souvient encore de l’Argent des autres ? Une seule femme a pu tenir dans ses bras la fameuse statuette pour la réalisation, Tonie Marshall en 2000 pour Vénus Beauté (Institut), un film qui semble porter sur des questions de femmes ! Roman Polanski l’avait déjà obtenu quatre fois (en 1980, 2003, 2011 et 2014). J’accuse avait déjà tout eu : un battage médiatique exceptionnel, un succès dans les salles. Ce prix du réalisateur, attribué pour la cinquième fois, a servi à rappeler aux femmes leur place dans le milieu du cinéma comme dans la société : elles sont le deuxième sexe et destinées à le rester, ce qui autorise tous les abus de pouvoir, et bien évidemment les faveurs sexuelles pour ceux qui détiennent un pouvoir qui est aussi symbolique. Non seulement les violences faites aux femmes ne doivent pas compter mais les femmes qui sont dans le milieu du cinéma ont intérêt à ne pas sortir des places que l’on a définies pour elles : rester dans l’ombre des hommes quitte à les faire rêver.

      https://www.liberation.fr/debats/2020/03/02/cesars-2020-ce-que-veut-dire-quitter-la-salle_1780305

    • Dommage, pas un mot sur #Aissa_Maiga qui va prendre cher. #Nadine_Morano lui a déjà dit de rentrer en Afrique si elle n’était pas contente...

      Aux César 2020, Aïssa Maïga livre un plaidoyer pour plus de diversité au cinéma
      Huffington Post, le 28 février 2020
      https://www.huffingtonpost.fr/entry/aissa-maiga-plaidoyer-cesar-2020-diversite_fr_5e598d41c5b6450a30be6f7

      On a survécu au whitewashing, au blackface, aux tonnes de rôles de dealers, de femmes de ménages à l’accent bwana, on a survécu aux rôles de terroristes, à tous les rôles de filles hypersexualisées... Et en fait, on voudrait vous dire, on ne va pas laisser le cinéma français tranquille.

      César 2020 : Nadine Morano somme l’actrice Aïssa Maïga de « repartir en Afrique »
      BERTRAND GUAY, La Dépêche, le 2 mars 2020
      https://www.ladepeche.fr/2020/03/02/cesar-2020-nadine-morano-somme-a-aissa-maiga-de-repartir-en-afrique,876904

      #Césars

    • Cinéma français : la nuit du déshonneur
      Camille Polloni et Marine Turchi, Médiapart, le 29 février 2020
      https://seenthis.net/messages/828230

      À Mediapart, Adèle Haenel explique qu’« alors que la cérémonie avait plutôt bien débuté, qu’il se passait quelque chose », avec plusieurs prises de parole fortes « comme Lyna Khoudri [meilleur espoir féminin – ndlr], Aïssa Maïga, l’équipe du film Papicha [de Mounia Meddour, qui traite du combat des femmes en Algérie – ndlr], et le numéro d’équilibriste réussi de Florence Foresti », la soirée s’est ensuite « affaissée dans les remerciements ». « Comme si, cette année, il n’y avait pas autre chose à dire : sur les violences sexuelles, sur le cinéma qui traverse actuellement une crise, sur les violences policières qui s’intensifient, sur l’hôpital public qu’on délite, etc. » « Ils voulaient séparer l’homme de l’artiste, ils séparent aujourd’hui les artistes du monde », résume l’actrice à Mediapart.

      (...)

      Comme quelques autres, l’actrice Aïssa Maïga a quitté la salle après l’annonce de l’attribution du César du meilleur réalisateur à Roman Polanski. « J’étais d’abord un peu clouée sur place. Et puis une minute après, je n’étais pas bien, je suis partie, réagit-elle auprès de Mediapart en sortant. J’ai été terrassée, effrayée, dégoûtée, à titre vraiment personnel, dans mes tripes. J’ai vu la réaction d’Adèle Haenel, très forte, et honnêtement, j’ai pensé à toutes ces femmes. Toutes ces femmes qui voient cet homme plébiscité et je pense, au-delà de ces femmes, à toutes les autres, toutes les personnes victimes de viols, de violences sexuelles. J’imagine quel symbole cela peut revêtir pour elles. Et pour moi l’art n’est pas plus important que tout. L’humain d’abord. »

      L’actrice marque une pause, puis reprend : « Vous savez, c’est comme dans une famille : on croit se connaître un petit peu et puis, parfois, à la faveur d’une extrême révélation, on découvre qui sont les gens, ce qui est important pour eux, et parfois on constate avec un peu d’amertume qu’on n’a pas tout à fait les mêmes valeurs. » « Ce n’est pas grave, il faut le savoir et pouvoir avancer avec ça. Et moi, là, j’ai envie d’aller rejoindre les manifestantes dehors, c’est tout. J’aime beaucoup le cinéma, les tapis rouges, les films, les cinéastes, j’aime tout ça, mais moi je suis une fille qui n’a pas été éduquée dans l’élite, ni dans un esprit d’élitisme, je me sens une citoyenne comme les autres et là je vais aller les rejoindre », conclut-elle en se dirigeant vers le rassemblement des féministes face à la salle Pleyel. À quelques mètres du tapis rouge, les cris des militantes, parquées derrière les barrières, redoublent : « Polanski violeur, César complices ! » ; « Mais vous n’avez pas honte ? ».

      (...)

      Remettant le César du meilleur espoir féminin, l’actrice Aïssa Maïga, membre du collectif Noire n’est pas mon métier, a elle jeté un pavé dans la marre avec sa longue intervention sur l’invisibilisation des personnes non blanches dans le monde du cinéma.

      « Je peux pas m’empêcher de compter le nombre de Noirs dans la salle, a-t-elle ironisé à la tribune. Je sais qu’on est en France et qu’on n’a pas le droit de compter. C’est douze ce soir, le chiffre magique ? [...] On a survécu au whitewashing, aux blackface, aux tonnes de rôles de dealers, de femmes de ménage à l’accent bwana, aux rôles de terroristes, de filles hypersexualisées... On refuse d’être les bons Noirs. On est une famille, non ? On se dit tout. L’inclusion, elle ne va pas se faire toute seule. Ça ne va pas se faire sans vous. Pensez inclusion. […] Faisons une maison qui soit fière d’inclure toutes les différences. »

      À Mediapart, après la cérémonie, elle relate « l’effroi dans la salle » qu’elle a constaté au moment de sa prise de parole. « Je ne savais pas très bien comment l’interpréter. J’avais l’impression de plonger dans un bain de glaçons, de dire des choses qui pourtant me paraissent assez évidentes et audibles. J’ai eu l’impression que chez certains, il y a une sorte de ras-le-bol, comme si on les gavait avec la question de la diversité, qui n’est autre qu’une question de justice sociale. Et on a une responsabilité qui est énorme. Je ne pense pas que les artistes ou les décideurs ou les techniciens puissent se soustraire à cette question de l’identification du public aux films qu’on fait. Ça me paraît totalement aberrant. » Et la comédienne d’« assumer pleinement » ses propos : « J’avais besoin de dire ce que j’avais à dire. Aucun des mots que j’ai choisis n’était un accident. Je me sens aussi portée par une lame de fond. »

    • « À propos de l’impunité des artistes criminels, réflexions autour du cas de Roman Polanski en France. »
      https://lisefeeministe.wordpress.com/2020/02/15/a-propos-de-limpunite-des-artistes-criminels-reflexions-au
      source : #Christine_Delphy
      https://christinedelphy.wordpress.com/2020/03/02/lise-bouvet-a-propos-de-limpunite-des-artistes-criminels-
      je l’ai pas encore lu mais comme je suis abonné au blog de Delphy, je transmets. Abonné aussi à @tradfem et Seenthis, ça commence à faire beaucoup et j’ai pas que ça à foutre, j’ai aussi ma #tenue_de_soirée à repriser, entre autres !

    • Pour le texte de libé sur la honte l’accroche est mal fichu. j’ai l’impression qu’elle n’a pas été faite par une personne qui n’a pas compris le texte car elle réintroduit de blâme sur la victime en sous entendant que la victime ne peut pas être résistante, ce que le texte ne fait pas.
      #phallosophe #victime_blaming #victimophobie #grand_homme #grands_hommes

      La « honte » exprimée par Adèle Haenel vendredi, lors de la cérémonie, est une expérience morale et politique qui permet de sortir du statut de victime pour construire une résistance collective.

      https://www.liberation.fr/debats/2020/03/02/cesars-2020-ce-que-veut-dire-quitter-la-salle_1780305

    • Interessant le texte sur le site de C.Delphy

      Patrizia Romito classe en premier lieu ce qu’elle appelle les tactiques d’occultation : euphémisation (notamment dans le langage) des faits, déshumanisation de la victime, culpabilisation de la victime, inversion victime-agresseur, accusation de mensonge (ou d’exagération), psychologisation de l’affaire (réduction à des passions individuelles hors champ d’analyse sociale ou politique), naturalisation des actes (invocation de « pulsions » notamment), tactique de distinction- séparation (relativisation, enfouissement de l’acte criminel dans une masse d’autres considérations futiles).

      En second lieu, P. Romito présente ce qu’elle nomme des stratégies d’occultation : légitimations de la violence, négation des faits, discours pédophile sur la prétendue sexualité consentie des enfants et jeunes adolescentes, disparition de l’agresseur dans le récit journalistique et social, concentration de l’attention médiatique sur les victimes et/ou ce qu’elles auraient fait ou mal fait (dérivation de l’attention qui protège l’agresseur). Ce classement s’applique parfaitement à l’analyse de nos quatre dossiers, même si tous les éléments n’y figurent pas à chaque fois en même temps. Typiquement, il est difficile de remettre en cause la matérialité des faits dans le dossier Marie Trintignant qui a été tuée par Bertrand Cantat ni même dans celui de Samantha Geimer puisque Roman Polanski a plaidé coupable. On montre que les tactiques et les stratégies du « discours agresseur » varient et s’adaptent en fonction des violences dont il est question. Ce discours n’est d’ailleurs pas forcément conscient, il est énoncé par un certain nombre de locuteurs, puis repris, ou non, par les médias. Cependant, nous le verrons, on observe au fur et à mesure des affaires une véritable évolution du discours médiatique et une prise de conscience grandissante par certains journalistes des travers de ce discours, notamment grâce à la mobilisation et aux dénonciations d’acteurs sociaux tels que les associations ou personnalités féministes.

      Malheureusement je n’ai qu’un temps limité ici et je ne pourrai pas parler de tout aujourd’hui, à ce titre je vous renvoie à notre ouvrage. Pour résumer le propos très rapidement je dirais que l’impunité se déploie sur trois niveaux . C’est d’abord celle de tous les agresseurs en France et c’est ce que nous avons découvert dans l’analyse statistique qui a révélé ceci : l’impunité est quasi totale et la justice ne fonctionne quasiment pas. Le deuxième niveau d’impunité c’est celle d’hommes célèbres et puissants qui ont les moyens financiers d’organiser non seulement leurs défenses mais aussi la destruction des plaignantes. Ici encore faute de temps je vous renvoie à notre ouvrage et ma co·autrice qui est juriste en parle beaucoup mieux que moi. C’est du troisième niveau d’impunité dont je vais parler aujourd’hui, qui est celui du différentiel artiste – politique.

      En effet, en analysant a posteriori nos quatre dossiers nous avons réalisé que les plus intouchables des intouchables ce sont les artistes , contrairement aux hommes politiques qui, si ils arrivent à échapper à une condamnation judiciaire, ne peuvent pas esquiver l’opprobre sociale.

      Le papier à été écrit avent l’affaire Matzneff, et l’affaire Adèle Haenel, il manque donc l’info que l’artiste est protégé selon son degrès de notoriété, car si Polansky, Cantat, Besson et tant d’autres trouvent toujours des soutiens, c’est pas le cas pour les « has been » qui servent de cache-sexe aux complices des violeurs par exemple Matzneff, Ruggia, Brisseau ne sont pas autant soutenus car ils sont moins connus ou moins puissants que leur victimes.

      –----
      Question du « génie » de l’artiste, statut qui le place au niveau du divin, du surnaturel =

      Dans un essai passionnant (1), De l’humanisation de la création divine à la divinisation de la création humaine, l’historienne de l’art Lucile Roche analyse avec brio ce thème du dieu-artiste dans la théorie esthétique moderne Occidentale. Elle écrit : « C’est alors dans son éloignement du modèle divin au profit d’un recentrement de l’artiste, soumis au seul caprice de ses vues et exigences téléologiques, focalisé sur ses propres aptitudes créatrices – l’originalité, l’imagination – que se referme l’analogie Artiste-Dieu et Dieu-Artiste. Source inépuisable d’une créativité dont il est l’unique source, l’artiste romantique relève du divin (avec lequel il partage le ex-nihilo) sans pour autant s’y soumettre. Dans son humanité, l’artiste est alors, paradoxalement, divinisé ». Tout est dit : les jusqu’au-boutistes dans la défense d’auteurs tels que Polanski sont pris dans une représentation sociale surannée qui porte une vision profondément romantique de l’artiste, que l’on illustrera par cette phrase de Victor Hugo : « L’art est à l’homme ce que la nature est à Dieu ». Si ces hommes sont au niveau des dieux alors ils échappent à la justice des hommes, voilà l’impensé fondamental des défenseurs de Polanski, et autres artistes criminels, non seulement gardiens de leurs castes sociales et de ses corollaires impunités, mais surtout, selon nous, enlisés dans des conceptions de l’art dépassées, qui sont mises au service de l’impunité.

      La théoricienne de l’art Carole Talon-Hugon (2) dans une récente interview a éclairé ces impensés autour de l’artiste : « Un viol commis par un anonyme et un viol commis par un artiste, c’est à la fois la même chose – parce que le crime est tout autant répréhensible – et pas la même chose. Parce qu’il fait notamment figure d’exemple, l’artiste bénéficie d’un statut particulier dans la société. En tout cas, depuis le XVIIIe siècle. À cette époque-là, on va commencer à considérer l’art comme un domaine à part, totalement distinct, soumis à la seule règle de la beauté et indépendant de la question du bien. Ainsi, pour Diderot, « il y a une morale propre aux artistes qui peut être à rebours de la morale usuelle ». On retrouve cette idée chez Oscar Wilde (XIXe siècle) ou André Breton (XXe siècle). L’artiste devient alors une individualité sauvage et singulière, en rupture, en opposition et totalement indépendante de la morale ordinaire. Cette image-là, construite sur plus de 200 ans, nous empêche de regarder la réalité de ces agressions en face. »

      C’est ici que, selon nous, le roi apparait nu : en contradiction profonde avec nos valeurs démocratiques, les artistes sont devenus la nouvelle aristocratie au-dessus des lois. Non seulement, en consacrant les uns au détriment des autres on abdique la communauté des citoyens et l’on dit qu’il y a des valeurs supérieures à la vie humaine, mais en outre, l’on comprend désormais la thèse sous jacente des « amis de Polanski » qui est que le talent exceptionnel de cet homme devrait pouvoir se transcrire dans un statut politique dérogatoire exceptionnel. On fera remarquer avec ironie que ces gens là se réclament souvent de gauche, alors qu’ils portent la vision féodale d’une société où le talent et le statut des uns leur accorderait des droits particuliers sur les autres, et leur corps, a fortiori des personnes mineures. Position d’autant plus fragile quand on a compris que les demandes d’exceptionnalité de traitement pour le cinéaste Roman Polanski ne reposent finalement que sur des conceptions discutées comme discutables de théories de l’art. Et après tout, les amis de Polanski ont bien le droit de s’attacher à une théorie particulière que nous ne partageons pas. Ce qui est en revanche indiscutable, c’est que nous vivons dans un régime politique où les artistes, aussi doués soient-ils, sont des citoyens et des justiciables comme les autres.
      ...
      L’impunité de ces hommes repose en grande partie sur une conception non seulement de l’artiste démiurge, mais d’un public passif et docile dans sa réception d’une œuvre vue comme sacrée, et, comme par hasard ces qualités recouvrent les valeurs traditionnellement associées au masculin et au féminin… On voit là qu’on se trouve en plein dans une pensée religieuse et réactionnaire, paradoxalement portée par des « gens de gauche » .

      La dernière phrase fait écho à ta remarque sur la religiosité de tout ca @sombre

      #talent #génie #surhomme #caste #privilège #démiurge #virilité #mâle-alphisme #mérite #star #lumière

      Le comble selon nous est que par exemple, China Town est une oeuvre remarquable sur l’inceste et le viol… Peut-être que nous effleurons ici la plus grande injustice sociale et le plus grand privilège masculin : ces hommes, non seulement violent en toute impunité, mais ensuite, de ces viols, font des chefs-d’oeuvre, acclamés, primés et applaudis. Et, à jamais c’est le chef-d’oeuvre du violeur qui restera gravé dans l’histoire de l’art, alors que, poussière, la vie dévastée des victimes retournera à la poussière. Ceci nous amène à un point important à propos des films de ces réalisateurs notamment pédocriminels. Parmi les injonctions dont on nous accable, il y a l’interdiction corollaire de ne pas juger les films de l’homme, qu’on nous conjure de ne pas condamner (particulièrement en France comme l’a dénoncé le critique de cinéma Paul Rigouste (6). Or la critique de genre, c.a.d en terme d’analyse de rapports sociaux de sexe, s’est développée comme champ théorique universitaire autonome depuis bien longtemps, y compris en France grâce aux travaux de Geneviève Sellier, et bien entendu ce qui chagrine nos fans, qui sont dans la dévotion, c’est que l’on puisse mener une critique cinématographique impertinente des œuvres de ces hommes. Par exemple, un visionnage attentif des films de Woody Allen permet de repérer son obsession pédophile pour les très jeunes filles, de même qu’il me semble que Polanski affronte sans détour dans son œuvre des problématiques très personnelles de crimes et culpabilités, et ce, de manière quasi systématique. Par définition, le travail de la pensée et de l’analyse ne peut être limité, la critique doit adresser l’ensemble de l’oeuvre et il semble aussi invraisemblable que contre productif de limiter le champ des études cinématographiques par des interdictions sous peine de « lèse génie ». Il faut dénoncer cette double injonction sur laquelle repose la défense de ces criminels : non seulement l’institution judiciaire n’aurait pas son mot à dire sous prétexte qu’ils sont des artistes, mais leurs œuvres elles-mêmes seraient comme immunisées de toute lecture en lien avec leurs crimes , lecture qui pourtant me semble très intéressante d’un point de vue de théorie de l’art. Nous avons là l’occasion inouïe d’analyser des œuvres de criminels qui précisément n’hésitent pas à créer à partir de leur propre criminalité, donc au nom de quoi se priver de ces recherches ? On voit là qu’on doit aller frontalement à contre sens de l’opinion commune : Non seulement on ne peut pas séparer l’homme de l’artiste comme on vient de le voir, mais il est spécifiquement ici pertinent de rattacher l’artiste à ses crimes afin d’étudier son œuvre à partir de son activité criminelle, sans pour autant l’y réduire bien entendu.

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      Enfin, un aspect qui me semble également important et à prendre en compte dans l’analyse de ces discours de défense des cinéastes criminels, c’est le phénomène de la fascination du grand public pour ces agresseurs. Fascination dont ils jouent pour faire valoir leur défense, qui bien entendu ne peut que bénéficier de sentiments confus, qu’il faut déconstruire.

      Dans La Photographie, le théoricien de l’art André Rouillé fait une analyse remarquable de ce qu’est une « star » dans nos sociétés contemporaines. Star en anglais signifie étoile, c’est-à-dire un objet qui brille même dans la nuit, à l’image de cette aura qui repose sur l’exposition médiatique, véritable machine optique d’exposition. Les stars sont des êtres à part, des êtres de lumière, qui scintillent, éclairées en réalité par la machine « people » qui selon nous fonctionne sur une ambivalence fondamentale : ces gens nous sont familiers, ils nous ressemblent mais ils sont différents, ils vivent dans une sphère sociale supérieure qui suscite crainte et respect. Ce jeu de reflets permet des identifications-évasions, des phénomènes confusants mais gratifiants, et surtout, profondément duels. Le public est saisi dans des positions contradictoires : entre l’admiration et la dévotion pour ces stars mais aussi le sentiment d’injustice que leur inspire le fait que contrairement à lui, elles échappent à un système judiciaire qui frappe plus durement les modestes et les anonymes. De plus, comme le note la philosophe Michela Marzano, les hommes et les femmes ne sont pas affectés de la même façon dans ce phénomène : dans un contexte patriarcal les hommes sont tentés de s’identifier aux accusés célèbres et puissants, quand les femmes sont piégées dans plusieurs conflits d’allégeance.

      ...

      La chercheuse Judith Herman nous met en garde que « C’est très tentant de prendre le parti de l’agresseur. La seule chose qu’il demande au témoin est de ne rien faire. Il en appelle à notre désir universel de rester neutre et ne pas condamner. La victime au contraire nous demande de prendre part à sa douleur. La victime nous demande d’agir, de nous engager et de nous rappeler pour elle. »

      On l’observe en chacun de nous dans ces cas précis : il existe un conflit entre le citoyen et le spectateur. Le citoyen condamne les crimes de l’artiste mais le spectateur veut continuer à jouir de l’oeuvre de l’artiste criminel. Parce que nous avons aimé ces œuvres, parce qu’elles font partie de notre vie désormais, de notre culture. Parce que l’oeuvre d’art est considérée comme unique et qu’on voue un quasi culte à son auteur, parce que les créateurs sont les nouveaux dieux de notre société sécularisée. Cette résistance autour de l’artiste tient selon nous à une imprégnation puissante d’un télescopage de conceptions de l’art des siècles derniers et de mythes néolibéraux ultra contemporains ; l’artiste incarnant dans notre mythologie capitaliste, à la fois l’individu exceptionnel, la liberté, la transgression, l’exception morale et une forme de sacré archaïque.

      #art #artiste

    • « Les César 2020 consacrent l’extraordinaire impunité de Roman Polanski »

      « À ce jour, le cinéaste Roman Polanski est accusé de viols et d’agressions sexuelles par 12 femmes, notamment alors qu’elles étaient mineures. Le réalisateur a reconnu avoir drogué puis violé l’une d’entre elles, une jeune fille âgée de 13 ans en Californie, puis a fui la justice.

      Il a ensuite tourné librement de nombreux films, reçu tous les grands honneurs et récompenses de sa profession, ainsi que le soutien de la quasi-totalité de l’establishment, pouvoirs publics compris, au point qu’il a obtenu les financements pour tourner en 2019 un film sur le capitaine Dreyfus, dont il prétend – par un renversement qui laisse pantois – que leurs destins sont similaires. Ce film a obtenu 12 nominations aux César, c’est-à-dire autant que le nombre de femmes accusant le réalisateur de « J’accuse ».

      publié par l’Express le 28/02/2020, en intégralité sur le blog de Lise’s B.
      https://lisefeeministe.wordpress.com/2020/03/02/les-cesar-2020-consacrent-lextraordinaire-impunite-de-roma

      « L’impunité repose sur une conception de l’artiste démiurge et d’un public passif », estiment Yael Mellul et Lise Bouvet , coautrices de Intouchables ? People, Justice et impunité, ouvrage dédié notamment aux affaires Polanski, Cantat, DSK et Tron.

      Juriste et ex-avocate, Yael Mellul est coordinatrice juridique du pôle d’aide aux victimes de violences du centre Monceau. Politiste et philosophe de formation, Lise Bouvet est traductrice de textes féministes anglophones et autrice.

    • Je recommande ce texte qui pointe certains défauts du texte de Despentes en particulier le féminisme blanc mais ne parle pas de l’aspect misogyne de l’idéologie trans et proxénète qui s’y est glissé. https://seenthis.net/messages/828705

      Sur le texte de Lise B pointé par @vanderling

      « Les amis de Polanski » nous disent, entre autres, qu’il n’est pas un justiciable ordinaire car c’est un auteur accompli, un grand artiste, créateur d’une œuvre sublime. On peut tout d’abord relever un lien logique suspect entre son talent (qui est indéniable) et le rapport de ce dernier avec la justice criminelle. A écouter ces gens-là, ce talent aurait pour conséquence qu’il serait hors de question de porter un quelconque jugement sur sa consécration ni qu’il perde une journée de plus de sa vie en prison. Mais qui décide de cette utilité sociale extra-ordinaire ?

      Prenons un exemple particulièrement saillant en ce moment : en plein mois de février, quand nous avons froid et que notre chaudière tombe en panne, qui peut se passer d’un bon plombier-chauffagiste ? Nous serions sûrement très fâchées que notre excellent chauffagiste, lui aussi nommé Roman Polanski, aille en prison pour le viol d’une jeune fille de 13 ans précisément en plein hiver, mais la loi est ainsi faite en démocratie que même les professionnels exceptionnels et indispensables sont comme tous les autres citoyens, passibles des mêmes peines pour les mêmes crimes.

      Personne ne parle du talent perdu de ces 12 victimes de Polanski. Si Polanski avait été arrêté pour les 12 viols qu’il a commis, ces films n’auraient pas été fait et on ne s’en serait pas plus mal sorti. Mais le talent (qui est indéniable) de Polanski c’est un talent qui compte car on ne dénie pas le talent des phallopores qu’ils soient cis ou femmes-trans. Le talent qui ne compte pas c’est celui des femmes cis et des hommes-trans, car personne ne parle du talent perdu de ces 12 femmes (et peut être plus) qui s’est peut être perdu à cause de Polanski. Ca me fait pensé à la sœur de Sheakspear dont parle Virginia Woolf. Qui pleur le talent perdu de toutes ces filles et femmes que les hommes détruisent à coup de bite ? Combien de génie au féminin avons nous perdus à cause des violences masculines ? aucune en fait car contrairement au talent de Polanski qui est INDENIABLE, le talent des femmes cis et des hommes-trans est toujours DENIABLE. Les Césars l’ont montré très clairement à Adèle Haenel et à Sciamma et illes le montrent jours après jours aux femmes d’Alice Guy à aujourd’hui.

      Il y a aussi cet exemple du talent du plombier chauffagiste ou du boulanger qui serait non reconnu au pretexte qu’il violerait. Ca me fait pensé que pour le talent d’une boulangère ou d’une plombière-chauffagiste on ne se pose même pas la question. Elle n’aura pas besoin de commetre des crimes pour se voire dénier son talent, il suffit qu’elle ne sois pas belle, qu’elle ne sois pas mère, qu’elle ne sois pas douce, et son « talent » de boulangère-plombière,chauffagiste ne vaudra pas tripette.
      #déni #talent

    • « Seul le bras de Lambert Wilson fait de la résistance, seul ce bras sait s’il tremble de peur ou de colère, ou des deux ».
      https://www.arretsurimages.net/chroniques/le-matinaute/et-le-bras-du-general-trembla

      Un bras tremble, ce matin, sur mon Twitter. C’est pourtant un bras ferme, un bras qui ne devrait pas trembler, le bras du général. Du général ? De Gaulle, bien entendu. Ou plutôt, le bras de Lambert Wilson, qui incarne le général dans un film du moment. Le général de 40, celui de l’Appel, dont le bras, justement, n’a pas tremblé. Et pourtant ce bras tremble, alors que sa partenaire Isabelle Carré (Yvonne de Gaulle dans le film) vient de prendre la parole, pour répondre à une question sur Polanski...

    • « Général de Gaulle, tu es notre idooole,
      A toi nos cœurs, nos braaas,
      Général de Gooaaal..! »
      J’ai entendu, l’autre matin à la radio, Lambert Wilson s’étonner de qui étaient ces gens ?

      « Je suis très en colère, c’est n’importe quoi ! Si on estime qu’il y a quelque chose qui ne fonctionne pas dans le fait que Polanski ait des nominations, alors on ne vient pas ! Oser évoquer un metteur en scène en ces termes… Parler d’Atchoum, montrer une taille… Et en plus, qu’est-ce qu’on va retenir de la vie de ces gens par rapport à l’énormité du mythe de Polanski ? Qui sont ces gens ? Ils sont minuscules. »

      Qui sont ces gens sur le plateau de #CàVous ? Qui est Lambert Wilson ? Qui est Atchoum ? Qui a engrossé blanche-neige ?


      Fluide Glacial n°515 (avril 2019)avec une couverture de Relom qui signe son retour dans le magazine avec une #BD de 7 pages " Petit avec des grandes oreilles " qui vaut bien le meilleur des Polanski !
      #Lambert_Wilson #2_mètres_de_connerie_avec_des_grandes_oreilles

    • Oui, c’est vrai, Despentes mélange tout. Oui, elle aligne dans la même colère les abus sexuels, la domination économico-politique (le 49.3) et la répression policière. Oui, elle superpose le manifestant qui défend sa future retraite dans la ligne de mire du LBD du policier de Macron, et la fillette de 13 ans sodomisée par Polanski. En apparence, c’est vrai, un esprit rationnel devrait s’efforcer de distinguer les situations. Ce qui les rapproche pourtant, s’appelle la domination. Sans guillemets. Et ce qui atteste le mieux de cette domination, c’est l’impunité. Le manifestant et la fillette, livrés à plus puissant qu’eux, savent que la justice ne leur sera jamais rendue. Qu’il y aura toujours des avocats retors, des arrangements financiers, une machine à enterrer les enquêtes nommée IGPN, pour que justice ne leur soit pas rendue. Et que le reste est littérature.

      Celà s’appelle, une analyse systémique. C’est grossier, c’est simpliste, ça ne fait pas le détail, désolé. Il y a bien entendu toujours des contre-exemples. Il y a des miracles. Il y a des puissants punis. Il y a de sublimes résiliences. Il y a des trèfles à quatre feuilles. Il y a des coincées moches qui deviennent des reines des chaînes d’info. Vu à l’échelle de l’individu, c’est d’ailleurs toujours plus compliqué, et il y a dans chaque individu du dominant et du dominé (Polony est femme ET bourgeoise reine des medias). C’est d’ailleurs cette complexité, qui fait le bonheur de la littérature, et le sel de la vie. Mais l’illusion proclamée que ces contre-exemples invalident les lois économico-sociales classe simplement Polony à droite (ce n’est pas moi qui le dis, c’est un certain Deleuze). Ce qui d’ailleurs n’est pas infâmant. Il faut bien une droite, pour que la gauche se souvienne pourquoi elle est la gauche.

      https://www.arretsurimages.net/chroniques/le-matinaute/natacha-polony-reine-des-medias-ex-coincee

    • Vu à l’échelle de l’individu, c’est d’ailleurs toujours plus compliqué, et il y a dans chaque individu du dominant et du dominé (Polony est femme ET bourgeoise reine des medias).

      L’ndividu « résilient » est l’arbre qui cache la forêt de la misère absolue.

    • Virginie Despentes responds to the Césars and Roman Polański
      by: Virginie Despentes translated by Lauren Elkin , March 2, 2020
      https://maifeminism.com

      I’m going to begin like this: don’t worry. O you great and powerful leaders, you lot who are in charge: it hurts. No matter how well we know you, no matter how many times we’ve taken your power on the chin, it always hurts. All weekend we’ve listened to you whinging and whining, complaining that you’ve had to resort to passing your laws by decree instead of by vote [à coups de 49.3] and that we haven’t let you celebrate Polański in peace, and that we’re ruining the party, but behind your moans, don’t worry—we can hear your pleasure at being the big bosses, the big shots, and the message comes through loud and clear: you don’t plan to let this idea of consent take hold. Where would be the fun in being in charge if you always had to ask permission from the people you rule over? And I am certainly not alone in wanting to scream with rage and impotence ever since your magnificent show of force, certainly not the only one to feel defiled after the spectacle.

      It is not at all surprising that the César Academy would award Roman Polański the prize for best director in 2020. It’s grotesque, it’s insulting, it’s vile, but it’s not surprising. When you award 25 million euros to a guy to make a TV film, the message is in the budget. If the fight against anti-Semitism interested French cinema, we’d know it by now. However, the voice of the oppressed who seize the change to tell their story, we can understand how that might bore you. So when you heard people talking about the subtle comparison between a filmmaker being heckled by a hundred feminists in front of three movie theatres and Dreyfus, a victim of French anti-Semitism at the turn of the last century, you jumped on board. 25 million euros to make this comparison. Amazing. We ought to acknowledge the investors, because to pull together that kind of budget, everyone had to be in on the game: Gaumont Distribution, the CNC, France 2, France 3, OCS, Canal +, RAI… everyone reached into their pockets, and deeply, for once. You closed ranks, you defended one of your own. The strongest defend their rights: it’s part of your elegance, rape is even the foundation of your very style. The law protects you, the courtroom is your domain, the media belongs to you. And that’s exactly what a major fortune is there for: to control the bodies of those who have been declared subaltern. Bodies that clam up, that don’t tell stories from their point of view. The time has come for the richest to hear this message: the respect we owe them will from now on extend to their dicks, stained with the blood and the faeces of the children they’ve raped. Whether at the Assemblée Nationale or in the culture—enough hiding, enough pretending not to be upset. You require entire and constant respect, whether we’re talking about rape, the brutality of your police, the Césars, your retirement reform. That is your politics: that victims remain silent. It comes with the territory, and if you have to get the message to us through terror you don’t see what the problem is. Your sick pleasure, above all. And the only people you tolerate around you are the most docile of lackeys. There is nothing surprising in the fact that you’ve thus sanctified Polański: it’s always money we’re celebrating; in these ceremonies we don’t give a shit about the cinema. Or the audience. It’s the striking capability of your own monetary power that you are worshipping. It’s the massive budget you’ve given him as a sign of support that you were saluting—and through him, your own power that must be respected.

      It would be pointless and inappropriate, in a comment on this ceremony, to separate the bodies of cis men from those of cis women. I don’t see any difference of behaviour. It is understood that these major prizes continue to be the exclusive domain of men, because the underlying message is: nothing must change. Things are very good as they are. When [the comedian and mistress of ceremonies Florence] Foresti left the awards and declared herself ‘disgusted’, she didn’t do it as a woman—she did it as an individual who was taking the risk of turning the profession against her. And she did it as an individual who is not entirely at the mercy of the film industry, because she knows you don’t have the power to deprive her of an audience. She was the only one who dared make a joke about the elephant in the room; everyone else avoided mentioning it. Not a word about Polański, not a word about Adèle Haenel. We all dine together, in this milieu; we all know how it goes. For months you have had your panties in a twist that part of the public is being listened to, and for months you have suffered because Adèle Haenel has spoken up about her experience as a child actress, from her own point of view.

      So all the bodies in that room that evening had been gathered together with one end in mind: to validate the absolute power of the men in charge. And the men in charge love rapists. That is, those who are like them, who are powerful. They don’t love them in spite of the rapes, because they have talent. They find them talented and stylish because they are rapists. They love them for that. For the courage they have to acknowledge the sickness of their pleasure, their idiotic and systematic drive to destroy the other, the destruction, in truth, of everything they touch. Your pleasure dwells in preying, that is your only understanding of style. You know very well what you are doing when you defend Polański: you demand to be admired even in your delinquency. It is this demand which results in everyone at the ceremony being subject to a law of silence. They blame political correctness and social media, as if this code of silence were something recent, the fault of the feminists, but it’s gone on like this for decades. During French cinematic ceremonies, you never joke about the bosses’ sensitivities. So everyone shuts up, everyone smiles. If the child rapist were the bin man there would be no mercy—police, prison, thunderous proclamations, victim defence and general condemnation. But if the rapist is a powerful man: respect and solidarity. Don’t speak in public of what goes on doing castings or pre-production or during filming or promotion. It’s well-known. The law of silence prevails. Respect for this advice is how you choose whom to hire.

      And although we’ve known this for years, the truth is we’re always surprised by the overconfidence of power. That’s what’s so amazing, in the end—it’s that you get away with your dirty tricks every time. Every time, it’s humiliating to see the participants take their place on stage, whether it’s to announce or to receive a prize. We see ourselves in them—not only me because I’m an insider, but anyone watching the ceremony. We identify with them and are humiliated by proxy. So much silence, so much submission, so much pressing into servitude. We recognise ourselves. We want to die. Because at the end of the night, we know that we are all the employees of this whole heap of shit. We are humiliated by proxy when we see them keep quiet even though they know that Portrait of a Lady on Fire won’t receive a single one of those big prizes at the end, and only because Adèle Haenel spoke up and because somehow they have to make the victims understand that though they might want to tell their stories, they would do well to think twice before breaking the vow of silence. Humiliated by proxy that you dared to nominate two female directors who have never received and probably never will receive the prize for best director so that you can give it to Roman fucking Polański. Himself. [Both words in English in the original] In your face! You are, decidedly, ashamed of nothing. 25 million, that’s more than fourteen times the budget of Les Misérables [dir. Ladj Ly, which won best film], and the guy can’t even claim his film was one of the five most-seen films of the year. And you reward him. And you know very well what you’re doing—that the humiliation experienced by an entire segment of the population who got your message loud and clear will spill over into the following prize, the one you gave to Les Misérables, when you bring onto the stage the most vulnerable bodies in the room, the ones which we know risk their lives at the slightest police inspection, and if there are no girls among them at least we see they are intelligent and can tell there is a direct link between the impunity of the famous director that night and the situation in the neighbourhood where they live. The female directors who awarded the prize of your impunity, the directors whose awards are stained with your dishonour— same struggle. They each are aware that as employees of the film industry, if they want to work tomorrow, they have to shut up. No joke. That’s the spectacle of the Césars. And what timing—three months of strikes to protest reforms to the retirement system that we don’t want, which you passed by force. The same message conveyed to the people at the same time: ‘Shut up, keep your mouths shut, shove your consent up your ass, and smile when you pass me in the street because I am powerful, because I have all the money, because I am the boss.’

      So when Adèle Haenel got up, it was a sacrilege on the move [en marche, a nice dig at Macron’s political party]. A repeat offender of an employee, who didn’t force herself to smile when her name was dragged through the mud in public, who didn’t make herself applaud the spectacle of her own humiliation. Adèle got up, as she had already to say look, this is how I see the story of the filmmaker and the adolescent actress, this is how I lived it, how I carry it with me, how it sticks to my skin. Because you can tell us about it any way you like, your idiotic distinction between the man and the artist—all victims of rape know there is no miraculous division between the body that is raped and the body that creates. We carry around what we are and that’s that. Explain to me how I should take advantage of her and then shove a violated girl out the door of my office to get down to work, you bunch of clowns.

      Adèle got up and left. On the 28th of February we didn’t learn much we didn’t already know about the French film industry, but we did learn how to wear an evening gown: like an Amazon [guerrière]. How to walk in high heels: as if we were going to tear the whole building down. How to walk with our heads held high, our necks rigid with anger, and our shoulders bare. The most beautiful image in forty-five years of the ceremony: Adèle Haenel going down the stairs to leave, while you’re all applauding. Now we know how it works, someone who walks out while telling you to fuck off. I would trade 80% of my feminist books for that image. That lesson. Adèle, I don’t know if I’m male gazing you or female gazing you but I keep love gazing you [all in English and as verbs] on my phone for that exit. Your body, your eyes, your back, your voice, all your gestures say it: yes, we are dumb bitches, we are the ones who’ve been humiliated, yes, we only have to shut our mouths and take your blows, you’re the boss, you have the power and the arrogance that goes with it, but we will not remain seated without saying anything. You do not have our respect. We’re getting the hell out. Enjoy your bullshit on your own. Celebrate yourselves, humiliate each other, kill, rape, exploit, smash everything that falls between your hands. We’re getting up and we’re getting out. It’s probably a prophetic image of the days to come. The real difference is not between men and women, but between the dominators and the dominated, between those who intend to suppress the story and impose their decisions and those who are going to get up and get out while complaining, loudly. It’s the only possible response to your politics. When it’s no longer tenable, when it goes too far, we’re going to get up and get out while hurling insults at you. Even if we are your subalterns, even if we take your shitty power on the chin, we despise you. You make us want to vomit. We have no respect for the mockery you make of respectability. Your world is disgusting. Your love of the strongest is sick. Your power is sinister. You are a gruesome bunch of imbeciles. The world you created to reign over the wretched lacks oxygen. We’ve been getting up and we’re getting the hell out. It’s over. We’re getting up. We’re getting out. We’re shouting: Go fuck yourselves.

    • Vendredi dernier, pour la première fois depuis un paquet de temps, les flics ont mis les casques et tiré les lacrymos à un rassemblement féministe ; pour la première fois depuis longtemps, on les a débordés même si c’est rien qu’un peu. Ce soir-là, on s’est senties puissantes ensemble, entre meufs, on a mis nos corps ensemble, pour que de victimes nous nous changions en menace et en vengeance : parce que si certain.es se lèvent et se cassent, nous, de plus en plus nombreuses, on se soulève et on casse.

      https://paris-luttes.info/il-y-a-ceux-qui-se-taisent-il-y-a-13599

      Le jour où les hommes auront peur de se faire lacérer la bite à coups de cutter quand ils serrent une fille de force, ils sauront brusquement mieux contrôler leurs pulsions “masculines”, et comprendre ce que “non” veut dire.

      Virginie Despentes, King Kong Théorie, 2006.

  • Microbiote, les fabuleux pouvoirs du ventre

    Ces #bactéries, #phages et #champignons essentiels à notre équilibre nous sont transmis à la naissance et constituent notre microbiote, ou flore intestinale. Longtemps méconnu, ce microbiote dévoile peu à peu ses secrets et mobilise des milliers de chercheurs dans le monde. Il laisse espérer une #révolution_scientifique. Non seulement les microbes qui le composent s’avèrent indispensables à notre bien-être, mais ils ouvrent un nouveau #champ_thérapeutique : le transfert d’#excréments_humains se révèle ainsi efficace dans le #traitement de certaines #pathologies_intestinales.


    https://boutique.arte.tv/detail/microbiote_les_fabuleux_pouvoirs_du_ventre
    #film #santé #obésité #alimentation #additifs_alimentaires #antibiotiques #césarienne #bactéries #maladie #flore_intestinale #microbiote #maladie_chronique #médecine #transplantation_fécale #immunothérapie #science #intestin

  • Netflix développe une nouvelle mini-série sur la drogue avec le showrunner de « Narcos : Mexico » - ladepeche.fr
    https://www.ladepeche.fr/2020/02/19/netflix-developpe-une-nouvelle-mini-serie-sur-la-drogue-avec-le-showrunner

    La version française de l’article de Patrick Radden Keefe a été publiée par C&F éditions sous le titre : « Addiction sur ordonnance : la crise des antidouleurs ». https://cfeditions.com/addiction

    Relaxnews) - La guerre contre la drogue continue sur Netflix. Le géant américain s’est une nouvelle fois entouré d’Eric Newman, le showrunner de « Narcos : Mexico », pour développer une mini-série sur le trafic de drogue. « Painkiller » s’intéressera aux origines de la crise des opioïdes qui a secoué toute l’Amérique, entraînant une vague de décès et d’addictions due à la consommation excessive de médicaments tels que le fentanyl, l’oxycodone et la Vicodine.

    Huit épisodes ont d’ores et déjà été commandés par Netflix qui a choisi Peter Berg ("The Leftovers") pour réaliser cette mini-série. Eric Newman, le showrunner de la série originale Netflix « Narcos : Mexico », fait partie des producteurs exécutifs aux côtés de Micah Fitzerman-Blue et Noah Harpster, qui prendront la place de co-showrunners.

    Ces derniers signeront également le scénario de « Painkiller » en s’inspirant du travail de l’ancien journaliste du New York Time, Barry Meier, avec son livre « Pain Killer : An Empire of Deceit and the Origin of America’s Opioid Epidemic » paru en 2018 et du papier du journaliste Patrick Radden Keefe, « The Family That Built an Empire of Pain », publié le 23 octobre 2017 dans le New Yorker. Les journalistes Barry Meier et Patrick Radden Keefe interviendront comme consultants sur le projet. Pour le moment, le casting n’a pas été dévoilé et aucune date de diffusion n’a été évoquée.

    « Eric Newman a raconté de façon magistrale le trafic de drogue pendant des années, et maintenant je suis ravi de le voir unir ses forces avec l’incroyable Alex Gibney, Micah Fitzerman-Blue et Noah Harpster pour porter une vision plus large sur l’épidémie d’opioïdes », a déclaré Cindy Holland, vice-présidente des contenus chez Netflix. « Associée à la réalisation de Peter Berg, +Painkiller+ promet d’être un point de vue puissant derrière les gros titres d’une tragédie qui se déroule en temps réel », a-t-elle rajouté.

    Eric Newman a travaillé avec Netflix pour la série « Hemlock Grove » entre 2013 et 2015, signant le début de sa collaboration avec le géant du streaming en tant que producteur exécutif. Il a par la suite été producteur de la première saison et showrunner sur la deuxième saison de « Narcos ». Un rôle qu’il a repris pour « Narcos : Mexico », dont la deuxième saison est sortie récemment sur la plateforme.

    Micah Fitzerman-Blue et Noah Harpster ont signé le scénario de « Un ami extraordinaire » avec Tom Hanks, récemment nommé aux Oscars.

    #Addiction_ordonnance #Patrick_Radden_Keefe #Netflix #C&F_éditions

    • Message reçu via la mailing-list de lutte contre les réformes dans l’ESR... autour du #rapport :
      Le pilotage et la maîtrise de la masse salarialedes universités


      https://cache.media.enseignementsup-recherche.gouv.fr/file/2019/58/6/IGAENR-IGF_Pliotage_maitrise_masse_salariale_universitespdf_1245586.pdf

      Dans le contexte actuel de mobilisation, le #MESRI va nous expliquer que c’est un rapport qui ne l’engage absolument pas et que tout peut être discuté. À sa lecture, on comprend bien que le Gouvernement, qui écoute plutôt Bercy que le MESRI, n’a pas besoin de la LPPR. Tout est déjà en place pour poursuivre la transformation des établissements en « #universités_entrepreneuriales » qui trouveront, sous la contrainte, des marges de gestion. Les universités ne manquent pas de moyens, elles sont seulement mal gérées.

      Le projet de #budget pour l’année 2021 mettra en place l’étape décisive demandée par Bercy : la non compensation du #GVT.

      –----------

      Quelques citations choisies du rapport rendu par les deux inspections, il y a presque un an. Remarques de Pierre Ouzoulias (signalées avec —>) :

      Bien que se situant, tout financement confondu, juste au-dessus de la moyenne des pays de l’OCDE les universités sont à ce jour globalement correctement dotées par le #budget de l’État pour couvrir leur masse salariale au regard de la situation des #finances_publiques. Les situations peuvent toutefois varier selon les établissements en raison soit des défaillances du mode d’allocation des ressources, soit de choix de gestion individuels.

      –-> Le budget de l’ESR est suffisant au regard de la réduction de la dépense publique

      La part des ressources propres dans les recettes des universités, toutes universités confondues, n’a pas évolué entre 2011 et 2017. Les universités fusionnées, les universités scientifiques ou médicales (USM) et les universités de droit, économie, gestion DEG ont un taux de ressources propres 2017 proche de 20 %, en augmentation d’un point depuis 2012. Les universités pluridisciplinaires, avec ou sans santé, connaissent un taux de ressources propres supérieur à 16 %, stable depuis 2013. Les universités de lettres et de sciences humaines (LSH) ont le plus faible taux de ressources propres, proche de 13 % depuis 2011.

      –-> La solution : les ressources propres, les mauvais élèves : les #SHS

      Le nombre d’équivalent temps plein travaillé (#ETPT) de l’enseignement supérieur a augmenté de + 3,6 % de 2010 à 2017. En retranchant le « hors plafond », l’évolution est de – 3,22 % ; jusqu’en 2013 la réduction est significative (les effectifs représentant à cette date 95,71 % de ce qu’ils étaient en 2010), puis l’augmentation est constante, les effectifs revenant en 2017 à 96,78 % de ce qu’ils étaient en 2010.

      –-> Un constat partagé : la #masse_salariale augmente grâce à la #précarisation

      Un principe participatif est au fondement du fonctionnement des universités. Les élus qui représentent le corps enseignant, les personnels et les étudiants participent à la gestion et à l’organisation des activités des établissements. Le conseil d’administration ne compte que huit personnalités extérieures à l’établissement pour 24 à 36 membres. Il détermine la politique de l’établissement, approuve le contrat d’établissement, vote le budget et fixe la répartition des emplois.
      Les unités de formation et de recherche (#UFR) sont dirigées par un directeur élu par un conseil de gestion, lui-même élu, dans lequel le poids des personnels reste important.
      Dès lors, les mesures correctives en matière de gestion de masse salariale, qui conduisent nécessairement à remettre en cause des situations acquises sont difficiles à prendre pour un élu et interviennent trop souvent tardivement. La mission a constaté qu’elles s’imposent plus facilement en situation de crise que dans le cadre d’une gestion prévisionnelle visant à construire un modèle économique stable.

      –-> Les élu-e-s : un obstacle à une gestion efficiente des #ressources_humaines

      Trois comportements universitaires types en matière de maîtrise de la masse salariale :
      -- Une partie des universités a recours à une #régulation, plus qu’à une #optimisation, de la masse salariale. […] Elles mobilisent leurs #ressources_propres afin de ne pas avoir à engager des actions de recherche d’efficience jugées déstabilisantes.
      -- D’autres établissements se caractérisent par une volonté d’optimiser la masse salariale, condition nécessaire au déploiement du projet d’établissement. […] Les universités associées à ce deuxième comportement type sont en constante recherche d’#efficience.
      -- Enfin, certaines universités privilégient une recherche de la structure d’emploi conforme aux modèles économiques choisis. […] Ce troisième comportement type est celui d’universités que l’on peut qualifier « d’entrepreneuriales » avec des taux d’encadrement relativement élevés et des modèles économiques atypiques.

      –-> Le modèle : les « #universités_entrepreneuriales »

      Le lien entre masse salariale et stratégie doit passer par une #gestion_prévisionnelle_des_emplois et des compétences se traduisant dans un schéma directeur pluriannuel des #emplois. Celui-ci requiert de s’adosser à une réflexion interne pour établir une doctrine en matière de choix des statuts adaptés aux activités et à leurs évolutions anticipées, compatibles avec la situation financière et sociale d’ensemble de l’établissement et cohérents avec le projet d’établissement.

      –-> Le recours aux précaires : un instrument de gestion efficace

      Les prévisions de #départs_en_retraite des #titulaires montrent que les universités ne sont pas dépourvues de possibilités en termes de #gel, d’annulation ou/et de #redéploiements d’emplois par statut et catégorie.
      Pour conserver un rapport raisonnable, il faudrait combiner l’absence de remplacement d’un poste pour trois départs d’enseignants et d’un poste pour quatre départs de #BIATSS. Cela reviendrait à la suppression de 2 497 emplois de BIATSS et 992 emplois d’enseignants pour un impact de masse salariale hors charges patronales respectivement de 76 M€ et 41 M€.
      Ces chiffres ne sauraient constituer une cible ; ils n’ont d’autre objet que de montrer que les départs en retraite offrent des possibilités de redéploiement et de #repyramidage sous réserve de conserver une structure d’emploi cohérente et de ne pas affaiblir les activités de formation et de recherche qui constituent les points forts de chaque établissement.

      –-> Le non remplacement des retraités : un moyen efficace d’augmenter la part des non-statutaires

      Les universités ne pilotent cependant pas toujours de manière suffisamment précise cette évolution de structure. En effet, les emplois sous plafond et hors plafond sont suivis de manière distincte. Ils relèvent d’une logique différente pour les seconds qui sont rapportés aux ressources propres et non à l’équilibre économique d’ensemble de l’université. Le nombre d’enseignants contractuels lié aux #PIA s’inscrit notamment dans une logique particulière et augmente de manière significative. À terme, une partie de ces emplois sera inévitablement pérennisée dans la masse salariale de l’université.

      –-> Éviter la titularisation des contractuels financés par les PIA

      Par ailleurs, le recours aux #contractuels reste pour l’essentiel fondé sur les articles 4 et suivants de la loi n° 84-16 du 11 janvier 1984 portant dispositions statutaires relatives à la fonction publique de l’État. Les universités n’ont que marginalement utilisé l’article L-954 du #code_de_l’éducation qui offre des possibilités plus souples de #recrutement de contractuels (contrat dits « LRU »). En 2016, la moitié des universités comptait moins de trois ETP en contrat #LRU, au moins une sur quatre n’en employant aucun.
      Le recours aux contractuels peut permettre une meilleure #adaptation des effectifs aux besoins. Les personnels recrutés peuvent en effet être permanents ou temporaires, être enseignants – chercheurs, chercheurs ou enseignants ; ou bien cadres administratifs ou techniques. En outre, les universités ont une plus grande maîtrise de leurs situations salariales et de carrière que pour les titulaires dans la mesure où c’est le conseil d’administration qui statue sur les dispositions qui leur sont applicables.
      Dès lors que la plupart des besoins peuvent être indifféremment couverts par des contractuels ou des titulaires, compte tenu de la similitude de leurs profils, l’augmentation de la proportion d’#emplois_contractuels dans les effectifs d’une université a pour conséquence de lui donner davantage de leviers pour piloter ses ressources humaines, sa masse salariale et son #GVT.
      Ensuite, la transformation des #CDD en #CDI doit être maîtrisée pour ne pas résulter uniquement de la règle de #consolidation_des_contrats au bout de six ans. Par exemple, dans certaines universités rencontrées par la mission, la transformation d’un contrat temporaire en CDI est réalisée après examen par une commission vérifiant notamment que le contrat permanent correspond à des besoins structurels.

      –-> Les universités n’utilisent pas encore assez les contractuels

      Ces chiffres montrent que les choix des établissements en matière de #charge_d’enseignement ont un impact significatif sur les effectifs enseignants et donc sur la masse salariale et justifient un pilotage du temps de travail des enseignants. La #responsabilité doit en être partagée entre les composantes de l’université en charge de l’organisation des enseignements et l’échelon central responsable du pilotage économique et de la conformité des choix aux projets de l’établissement. Le pilotage trouve naturellement sa place dans le cadre du dialogue de gestion interne dont la nécessité a été décrite ci-dessus au paragraphe 2.

      –-> Un autre levier : le temps de travail des enseignants

      Compte tenu de ses effets contre-productifs, la mission considère que la compensation du GVT n’a plus lieu d’être s’agissant d’#opérateurs_autonomes, qui sont libres de leurs choix de structure d’emploi ; qu’il revient aux pouvoirs publics de limiter la compensation sur l’impact de la #déformation de la masse salariale des titulaires à la seule compensation des mesures fonction publique relatives au point d’indice ou se traduisant par une déformation des grilles (#PPCR par exemple), et, pour les universités disposant d’un secteur santé, à la compensation des #PUPH en surnombre ; que la maîtrise des universités en matière de recrutement, de #promotion et de gestion individuelle des carrières devrait être renforcée ; que le dialogue de gestion doit permettre à chaque établissement de faire valoir sa trajectoire de masse salariale.

      –-> Le non compensation du GVT : un outil efficace pour obliger les universités à s’adapter

      Il serait préférable d’en revenir au respect de la #trajectoire_LPFP, et de ne s’en écarter, en plus ou moins, qu’au vu de variations significatives constatées (et non anticipées) sur les dépenses ou les recettes des établissements. Cela semble une condition de la pluri annualité et de l’autonomie des opérateurs.

      –-> La loi de programmation des finances publiques est la seule référence

      Proposition n° 9 : connecter la #modulation des moyens à l’évaluation de l’activité et de la #performance universitaires ;

      –-> Où l’on retrouve l’#évaluation !

      La mission constate également que les universités visitées ont fait des progrès dans leurs modalités de gestion depuis le passage aux #RCE et qu’une marche supplémentaire peut désormais être franchie sous réserve que les outils, notamment informatiques, à disposition soient améliorés.
      Elles disposent de réelles marges de manœuvre leur permettant de gérer leurs effectifs de manière plus efficiente. Ces marges de manœuvre s’inscrivent cependant dans des logiques de #pilotage à moyen et long terme compte tenu de la #faible_plasticité_naturelle_des_effectifs. Pour pouvoir être mises en œuvre, elles supposent une capacité à construire des schémas d’#effectifs_cibles à trois ou quatre ans.
      En conséquence, la mission préconise, d’une part d’entamer une #refonte du système actuel de #répartition_des_crédits largement fondé sur la reconduction des enveloppes acquises lors du passage aux RCE, d’autre part, de mettre en place une #contractualisation État/université dans le cadre de #contrats_de_performance, d’objectifs et de moyens pluriannuels, enfin, de développer une architecture d’information permettant d’instaurer une véritable transparence entre les acteurs et en leur sein.

      –-> Conclusion : c’est mieux, mais il faut accélérer !

      #flexibilité #plasticité #performance

    • #Frédérique_Vidal arrive aux journées sciences humaines et sociales de L’Agence nationale de la recherche. Mais que va-t-il donc pouvoir se passer ?


      Intervention des facs et labos en lutte

      « Nous nous rallions à la revendication votée par la coordination des facs et labos en lutte, et demandons la suppression de l’ANR et l’affectation de la totalité de ses crédits et de son personnel là où ils sont nécessaires : dans les universités et établissements de recherche »
      Elle annonce ce qu’il y aura dans la LPPR : programmer budgétairement, sécuriser l’investissement, en arrêtant d’avoir l’objectif incantatoire de 3% du PIB. Favoriser l’#attractivité (c’est vrai qu’avec 100+ candidat.e.s par poste, l’attractivité est un vrai problème)
      #Vidal veut renforcer l’#ANR pour la mettre au niveau des agences des autres pays. Pour ça, réaffectation des crédits des labos pour soutenir les #projets (hop, moins de financements récurrents).
      L’idée est lâchée, Vidal annonce la modulation des services : les porteurs de projets ANR pourront enseigner moins, il y aura + de places à l’#IUF, + de #congés_de_recherche, pour arriver à une année #sabbatique tous les 7 ans (ce qui est un droit depuis le décret de 1984)
      Et allez, c’est parti : pour Vidal, il faut surtout augmenter les #investissements_privés dans la recherche, pour arriver à 2/3 du financement de la recherche sur #fonds_privés. Bye bye le service public de la recherche !
      Elle est cash : la grande majorité des transformations sera faite par #circulaires, de toute façon. La LPPR visera juste à faire sauter les #verrous_législatifs.
      Questions dans la salle : « Vous voulez donner des #décharges d’enseignement aux personnes qui ont des projets ANR, mais on est en #sous-encadrement massif dans les laboratoires ? La seule solution est une création massive d’emplois titulaires d’enseignant.e.s chercheur.e.s »
      (Non)-réponse : les communautés doivent s’organiser. Toutes les missions des EC doivent être prises en compte pour l’avancement. Quand un.e chercheur.e gagne un projet, tout le labo en bénéficie. Bref, rien sur la question de l’emploi titulaire.
      Une autre question revient dessus : que prévoyez-vous pour l’#emploi_titulaire ? La moitié des cours, dans certains départements, sont donné.e.s par des vacataires. Et encore une autre : le nombre de postes permanents ne cesse de baisser, comment on fait ?
      La solution de Vidal : refinancer la recherche avec des #contrats_d'objectifs-moyens, pour donner de la #visibilité aux établissements, mais c’est ensuite à chaque établissement de définir sa politique d’emploi. « Les emplois, ce n’est pas mon travail », dit la ministre.
      La loi va fixer un plancher de #recrutements, mais je ne vais pas annoncer des postes, dit la ministre. Elle rappelle que le précédent gouvernement a annoncé 5000 postes, et aucun n’a été créé. La solution : des contrats avec les établissements, et plus de #post-docs plus longs.
      Les doctorant.e.s financé.e.s ne sont pas des #précaires, pour Vidal. « Quand on est doctorant, on est étudiant ». La seule chose que fait le contrat doctoral, c’est de permettre à des étudiant.e.s « de ne pas travailler à côté de ses études »
      Enfin, Vidal réitère que la solution face à la #précarité, ce n’est pas l’emploi titulaire, mais des #CDI financés projet après projet, qui, à la différence des #fonctionnaires, pourront se faire virer si nécessaire (pardon, elle parle de « #rupture_de_contrat »)
      Un collègue demande comment il fait pour bosser alors qu’il n’a même pas de bureau. Air surpris de la ministre, qui répond directement « non mais je vais pas m’occuper d’attribuer des bureaux » et « Vous n’avez qu’à aller au campus Condorcet ». Le mépris.

      https://twitter.com/SamuelHayat/status/1232223691750113285

      Vous pourrez trouver ici la vidéo de l’interpellation de la ministre, le récit plus complet de l’action et des annonces faites, ainsi que la lettre qui a été lue et distribuée :
      https://universiteouverte.org/2020/02/25/interpellee-par-les-facs-et-labos-en-lutte-vidal-precise-les-orie
      https://www.youtube.com/watch?v=P-6dZghVhS0&feature=emb_logo

    • Comme dit un collègue :

      Le gouvernement va vite, très vite ...
      Le décret relatif au « #contrat_de_projet » dans la fonction publique est paru au Journal officiel (27.02.2020) :

      https://www.legifrance.gouv.fr/affichTexte.do?cidTexte=JORFTEXT000041654207&categorieLien=id

      A mettre en lien avec ces paroles de la ministre #Vidal :

      "La grande majorité des transformations sera faite par #circulaires, de toute façon. La LPPR visera juste à faire sauter les #verrous_législatifs.

      https://seenthis.net/messages/827430#message827565

      Ils ne sont pas #en_marche, ils sont #au_galop !

    • L’Assemblée adopte le vrai - faux engagement de #revalorisation des enseignants

      Peut-on imaginer des députés adopter un article en sachant qu’il est inconstitutionnel ? Peut-on imaginer une majorité promettre solennellement une mesure sociale à travers un texte sans valeur juridique ? Non. C’est pourtant ce que la majorité a fait à l’Assemblée nationale le 24 février en adoptant deux amendements qui inscrivent dans un nouvel article de la loi retraite l’engagement de faire une loi de programmation sur la revalorisation des enseignants. Or, depuis l’avis du Conseil d’Etat sur cette loi, on sait que cette disposition est anticonstitutionnelle. Les députés de la majorité ont adopté un article en sachant qu’il viole la constitution. Et ils s’engagent solennellement vis à vis des enseignants à rien.

      Que faire de la promesse de loi de programmation ?

      On le sait. Les alinéas 14 et 15 de l’article 1er de la loi sur les retraites mentionnaient un engagement gouvernemental pour la revalorisation des enseignants. « Le Gouvernement s’est engagé à ce que la mise en place du système universel s’accompagne d’une revalorisation salariale permettant de garantir un même niveau de retraite pour les enseignants et chercheurs que pour des corps équivalents de même catégorie de la fonction publique... Cet engagement sera rempli dans le cadre d’une loi de programmation dans le domaine de l’éducation nationale et d’une loi de programmation pluriannuelle de la recherche ». Or l’avis du Conseil d’Etat sur ce projet de loi estime que cette disposition est anticonstitutionnelle, une loi ne pouvant contraindre le gouvernement à déposer un autre projet de loi.

      Face à ce constat, la majorité a déposé plusieurs amendements. Ainsi, M Naegelen et des députés UDI ont pris au mot le gouvernement et proposé de retirer les alinéas 14 et 15 pour les remplacer par une mention garantissant le maintien des pensions au niveau d’avant la loi. Mme Rilhac proposait de remplacer les alinéas par une formule bien vague demandant au gouvernement de « mettre en oeuvre tous les moyens nécessaires à la réussite de cet engagement ».

      Deux amendements LREM réparent l’article 1 et créent un nouvel article

      Finalement c’est la formule proposée par le rapporteur LREM, M. Gouffier-Cha qui a été retenue. Un premier amendement (9998) propose de supprimer les deux alinéas. Un second (10 000) crée un article venant après l’article 1 reprenant le texte initial de la loi. « La mise en place du système universel de retraite s’accompagne, dans le cadre d’une loi de programmation, de mécanismes permettant de garantir aux personnels enseignants ayant la qualité de fonctionnaire et relevant des titres II, III et VI du livre IX du code de l’éducation une revalorisation de leur rémunération leur assurant le versement d’une retraite d’un montant équivalent à celle perçue par les fonctionnaires appartenant à des corps comparables de la fonction publique de l’État. Les personnels enseignants, enseignants chercheurs et chercheurs ayant la qualité de fonctionnaire et relevant du titre V du livre IX du code de l’éducation ou du titre II du livre IV du code de la recherche bénéficient également, dans le cadre d’une loi de programmation, de mécanismes de revalorisation permettant d’atteindre le même objectif que celui mentionné au premier alinéa du présent article. »

      « N’avez vous pas honte ? »

      Le ministre L. Pietraszewski parle « d’un engagement clair du gouvernement » et rappelle les « 500 millions pour 2021 » annoncés par JM Blanquer. La député Mme Rilhac (LREM) dit que « demain on veut atteindre 2000 euros par mois dès les 5 premières années d’enseignement ». La députée LREM Sylvie Charrière dit « qu’on peut pinailler sur l’histoire de la constitutionnalité, mais en attendant le geste est important, fort, c’est une loi de programmation et c’est 10 milliards qui seront sur la table ».

      En réalité, par ce moyen, la majorité sauve l’article 1 de son projet de loi. Mais il ne fait aucun doute que le Conseil constitutionnel n’annule le nouvel article créé par cet amendement. Les députés de la majorité ont en toute connaissance de cause adopté un article de loi anticonstitutionnel. Ils ont en même temps pris un engagement solennel envers les enseignants en sachant pertinemment que le Conseil constitutionnel les délivrerait de cet engagement.

      « Vous pourriez aussi bien marquer vos promesses aux enseignants de bottes de 7 lieues que ça aurait la même valeur », ironise JL Mélenchon devant l’Assemblée. « N’avez vous pas honte de dire aux français que vous allez adopter un amendement dont vous avez la certitude qu’il n’a pas le début d’une portée juridique... de dire aux enseignants que vous leur promettez une augmentation alors que dans la réforme vous voterez des paramètres diminuant leur pension », s’indigne Guillaume Larrivé (LR).

      Une journée historique

      « Nous serions heureux que M. Blanquer, ministre de l’éducation nationale, vienne s’expliquer sur ce point devant la représentation nationale », a déclaré M Juanico (PS). « Sachez cependant que, pour compenser la baisse de pension des enseignants, il faudrait non une prime mensuelle de quatre-vingt-dix à cent euros, mais une augmentation de traitement de 1000 à 1500 euros, en salaire et en revalorisation du point de la fonction publique – soit 10 à 12 milliards de masse salariale en plus. Puisque vous prévoyez d’ajouter seulement 500 millions en 2021 au budget de l’enseignement, notamment de l’enseignement supérieur et la recherche, nous sommes loin du compte. Nous souhaitons obtenir des explications, car beaucoup d’enseignants nous interrogent sur la revalorisation de leur traitement et la compensation de la diminution de leur pension ».

      « Durant le précédent quinquennat, le régime de prime des enseignants du premier degré a été aligné sur celui des enseignants du second degré ; en outre, le protocole PPCR – parcours professionnels, carrières et rémunérations – a été adopté, après deux ans de négociation avec les partenaires sociaux. Or vous n’avez eu de cesse de repousser son application, en 2018. Ainsi, avec ces projets de lois de programmation, vous rendrez aux enseignants en 2021 ce que vous leur devez depuis cette date », explique B Vallaud (PS).

      « Cela fait trois discussions budgétaires que, systématiquement, les députés de la gauche de l’hémicycle vous demandent de créer davantage de postes d’enseignants, et d’augmenter leurs rémunérations. À chaque fois, vous nous avez expliqué que ce n’était pas possible. À chaque fois, vous avez convenu qu’ils étaient peut-être moins bien payés que dans les autres pays européens, tout en refusant d’y voir un vrai problème. Or aujourd’hui vous prenez des airs de sauveur en annonçant que vous augmenterez leurs salaires. Vous prétendez en plus que la mesure n’a rien à voir avec la réforme des retraites ! Cela ressemble à une supercherie », dit Ugo Bernalicis (LFI). « Des promesses comme celles-ci figurent aux alinéas 14 et 15 de l’article 1er ou à l’article 1er bis, cela ne change rien : c’est une manœuvre pour inciter les enseignants à ne plus manifester et à cesser de se mobiliser contre votre projet pourri. »

      La journée du 24 février est historique. Le premier article de la loi retraite est adopté. Surtout on aura vu des députés voter un texte contraire à la constitution et inscrire dans une loi un engagement qui sera détruit dans quelques mois par le Conseil constitutionnel. Quel adjectif pour cette pratique politique ?

      http://www.cafepedagogique.net/LEXPRESSO/Pages/2020/02/18022020Article637176555371040344.aspx
      #constitutionnalité

    • La LPPR, sa communication et la politique de la recherche. À propos d’une tribune, d’un communiqué et d’une interview

      Voilà plusieurs semaines que l’ensemble les directions de laboratoires, des instances scientifiques du Comité national de la recherche scientifique (CoNRS) et du Centre national de la recherche scientifique (CNRS) et du sont vent debout contre les annonces des groupes de travail qui ont préparé la future Loi de Programmation pluriannuelle de la recherche (LPPR), plusieurs d’entre nous avons été surpris·es de découvrir que le CNRS utilisait son compte Twitter non pas pour communiquer sur l’ensemble des prises de position publiques de ses instances, pourtant remarquables par leur unanimité, mais pour faire connaître une pétition en faveur de la LPPR. C’est l’occasion de revenir sur ce contrefeu (1) et reproduire l’entretien que le président du Comité national de la recherche scientifique Olivier Coutard (2), a offert au journal d’entreprise CNRS info.
      1. Contrefeu : les émérites au secours des directions des EPST

      Le 20 février 2020, le compte Twitter du CNRS informe la communauté de la parution d’une tribune dans un quotidien sous péage. Le texte, très court — 1440 caractères — peut être intégralement lu sans payer.
      « La communauté scientifique attend un engagement financier
      fort et durable pour la recherche »

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      Monsieur le Président de la République,

      vous avez annoncé, le 26 novembre 2019, votre intention de porter la dépense intérieure de recherche et développement (DIRD) à 3 % de notre produit intérieur brut. Pour la seule partie publique, cela représente une augmentation de plus de six milliards d’euros qui, dans le contexte actuel que nous connaissons tous, est une somme très importante. Mais le besoin est là, et l’urgence est manifeste. Plusieurs pays ont fait de la science une priorité. Vous l’avez affirmé vous-même pour la France : « Tous nos défis ont besoin de science et de technologie pour les relever ».

      C’est une question de souveraineté et, en cela, la France doit se donner les moyens de garder sa place sur la scène internationale. Nous avons besoin d’une loi de programmation pluriannuelle de la recherche, définie par rapport aux défis qui nous font face et correspondant à nos attentes et nos besoins. Comme vous le savez, il existe une inquiétude dans la communauté scientifique face à des informations qui sont encore fragmentaires.

      Sans présumer de la rédaction finale de la loi, nous tenons à vous affirmer que la communauté scientifique soutient l’idée d’une loi de programmation et attend un engagement financier fort et durable pour la recherche. Elle saura répondre aux enjeux pour notre pays. Cette loi marquera votre engagement et celui de la France sur la durée. Elle doit avoir des effets tangibles dès 2021.

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      En substance, les 180 signataires demandent plus d’argent pour la recherche. Soit. Si possible de un financement pluriannuel. Re-soit.

      De là à vouloir la loi de programmation pluriannuelle de la recherche telle que les rapports des groupes de travail préparatoires la préfigurent, il y a un pas qu’on ne peut .franchir sans examiner le dispositif de signatures et l’environnement éditorial1

      Mettons de côté d’emblée la pétition associée à la tribune du Monde : les quelques 200 signataires, quatre jours après le lancement de la pétition fait peine à voir, d’autant qu’elle mêle aussi bien des citoyen-nes, des industriels et des scientifiques qui, tels cet Arnaud Pothier.

      180 signataires de la tribune, répartis par âge et par sexe (Crédit : PGE)

      La pétition émane-t-elle bien des « premiers signataires », comme il est courant dans un cas de péitionnement ? On peut s’interroger sur le profil des premiers signataires, bien hiérarchisés entre « Prix Nobel, Médaille Fields, Médaille d’or du CNRS » ; « Responsables d’institutions, organismes et universités » : et « Membres de l’Academié des sciences ». Le premier groupe a une moyenne d’âge de 75 ; le second, 66, le troisième 72. Le membre le plus jeune est Cédric Villani, qui n’est plus mathématicien, même s’il est bien médaillé Fields ; le plus âgé, Claude Lévi, professeur honoraire au Muséum national d’histoire naturelle, a 98 ans. Parmi ces signataires du troisième âge avancé, seules 15% de femmes. Le moins que nous puissions dire, c’est qu’à l’exception du groupe des Responsables, il s’agit de personnes qui ont quitté depuis longtemps, en moyenne plus de 5 ans le monde professionnel de l’enseignement supérieur et de la recherche et qu’ils ou elles en perçoivent difficilement les raisons de l’« inquiétude » de personnel à l’emploi très dégradé.

      À tout le moins peuvent-ils ou elle s’accorder sur le besoin de financement de la recherche à hauteur de 3% du Produit intérieur brut, soit un engagement financier durable dans la recherche, sans s’intéresser aux à-côtés dont les groupes de travail nous ont proposé, en particulier en matière d’emploi précarisé.

      Du côté des Responsables, en dépit d’une meilleure homogénéité de classe d’âge (entre 55 et 65 ans), c’est pourtant l’hétérogénéité qui questionne. Au sein des membres de la CURIF,qu’y a-t-il de commun entre un président d’université fraîchement élu par ses pairs, comme Éric Berton (Aix-Marseille Université) ou Yassine Lakhnech (Université de Grenoble Alpes) — dont les positions sont rapportées comme peu éloignées de celles de leurs collègues unanimes, et les présidents à la manoeuvre dans la conduite d’une olitique inégalitaire d’université de recherche vs. université de 2e ordre, comme Jean Chambaz, Sorbonne Université, récemment invité sur France culture, et Manuel Tunon de Lara, Université de Bordeaux, co-auteur du rapport du 2e groupe de travail sur l’attractivité de l’emploi scientifique ?

      Ces derniers ont sans doute plus de proximité avec les apparatchiks du MESRI, qui se déplacent d’un poste de direction à l’autre depuis dix ans, comme Philippe Mauguin, président de l’INRA depuis 2015, qui accompagnait Frédérique Vidal lors de son discours à la cérémonie des vœux du 21 janvier 2020, Alain Fuchs, ancien Pdg du CNRS (2010-2017), qui a mis en œuvre la dégradation consciete de l’emploi pérenne d’abord che les ITA, Antoine Petit, connu pour ses prises de positions élégantes en faveur d’une loi « darwinienne », contre le « bois mort » de la recherche ou encore ses amateurs incapables de jouer la « Champion’s League », L’attelage de ces Responsables, plus ou moins complètement déconnectés des activités d’enseignement supérieur et de recherche, laisse songeur.

      Fallait-il sauver le soldat LPPR par une tribune signée par des figures reconnues mais retraitées ? Ou par un communiquépublié le 24 février 2020, La CPU en phase avec les orientations du projet de loi sur la recherche vide de contenu, ne reposant sur rien, puisque le texte n’est pas connu ? On peut se le demander. Ce texte a continué à froisser la communauté, qui demande de façon constante et publique depuis plus d’un an des financements à la hauteur d’un pays comme la France et une vaste campagne de recrutement. Et surtout, comme l’écrit Olivier Coutard, le président du Comité national de la recherche scientifique — non plus sur Le Monde et le compte Twitter du CNRS, mais dans le Journal du CNRS, non plus en 1500 signes, mais en 15 000 signes — une concertation sincère sur la politique de recherche du MESRI est devenue absolument indispensable.

      2. Olivier Coutard – « Pour une concertation sincère sur la LPPR »

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      Le président de la Conférence des présidents du Comité national (CPCN) revient sur son action à la tête de cette instance de représentation de la communauté scientifique. Face aux inquiétudes exprimées dans les laboratoires, Olivier Coutard plaide pour “une concertation sincère” sur la loi de programmation pluriannuelle de la recherche.

      Quel bilan tirez-vous du fonctionnement de la Conférence des présidents du Comité national (CPCN) après trois années d’exercice de sa présidence ?

      Olivier Coutard : Presque trois ans et demi même… Le premier aspect que j’aimerais souligner, c’est l’engagement remarquable des présidentes et présidents de sections et de commissions interdisciplinaires depuis le début de la mandature. Lors de notre dernière réunion mi-janvier par exemple, les trois quarts des membres de la CPCN étaient présents et la plupart des autres étaient représentés.

      Je ne doute pas que cet engagement perdurera jusqu’à la fin de la mandature. Mais j’en profite pour souligner que ces mandats, qui sont passés de quatre à cinq ans, sont des mandats lourds, même si cette durée de cinq ans a été pensée pour permettre aux sections, au gré des cinq vagues de contractualisation, d’évaluer l’ensemble des unités de recherche relevant de leur périmètre.

      Sur un plan général, il me semble que la CPCN remplit et remplit bien, ses trois grandes missions, à savoir, en premier lieu, l’échange entre les sections et les commissions interdisciplinaires (CID), qui facilite l’adaptation coordonnée de nos instances à un contexte réglementaire et institutionnel en constante évolution, tout en préservant la diversité des pratiques propres à chaque discipline ou champ de recherche. Le dialogue avec la direction du CNRS, qui constitue la deuxième mission, fonctionne bien à mon sens. Enfin, la CPCN s’acquitte d’une fonction non statutaire mais précieuse de représentation de la communauté scientifique nationale.

      Sur ce dernier point, j’avais indiqué dès ma prise de fonction que, selon moi, les positions publiques de la CPCN seraient d’autant plus fortes qu’elles reposeraient sur un consensus très large entre ses membres. C’est ainsi que toutes les motions adoptées par la CPCN depuis le début de la mandature l’ont été à l’unanimité, ce qui tend à prouver que les positions ou les préoccupations qu’elle exprime sont très largement partagées.

      Vous faites référence à vos motions sur le projet de loi de programmation pluriannuelle de la recherche ?

      C. : Pas seulement.

      Notre première prise de position notable a été de faire paraître dans Le Monde début décembre 2018, une tribune dans laquelle nous nous inquiétions de la baisse, décidée par la direction du CNRS, du nombre de postes ouverts au concours chercheurs : 250 au lieu de 300 les années précédentes et même 400 à la fin des années 2000 ! Nous étions et nous restons très préoccupés par cet étiolement programmé, pour reprendre les termes que nous avons employés dans cette tribune.

      Suite à l’annonce par le Premier ministre, en février 2019, de la mise en chantier d’une loi de programmation pluriannuelle de recherche (LPPR), la CPCN, les Conseils scientifiques d’instituts (CSI) et le Conseil scientifique (soit plus de 1100 collègues au total) ont établi ensemble un diagnostic de la situation de la recherche publique en France, assorti de propositions prioritaires. Ces éléments ont été consignés dans un document solennellement approuvé lors de la session extraordinaire du Comité national le 4 juillet dernier.

      J’ajoute qu’une tribune publiée il y a quelques jours dans Le Monde et appelant à mettre en œuvre les propositions du Comité national, a déjà reçu le soutien de plus de 700 directrices et directeurs d’unités, dont plus du tiers des directrices et directeurs d’unités mixtes de recherche (UMR).

      Quant aux groupes de travail mis en place par le ministère de l’Enseignement supérieur, de la Recherche et de l’Innovation (MESRI), leur diagnostic et leurs propositions recoupent les nôtres sur un certain nombre de points, mais en diffèrent sur des aspects majeurs. La question qui se pose est donc de savoir quelles propositions seront retenues dans la loi.

      Soutenez-vous la demande qui a été exprimée en faveur d’un « moratoire » de la loi et de la tenue d’états généraux ?

      C. : Nous subissons aujourd’hui une sorte de moratoire de fait. En effet, alors que les réflexions et travaux préparatoires à la loi ont été initiés il y a un an, nous ne disposons toujours pas d’une première version du projet de loi et la date de présentation de ce texte a été déjà reportée plusieurs fois. Je ne crois pas que ce soit une bonne chose, car cela nourrit les inquiétudes de la communauté scientifique. À titre personnel, je ne suis donc pas favorable à un moratoire prolongé. Je plaide plutôt pour une concertation sincère, aussi rapidement que possible, autour des principales dispositions du projet de loi. J’insiste sur le terme « sincère » car il est essentiel que les attentes très largement exprimées par la communauté scientifique soient véritablement prises en compte.

      Évidemment, les chercheurs ne sont pas les seuls à avoir leur mot à dire sur la politique de recherche de la nation. Mais pour réaliser les ambitions fortes exprimées par le président de la République — et l’on ne peut que se réjouir que l’État ait des ambitions en matière de recherche ! —, une large et profonde adhésion de la communauté scientifique est indispensable. Or force est de constater que cette adhésion n’est pas acquise pour l’instant. Au contraire, une vive inquiétude s’installe parmi les personnels de l’enseignement supérieur et la recherche (ESR), toutes disciplines confondues.

      Comment comprendre cette fronde montante contre un projet qui n’est pas encore écrit ?

      C. : Quelle que soit la manière dont les groupes de travail du MESRI ont travaillé, certaines de leurs propositions apparaissent en décalage important par rapport aux principales attentes exprimées par la communauté et ne semblent pas à-même de résoudre les difficultés identifiées. De surcroît, les déclarations du président de la République et les premières annonces de la ministre de l’Enseignement supérieur, de la Recherche et de l’Innovation ont mis en avant des dispositifs comme les tenure tracks ou les « CDI de mission scientifique » qui sont largement rejetés par les chercheurs et unanimement considérés comme secondaires, compte tenu du besoin de création de postes permanents. Si quelques mesures fortes et d’application immédiate ne viennent pas rassurer la communauté scientifique, la contestation se renforcera. Beaucoup craignent une loi qui « détricoterait » dès maintenant le statut des personnels de recherche et ce qui reste de fonctionnement collectif et collégial et qui annoncerait des moyens financiers pour plus tard peut-être, alors même que le gouvernement aurait pu amorcer le refinancement de la recherche sans attendre le passage de la LPPR.

      Or, quelles sont les attentes de la communauté scientifique ? De l’argent, d’abord, dans les laboratoires, des postes de personnels permanents, de la confiance permettant une simplification forte des procédures administratives. Certaines déclarations générales du président de la République et de membres du gouvernement semblent aller dans le sens de ces attentes, notamment en termes de financement et de simplification. Mais le moins que l’on puisse dire, c’est que pour l’instant les rares mesures concrètes qui ont été évoquées sont très décevantes. Le redéveloppement de l’emploi statutaire n’est pas évoqué, tout au plus sa stabilisation – à un niveau toutefois historiquement bas et dramatiquement insuffisant, toutes catégories de personnels confondues : chercheurs, enseignants-chercheurs, personnels d’appui. Rien n’est dit non plus sur le refinancement des laboratoires et des établissements hors réponses à appels à projets. Les montants financiers évoqués pour la revalorisation des rémunérations sont d’un ordre de grandeur dérisoire par rapport à ce qui, de l’avis général, serait nécessaire. Ainsi, la ministre de l’Enseignement supérieur, de la Recherche et de l’Innovation évoque dans une tribune parue dans Le Monde le 10 février « une première enveloppe de 92 millions d’euros pour engager la remise à niveau salariale de l’ensemble des métiers de la recherche », alors même que le groupe de travail qu’elle a mis en place estime les sommes nécessaires entre 2 et 2,4 milliards d’euros supplémentaires par an (hors compensations, le cas échéant, des effets de la réforme engagée des retraites). Enfin, le discours sur l’évaluation, très ferme dans ses intentions et très vague dans ses modalités, hormis l’apparente « reprise en main » du Haut Conseil de l’évaluation de la recherche et de l’enseignement supérieur (HCERES), suscite une vive inquiétude, aggravée par le contexte.

      Le 26 novembre dernier, le président de la République a évoqué la nécessité de revoir l’évaluation de la recherche et des chercheurs. Qu’en pensez-vous ?

      C. : En indiquant qu’il entendait « assumer une politique d’évaluation qui ait des conséquences », le président de la République a suggéré que les évaluations existantes sont sans effet. Ce n’est pas le cas. S’agissant des personnes, l’évaluation de l’activité professionnelle, tous métiers confondus, détermine la progression de carrière. Je voudrais souligner au passage que pour les chercheurs et les chercheuses du CNRS, les évaluations effectuées par le Comité national s’attachent à prendre en compte l’ensemble des activités des collègues et s’inscrivent ainsi pleinement dans les recommandations du nouveau Contrat d’objectifs et de performance (COP) du CNRS en la matière.

      S’agissant des collectifs (équipes, laboratoires), l’évaluation quinquennale des unités est, il est vrai, un processus lourd qui mobilise les membres de ces unités et dont le « retour sur investissement » si j’ose dire, peut être décevant. Les rapports d’auto-évaluation pourraient sans doute présenter plus explicitement qu’ils ne le font la plupart du temps, les principaux apports à la connaissance scientifique de l’unité pendant la période évaluée, en entrant davantage dans le contenu de la science produite. Cela permettrait en retour aux comités d’évaluation du HCERES et aux sections du Comité national, de centrer davantage leur évaluation sur ces apports.

      Cependant, même dans l’hypothèse où l’évaluation serait systématiquement centrée sur un examen approfondi des apports scientifiques de l’équipe évaluée, le lien mécanique parfois suggéré entre évaluation et attribution de moyens pour les années qui suivent, comporterait davantage d’effets pervers que de bénéfices. Cette vision repose en particulier sur l’idée erronée que les innovations scientifiques futures proviendront essentiellement, voire exclusivement, des équipes (et des personnes) ayant déjà innové dans le passé. L’histoire des sciences montre que ce n’est pas le cas. Les percées sont souvent le fait d’équipes composées de professionnels de haut niveau, très bien formés et très engagés dans leur métier, mais qui ne se sont pas nécessairement distingués auparavant.

      Les craintes suscitées par les déclarations du président de la République, mais aussi par celles de son conseiller recherche, Thierry Coulhon, candidat à la présidence du HCERES, ont amené plusieurs sections du Comité national — dont celle que je préside — à annoncer la rétention de leurs propres rapports d’évaluation et à encourager celle des rapports produits par les comités d’experts du HCERES. Il ne s’agit pas d’exprimer une défiance vis-à-vis du fonctionnement actuel du HCERES, qui représente une amélioration considérable par rapport à celui de l’Agence d’évaluation de la recherche et de l’enseignement supérieur (AERES) qui l’a précédé, mais encore une fois, de signaler une inquiétude par rapport aux orientations envisagées ou évoquées en matière d’évolution de l’évaluation scientifique et de ses usages.

      Le Comité national produit au cours de chaque mandature un rapport de conjoncture. Quel est la tonalité du prochain rapport ?

      C. : Le débat sur la LPPR et l’élaboration des contributions du comité national dont nous avons parlé, ont quelque peu ralenti le processus d’élaboration du rapport de conjoncture, mais celui-ci est en cours d’achèvement. Il confirme largement et précise le diagnostic posé par le Comité national au printemps. À titre d’exemple, je voudrais évoquer ici les conséquences du déclin démographique du personnel statutaire. Avec une baisse de 40 % en dix ans des postes de chercheurs ouverts au concours, la diversité des recrutements opérés est de plus en plus limitée. La capacité à recruter des profils originaux et donc plus risqués, est obérée au bénéfice de profils également très solides mais plus « rassurants » parce que situés davantage au cœur des disciplines ou des domaines de recherche des sections. C’est par construction moins vrai pour les commissions interdisciplinaires, mais là encore la diversité des recrutements est amoindrie.

      Or, la recherche a besoin de profils divers, certains au cœur et d’autres à la marge des domaines de recherche établis. En outre, des champs nouveaux émergent. Je pense en particulier à tout ce qui a trait aux données massives, leur collecte, leur stockage, leur exploitation et leur analyse. Des besoins de compétences dans ce domaine s’expriment dans toutes les disciplines scientifiques, tant en matière de recherche que d’appui à la recherche. Il est profondément regrettable qu’un opérateur majeur comme le CNRS n’ait pas les moyens (en termes de recrutement, d’équipement et de financement) d’y répondre de manière adéquate.

      Par ailleurs, le rapport de conjoncture comprendra une réflexion et des propositions sur les biais de genre dans les recrutements et les carrières et sur la science ouverte, deux sujets auxquels la direction du CNRS nous a demandé de porter une attention particulière. Sur le premier thème, le Comité national partage pleinement la préoccupation de la direction sur les biais de genre qui perpétuent des différences entre les carrières professionnelles des femmes et celles des hommes. Nous nous interrogeons sur l’ensemble des leviers sur lesquels les sections et CID peuvent jouer, y compris en amont de l’évaluation des demandes de promotion, pour contribuer à réduire ces inégalités. Il conviendrait aussi de s’interroger sur les raisons qui font qu’au CNRS la proportion de chercheuses (tous grades confondus) stagne à environ un tiers. En 10 ans, entre 2007 et 2016, elle est passée de 32 à 34 % ; à ce rythme-là, s’il se maintient, la parité entre chercheuses et chercheurs sera atteinte vers 2100.

      Certains constats issus du rapport de conjoncture vous ont-ils surpris ?

      C. : Oui. Je citerai deux exemples. J’ai été surpris, tout d’abord, de constater que très peu de rapports de sections évoquent le rôle de la Mission pour les initiatives transverses et interdisciplinaires (MITI) du CNRS, alors que tous soulignent l’importance grandissante de l’interdisciplinarité dans les pratiques à l’œuvre dans leurs champs de recherche. Cette faible visibilité est étonnante et constitue d’une certaine manière une énigme que nous allons nous attacher à élucider.

      Autre surprise, les sciences citoyennes sont également peu évoquées. Or nous savons que des formes très diverses de collaboration entre chercheurs professionnels et membres de la société civile se développent, de même d’ailleurs que les pratiques scientifiques amatrices. Ces évolutions sont porteuses d’enjeux considérables sur la place de la connaissance scientifique et des chercheurs dans la décision publique, dans l’action collective et plus largement dans la société. Ce sujet mérite donc également d’être examiné de plus près.

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      Pour conclure cette briève analyse des stratégies de communication, on peut remarquer que la communication du MESRI et de ses partenaires responsables d’EPST, des universités « de recherche »n’est pas optimale : en retard, avec une couverture presse ridicule — comparée, par exemple, à l’opération « Pages blanches » des Revues en lutte — avec des éléments de langage sans contenu ou si pauvres qu’ils n’intéressent plus personne, au point où même l’équipe de communication du CNRS se tourne vers celles et ceux qui peuvent proposer une réflexion approfondie, comme Olivier Coutard, Isabelle Saint-This ou Marie-Sonnette.

      Sans trop se tromper, on peut dire que les responsables de l’ESR ont déjà perdu la bataille de la communication. C’est un début.❞

      https://academia.hypotheses.org/16986

    • La Ministre confirme : la LPPR a déjà eu lieu

      Dans le cadre des journées Sciences humaines et sociales (SHS) organisées par l’Agence nationale de la recherche les 25 et 26 février, des chercheur.es et enseignant.es-chercheur.es en lutte sont intervenu.es pour interpeller la ministre sur la Loi de programmation pluriannuelle de la recherche (LPPR), le financement de la recherche et la politique de l’emploi scientifique. Nous avons suivi la chronique de cette rencontre fort instructive sur le fil Twitter de Samuel Hayat, qu’il a complété avec un compte rendu. Nous l’en remercions.

      https://www.youtube.com/watch?v=P-6dZghVhS0&feature=emb_logo

      Les orateurs et oratrices ont distribués le texte de leur « Lettre ouverte de lauréat.e.s de projets ANR, lue à l’occasion des journées SHS de l’ANR des 25 et 26 février 2020 » destinée à la Ministre. Les lauréat·es ont souligné la nécessité de financements récurrents, l’ampleur croissante du nombre et des catégories de travailleuses et de travailleurs précaires, avec son cortège de post-docs limités sur projet, de contrats courts et de stagiaires de recherche, et souligné combien cette politique dégradant l’emploi pérenne, venait à l’encontre des besoins impérieux de nos universités et centres de recherche. Augmenter la compétition, accroître la précarité, multiplier les évaluations, comme promet de le faire le projet de Loi de programmation pluriannuelle de la recherche (LPPR), nuit considérablement à la qualité de la recherche faite en France.

      À la suite de cette intervention, Frédérique Vidal a précisé le contenu de la LPPR, confirmant ainsi les pires craintes des personnel.le.s et usager·es de l’ESR mobilisé.e.s. Selon la ministre, il faut renoncer à l’objectif, qualifié d’« incantatoire », de 3% du PIB pour la recherche, au profit d’une démarche de « refinancement », de « sécurisation de l’investissement » et de contractualisation. Pour favoriser « l’attractivité » (qui est pourtant un faux problème si l’on considère le nombre de candidat.e.s par poste, parfois plus de 100), Frédérique Vidal a réaffirmé qu’elle donnerait quelques miettes aux nouveaux/lles recruté.e.s : une minuscule augmentation de la rémunération à l’entrée en fonction.

      Quant à la part la plus importante de l’investissement pour la recherche, elle viendra en réalité clairement de deux sources. D’un côté, la ministre souhaite renforcer l’ANR pour la mettre au niveau des agences de financement des autres pays (évidemment présentés comme des modèles de performance). Pour cela, elle entend réaffecter les crédits des laboratoires pour soutenir les dépôts de projets – en échange de quoi une partie de l’argent bénéficierait aux laboratoires dans leur ensemble. Cela ne fait que confirmer la logique de financement conditionnel des unités de recherche, qui accentuera encore les inégalités entre laboratoires riches et pauvres, contre la nécessité d’un financement public, égalitaire, récurrent et inconditionnel. D’un autre côté, il s’agit pour Frédérique Vidal de favoriser les investissements privés, pour arriver à deux tiers du financement de la recherche sur fonds privés. Elle feint ainsi d’ignorer le poids déjà démesuré du Crédit d’impôt recherche, qui ponctionne 6 milliards d’euros par an au budget public, alors qu’on connaît la quasi-nullité de ses effets sur la production scientifique.

      Enfin, Frédérique Vidal a réintroduit, sous une forme euphémisée, la modulation des services. Sans officiellement mettre en question la règle des 192h équivalent TD de cours pour les enseignant.e.s chercheur.e.s titulaires, elle a annoncé vouloir multiplier les opportunités de réduction du service d’enseignement des plus “productifs.ves” : augmentation des places à l’Institut universitaire de France (IUF), du nombre de délégations au CNRS et de congés de recherche et conversion thématique (CRCT), des décharges de cours pour les porteurs/ses de projets ANR. Ces éléments pèseront davantage sur les personnels BIATSS et les collectifs enseignants (les heureux.ses lauréat.e.s de projets pourront ainsi se décharger auprès de leurs collègues non lauréat.e.s car moins chanceux.ses ou précaires, déjà à la limite du burn out), puisque la création d’emplois titulaires ne figure pas dans la LPPR. Quant aux CRCT, la ministre parle d’un « idéal » : une année sabbatique tous les sept ans. Si cela peut se présenter comme le rêve de tout.e enseignant.e chercheur.e, ce n’est pas un “idéal”, c’est un droit, pour tou.te.s les EC titulaires depuis le décret de 1984 fixant les dispositions statutaires du métier ! Même si effectivement ce droit est resté lettre morte jusqu’à présent, faute de moyens garantissant son exercice.

      Ces annonces illustrent et manifestent pleinement la logique profondément inégalitaire de la LPPR à venir. Pire encore, Frédérique Vidal a bien mis en avant que l’essentiel des transformations seraient faites par circulaires et décrets, sans examen par la représentation nationale ni débat public. Comme elle l’annonce tranquillement, la LPPR visera à « faire sauter les verrous législatifs », c’est-à-dire les quelques dispositions qui protègent encore les travailleurs/ses et usager.e.s de l’ESR de l’arbitraire total au sein des établissements et des inégalités entre établissements.

      Autant dire que la ministre n’a pas convaincu les présent.e.s. Dans la séance de questions-réponses qui a suivi son intervention, peu de questions ont porté sur les partenariats publics-privés, sur lesquelles F. Vidal est pourtant intarissable. En revanche, plusieurs collègues ont mis en avant le problème du manque d’emplois titulaires, qui menace l’existence même de certaines filières, et que la LPPR va encore aggraver. D’autres aspects de cette situation catastrophique ont été pointés, comme la part d’enseignements donnés par des non-titulaires, dont une bonne partie par des vacataires payé.e.s sous le SMIC horaire. La réponse de la ministre a été étonnante : ce n’est pas son problème ! Le ministère donne des crédits, mais c’est aux établissements de mener leur politique de recrutement. Elle rappelle à juste titre que le précédent gouvernement a annoncé 5000 postes, et qu’aucun n’a été créé. Dès lors, plutôt que de demander aux établissements d’honorer ces promesses d’emploi, la ministre préfère simplement ne plus en faire ! Plutôt qu’une véritable politique d’emploi, la ministre envisage des contrats d’objectifs et de moyens avec les établissements, pour leur donner une « visibilité ». « Les emplois, ce n’est pas mon travail », conclut la ministre. En tout cas, pas les emplois titulaires. En revanche, elle ne tarit pas d’éloges sur les post-doctorant.e.s, les CDI de projet, financé.e.s par contrats successifs, lesquel.le.s, à la différence des fonctionnaires, pourront être licenciés si nécessaire (la ministre préfère parler de « rupture de contrat »). De la précarité ? Clairement, Frédérique Vidal n’aime pas ce mot, surtout quand il s’agit des doctorant.e.s financé.e.s, qui ne sont pas des précaires, selon elle. « Quand on est doctorant, on est étudiant ». Le contrat doctoral – qui, rappelons-le, concerne une part seulement des doctorant.e.s et dont la durée n’excède pas trois annéess -, est de permettre à des étudiant.e.s « de ne pas travailler à côté de ses études » (sauf bien sûr lorsqu’il s’agit de faire des vacations pour combler le manque de titulaires).

      Bref, la ministre est apparue complètement hors-sol, qu’il s’agisse de prendre la mesure de la précarité, du manque d’emplois titulaires ou des conditions réelles de travail et d’étude. À un collègue demandant comment faire pour travailler alors qu’il n’a même pas de bureau, la ministre, décontenancée, a répondu : « Non mais je vais pas m’occuper d’attribuer des bureaux » et « Vous n’avez qu’à aller au campus Condorcet ». Qu’attendre d’autre d’une ancienne trésorière de la très sélective Coordination des universités de recherche intensive françaises (CURIF), un lobby composé des président.e.s d’université les plus « excellentes », qui pousse depuis sa création en 2008 à plus d’autonomie pour les établissements tout en accroissant la compétition entre eux (comprendre, plus de pouvoir pour les petit.e.s chef.fe.s locaux.les).

      Cet échange a eu le mérite de faire tomber les masques. La LPPR va encore aggraver le processus de transformation néolibérale des universités et des établissements de recherche et accélérer la destruction du service public. Contre la précarité, contre la réforme des retraites, contre la LPPR, il n’est pas d’autre choix que de lutter ! Alors, à partir du 5 mars, l’Université et la recherche s’arrêtent !

      https://academia.hypotheses.org/17566

    • L’#obscurantisme de l’excellence

      La loi sur la recherche risque de favoriser les « meilleurs » laboratoires en créant des grosses structures. Or des études prouvent qu’il est plus efficace de diversifier les financements.

      Tribune. Dans les mois qui viennent va être discutée la loi de programmation pluriannuelle de la recherche (LPPR). Une loi ambitieuse, dont l’essence a été résumée par Antoine Petit, PDG du CNRS : il s’agira d’une loi « darwinienne ». Seuls les excellents doivent survivre : car il vaut mieux financer la recherche excellente que la mauvaise ! Il est paradoxal qu’alors que l’essence de la science est de douter des idées reçues et d’arbitrer des rationalités contradictoires par l’argumentation et la confrontation au réel, la politique de la recherche scientifique semble s’asseoir presque exclusivement sur des préjugés ou des sophismes.

      Depuis quinze ans a été engagée une transformation de la politique de la recherche pour remplacer les financements récurrents des laboratoires par des financements compétitifs sur projets. De ce point de vue-là, c’est une réussite : les chercheurs français consacrent désormais une bonne partie de leur temps autrefois consacré à leur métier à monter et à évaluer des projets dont environ un sur dix voit le jour. Alors même que l’un des buts revendiqués était de lutter contre le mandarinat, cette politique d’« excellence » a abouti à une concentration des ressources dans les mains des « excellents » car les mandarins ne sont-ils pas par définition « excellents » ? Mais ne soyons pas dogmatiques : peut-être est-ce une bonne chose ? On pourrait adopter une démarche scientifique et vérifier empiriquement si concentrer les ressources sur « les meilleurs » est un mode de gestion efficace. Or il existe des études sur ce sujet, qui concluent que la recherche suit une loi des rendements décroissants : il est plus efficace de diversifier les financements que de les concentrer en créant de grosses structures (https://arxiv.org/abs/1602.07396).

      On pourrait aussi se demander s’il est possible d’anticiper les découvertes scientifiques, qui par définition portent sur des choses préalablement inconnues, en évaluant des projets. Là encore, des études (https://elifesciences.org/articles/13323v1) se sont penchées sur la question. Elles concluent que, après une sélection grossière, l’évaluation n’est pas meilleure qu’une loterie, et en fait pire puisqu’elle introduit des biais conservateurs (contre l’interdisciplinarité, puisque l’évaluation se fait par comité disciplinaire ; contre l’originalité et le risque, puisque l’évaluation doit être consensuelle).

      Est-ce bien étonnant ? Il suffit de se pencher sur l’exemple récent de l’intelligence artificielle (IA) pour comprendre que l’idée de préfinancer la recherche « innovante » est une contradiction dans les termes. Les algorithmes qui défraient la chronique sont des variantes des réseaux de neurones artificiels conçus dans les années 80. Dans les années 90, ils ont été supplantés par des algorithmes statistiques beaucoup plus puissants (l’IA s’appelait alors plus modestement « apprentissage statistique »). Certains se sont malgré tout obstinés à travailler sur les réseaux de neurones, pourtant obsolètes, un attachement qui semblait davantage romantique que rationnel pour le reste de la communauté. Il se trouve que quelques améliorations incrémentales ont augmenté les performances de ces réseaux, pour des raisons encore incomprises. Manifestement, avant d’aboutir, cette recherche était tout sauf « innovante ». Car ce sont les conséquences des découvertes qui sont « disruptives », et non les projets eux-mêmes.

      S’il y avait une manière simple d’identifier les projets qui vont mener à de grandes découvertes, il n’y aurait pas besoin de recherche publique : ceux-ci seraient financés directement par des investisseurs privés. C’est ce qui se passe pour l’IA avec les investissements de Facebook ou Google, une fois que la recherche publique a fait émerger ces nouvelles idées. Financer l’innovation scientifique par projet, c’est une contradiction dans les termes. Ce que montrent les études académiques sur le sujet ainsi que l’histoire des sciences, c’est que la créativité est favorisée par un financement peu compétitif sur une base diversifiée, qui seul autorise l’originalité, le travail collaboratif et le temps long.

      En réalité, la compétition a toujours existé en sciences, puisque obtenir un poste académique est de tout temps difficile. Or cette compétition est fondée sur les compétences et non sur les « résultats ». Est-il bien raisonnable d’y ajouter artificiellement des compétitions supplémentaires de façon à ne donner qu’à un scientifique sur dix les moyens de travailler convenablement, lorsque l’on sait que cette sélection est arbitraire et coûteuse ? Ou de créer par appel à projets des structures bureaucratiques d’excellence dont le rôle principal est de créer de nouveaux appels à projets sur un périmètre plus réduit ? Enfin est-il bien raisonnable de remplacer les postes permanents par des postes précaires, c’est-à-dire remplacer des chercheurs expérimentés par de jeunes chercheurs inexpérimentés voués pour la plupart à changer de métier, avec pour seule justification les vertus fantasmées de la compétition ?

      Le moins que l’on puisse dire, c’est que la doctrine de l’excellence scientifique ne suit pas une démarche scientifique.

      https://www.liberation.fr/amphtml/debats/2020/02/26/l-obscurantisme-de-l-excellence_1779726

    • #Concentration of research funding leads to decreasing marginal returns

      In most countries, basic research is supported by research councils that select, after peer review, the individuals or teams that are to receive funding. Unfortunately, the number of grants these research councils can allocate is not infinite and, in most cases, a minority of the researchers receive the majority of the funds. However, evidence as to whether this is an optimal way of distributing available funds is mixed. The purpose of this study is to measure the relation between the amount of funding provided to 12,720 researchers in Quebec over a fifteen year period (1998-2012) and their scientific output and impact from 2000 to 2013. Our results show that both in terms of the quantity of papers produced and of their scientific impact, the concentration of research funding in the hands of a so-called “elite” of researchers generally produces diminishing marginal returns. Also, we find that the most funded researchers do not stand out in terms of output and scientific impact.

      https://arxiv.org/abs/1602.07396

    • « La moitié des enseignants-chercheurs ont des contrats précaires »

      « Le 5 mars, l’université et la recherche s’arrêtent ». (1) L’appel, lancé par la coordination nationale des facs et labos en lutte met en lumière le nouvel axe de mobilisation dans l’enseignement supérieur et la recherche, qui englobe aussi bien les combats contre la réforme des retraites que la précarité étudiante et le projet de loi LPPR. Cette proposition de loi vise à fixer des objectifs d’investissements dans le domaine de la recherche publique et améliorer la carrière des jeunes enseignants-chercheurs. Le JSD a rencontré Hélène Nicolas, maîtresse de conférence en anthropologie et études de genre à Paris 8, en grève reconductible depuis le 5 décembre. Interview.

      Hélène Nicolas : La LPPR, ce sont trois rapports qui en effet inquiète le milieu scientifique et universitaire. Ces trois rapports que disent-ils ? Ils constatent que la recherche et l’enseignement supérieur français décrochent, qu’il y a une précarité grandissante, un manque de démocratie… Nous, enseignants chercheurs, nous sommes d’accord avec ces constats. Ce sont les préconisations de ces rapports qui posent problème. Elles vont aggraver ces états de fait en multipliant les contrats précaires, en concentrant les moyens sur quelques universités ou laboratoires dits d’excellence et en cassant les quelques instances démocratiques qui gèrent l’université, c’est à dire qu’elle sera transformée en quelque chose de plus en plus managériale.On est là-dedans en permanence. Le PDG du CNRS, Antoine Petit a dit qu’il fallait pour la recherche une loi darwiniste et inégalitaire donc ça montre bien l’objectif de cette loi. Mais le décrochage dans le milieu n’est pas nouveau. Il est présent depuis dix ans, plus précisément depuis la loi relative aux libertés et responsabilités des universités (LRU) qui a amené un tournant néolibéral à la recherche. En gros, la LPPR veut accélérer dans la direction de la loi LRU.

      Le JSD : Quel est l’impact de la LPPR sur les enseignants-chercheurs et les étudiants ?

      Hélène Nicolas : Selon moi, l’impact le plus grave c’est qu’aujourd’hui, la moitié des enseignants-chercheurs qui travaillent dans les universités et les laboratoires sont des gens précaires. Ils sont rémunérés en dessous du smic horaire, sont payés tous les six mois et n’ont aucune garantie de trouver du travail à la fin de leur contrat. Les emplois titulaires se sont réduits ces dernières années alors qu’il y a de plus en plus d’étudiants et d’urgence pour les recherches de type climatique et inégalités sociales. On a de grands enjeux sociaux sur lesquels les chercheurs pourraient s’investir mais on voit que les financements pérennes disparaissent. Le problème que cela pose c’est qu’il est impossible de travailler dans de bonnes conditions avec des gens qui sont sous-payés voire qui travaillent gratuitement et qui changent de poste tous les 2, 3, ou 6 mois.

      Autre enjeu : quand on est enseignant-chercheur, on doit faire 192h d’enseignement par an, c’est le référentiel horaire. La moitié de notre temps de travail est pour l’enseignement, l’autre pour la recherche. La LPPR prévoit la suppression de ces 192h. On va donc potentiellement faire beaucoup plus d’heures en étant payé de la même manière. Plus, on va devoir réduire notre temps de recherche. Or, pour être de bons enseignants à l’université, il faut être à la pointe de ce qui se fait en recherche. Si on supprime cela, nous allons nous retrouver avec des enseignants-chercheurs qui ne seront plus que des enseignants, donc d’assez mauvaise qualité. On en arrive à l’impact sur les étudiants : avec la LPPR, il va y avoir une minorité d’enseignants-chercheurs qui auront des primes, qui pourront répondre à des projets financés ou qui vont avoir le temps de faire de la recherche et d’enseigner dans quelques pôles d’excellence. Les autres universités vont être des facultés où les cours et la recherche (si elle existe encore) vont être de seconde zone. A Paris 8, nous serons les premiers touchés car on accueille un public populaire.

      Le JSD : Plusieurs universitaires dénoncent aussi la logique « d’augmentation de la compétition » et d’inégalités qu’annonce ce projet de loi.

      HN : Avec la LPPR, il y aura en effet une petite minorité de chercheurs qui aura certainement le plus de financements. Ce seront les plus connus mais aussi ceux qui gravitent dans les réseaux de pouvoir ou dans les institutions les plus prestigieuses. Mais procéder ainsi, c’est cumuler les inégalités. Toute personne qui se trouve être extrêmement brillante sans être compétitive et qui n’accepte pas de marcher sur les autres pour mener son projet de recherche à bien va être écartée de la compétition. Ces inégalités sont valables pour les femmes. Elles pourront être compétitives si elles peuvent mettre l’ensemble de leur temps libre au service d’un projet de recherche. Or, les appels à projets demandent à travailler le soir et dans nos sociétés, ce sont les femmes qui gardent majoritairement les enfants. Le problème de la concentration des moyens, c’est qu’il est dans les mains de quelques-uns, pas quelques-unes. C’est souvent des hommes. Des hommes blancs, il faut le dire. Moins on a de procédures démocratiques, plus le pouvoir est concentré dans quelques mains et plus la capacité à exploiter les autres, à demander du travail gratuit, à faire du harcèlement moral et du harcèlement sexuel explosent. Et d’ailleurs, dans ce projet de loi, il n’y a aucun mot sur ce qui pourrait être fait pour endiguer ces phénomènes de harcèlement sexuels mais aussi ces problèmes de discriminations présents à l’université en général. On n’a aucun quota, rien qui est pensé. Aujourd’hui, on est quand même dans une société française qui a eu beaucoup de migrations. Or, il y a extrêmement peu d’enseignants-chercheurs qui ne soient pas blancs. Cela ne pose aucun problème à nos instances. Ce projet de loi ne questionne rien.

      Et puis, qui décidera des projets de recherche pouvant être financés ? Avec la LPPR, ce n’est pas un comité d’expert scientifique qui va juger de la qualité scientifique d’un projet. Ce seront des membres nommés par le gouvernement, des gens de grandes entreprises. Et bien sûr, tous les projets qui contestent la politique sociale, économique ou même écologique du gouvernement vont être en difficulté pour trouver des financements. On est vraiment dans cette idée de mettre la recherche au service du privé, au service d’un projet politique.

      Le JSD : Pour les enseignants chercheurs, la lutte contre la réforme des retraites suscite aussi pas mal d’inquiétudes… LPPR et réforme de retraites sont-elles des revendications indépendantes ?

      HN : A Paris 8, on doit être une trentaine à être en grève reconductible depuis le 5 décembre. On ne lutte pas seulement contre la LPPR mais aussi contre la réforme des retraites. Par ailleurs, à l’université, il existe deux types de personnels : les enseignants-chercheurs et les BIATOS, tous ces gens qui font tourner l’université et qui représentent en gros un peu moins de la moitié des employés. Si la réforme des retraites passe telle qu’elle est prévue, enseignants-chercheurs et BIATOS auront moins 30% sur leur pension. Chez les enseignants-chercheurs, la moyenne d’âge de recrutement est de 35 ans. Si le calcul de la retraite se fait sur l’ensemble de la carrière, il est évident que ce sera en notre défaveur. On a passé une grande partie de notre carrière à faire des études et à avoir des contrats précaires avant de trouver un emploi sérieux. On entend des gens dire « Oui, mais vous, vous allez pouvoir travailler jusqu’à 65, 70 ans. Mais à l’université, on a des maladies du travail extrêmement importantes comme le burn out qui se développent depuis dix ans. Cela est dû à toute ces injonctions contradictoires et le fait que régulièrement on nous demande de faire un temps de travail qui ne rentre pas dans la semaine.

      Le JSD : Aujourd’hui, quelles sont vos revendications et attentes pour la recherche ?

      HN : La première revendication de la coordination nationale des facs et labos en lutte, c’est un recrutement massif et pérenne de tous les précaires qui sont chez nous. Pas seulement les enseignements-chercheurs mais aussi le personnel administratif. Il y a un manque de personnel qui est frappant. Il faut absolument recruter et ce dans des conditions de travail dignes. La deuxième chose, c’est l’instauration de financements structurels. La plupart des facs comme Paris 8 ou la Sorbonne manquent de moyens : les fenêtres s’écroulent, régulièrement on n’a pas de lumière, pas internet. Il faudrait aussi construire 2 ou 3 universités en plus pour pouvoir accueillir un public étudiant qui a augmenté de façon exponentielle.
      Pour les laboratoires de recherches, nous avons également besoin de financements sur le long terme. Aujourd’hui, on passe un tiers de notre temps de travail à chercher des financements que une fois sur quatre, on n’obtient pas. C’est ridicule ! On a fait plus de dix ans d’études, on a des compétences extrêmement élevées dans nos domaines sauf que notre temps de travail scientifique est extrêmement réduit en raison de cette quête aux financements pour nos projets. La coordination des facs et labos en lutte est pour une université financée, ouverte, gratuite pour tout le monde. C’est-à-dire qu’il faut supprimer les frais d’inscriptions « exceptionnelle » pour les étudiants extra-communautaires car c’est anticonstitutionnel. L’éducation en France doit être gratuite et accessible à toutes et tous. Dans ce pays, on peut faire une recherche autonome et contradictoire. Si nos financements sont soumis aux pouvoirs politiques ou aux entreprises, c’est catastrophique non seulement en terme démocratique mais aussi scientifique. Si on n’a plus la liberté d’inventer, on ne fait plus de recherche fondamentale.

      Propos recueillis par Yslande Bossé

      https://lejsd.com/content/%C2%AB-la-moiti%C3%A9-des-enseignants-chercheurs-ont-des-contrats-pr%C3%A9cai

    • Un projet de loi contre l’avis de la recherche

      Multiplication des appels à projet, généralisation des CDD d’usage… les pistes de réforme envisagées par l’exécutif inquiètent la communauté scientifique. Les chercheurs déplorent l’absence d’engagement sur des postes pérennes.

      C’est le point névralgique du conflit social entre les enseignants-chercheurs et le gouvernement. Attendu début février, reporté fin mars voire début avril, le projet de loi de programmation pluriannuelle pour la recherche (dit LPPR) est devenu l’horizon indépassable des craintes du milieu universitaire français. Pourtant, « le texte de loi est toujours en cours d’élaboration », affirmait-on mercredi au ministère de l’Enseignement supérieur et de la Recherche à Libération.

      Le projet de loi avait été annoncé dès février 2019 par le Premier ministre, Edouard Philippe, avec comme objectif de « redonner à la recherche de la visibilité, de la liberté et des moyens ». Mais l’attente autour du texte, dont l’entrée en vigueur est prévue en 2021, nourrit les inquiétudes du milieu. D’autant que, depuis la publication de trois rapports préparatoires en septembre jusqu’aux récentes prises de paroles du gouvernement, des premières orientations ont filtré.

      Le 25 février, à l’occasion des journées des sciences humaines et sociales (SHS), la ministre de l’Enseignement supérieur et de la Recherche, Frédérique Vidal, a déclaré que l’objectif de porter le budget de la recherche à 3 % du PIB, contre environ 2,2 % aujourd’hui, était « incantatoire ». Ce qui a jeté le doute au sein de la communauté scientifique sur les réelles ambitions budgétaires. « Atteindre les 3 % reste un objectif du gouvernement », a cependant voulu rassurer le cabinet de la ministre auprès de Libération. Il faut dire que cette promesse, vieille de vingt ans, est la seule à mettre tout le monde d’accord, tant il est urgent de répondre au sous-financement chronique du secteur.
      Complexité administrative

      La ministre en a profité pour réaffirmer sa volonté de généraliser le financement du secteur par l’appel à projets, ce qui pourrait accroître les investissements par l’intermédiaire de fonds privés. « Cette logique valorise les effets d’annonce, explique la sociologue au CNRS Isabelle Clair. Elle contraint les chercheurs à orienter leurs projets en fonction des priorités définies par les organismes de financement. Au final, la recherche s’uniformise et s’appauvrit. Ce qu’on demande, ce sont des financements publics, inconditionnels et récurrents. » La mesure est aussi décriée car source de complexité administrative supplémentaire pour des chercheurs noyés sous la bureaucratie. Ce que conteste le cabinet de la ministre, qui précise que « l’un des buts de cette loi est de dégager du temps en plus pour que les scientifiques se consacrent pleinement à leurs objets de recherche ».

      Une autre crainte porte sur une innovation attendue : le recrutement par des contrats courts mais mieux rémunérés, une pratique partiellement en vigueur. D’une durée de cinq ou six ans, ces CDD d’usage appelés tenure tracks aux Etats-Unis, dont la rupture est motivée par le seul achèvement du projet en question, sont proposés à des post-doctorants en quête du graal, un emploi titulaire. « On accroît la période de précarité des jeunes chercheurs qui devront subir des évaluations tout au long du contrat sans avoir la certitude d’obtenir un poste, regrette Isabelle Clair. En dérégulant le système de recrutement, le processus de titularisation s’opacifie. C’est le statut de fonctionnaire qu’on attaque. »

      La création de postes pérennes reste le nerf de la guerre, alors que le nombre d’étudiants est en constante augmentation dans les facs. Premier mouvement social d’ampleur depuis la loi sur les libertés et les responsabilités des universités de 2007, la mobilisation intervient après des années de baisses d’effectifs des enseignants-chercheurs et des personnels techniques et administratifs, que ce soit à l’université ou dans les organismes de recherche comme le CNRS. « Les emplois, ce n’est pas mon travail », a balayé la ministre lors des journées des SHS.
      Recherche « à deux vitesses »

      Plus globalement, le milieu scientifique s’alarme de la philosophie du projet de loi qui érige la « performance » et la compétition en principes ultimes d’efficacité. La publication en novembre dans les Echos d’une tribune par le PDG du CNRS, Antoine Petit, appelant à « une loi ambitieuse, inégalitaire » et « darwinienne » n’en finit plus de mettre le feu aux poudres. Lors des 80 ans du CNRS, Emmanuel Macron enfonçait le clou en plaidant pour une évaluation qui différencie les « mauvais » chercheurs des meilleurs. Or, derrière l’accent mis sur la sélection, le milieu redoute une concentration des crédits vers les pôles dits d’« excellence », faisant courir le risque d’une recherche « à deux vitesses ». Aux chercheurs et laboratoires jugés les plus prometteurs et rentables, les gros budgets ; aux autres, les contrats courts et la précarité longue durée.

      Sur la forme, les chercheurs critiquent une conduite « blessante » de la réforme. Le ministère a confirmé à Libé qu’il s’agirait d’un « texte court, ne comportant qu’une vingtaine d’articles ». Ce qui laisse supposer que les transformations seraient faites, pour l’essentiel, par circulaires et décrets, sans concertation publique. « Le procédé est méprisant et antidémocratique, juge Isabelle Clair. La confusion entretenue autour du contenu du texte renforce notre colère. On en vient à se demander si c’est une stratégie de la part du gouvernement ou tout simplement de l’incompétence. »

      https://www.liberation.fr/france/2020/03/04/un-projet-de-loi-contre-l-avis-de-la-recherche_1780608

      Mise en avant ce ce passage :
      –-> "Le ministère a confirmé à Libé qu’il s’agirait d’un « texte court, ne comportant qu’une vingtaine d’articles ». Ce qui laisse supposer que les transformations seraient faites, pour l’essentiel, par #circulaires et #décrets, sans #concertation_publique."

    • Point sur la LPPR. Où en sommes-nous ? Que prévoient les rapports ? Dans quelle histoire de l’ESR s’inscrit cette loi ? - #Elie_Haddad, historien (CNRS), membre de SLU, 3 mars 2020

      Ce texte a fait l’objet d’une présentation publique lors d’une demi-journée banalisée à l’université de Paris Sorbonne Nouvelle le 3 mars après-midi.

      Faire le point sur la LPPR aujourd’hui, c’est prendre la mesure des évolutions depuis deux mois, ce qui nous place dans le temps très court de l’action politique et de la mobilisation. C’est en même temps resituer les enjeux de cette réforme dans un temps un peu plus long (une vingtaine d’années) de transformations de l’ESR. Retrouver la logique générale de ces transformations permet de ne pas tomber dans les pièges de la communication gouvernementale ni dans ceux des accrocs de la mise en place pratique des réformes successives, qui peuvent parfois laisser penser que celles-ci ne sont qu’improvisation et court-termisme. C’est, enfin, essayer de dégager les rapports de force au sein du pouvoir pour envisager ce qui va probablement se passer dans les prochains temps.
      Nous disposons désormais d’un peu plus d’éléments qu’il y a deux mois pour analyser la séquence dans laquelle nous nous trouvons. Outre les trois rapports préparatoires à la LPPR remis à la ministre Frédérique Vidal en septembre dernier, plusieurs déclarations faites par celles-ci sont révélatrices des enjeux actuels de la réforme. Des éléments du projet de loi dans son état de janvier ont fuité courant février. De même ont fuité certains éléments d’un rapport de l’IGF concernant l’ESR, tandis que des collègues ont à juste titre insisté surle Pacte productif lancé par Bruno Le Maire, ministre de l’Economie et des Finances, qui a son propre agenda pour la recherche publique en France. Enfin, plusieurs décrets ont été promulgués qui touchent directement l’ESR.
      Mise en perspective rapide de la LPPR dans l’histoire récente de l’ESR

      Pour comprendre la LPPR, il faut repartir du rapport « Education et croissance » rédigé en 2004 par Philippe Aghion et Elie Cohen pour le Conseil d’Analyse Economique, rapport qui a été très bien analysé par le Groupe Jean-Pierre Vernant [1]]. Proposant une « stratégie des petits pas » visant explicitement à contourner les oppositions de la communauté universitaire à un changement radical de modèle qui mettrait l’université et la recherche au service de l’économie, oppositions qui s’étaient manifestées à plusieurs reprises et notamment lors des Etats Généraux de la recherche qui venaient d’avoir lieu, ce rapport expliquait comment parvenir à introduire les logiques du marché, de la concurrence et de la privatisation dans l’ESR sans jamais le dire clairement et en amenant les acteurs à y participer eux-mêmes. Ce rapport a constitué la feuille de route de tous les gouvernements depuis, dont ils n’ont pas dévié, quoi qu’ils aient dû faire face à nombre d’oppositions qui ont amené à transiger sur certains points, retarder certaines dispositions, compliquer les dispositifs existants pour parvenir à leurs fins.
      Ce rapport prévoyait quatre volets visant à la dérégulation et à la mise en concurrence au sein de l’ESR.
      – L’autonomie administrative des universités. La loi LRU de 2007 en a été la déclinaison renforcée par le régime des compétences élargies, qu’elle prévoyait, mises en place progressivement dans les établissements à partir de 2009. L’autonomie de gestion et le transfert de la masse salariale aux universités ont placés celles-ci dans la situation de gérer la pénurie due aux coupes dans les budgets alloués par l’Etat, lequel par ailleurs a mis en place des dispositifs d’allocations de ressources fondés sur la concurrence (Labex, Idex, Equipex…). Les structures se sont ainsi retrouvées mises en concurrence les unes avec les autres et ont en outre été amenées à conduire un vaste plan social qui ne disait pas son nom, avec tout le développement de la précarité, particulièrement dans les personnels administratifs et techniques, que nous connaissons.
      – L’autonomie pédagogique, qui consiste 1/ à mettre les universités en concurrence cette fois pour attirer les étudiants, ces derniers étant eux-mêmes en concurrence pour l’obtention des places dans les universités les mieux cotées, et 2/ à déréguler les diplômes en cassant le référentiel national qui sous-tendait toute l’architecture de ceux-ci auparavant. La loi ORE dite Parcoursup entrée en vigueur il y a deux ans, qui permet aux universités de sélectionner leurs étudiants, est un des aspects de ce dispositif, dont l’amorce avait été la multiplication des diplômes « d’excellence » au sein de certaines universités.
      – L’autonomie de recrutement, d’évaluation et de gestion des personnels, avec pour objectif de déréguler en grande partie les statuts, notamment celui des enseignants-chercheurs et des chercheurs, de développer la contractualisation comme mode de recrutement au détriment des postes de fonctionnaires, avec pour conséquence la liquidation des libertés académiques et de toute forme de collégialité. Des dispositifs comme la modulation de service ou l’AERES devenue HCERES avaient pour but d’amorcer ce processus mais ils ont été en partie contrés en raison des oppositions fortes en 2009-2012. La modulation de service a été assortie d’une clause obligatoire de consentement de l’intéressé et l’AERES a été privée de ses pouvoirs de sanction. C’est précisément cette « autonomie » qui est au cœur de la LPPR.
      – Le dernier volet du rapport Aghion/Cohen concerne l’autonomie financière. Plusieurs éléments sont déjà en place, les rapports préparatoires à la LPPR préconisant d’ailleurs de les renforcer. Mais l’objectif principal, le noyau dur, concerne la dérégulation des frais d’inscription, en partie en place par la multiplication des diplômes d’université. L’augmentation des frais d’inscription pour les étudiants hors UE instaurée l’année dernière est une autre étape. Il n’y a aucun doute que ce sera le dernier chantier auxquels s’attaqueront les gouvernants (dans les cinq ans à venir ?).
      La LPPR : inégalité, management et autoritarisme

      La ministre l’a dit et redit, les trois rapports qui lui ont été remis ne sont pas la loi qui sera promulguée. Certes. Mais les conceptions générales sur lesquelles ils se fondent se retrouvent dans les propos tenus par Frédérique Vidal à différentes reprises et plusieurs dispositions prévues n’ont pas besoin d’une loi spécifique pour entrer en application [2].
      – C’est le cas des CDI de chantier dont la déclinaison sous forme de contrats de projet existe désormais dans la fonction publique grâce au décret du 27 février qui met en application un article de la loi PACTE d’août 2019. C’était une disposition demandée dans les rapports.
      – Par la Loi pour un État au service d’une société de confiance votée en août 2018, complétée par une ordonnance de décembre de la même année, les établissements du supérieur peuvent se regrouper en établissements expérimentaux, ce qui les autorise à déroger à la règle de la majorité du CA et, de façon dérogatoire, à exercer des prestations de service, à prendre des participations, à créer des services d’activités industrielles et commerciales, à participer à des groupements et à créer des filiales. Autrement dit, à intégrer des entreprises privées. Il y a un transfert de compétences entre les composantes du regroupement d’universités ou d’entités partie prenantes de l’Etablissement expérimental, lesquelles composantes doivent soumettre aux « instances collégiales » de cet établissement « tout ou partie des recrutements ». Ces établissements définissent eux-mêmes les modalités de désignation de leur dirigeant. Autrement dit, les dispositions permettent à ces établissements de contourner par des statuts ad hoc une bonne partie des règles publiques de leurs composantes en se rapprochant des règles d’une entreprise privée.
      – La suppression du plafond de 50% des emplois contractuels dans les établissements publics, elle aussi prévue par la loi PACTE, est entrée en application par un décret du 1er janvier 2020.
      – Le même jour, le décret d’application de l’article instaurant la rupture conventionnelle dans la fonction publique était également promulgué.
      – L’arrêté du 27 janvier 2020 relatif au cahier des charges des grades universitaires de licence et de master prévoit que « Les grades universitaires peuvent également être accordés à des diplômes d’établissements privés ». Autre mesure dont le terrain a déjà été préparé par la multiplication des stages dits professionnalisant, « Pour répondre aux exigences du marché du travail en matière d’insertion mais aussi, le cas échéant, aux besoins émergents de nouvelles filières et de nouveaux métiers, la présence de représentants du monde socio-économique au sein de l’équipe pédagogique comme l’existence de relations formalisées avec le monde professionnel concerné par la formation sont nécessaires. La mise en œuvre d’une approche par compétences, la qualité des partenariats avec le monde professionnel, la présence de modules de professionnalisation et de périodes d’expérience en milieu professionnel, ainsi que la production de projets de fiches RNCP de qualité et la construction de blocs de compétences seront prises en compte, tout particulièrement pour les formations visant spécifiquement à garantir une insertion professionnelle. »
      – Enfin les possibilités de chaires d’excellence existent déjà depuis 2009, même s’il est vrai qu’elles n’ont pas la souplesse des tenure-tracks réclamées par les rapports.

      Tous les instruments sont donc en place pour un contournement massif des statuts, une contractualisation poussée de l’emploi et un renforcement de la présence des intérêts privés au sein de l’ESR. Lors de la journée SHS de l’ANR, Frédérique Vidal a clairement affirmé que la loi à venir devrait faire sauter un certain nombre de verrous législatifs et que ce serait aux universités de décider de leur politique d’emploi. Le ministère s’en lave les mains.
      Les autres mesures annoncées consistent à accorder d’avantage d’argent à l’ANR, les projets étant l’outil pour mieux doter les laboratoires par l’intermédiaire du préciput qu’ils prélèveront sur les contrats qu’ils obtiendront. Renforcement du financement inégalitaire fondé sur la compétition pour l’obtention des crédits, donc. Enfin, Frédérique Vidal a réintroduit, sous une forme euphémisée, la modulation des services. Sans officiellement mettre en question la règle des 192h équivalent TD de cours pour les enseignant·es-chercheur·ses titulaires, elle a annoncé vouloir multiplier les opportunités de réduction du service d’enseignement des plus « productif·ves ».
      La loi telle qu’elle a fuité va un peu plus loin que ces déclarations. Les tenure-tracks y apparaissent bien, de même qu’un ensemble de dispositifs visant à simplifier les cumuls d’activité et l’introduction d’éléments du privé dans les établissements publics, de même que la ratification de l’ordonnance sur les établissements expérimentaux, l’élargissement des mobilités public-privé, l’orientation des thèmes de recherches par l’ANR.
      Ces dispositifs sont néanmoins un peu en retrait par rapport à ceux prévus dans les rapports (un effet de la mobilisation ?). On ne sait pas ce qu’il en sera de la verticalité prévue dans la décision en matière de politique de recherche scientifique. Mais l’ANR est amenée à jouer un rôle crucial en la matière, en lien direct avec une recherche à visée industrielle.
      Rien n’est dit non plus du HCERES alors qu’il s’agit du cœur du système voulu dans les rapports et que l’on sait toute l’importance qu’accorde Thierry Coulhon, pressenti à la présidence du HCERES, à l’instauration d’une évaluation managériale déterminant l’allocation des ressources à tous les niveaux de l’ESR. Le HCERES deviendrait ainsi la clé de voûte de l’ensemble de l’architecture de l’ESR, l’organe central qui jouerait le rôle de bras exécutant des décisions en matière de politique de recherche et d’enseignement supérieur qui se décideraient dans l’entourage du Premier Ministre. Moyennant quoi le Comité national de la recherche scientifique et le Comité national des universités, dernières instances collégiales réelles dans l’ESR, seraient supprimées ou vidées de leur substance.
      Je ne pense pas que le gouvernement ait l’intention de revenir là-dessus, mais il peut se passer d’intégrer ces éléments dans la loi et les faire passer, comme l’a expressément dit la ministre, par décrets et circulaires.
      De la « loi budgétaire » à la « loi des personnes »

      Pour déminer les oppositions, la ministre a d’abord affirmé que la LPPR ne serait pas une loi structurelle mais une loi de moyens, puis qu’elle ne serait pas une loi structurelle mais une loi de personnes. Ce changement de discours révèle crûment son échec : les derniers arbitrages budgétaires du quinquennat ont été faits contre elle. On peut en être certain puisque, lors des journées SHS de l’ANR, elle déclaré qu’il fallait renoncer à l’objectif, qualifié d’« incantatoire », de 3% du PIB pour la recherche, au profit d’une démarche de « refinancement », de « sécurisation de l’investissement » et de contractualisation. Cet objectif était pourtant affirmé comme essentiel par les trois rapports préparatoires et clamé partout dans l’entourage du ministère.
      Les couches dirigeantes partagent toutes les mêmes objectifs décrits plus haut ainsi que les normes devenues la doxa dans les « élites » concernant la bonne gestion (managériale, comme il se doit). Parmi les fers de lance de la réforme, on trouve la Coordination des Universités de Recherche Intensive Françaises (CURIF), association de présidents et d’anciens présidents d’université, qui représente au sein de la CPU les universités qui se pensent comme le haut du panier et croient avoir tout à gagner à ces réformes. Mais la CURIF comme les technocrates de l’ESR qui ont rédigé les rapports préparatoires avaient un combat : en échange de tant de bonne volonté en matière de réforme, il s’agissait de leur rendre la monnaie de la pièce en espèces sonnantes et trébuchantes.
      Las, à la fin, c’est Bercy qui gagne. Un autre rapport, passé inaperçu pour la bonne raison qu’il n’a pas été rendu public, rédigé principalement par l’IGF à l’automne dernier, pouvait mettre la puce à l’oreille. Bercy a sa propre idée sur l’ESR. Selon ses inspecteurs, les universités ne sont pas mal dotées mais mal gérées. La bonne gestion consiste à accroître leurs revenus propres et la contractualisation de leur masse salariale : « Le recours aux contractuels peut permettre une meilleure adaptation des effectifs aux besoins. Les personnels recrutés peuvent en effet être permanents ou temporaires, être enseignants – chercheurs, chercheurs ou enseignants ; ou bien cadres administratifs ou techniques. En outre, les universités ont une plus grande maitrise de leurs situations salariales et de carrière que pour les titulaires dans la mesure où c’est le conseil d’administration qui statue sur les dispositions qui leur sont applicables. Dès lors que la plupart des besoins peuvent être indifféremment couverts par des contractuels ou des titulaires, compte tenu de la similitude de leurs profils, l’augmentation de la proportion d’emplois contractuels dans les effectifs d’une université a pour conséquence de lui donner davantage de leviers pour piloter ses ressources humaines, sa masse salariale et son GVT. » Plus encore, pour inciter les universités à mieux se comporter (selon ses normes), Bercy demande à ce que le GVT ne leur soit plus versé, à accroître le temps d’enseignement des enseignants-chercheurs et à coupler évaluation et allocation de ressources pour distinguer les bons et les mauvais élèves. Nous y revoilà.
      En outre, par le Pacte productif, Bruno Le Maire et les hauts fonctionnaires du ministère de l’Économie et des Finances se chargent eux-mêmes du volet « innovation » de la recherche. Le Maire l’a dit expressément : « la loi de programmation de la recherche devrait être l’occasion de réfléchir à une augmentation des moyens consacrés à des programmes de recherche publique en contrepartie de leur orientation vers un développement industriel précis. »
      Il peut être confiant : son ministère a toujours été suivi par le chef de l’État et le premier ministre lorsqu’il s’agissait de trancher sur la politique à mener.

      Je voudrais finir sur une note positive. Il y a un point faible dans le système qui doit être mis en place. Il nécessite notre coopération. C’est particulièrement vrai pour le HCERES. Se retirer de toute coopération avec cette instance est une nécessité vitale tant que ne seront pas clarifiées les implications des évaluations à venir. C’est aussi vrai pour toutes les instances administratives. L’université et la recherche ne tiennent que parce que nous acceptons un investissement énorme et chronophage dans ces multiples tâches administratives que parfois nous réprouvons. Nous avons donc la possibilité de paralyser la machine à nous broyer qui est en marche.

      http://www.sauvonsluniversite.fr/spip.php?article7407

    • Quelques réponses aux questions fréquemment posées sur la loi pluriannuelle pour la recherche (LPPR)

      Nous avons reçu un courrier abondant après la publication de notre billet de désenfumage, nous posant des questions à propos du projet de loi pluriannuelle pour la recherche (LPPR), de ses initiateurs, de son calendrier ou encore des sommes en jeu. Dans ce complément au billet, nous répondons à ces questions à partir des informations dont nous disposons.

      I Quel est le calendrier prévisionnel de la LPPR ?

      Le calendrier parlementaire ne permet pas l’examen de la LPPR avant l’automne. La date avancée par la ministre, Frédérique Vidal, pour rendre public le projet de loi (fin mars-début avril) correspond à la date du probable du remaniement ministériel.

      Un examen de la loi par le Parlement à l’automne pose cependant un problème de communication à l’exécutif, puisqu’il coïnciderait avec la phase préparatoire du budget 2021, faisant apparaître explicitement l’absence de création de postes et d’augmentation du budget de l’Université et de la recherche publiques pour la troisième année du quinquennat. Rappelons qu’en 2019 et 2020, le nombre de postes pérennes mis au concours a fortement baissé et le budget n’a été augmenté que du montant de l’inflation, ne permettant pas la compensation du Glissement Vieillesse Technicité.

      II Qui soutient ce train de réformes de l’Université et de la recherche ?

      Alors que la communauté académique s’alarme du contenu des rapports préparatoires à la “grande loi darwinienne” pour la recherche et l’Université, les initiateurs et rapporteurs de la LPPR (Gilles Bloch, Jean Chambaz, Christine Clerici, Michel Deneken, Alain Fuchs, Philippe Mauguin, Antoine Petit, Cédric Villani et Manuel Tunon de Lara) ont fait paraître une pétition dans le Monde daté du 20 février 2020 :
      LA COMMUNAUTE SCIENTIFIQUE a lancé cette pétition adressée à Emmanuel Macron.

      Se sont associés à leur texte une centaine de chercheurs retraités qui ont tous bénéficié au cours de leur carrière des conditions (postes pérennes, liberté de recherche et moyens récurrents) dont les réformes à venir vont achever de priver les jeunes générations de chercheurs [1]. Les plus connus d’entre eux avaient déjà signé une tribune à la veille du premier tour de la présidentielle pour faire connaître leur attachement au mille-feuille d’institutions bureaucratiques créées depuis quinze ans (ANR, HCERES, etc).

      Est-ce dû à leurs convictions d’un autre temps les conduisant à prétendre parler au nom de “la communauté scientifique” — c’est le nom d’administration de la pétition — communauté à laquelle ils n’appartiennent de facto plus ? Leur pétition de soutien à la LPPR a rassemblé deux cents signatures en quatre jours.

      III Qui est à l’origine de ce train de réformes de l’Université et de la recherche ?

      La majorité des mesures de précarisation et de dérégulation qui accompagneront la loi de programmation budgétaire ont été conçues par la Coordination des Universités de Recherche Intensive Françaises (CURIF), association de présidents et d’anciens présidents d’universités qui travaillent depuis quinze ans à la suppression progressive des libertés académiques et à la dépossession des universitaires. La CURIF comprend dix-sept membres, dont huit, indiqués en gras, véritablement actifs : Philippe Augé, David Alis, Jean-Francois Balaudé, Yvon Berland, Jean-Christophe Camart, Jean Chambaz, Christine Clerici, Frédéric Dardel, Michel Deneken, Barthélémy Jobert, Frédéric Fleury, Alain Fuchs, Corinne Mascala, Sylvie Retailleau, Manuel Tunon De Lara, Fabrice Vallée, Frédérique Vidal, Jean-Pierre Vinel. La CURIF a déclaré son allégeance à la candidature de M. Macron lors d’une réunion avec Jean Pisani-Ferry, le 28 avril 2017. Le programme de la CURIF est simple : différencier les statuts et les financements des établissements, supprimer le CNRS, et accorder les pleins pouvoirs aux présidents d’université. Les apports de la CURIF au programme présidentiel de M. Macron figurent dans les deux documents suivants :
      http://groupejeanpierrevernant.info/CURIF_EM.pdf
      http://groupejeanpierrevernant.info/positions_CURIF_avril_2017.pdf
      La place des courtisans de la techno-bureaucratie universitaire dans la structure en cercles concentriques d’En Marche est discutée dans ce billet :
      http://www.groupejeanpierrevernant.info/#LuttePlaces3

      Amélie de Montchalin revendique avoir obtenu la LPPR grâce à sa proximité avec Édouard Philippe. Elle ambitionne de devenir ministre de l’enseignement supérieur, de la recherche et de l’innovation, et donc de porter elle-même cette loi devant le Parlement à l’issue du remaniement qui devrait suivre les élections municipales.

      S’il importe de nommer les managers à l’origine de la loi, il ne faut pas ignorer ce qu’elle doit aux normes de “bonnes pratiques” gestionnaires rappelées par l’Inspection Générale des Finances dans son rapport récent sur le pilotage et la maîtrise de la masse salariale des établissements :
      https://www.education.gouv.fr/cid149541/le-pilotage-et-la-maitrise-de-la-masse-salariale-des-universites.html

      IV Le “Pacte productif” de Bercy empiète-t-il sur le pilotage et le budget de la recherche ?

      Frédérique Vidal n’a emporté aucun arbitrage budgétaire depuis le début du quinquennat. Ni Bruno Le Maire ni les hauts fonctionnaires du ministère de l’Economie et des Finances n’ont été convaincus de la nécessité de financer l’Université et la recherche. Mieux, ils se chargent eux-mêmes du volet “innovation” du Pacte productif :
      https://www.economie.gouv.fr/pacte-productif

      Ce financement par l’impôt du secteur privé est pris sur la même enveloppe globale que le budget de la recherche publique. Il est hélas probable qu’un programme pour “l’innovation” serve davantage les intérêts politiques de M. Macron que le financement de la recherche et de l’Université publiques, pourtant vitales pour répondre aux trois crises, climatique, démocratique et économique, qui minent nos sociétés.

      Mais l’emprise de Bercy sur la politique de recherche ne s’arrête pas à la ponction de nos cotisations retraites pour financer des programmes d’“innovation” et la niche fiscale du Crédit d’Impôt Recherche (CIR) plutôt que de financer la recherche. Comme l’a précisé Bruno Le Maire, “la loi de programmation de la recherche devrait être l’occasion de réfléchir à une augmentation des moyens consacrés à des programmes de recherche publique en contrepartie de leur orientation vers un développement industriel précis.” [2] Tout est dit.

      La LPPR est le volet de la réforme de la recherche porté par la CURIF, organisant la dérégulation des statuts et le contournement du recrutement par les pairs, en renforçant le pouvoir démesuré de la technostructure managériale des établissements. Le “pacte productif” apparaît comme le volet de cette même réforme portée par Bercy, instaurant des outils de pilotage qui lui permettent de contrôler cette même technostructure.

      V Quelles sont les sommes dégagées par l’article 18 de la loi retraite ?

      Le budget brut salarial pour l’Université et la recherche s’élève à 10,38 milliards € par an. La baisse de cotisation patronale de l’État de 74,3% à 16,9% sur 15 ans permettra à terme de redistribuer les 6 milliards € par an prélevés sur notre salaire socialisé. Pour la période 2021-2027 couverte par la LPPR, l’article 18 conduira en cumulé à 11 milliards € de prélèvement dans nos cotisations de retraite [3]. Il convient donc de comparer les annonces de “revalorisation” du salaire des jeunes chercheurs et d’augmentation du budget de l’ANR (120 millions € par an) à ces sommes.

      VI Que contient le projet de loi relatif à la programmation pluriannuelle de la recherche 2021-2027 ?

      La version stabilisée de la LPPR se compose de 20 articles.

      Titre Ier : Dispositions relatives aux orientations stratégiques de la recherche et à la programmation budgétaire.
      Art 1 : Approbation du rapport annexé.
      Art 2 : Programmation budgétaire 2021-2027, financements ANR, trajectoires de l’emploi scientifique.

      Titre II : Attirer les meilleurs scientifiques
      Art 3 : Chaires de professeur junior (tenure tracks)
      Art 4 : Fixer un cadre juridique spécifique pour le contrat doctoral. Développer les contrats post-doctoraux.
      Art 5 : Développer des CDI de mission scientifique.
      Art 6 : Faciliter avancements et promotions en cours de détachement ou de mise à disposition.

      Titre III : Piloter la recherche et encourager la performance
      Art 7 : Lier évaluation et allocation des moyens par une rénovation de la contractualisation.
      Art 8 : Unités de recherche.
      Art 9 : Orienter les thèmes de recherche par l’Agence Nationale de la Recherche.

      Titre IV : Diffuser la recherche dans l’économie et la société
      Art 10 : Elargissement des dispositions de la « loi Allègre ».
      Art 11 : Elargissement des mobilités public-privé par les dispositifs de cumul d’activités à temps partiel.
      Art 12 : Elargissement des mobilités public-privé par les dispositifs d’intéressement des personnels.
      Art 13 : Droit de courte citation des images.

      Titre V : Mesures de simplifications et autres mesures
      Art 14 : Mesures de simplification en matière d’organisation et de fonctionnement interne des établissements. Délégations de signature. Rapport sur l’égalité femmes-hommes. Suppression de la mention des composantes dans le contrat d’établissement. Limitation des élections partielles en cas de vacance tardive. Approbation des conventions de valorisation des EPST. Mesure de simplification du régime des dons et legs à l’Institut de France ou aux académies.
      Art 15 : Mesures de simplification en matière de cumul d’activités.
      Art 16 : Mesures de simplification en matière de formation. Prolongation de l’expérimentation bac pro BTS. Possibilité de stage dans les périodes de césure.
      Art 17 : Ratification de l’ordonnance sur les établissements expérimentaux
      Art 18 : Simplification du contentieux relatif au recrutement des enseignants-chercheurs et chercheurs.
      Art 19 : Habilitations à légiférer par ordonnance.
      Art 20 : Entrée en vigueur de la loi.

      Titre VI : Rapport annexé

      [1] La sociologie de ce groupe, composé à 93% d’hommes, sans chercheur en SHS, et la hiérarchie des statuts qu’ils affichent, témoignent du fait que le temps où ils ont été pleinement productifs (la moyenne d’âge est de 72 ans et demi) ne saurait être considéré comme un âge d’or de la recherche.

      [2] Le pacte productif. Discours de Bruno Le Maire, ministre de l’Économie et des Finances à Bercy, le mardi 15 octobre 2019.
      https://www.economie.gouv.fr/pacte-productif/discours-de-bruno-le-maire-ministre-de-leconomie-et-des-finances

      [3] Le calcul affiné, séparant primes et salaires, conduit à -4,98 milliards € au lieu de -6 milliards € et à -9,12 milliards € pour la période 2021-2027, et non -11 milliards €. Nous avons gardé le calcul approximatif pour permettre à chacun de vérifier le calcul.

      Message du Groupe Jean-Pierre Vernant reçu par email, le 23.02.2020

    • #Temps_de_travail dans l’ESR (2) : essai d’analyse pour un·e enseignant·e-chercheur·se

      Résumé

      Le temps de travail des enseignants-chercheurs, cadré par le décret de 1984, est en général sous-évalué et sous-estimé, faisant l’object de représentations erronées. La contribution cherche à objectiver le temps professionnel. Plusieurs contributions récentes ont mis en évidence le degré de fragmentation des tâches, la contrainte accrue des tâches gestionnaires, une multiplication des tâches invisibles et extrêmement chronophages, dans le contexte de la diversification des missions de l’université et à leur autonomie. La démarche est personnelle et comporte une dimension réflexive sur ma propre relation aux fonctions que j’exerce de professeur des universités dans un département de géographie.

      Il s’agit d’analyser les pratiques, notamment dans un cadre d’injonctions contradictoires, de contraintes, concurrences et complémentarités entre les tâches d’enseignement et de recherche. L’objectif de cette contribution est de livrer les résultats d’une analyse du temps de travail sur une année entière, à travers quelques méthodes statistiques simples destinées à mettre en forme un agenda électronique (Google) dont le contenu s’apparente à des textes et informations non structurées (fouille de données et analyse textuelle), Les résultats de l’analyse montre un temps de travail de 2321 h annuelles (soit 290 jours pleins), dont 42 jours le week-end, débordant largement sur la soirée et la nuit. L’activité est décomposée en fonction des principales tâches : l’enseignement, la recherche, l’encadrement doctoral, l’évaluation, et les tâches administratives, courriels et réunions.

      Contexte

      La profession d’enseignant-chercheur (E.C.) fait l’objet d’idées reçues et d’une image fortement dégradée tant dans son investissement professionnel que dans son rapport au temps de travail. Cette représentation du temps de travail est d’ailleurs souvent moquée, voire caricaturée, depuis les assauts méprisants d’un président de la République N. Sarkozy en 2009 (“je vous remercie d’être venu, il y a de la lumière, c’est chauffé”1 ).

      Depuis quelques semaines, le mouvement lié à la préparation de la LPRR a relancé le débat sur le temps de travail des enseignants-chercheurs, et de la légitimité de l’ajustement éventuel de celui-ci en dehors du cadre dit des “#192_heures” (la modulation de service). Celui-ci est cadré autour du seuil de 192h Eq. TD d’enseignement, organisé en théorie comme un équilibre entre le temps d’enseignement et le temps de recherche, fixé par le décret de 1984, modifié par l’arrêté de 2009, qui se base sur un ratio de 4,2h travaillées pour 192h d’enseignement (préparation, corrections, activités annexes de l’enseignement, mise en ligne, formation, lectures afférantes…), soit #1607_heures de travail effectif théorique :

      “Le temps de travail pris en compte pour déterminer des équivalences horaires est le temps de travail applicable dans la fonction publique d’Etat, soit 1 607 heures de travail effectif. Il est composé pour moitié d’une activité d’enseignement correspondant à 128 heures de cours magistral ou 192 heures de travaux dirigés ou pratiques et pour moitié d’une activité de recherche”2.

      Métiers, #fragmentation, #invisibilité du temps de travail

      Dans l’activité quoditienne, ces deux activités, recherche et enseignement, ne sont pas nécessairement en compétition l’une avec l’autre, l’enseignement faisant partie des moments de constrution de la pensée et de production de savoirs nouveaux (Bodin 2018). Ce référentiel sert de base à des compensations horaires (décharges) pour une série d’activité annexes et administratives : ce sont ces dernières qui mettent sous contraintes les missions premières des E.C.

      Dans une certaine mesure, on peut considérer comme impossible voire absurde de mesurer le temps de travail d’un E.C., en tout cas le temps d’enseignement et de recherche du fait de la nature intellectuelle du métier et du caractère non mesurable et non objectivable de sa production3. Mais nos établissements surveillent très précisémment chaque heure de TD faite, seul référentiel objectivable en l’état, alors que personne ne maîtrise ce temps de travail, dépendant de nombreux interlocteurs, institutions, injonctions, sans aucune vision générale de la charge de travail. Au prix de remarques lorsque l’on demande à rectifier une erreur de quelques heures dans notre service d’enseignement, comme s’il était incongru ou illégitime de prêter attention à son temps de travail effectif. En balance, la vocation d’une part (“vous êtes privilégiés de faire ce métier”) ; l’obligation faite aux employeurs d’autre part que la charge de travail d’un salarié demeure dans les limites de l’acceptable.

      Depuis 2009 et le mouvement social massif de notre profession contre la réforme des statuts dans le cadre de la loi LRU (loi sur l’autonomie des universités de 2007), contre la réforme de la formation des enseignants, et contre le démantèlement de la recherche publique, le diagnostic est connu : temps professionnel trop contraint par les tâches gestionnaires, une tendance à la parcellisation et la fragmentation des tâches, une multiplication des tâches invisibles et extrêmement chronophages. Cette évolution a partie liée avec la diversification des missions de l’université et à leur autonomie, se traduisant par des pressions temporelles, un éclatement des fonctions, et une évolution des métiers des enseignants-chercheurs dans un cadre institutionnel de plus en plus complexe. Le rapport entre temps officiel et disponibilité (Lanciano-Morandat 2013) est très variable selon les institutions, les stades et stratégies de carrière, l’engagement professionnel, mais globalement, comme l’indiquent Gastaldi (2017), les principaux facteurs de pression trouvent leur origine dans les dispositifs d’évaluation constants (publications, HCERES, ANR, suivi de carrière, promotions, etc…) ; la mise sous tension des moyens dans la systématisation des financements sur projets et pour certains leur individualisation (Labex, ANR, ERC, IUF…) ; la managérialisation de l’ESR, avec une forte bureaucratisation (budgets, équipes, “reporting”, contrôle par les outils informations tels qu’Apogée) (Gastaldi 2017). Une enquête de Bodin (2018) mettait en évidence que les fonctions d’enseignement, de recherche et les charges administratives sont à la fois complémentaires et en concurrence, sans qu’aucune ne puisse être qualifiée de marginale dans l’activité. Selon cette enquête, les E.C. exercent trois métiers : 55% des EC enquêtés consacrent 2 jours et plus à l’enseignement, 38% à la recherche, 43% à l’administration. Un temps qui déborde très largement sur le soir et le week-end : 79% des EC travaillent après 22h, 97% le week-end et les jours de congés (Bodin 2018). Dans le cadre de la LPPR (loi de programmation pluri-annuelle de la recherche), une partie du débat s’oriente sur le temps de recherche. Ce diagnostic est clairement établi par la Concertation individuelle sur la loi de programmation pluriannuelle pour la recherche conduite par un collectif de 23 sociétés savantes (France 2019), qui précise notamment la priorité d’une action globale destinée à restaurer du temps de recherche :

      Redonner du temps de recherche aux chercheurs et enseignant.e.s-chercheurs.

      Abaisser le service annuel d’enseignement statutaire des EC de 192h à 150h équivalent Travaux Dirigés, le service actuel étant très largement supérieur aux pratiques internationales. Alléger les services d’enseignement des EC nouvellement recrutés (au-delà des 32 heures de décharge actuelles) et recruter un nombre plus élevé de chercheurs et EC permanent.e.s pour assurer aux étudiants un taux d’encadrement supérieur tout en limitant le recours excessif aux vacataires.
      Augmenter le nombre de congés sabbatiques réguliers, comme cela se pratique dans les autres pays, et les possibilités de délégation temporaire des EC vers les grands organismes.
      Limiter le gaspillage de ressources et le temps de recherche perdu à écrire des projets finalement non financés en renforçant conjointement le financement sur dotation des laboratoires et le taux de succès des appels à projets.
      Renforcer le soutien technique et administratif aux chercheurs par recrutement d’ITAs/BIATSS4

      Pour autant, cette dimension du temps de travail est peu présente dans le débat qui se structure autour de la LPPR. Ainsi, le volet emploi et carrières du rapport préliminaire à la LPPR (Berta 2019) focalise le diagnostic sur les questions de la rémunération, de l’érosion de l’emploi scientifique pérenne et les incidences sur la précarisation des statuts, et des conditions défavorables d’entrée dans la carrière. La faiblesse en terme de gestion des ressources humaines semble être pointée, les recommandations visant à faciliter la mobilité et renforcer l’évaluation. Sur le rapport à l’organisation du temps de travail, les recommandations y font implicitement référence, en particulier sur les questions de rémunération, la revalorisation étant envisagée via des régimes indemnitaires “tenant compte notamment de leur engagement dans leurs différentes missions”. En filigrane donc, les travaux en vue de la LPRR recommandent de mettre la pression sur deux secteurs qui actuellement contribuent très largement à la fragmentation des tâches et des missions : l’évaluation et la “course aux primes”, tels que cela s’opère par exemple dans le cadre de la PEDR. Dans ce contexte, le silence demeure assourdissant sur l’ensemble des tâches administratives et quotidiennes complètement invisibilisées (Lecuppre-Desjardin 2020).
      Comment construire une position réflexive ?

      L’objectif de cette contribution est de livrer les résultats d’une analyse du temps de travail sur une année entière, à travers quelques méthodes statistiques simples destinées à mettre en forme un agenda dont le contenu s’apparente à des textes et informations non structurées (fouille de données et analyse textuelle), en suivant deux motivations principales.

      D’une part, il s’agit de documenter. Lors du dernier mandat passé au CNU, Conseil National des Universités5, l’augmentation de la charge d’évaluation des dossiers individuels, en particulier pour les promotions, PEDR et suivi de carrière, donnait très largement à voir des dossiers de collègues dont les situations d’implication, de dévouement, mais aussi de sur-travail chronique voire de surmenage étaient évidentes. De ces travaux d’évaluation individuelle des carrières, je retiens la multiplicité, la fragmentation des tâches, mais aussi l’invisibilisation d’une partie du travail administratif ou d’évaluation (non ou peu reconnu), quand ce n’est pas évidemment la course après les injonctions contradictoires d’excellence, d’augmentation des effectifs, et la lutte quotidienne contre des moyens humains pérennes en contraction, dans tous les départements de géographie. Les parcours sont d’une grande diversité, très contingents aux ancrages locaux pour certains, aux dimensions internationales pour d’autres, subissent des évolutions de carrières très inégales selon les statuts, les conditions d’entrée dans la carrière, et évidemment le genre. Dans ce cadre, l’exercice est frappant du nombre de collègues qui cherchent soutien et attention auprès du CNU, témoignant de leur situation. Ainsi, confronté à des dossiers d’évaluation où l’on est invité à présenter ses réussites, où l’on devine aussi les échecs et les situations de détresse, je souhaite présenter une situation de rapport au travail qui me paraît sinon insatisfaisante, assurément dangereuse à terme.

      D’autre part, il s’agit d’analyser les pratiques, notamment dans un cadre d’injonctions contradictoires, de contraintes, concurrences et complémentarités entre les tâches d’enseignement et de recherche (Gastaldi 2017 ; Bodin 2018 ; Le Blanc 2019). Alors que je me portais candidat pour moi-même bénéficier du privilège d’une décharge dans le cadre d’un dispositif individuel, l’IUF, il m’a semblé nécessaire d’objectiver cette situation relative au temps de travail. D’une part pour tenir bon dans les débats sur la nature des tâches que nous avons à exécuter, sur la bureaucratisation de l’université soumise aux normes du new public management, sur les effets de la multiplications des structures au sein desquelles nous évoluons (UFR, UMR, Ecole doctorale, Labex, IDEX…). D’autre part, j’ai fait cet exercice pour ma propre information, après avoir subi, déjà, deux situations dites de burn out, dont une suivie d’une hospitalisation. Ce point me paraît important, car l’exercice auquel je me suis attelé visait, avant tout, à m’aider à définir les seuils, les priorités, et ce à quoi il faudrait renoncer dans une tentative d’un retour progressif à une situation tenable. Je fais cet exercice, totalement idiosyncratique, et donc très contingent, non seulement à des fins de discussion, mais comme un point réflexif sur mes propres pratiques d’implication dans le métier. L’absence de référent sur ce point dans mon établissement, du désintérêt des services RH sur ces questions, sans même parler de médecine du travail, inexistante (je ne l’ai jamais rencontrée depuis mon recrutement en 2004), sont des facteurs aggravants : tous ces éléments ont contribué à ma motivation pour l’expérience que j’ai tenté de mener à bien de mesure de mon temps de travail.
      Données et méthodologie

      La méthode adoptée vise à dresser un bilan, sur une année, du 1/11/2018 jusqu’au 31/10/2019 : j’ai noté dans mon agenda Google tout ce que je faisais : cours, écriture d’article, conférence, tâches administratives, courriels, jurys, évaluations, précisant au maximum avec des mots clés, tatonnant aussi un peu dans l’exercice de description, tentant d’être le plus rigoureux chaque jour dans les horaires, et les contenus des tâches. Ces données, exportées au format CSV, décrivent 1430 tâches uniques, leurs jours, horaires et durée. Elles ont été rassemblées dans une base de données que j’ai exploitée ensuite, en procédant à des analyses de nombre d’occurrences des mots-clés, en limitant l’analyse aux 100 mots-clés les plus fréquents. Les tâches correspondant à des erreurs de codage, les colloques ou déplacement notés sur plusieurs jours, ainsi que d’éventuelles traces d’activités non professionnelles ont été éliminées, grace à l’analyse textuelle sur les mots clés et leurs occurrences. Les outils utilisés, sous R, relèvent de l’analyse textuelle (package quanteda) et de l’analyse multivariée (FactoMineR) afin de classifier les principales catégories d’activité en fonction des corrélations entre les occurrences d’activités et de tâches. Je ne livre ici que quelques analyses descriptives.
      Résultats

      En fonction des tâches quotidiennes, notées systématiquement pendant un an dans mon agenda électronique, le temps de travail annuel est estimé à 2321.5 heures, soit 290 jours temps plein à 8h/jour. Ce total est à comparer au référentiel de 1607h réglementaires, qui n’a évidemment qu’une valeur indicative. Rappelons dans ce décompte qu’une année est composée de 261 jours de semaines, et de 104 jours de week-end. Les périodes sans activités et congés sont permises par un report des activités sur les nuits, et elle débordent évidemment très largement sur les week-ends, de l’ordre de 335 h/an, soit 42 jours pleins (il y a 52 week-ends dans l’année, peu ne sont donc pas travaillés), au détriment de l’équilibre personnel et familial, et évidemment de la santé. Sans compensation, ni heures complémentaires.
      Les grandes catégories de l’activité

      A l’issue d’une analyse factorielle et d’une classification (Figure 1), l’analyse des tâches, triées par mots-clés (analyses lexicales sur l’agenda électronique) met en évidence plusieurs pôles très clairement identifiables dans les activités quotidiennes, synthétisées dans le Tableau 1 :

      D’une part l’activité d’enseignement (les 192h équiv. TD) représente avec l’ensemble des tâches afférantes de préparation, de suivi des étudiants, de l’ordre de 387 heures. C’est une activité comprimée par les autres tâches, dans un cadre où de nombreux cours font l’objet d’une préparation relativement rapide. Une décharge d’enseignement vient comme un soulagement, alors que cela n’affecte qu’une partie déjà bien réduite de l’ensemble des activités. Cette actitivé était légèrement réduite par rapport aux années précédentes : pas de nouveaux cours, et surtout pas de préparation de CAPES en 2018-19, des enseignements lourds nécessitant la préparation de nouveaux cours sur programme auxquels j’ai participé systématiquement depuis le début de ma carrière.
      Cette activité d’enseignement est complétée par celle de corrections de copies, très nettement séparée dans le temps (soirées, week-ends, vacances), et dans l’espace, puisqu’elle se fait rarement sur le lieu principal de travail : de l’ordre de 95h au total en 2018-19. L’enseignement et les corrections représentent 21% du temps de travail total, loin des 50% théoriques.
      D’autre part, l’activité de recherche correspond à environ 644h, soit 27% du temps, comportant la réponse aux appels d’offre pour chercher des financements (en l’occurrence auprès de l’ANR et du programme européen ESPON), la direction et coordination de projet, les analyses de données, le recueil de sources, l’écriture, les publications, le suivi des conventions. Cette activité constitue une priorité, que j’ai pu maintenir et protéger, sur les soirées, les week-ends, les périodes d’interruption de cours, grâce notamment à la sanctuarisation des périodes de terrain aménagées pendant les “vacances” de printemps.
      Séparé du précédent, l’encadrement et le suivi des thèses, comportant de nombreux rendez-vous, suivi de rédaction, préparation des soutenances, coachings variés (stratégie de publications, préparation du CNU et de la campagne de recrutement, soutien moral, etc.), rédaction des lettres de recommandation quand arrive la période des recrutements CDD pour les jeunes docteurs. Ces éléments constistuent un champ fondamental de l’activité de directeur de recherche, qui représente de l’ordre de 377h (16%). Un champ particulièrement intense avec trois soutenances, donc relectures et corrections de thèses, dans l’année 2019.
      Un temps considérable correspond aux activités d’évaluation, à plusieurs niveaux : évaluations individuelles (CNU, qualifications, promotions, primes, suivi de carrière), évaluations d’articles et de projets de recherche pour diverses agences en France et à l’étranger, évaluations HCERES, et par ailleurs la préparation des soutenances, la préparation des pré-rapports ou rapports, la participation à des jurys de thèse et HDR (environ 3 à 5 par ans). Ce sont pour l’essentiel des heures de travail invisibles, le plus souvent dans des commissions ou des jurys qui nécessitent des déplacements en dehors de l’établissement, et soumises à des délais courts et une forte pression temporelle. La plupart de ces actes sont exercés à titre gratuit, pas ou peu indemnisées, ou en dessous du SMIC horaire quand elles le sont (CNU et HCERES en particulier), alors qu’il s’agit très clairement d’activités qui débordent du temps de travail légal et de l’activité principale : 307 h (13%) en 2018-19.
      Les heures liées aux tâches ancillaires, relatives à l’administration, les mails, les réunions (diverses) et de présence dans les instances et conseils (conseil scientifique d’UFR, conseil facultaire, etc…). Une partie de cette activité est liée, de fait, à la direction d’unité CNRS ou aux fonctions de direction (master), et représentent 509h (22%). L’essentiel de ces tâches administratives reposant sur des échanges de mails et de documents, voire sur des “applications métiers” ou sites intranet dédiés, quand il s’agit d’opérer le recrutement des ATER, lors des comités de sélection pour le recrutement des collègues, ou dans le suivi des actes de gestion d’une unité CNRS (promotion et suivi de carrière de personnels de l’unité, par exemple).. A noter que la décharge de direction d’unité, compensant ces fonctions, est de 24h annuelle, celle de directeur de master 16h. Sans autre commentaire. Si le traitement statistique regroupe les tâches admnistrative, les courriels et les réunions, c’est que celles-ci sont bien souvent associées dans les temps et les lieux : de nombreux tableaux Excel à remplir, de reporting sur les horaires et maquettes, de tableaux de soutenabilité de master, de rapports annuel d’une unité, d’analyse des dossiers de candidatures pour les master. Et puis, il revient à l’honnêteté intellectuelle de dire que compte-tenu du caractère débordant du temps de travail, de nombreux mails sont faits pendant les réunions, même s’il est évident que cela nuit à l’efficacité d’ensemble.

      Le profil de l’activité

      La Figure 2 fait une synthèse de la distribution quotidienne et horaire de l’activité. Parmi les faits saillants, cette figure met en évidence la fragmentation temporelle, et le débordement systématique des horaires de travail sur le début de matinée (dès 6h30…), la soirée (après 22h), parfois la nuit, avec de très longues journées. Les deadlines à respecter, notamment pour le financement, imposant évidemment de pouvoir dégager du temps continu d’investissement (par exemple, la nuit mi-mars correspond au dépôt d’une ANR). Les congés, à l’exception d’une période relative de vacances l’été, sont systématiquement occupés, en particulier par les corrections et la recherche, dont on voit qu’elle s’intercale en fait dans des périodes intenses, mais finalement ponctuelles, notamment autour de la Toussaint et après le 15 mai. Si l’activité ralentit bien après le 15/7, la trêve reste interrompue par de l’administratif, des mails, et surtout du suivi doctoral, afin de préparer les dépôts de thèse de début septembre.

      Conclusion

      Cet exercice individuel montre des tendances bien identifiées et bien connues sur l’amplitude horaire, le débordement généralisé, et la fragmentation du temps de travail. Ce “temps de travail” ne décompte par ailleurs que les tâches balisées : pas de pause, pas de discussion ici sur les sandwiches pris devant l’ordinateur le midi, pas de discussions de couloir avec les collègues, pas de “réunion debout”. Ces éléments sont dans les blancs de la Figure , tout comme le temps de repos. De même, alors que l’activité se déploie sur trois sites à Paris en fonction des lieux d’enseignement et de recherche (dans les 5e et 13e arrondissements, ainsi que depuis septembre à Aubervilliers, nouveau campus Condorcet), de nombreux déplacements en transports en commun ponctuent les journées, de même que plusieurs déplacements à l’étranger, pour lesquels le temps de déplacement n’est pas vraiment pris en compte ici.

      Au-delà de ces constats, il faut insister sur la diversité des interlocuteurs et des institutions que chacune de ces tâches implique, chacune avec ses temporalités propres. Si l’enseignement relève essentiellement de l’université, c’est-à-dire l’employeur principal, il s’agit de la seule activité que voient et constatent effectivement les services de mon établissement et mon UFR. L’activité de recherche répond à de multiples institutions, de multiples contraintes réglementaires et contractuelles : le CNRS en premier lieu (tutelle de l’unité), un Labex (Investissements d’Avenir), un Idex, des grands projets (Campus Condorcet), des agences de financement (ANR), des commanditaires (Société du Grand Paris, ESPON, par exemple). S’agissant de l’encadrement doctoral, il s’agit d’une Ecole doctorale, relevant de l’établissement. L’activité d’évaluation est probablement celle qui s’opère dans le cadre insitutionnel le plus fragmenté : HCERES, ANR, revues, éditeurs, écoles doctorales de chaque établissement pour lesquels on établit des rapports, et des acteurs étrangers (revues et agences de recherche) qui nous sollicitent également pour l’évaluation de projets et travaux. Chacun de ces acteurs impose ses temporalités, ses normes, ses contraintes. L’activité administrative, de courriel et de réunion chapeaute le tout, et dans une certaine mesure fait tenir l’échaffaudage : il s’agit à la fois d’une activité subie au sein de chacun de ces périmètres institutionnels (réunions, réponses à des injonctions), mais également un temps important consacré à la coordination et la mise en cohérence dans un temps contraint des requêtes de ces acteurs variés.

      En espérant que cet exercice, de l’ordre de 3 minutes par jour de saisie de l’information, puisse engager d’autres collègues à tenter de suivre leur activité, afin que collectivement nous puissions mieux objectiver le travail invisibilisé (évaluations, commissions variées, travail administratif, interactions électroniques), qui représente au final une partie essentielle d’un temps professionnel très fragmenté et étalé (il faut bien manger, dormir, sortir encore un peu, voir ses enfants, dans les interstices), au détriment évidemment des missions de service public d’enseignement et de recherche.

      https://academia.hypotheses.org/20672

    • À quoi servira la LPPR ? L’exemple des recrutements

      Texte de la conférence donnée à l’occasion de la réunion d’information « La LPPR, vrai problème ou fausse alerte ? » 6 mars 2020, Paris, centre Panthéon, UMR8103, salle 6 Institut des sciences juridique et philosophique de la Sorbonne,

      -- I.—

      Il existe aujourd’hui une certaine confusion quant au rôle exact que jouera la LPPR dans le phénomène de précarisation de l’enseignement supérieur et de la recherche. Cette confusion est d’abord et avant tout la conséquence du refus de la ministre de l’ESRI de dévoiler l’avant-projet de loi – un refus désastreux pour le ministère et problématique pour la mobilisation :

      désastreux pour le ministère, d’abord, car il témoigne de façon particulièrement spectaculaire de la dégradation générale des relations entretenues avec la communauté universitaire ;
      problématique pour la mobilisation, ensuite, en ce qu’il entraîne une focalisation excessive des critiques sur les trois rapports dits « des groupes de travail » (les rapports remis au Premier ministre le 23 sept. 2019), faute d’autre texte à discuter.

      Bien sûr, la lecture des trois rapports est éclairante, ne serait-ce que parce qu’ils dévoilent le décalage considérable qui existe aujourd’hui entre, d’un côté, les orientations que veulent donner à l’ESR quelques individus occupant des fonctions de premier ordre dans ce secteur et, de l’autre côté, les aspirations d’une part importante de la communauté universitaire.

      Pour autant, il faut bien reconnaître que la ministre a raison de rappeler, comme elle l’a fait à maintes reprises, que ces rapports, indiscutablement, « ce ne sont que des rapports » (Frédérique Vidal, séminaire des nouveaux directeurs et directrices d’unité, CNRS / CPU, 4 février 2020). D’une certaine façon, se concentrer sur ces documents pour critiquer la LPPR, c’est alimenter encore davantage le discours – très prégnant chez toute une partie des collègues, et en particulier dans les facultés de droit – selon lequel il est inutile de se mobiliser contre un projet de loi qui nous est encore inconnu. Or, précisément, s’il faudrait sans doute moins se focaliser sur les trois rapports, c’est parce qu’on en sait aujourd’hui davantage sur le contenu de l’avant-projet de LPPR, en particulier parce que la ministre en a distillé plusieurs éléments lors de sorties récentes.

      On sait désormais, par exemple, que, quand bien même cette loi ne serait qu’une loi « de budget et non une loi « de structure » (pour reprendre l’opposition employée par la ministre), une telle distinction est trompeuse : la mise en place des nouveaux contrats d’objectifs et de moyens — un outil bien connu des juristes de droit public — et le jeu sur le montant forfaitaire du préciput de l’ANR — pour citer deux instruments que la ministre a présentés devant la Conférence des présidents d’université comme figurant dans la réforme — auront des conséquences structurelles tout à fait considérables sur le service public de l’ESR.

      Je ne m’attarde pas sur ce premier point, qui, s’il est crucial, n’est pas l’objet de mon propos. Ce sur quoi j’aimerais m’attarder, en revanche, c’est sur la question des recrutements (le fameux « assouplissement des modes de recrutement » évoqué par le président de la République lors de la cérémonie des 80 ans du CNRS, le 26 novembre 2019). C’est peut-être en ce domaine, en effet, que l’on observe le décalage le plus important entre ce que l’on sait désormais plus ou moins du contenu de l’avant-projet de loi et les critiques qui lui sont adressées dans le cadre des mobilisations. Le discours un peu fantasmé qui accompagne, chez certains collègues mobilisés, la publication du décret du 27 février 2020 relatif au contrat de projet dans la fonction publique, une des mesures d’application de la loi du 6 août 2019 de transformation de la fonction publique, est à cet égard caractéristique : s’il est presque certain que les contrats de projet seront massivement employés dans les universités à l’avenir, si, donc, il est très important de s’intéresser à ces nouveaux contrats, il est faux, en revanche, de répandre l’idée qu’avec ce décret, le gouvernement utiliserait la voie réglementaire pour faire discrètement passer certaines des mesures prévues dans la LPPR.

      Prétendre cela, c’est ramener à nos seules préoccupations d’universitaires un débat qui, malheureusement, va très au-delà — il concerne aussi bien la fonction publique d’État que la FP territoriale et la FP hospitalière — et à propos duquel les syndicats se sont battus becs et ongles pendant des mois, avant comme après l’adoption de la loi du 6 août 2019. Bien sûr, il faut être prudent lorsque l’on tient ce genre de discours, car un angle mort gigantesque persiste dans tous les cas : on ne sait pas ce qui, dans la LPPR, fera l’objet d’une habilitation à légiférer par voie d’ordonnance1.

      Ceci dit, s’agissant des recrutements, on a tout de même eu la confirmation de deux choses à présent, parce que la ministre les a évoqués à plusieurs reprises ces dernières semaines, dans ses prises de parole publiques : deux contrats nouveaux au moins2 devraient bien être créés par la voie de la LPPR : les « CDI de mission scientifique », d’une part ; les contrats de « professeurs junior », d’autre part. Ces deux contrats sont éminemment problématiques pour différentes raisons. Et, à première vue, on a du mal comprendre comment, avec de telles mesures, la ministre s’autorise à présenter la LPPR comme une simple loi « de budget ». Une première interprétation pourrait être de soutenir qu’il s’agit, de sa part, d’un mensonge éhonté. Une autre interprétation — qui est celle vers laquelle je tends — consiste à considérer que la ministre a une connaissance si précise du cadre juridique des recrutements dans l’ESR qu’à ses yeux, il est tout à fait évident que ces deux contrats ne sont pas le cheval de Troie de la précarité dans l’ESR, mais de simples mesures de technique juridique, destinées à régler deux points de droit bien spécifiques, pour lesquels, effectivement, il n’est pas possible d’en passer par autre chose qu’une loi.

      Il faut prendre au sérieux, à cet égard, les propos tenus par la ministre lors des journées SHS organisées par l’Agence nationale de la recherche les 25 et 26 février 2020, lorsqu’elle expliqua que, s’agissant des règles juridiques de recrutement, la LPPR n’interviendrait qu’à la marge, c’est-à-dire exclusivement pour « faire sauter les verrous législatifs » – au sens de « verrous » que seule une loi, précisément, a la compétence de faire sauter3. Autrement dit, c’est d’une vraie tournure d’esprit dont il faut s’imprégner si l’on veut que nos critiques de la LPPR fassent mouche : la ministre sait mieux que quiconque que le cadre juridique actuel permet d’ores et déjà de mener à bien la plupart des orientations préconisées par les rapports des groupes de travail en matière d’emplois, comme je vais essayer de le montrer plus loin.

      De ce fait, la présence, dans la LPPR, des CDI de mission scientifique et des contrats de professeurs junior ne marque pas tant la réorientation profonde du cadre juridique du recrutement dans l’ESR qu’elle ne témoigne, malheureusement, de ce que l’on en est déjà aux ultimes mesures d’adaptation — ce qui, je le précise pour qu’il n’y ait aucune confusion sur ce point, rend encore plus cruciale la mobilisation actuelle, en forme d’ultime-bataille-jusqu’à-la-prochaine… Si les CDI de mission scientifique et les contrats de professeurs junior figurent dans la LPPR, donc, c’est parce que deux contraintes législatives bien spécifiques doivent être levées :

      Le « CDI de mission scientifique » a pour objet de contourner la règle de la transformation obligatoire en CDI des relations contractuelles d’une durée supérieure à six ans – une règle qui, il faut le rappeler, n’a été introduite en France en 2005 que parce qu’il s’agissait d’une obligation européenne (directive du 28 juin 1999). Dans la lignée du « CDI de chantier ou d’opération » d’ores et déjà applicable « dans les établissements publics de recherche à caractère industriel et commercial et les fondations reconnues d’utilité publique ayant pour activité principale la recherche publique » depuis la loi PACTE du 22 mai 2019 (cf. art. L. 431-4 du code de la recherche et décret du 4 octobre 2019 fixant la liste des établissements et fondations concernés : CEA, IFREMER, CNES, Institut Pasteur, Institut Curie, etc.), l’objectif n’est rien d’autre, autrement dit, que de créer un CDI — un CDI aux conditions de rupture particulièrement souples — permettant d’éviter d’avoir à cédéiser.
      Le « contrat de professeur junior », quant à lui, n’a pas seulement pour objet, comme le dit la ministre (séminaire des nouveaux directeurs et directrices d’unité, CNRS / CPU, 4 février 2020), de permettre le « recrutement de scientifiques sur une première période de 5 à 6 ans, en prévoyant des moyens d’environnement spécifiques », car s’il ne s’agissait que de cela, la LPPR serait parfaitement inutile (ce genre de contrat est déjà possible en droit public français). Si la LPPR intègre ces nouveaux contrats, c’est très précisément parce que l’objectif est de créer une « track » vers la « tenure », c’est-à-dire une procédure dérogatoire de titularisation en droit de la fonction publique, par la reconnaissance d’un privilège d’accès aux corps de maître de conférences et de professeur dans un établissement déterminé, et ce hors des voies d’accès normal à ces corps. Et cela, seule une loi, techniquement, peut le faire.

      J’en arrive donc au point principal de mon intervention : en dehors de ces deux « adaptations » qui nécessitent une loi — en l’occurrence : la LPPR — le cadre juridique de l’enseignement supérieur permet d’ores et déjà de recruter massivement par la voie contractuelle — et, grâce à cette voie, d’organiser, pour ce qui concerne spécifiquement les enseignants-chercheurs qui nous succéderont, le contournement de la procédure de qualification nationale, la modulation des tâches et en particulier des services d’enseignements, ou encore la variation des rémunérations. Autant de points qui sont précisément ceux contre lesquels nous nous mobilisons actuellement, mais qui — il est important d’en avoir conscience — ne seront donc pas introduits par la LPPR, puisqu’ils sont déjà là. C’est cela que je voudrais essayer de rappeler à présent.

      -- II.—

      Premier rappel : le recrutement contractuel illimité organisé par la loi du 6 août 2019 de transformation de la fonction publique.

      La loi du 6 août 2019 de transformation de la fonction publique a ouvert la possibilité d’un recrutement illimité (c’est-à-dire non plafonné) par la voie contractuelle dans les établissements publics de l’État, y compris dans les établissements publics à caractère scientifique, culturel et professionnel (EPSCP : les universités). De ce point de vue, cette loi franchit un seuil juridique : dans les établissements publics de l’État, le recours à des agents contractuels ou à des fonctionnaires devient indifférent, alors que jusqu’ici, l’occupation des emplois répondant à des besoins permanents par des fonctionnaires était le principe, et le recours aux agents contractuels, l’exception (et ce, quand bien même, depuis une vingtaine d’années, le champ de cette exception avait progressivement été étendu). Un point n’a pas suffisamment été signalé, à cet égard : le projet de loi de transformation de la fonction publique excluait initialement de la nouvelle règle « les emplois pourvus par les personnels de la recherche »4.

      Le champ exact d’une telle exclusion n’était pas tout à fait évident, mais on pouvait raisonnablement défendre que cette exclusion avait vocation à maintenir le principe du recours aux fonctionnaires pour les recrutements au CNRS ou à l’IRD, par exemple, mais aussi pour le recrutement des enseignants-chercheurs dans les universités. Aux derniers instants des débats du projet de loi5, cependant, l’exclusion des « emplois pourvus par les personnels de la recherche » fut reformulée in extremis : avec cette reformulation, la loi ne dit plus que les « emplois pourvus par les personnels de la recherche » sont exclus de la règle du recours indifférencié aux agents contractuels ou aux fonctionnaires dans les établissements publics de l’État, mais que la règle du recours indifférencié aux agents contractuels ou aux fonctionnaires s’applique « sous réserve des dispositions du code de la recherche pour les agents publics qui y sont soumis ».

      Cette reformulation apparemment anodine — sur l’origine de laquelle le rapport de la commission mixte paritaire ne s’explique pas, et à propos de laquelle on ne sait rien, si ce n’est qu’à l’évidence, elle a été initiée par un parlementaire bien informé des problématiques de l’enseignement supérieur et de la recherche — a deux conséquences importantes, qui, en réalité, ruinent le principe même de l’exclusion :

      La première conséquence est que les enseignants-chercheurs se trouvent exclus de l’exclusion (ils se trouvent, par voie de conséquence, inclus dans la règle du recours indifférencié aux agents contractuels ou aux fonctionnaires), dans la mesure où, s’ils pouvaient éventuellement être considérés comme entrant dans le champ de la qualification de « personnel de recherche » (du fait de leur obligation statutaire de recherche), il est incontestable qu’ils sont soumis aux dispositions du code de l’éducation, et non à celles du code de la recherche.
      La seconde conséquence, plus sournoise, est que les agents des établissements publics à caractère scientifique et technologique (EPST – différents des universités, qui sont des EPSCP), et en particulier les agents du CNRS, ne peuvent vraisemblablement plus, eux non plus, être considérés comme exclus de la règle du recours indifférencié aux agents contractuels ou aux fonctionnaires.
      La nouvelle formule (« sous réserve des dispositions du code de la recherche pour les agents publics qui y sont soumis ») permet en effet de renvoyer à un article bien spécifique du code de la recherche, l’article L. 431-2-1, qui autorise, lui, le recours illimité à des agents contractuels dans les EPST « pour occuper des fonctions techniques ou administratives correspondant à des emplois de catégorie A, B ou C » et « pour assurer des fonctions de recherche ». Sur le fondement de la loi du 6 août 2019, les universités qui le souhaitent peuvent donc recruter massivement par la voie contractuelle, quelles que soient les fonctions exercées.

      Dès lors que le recrutement de fonctionnaires n’est plus le principe et le recrutement de contractuels, l’exception, le choix a été fait de n’instituer aucun garde-fou juridique — et en particulier aucun plafonnement — de sorte qu’en réalité, les seules limites au recours aux contrats qui demeurent sont, premièrement, le nombre minimal de fonctionnaires dont la présence est obligatoire pour faire fonctionner les organes statutaires des établissements et, deuxièmement, la bonne volonté des universités et du ministère. Ce qui, chacun en conviendra, est bien peu.

      Il est, de ce fait, très vraisemblable que l’augmentation du nombre de personnels des universités soumis au régime contractuel va s’accentuer, et c’est la raison pour laquelle il est crucial de porter une attention soutenue aux conditions juridiques dans lesquelles ces contrats vont être mis en place : cf. les nouvelles règles du décret du 19 décembre 2019 relatif à la procédure de recrutement pour pourvoir les emplois permanents de la fonction publique ouverts aux agents contractuels, qui entre en vigueur au 1er janvier 2020, et celles du décret du 27 février 2020 relatif au contrat de projet dans la fonction publique, qui entre en vigueur au 29 février 2020. Il n’est pas anodin, à ce propos, que les huit présidents d’université auteurs de la tribune « La France a besoin d’une loi de programmation pluriannuelle de la recherche », publiée dans Le Monde le 4 mars 2020, évoquent d’ores et déjà le contrat de projet, en vigueur depuis quatre jours seulement, à la date de la tribune… et suggèrent une utilisation très large de celui-ci

      « Assurer par les contrats de projet le financement de doctorants, de post-doctorants, de techniciens ou d’ingénieurs sur la durée d’un contrat de recherche » (Le Monde, 4 mars 2020).

      -- III.—

      Deuxième rappel : le recrutement contractuel illimité organisé par la loi du 10 août 2017 relative aux libertés et responsabilités des universités

      Il convient, par ailleurs, de ne pas perdre de vue qu’indépendamment des modifications introduites par la loi du 6 août 2019 de transformation de la fonction publique, la libéralisation des recrutements par voie contractuelle a d’ores et déjà été rendue possible dans les universités il y a une douzaine d’années, par l’entremise d’un texte spécifique aux universités, la loi du 10 août 2007 relative aux libertés et responsabilités des universités

      « La possibilité offerte aux universités de recruter des contractuels est l’un des points les plus importants de ce texte », Benoît Apparu, rapporteur du projet de loi, Assemblée nationale, séance du 25 juillet 2007).

      L’article L. 954-3 du Code de l’Éducation autorise, en effet, les présidents d’universités à

      « recruter, pour une durée déterminée ou indéterminée, des agents contractuels : 1° Pour occuper des fonctions techniques ou administratives correspondant à des emplois de catégorie A ; 2° Pour assurer […] des fonctions d’enseignement, de recherche ou d’enseignement et de recherche […] ».

      La question de ces CDI/CDD dits « contrats LRU » est bien connue : si, durant les débats parlementaires de 2007, ces contrats avaient été présentés comme destinés à contourner « par le haut » la grille des rémunérations de la fonction publique (et, par suite, à faire concurrence aux universités étrangères pour « attirer les talents »), chacun sait qu’ils ont, en réalité, constitué le support juridique grâce auquel les universités court-circuitent l’ouverture de postes de fonctionnaires titulaires, au profit de recrutements contractuels aux conditions économiques et sociales très dégradées.

      L’encadrement juridique de ces contrats est presque inexistant, en effet6 — tout au plus existe-t-il une obligation de recueillir l’avis d’un comité de sélection pour recruter des enseignants-chercheurs, des enseignants ou des chercheurs (art. L. 954-3, 2°), mais une très grande liberté a été laissée sur ce point7. À cet égard, un épisode un peu perdu de vue — mais particulièrement significatif du rôle très actif joué par le ministère de l’Enseignement supérieur dans la contractualisation des recrutements — mérite d’être rappelé.

      Lors des débats parlementaires consacrés aux « contrats LRU », en 2007, il avait été décidé que la proportion de ces contrats par université serait plafonnée, et c’est très exactement la raison pour laquelle, depuis lors, l’article L. 712-9 du Code de l’Éducation prévoit que le contrat pluriannuel d’établissement conclu par chaque université avec l’État doit

      « fixer le pourcentage maximum de cette masse salariale que l’établissement peut consacrer au recrutement des agents contractuels mentionnés à l’article L. 954-3 »8.

      Or, il apparaît que le ministère de l’Enseignement supérieur a fait en sorte de « déréguler » dans toute la mesure du possible ces contrats.

      Premièrement, la direction générale de l’enseignement supérieur et de l’insertion professionnelle (DGESIP) a fait le choix de ne jamais appliquer ce plafonnement pourtant prévu par la loi : aucun pourcentage maximum de la masse salariale consacrée au recrutement par la voie de « contrats LRU » n’a été fixé dans les contrats successivement conclus entre les universités et l’État depuis la fin des années 2000, au risque de l’illégalité et au point de susciter l’étonnement de la — pourtant timide — Inspection générale de l’administration de l’éducation nationale et de la recherche9.
      Deuxièmement, comme le révèle ce même rapport de l’IGAENR (n°2016-036), la direction générale des ressources humaines (DGRH) du ministère a fait le choix de soutenir l’interprétation la plus « dure », socialement parlant, de l’article L.954-3 du code de l’éducation, au point de s’opposer, sur ce point, à la direction générale des finances publiques du ministère en charge du budget : alors que la DGFP soutenait, d’une part, que l’introduction des « contrats LRU » par la loi de 2007 ne remettait pas en cause le principe, applicable jusqu’à la loi du 6 août 201910 selon lequel les besoins permanents des universités devaient être pourvus par les fonctionnaires titulaires, et d’autre part, que l’éventuel recours à des « contrats LRU » ne signifiait pas, pour autant, que les conditions contractuelles pouvaient être librement fixées par les universités11, la DGRH décida que les « contrats LRU » seraient des outils parfaitement autonomes par rapport aux autres textes de droit de la fonction publique, et en déduisit que les conseils d’administration des établissements et, à défaut, les présidents d’université seraient seuls compétents pour fixer les règles applicables aux agents recrutés par cette voie contractuelle.

      -- IV.—

      Conséquences en l’état actuel du droit, indépendamment de l’adoption ou non de la LPPR
      Il résulte donc de la loi du 10 août 2007 et de la loi du 6 août 2019 que les universités peuvent, s’agissant des postes répondant, pourtant, à des besoins permanents, recruter par la voie contractuelle sans aucun plafonnement. À ce stade, la seule limite juridique à ces recrutements — qui a déjà été évoquée plus haut — est le nombre minimal de fonctionnaires dont la présence est rendue obligatoire par le Code de l’Éducation pour faire fonctionner les organes statutaires des établissements12. C’est la raison pour laquelle il importe d’être aujourd’hui beaucoup plus précis dans la critique de la LPPR : le recours aux différents contrats existants offre d’immenses libertés de recrutement pour les besoins permanents des universités, permettant d’ores et déjà d’organiser, pour ce qui concerne les enseignants-chercheurs, le contournement de la procédure de qualification nationale, la modulation des services d’enseignement et les variations de rémunérations.

      En ce qui concerne les procédures de recrutement, d’abord : la procédure de qualification nationale peut aujourd’hui être largement contournée pour les recrutements dans les universités (de même, d’ailleurs, que les simples conditions de diplômes). Tout au plus faut-il respecter les conditions minimales des « contrats LRU » (loi de 2007), évoquées plus haut, et, dans les autres cas (loi de 2019), les nouvelles règles, elles aussi légères, du décret du 19 décembre 2019 relatif à la procédure de recrutement pour pourvoir les emplois permanents de la fonction publique ouverts aux agents contractuels (procédure identique pour les candidats à un même emploi permanent, publication préalable des modalités de la procédure de recrutement, entretien de recrutement d’au moins deux personnes, etc.).
      En ce qui concerne la nature des missions, ensuite : la fixation des missions relève du champ contractuel, de sorte que des tâches administratives diverses, et en nombre illimité, peuvent être confiées à un enseignant-chercheur recruté par voie contractuelle, tout comme les services d’enseignement peuvent faire l’objet de modulations à la hausse ou à la baisse5 (c’est déjà le cas, comme chacun sait, avec les « contrats LRU »°).
      En ce qui concerne les rémunérations, enfin : la fixation des rémunérations est marquée par une très grande souplesse, aussi bien pour les « contrats LRU » (loi de 2007) que pour les autres contrats (décret du 17 janvier 1986 qui pose la règle générale selon laquelle « le montant de la rémunération est fixé par l’autorité administrative, en prenant en compte, notamment, les fonctions occupées, la qualification requise pour leur exercice, la qualification détenue par l’agent ainsi que son expérience »).

      Dans ces conditions, on comprend mieux pourquoi l’Inspection générale des finances et l’Inspection générale de l’administration de l’éducation nationale et de la recherche, dans leur récent rapport conjoint (« Le pilotage et la maîtrise de la masse salariale des universités », avril 2019) s’étonnent des scrupules des universités à recourir aux recrutements contractuels, et en particulier s’inquiètent du fait que « les universités n’ont que marginalement utilisé l’article L. 954-3 du Code de l’Éducation » (contrats LRU). Dans ce rapport, la position est énoncée sans fard :

      « dès lors que la plupart des besoins peuvent être indifféremment couverts par des contractuels ou des titulaires, compte tenu de la similitude de leurs profils, l’augmentation de la proportion d’emplois contractuels dans les effectifs d’une université a pour conséquence de lui donner davantage de leviers pour piloter ses ressources humaines, sa masse salariale et son GVT [glissement-vieillesse-technicité] » (p. 27).

      Manière on ne peut plus claire de dire une conviction profondément ancrée dans l’esprit des inspecteurs : le recours aux recrutements contractuels devrait être une évidence pour les universités si celles-ci étaient de bonnes gestionnaires des deniers publics. Et c’est ce raisonnement très particulier qui permet aux inspecteurs d’affirmer sans rougir – car le plus rationnellement du monde — que

      « bien que se situant, tout financement confondu, juste au-dessus de la moyenne des pays de l’OCDE les universités sont à ce jour globalement correctement dotées par le budget de l’État pour couvrir leur masse salariale au regard de la situation des finances publiques », p. 3.)

      Ceci est, me semble-t-il, un point très important à garder en tête dans la mobilisation actuelle : les présidences d’universités recourent beaucoup moins qu’elles ne le pourraient aux recrutements contractuels, pour des raisons qui sont très variables selon les établissements. Autrement dit, si le cadre juridique est à peu près en place pour un recrutement massif par la voie contractuelle, c’est donc que tout se joue désormais au niveau des choix de chaque établissement dans les recrutements — à moins, bien sûr, de parvenir à changer le droit, ce qui devrait d’ailleurs être l’un de nos objectifs : proposer une autre loi sur la recherche.

      C’est très exactement la raison pour laquelle la ministre de l’Enseignement supérieur, de la Recherche et de l’Innovation a estimé, lors des journées SHS organisées par l’Agence nationale de la recherche les 25 et 26 février 2020, que « Les emplois, ce n’est pas mon travail » : les emplois, c’est le travail des universités — toute l’hypocrisie résidant dans le fait que le ministère s’évertue, en revanche, à orienter ce « travail », en contraignant les établissements à recruter bien davantage par la voie contractuelle. C’est la principale raison du chantage actuel à la non-compensation du « Glissement vieillesse technicité » par le ministère13. Et ce sera la principale conséquence des nouvelles voies d’allocation des moyens prévues par la LPPR, et c’est pour cette raison que, quand bien même elle ne ferait que distribuer de l’argent, cette loi réorientera structurellement l’ESR.

      -- V.—

      Face à ce phénomène de précarisation de l’enseignement supérieur et de la recherche, il me semble que nous avons en tant qu’enseignants-chercheurs en droit, eu égard à notre objet de recherche, un rôle particulier à jouer : un rôle dans l’analyse des évolutions en cours et, donc, un rôle dans la contradiction à apporter à ce qui n’est jamais que le travail d’autres juristes14. Je ne pense pas, ici, aux réflexions qu’il nous faudrait avoir quant aux actions juridiques à mener pour contester ces évolutions — il est très clair, à cet égard, qu’il existe quelques faiblesses juridiques dans la mise en oeuvre des outils précédemment décrits, qui pourraient être exploitées —, mais simplement, déjà, à ce qui constitue le coeur de notre métier, à savoir la recherche en droit.

      De ce point de vue, une tâche importante à engager, me semble-t-il, serait de montrer que la contractualisation croissante des différentes fonctions dans les universités n’est pas seulement un problème de précarisation. C’est aussi un problème de précarisation — et quand bien même ce ne serait que cela, ce serait amplement suffisant pour se mobiliser — mais ce n’est pas que cela.

      J’enfonce une porte ouverte, mais il nous faut défendre fermement le point suivant : même si l’on ne proposait que des CDI à l’avenir dans les universités, le problème resterait entier, en ce sens que la contractualisation, même garantie dans sa stabilité par le recours exclusif au CDI, est un recul considérable par rapport à la situation statutaire. Non pas seulement un recul en termes de protection sociale, mais une perte en termes de liberté de la recherche. L’on ne rappelle pas suffisamment, en effet, que le problème des libertés universitaires ne se joue pas seulement au travers de l’affirmation de grands principes opposables devant les tribunaux, mais se joue d’abord et avant tout, et même principalement, au travers du statut. Le statut, autrement dit, est le premier des garde-fous des libertés universitaires, car il est celui grâce auquel on endigue en premier lieu la question hiérarchique et toutes les formes d’emprise.

      https://academia.hypotheses.org/20878

    • Quelques réponses aux questions fréquemment posées sur la loi de programmation pluriannuelle de la recherche (LPPR)

      Dans ce complément à notre billet sur le lien entre LPPR et réforme des retraites (http://www.groupejeanpierrevernant.info/#Desenfumage), nous répondons aux questions qui nous ont été posées sur le projet de loi de programmation pluriannuelle de la recherche (LPPR), ses initiateurs, son calendrier et les sommes en jeu à partir des informations dont nous disposons.

      http://www.groupejeanpierrevernant.info/#FAQLPPR

  • Réseaux sociaux : flux à lier - #DATAGUEULE 95 - DataGueule
    https://peertube.datagueule.tv/videos/watch/b69424ee-33c8-4f7e-a47c-5c33d9c30b71

    Ils sont attirants, attachants … et rapidement indispensables. Les #réseaux_sociaux nous appâtent à coup de likes et nous bercent dans leurs « infinite scroll ». Et rapidement leurs #interfaces nous poussent à la consommation jusqu’à l’overdose. Et ce n’est pas un hasard. Ils ont bâti leurs empires sur notre #addiction à la #dopamine.

    #twitter #facebook #tinder #whatsapp #youtube #captologie #psychologie #smartphone #publicité_ciblée #monétisation_des_liens_sociaux #design #framasoft #mastodon #diaspora #logiciel_libre #culture_libre #société_libre

  • #Philippe_Lévy : « L’#hôpital va s’effondrer comme une barre obsolète de banlieue »

    Dans une tribune au Parisien - Aujourd’hui en France, le professeur des universités Philippe Lévy « lance une #alerte de plus afin que le grand public perçoive les enjeux de ce qui est en train de se dérouler » à l’hôpital.

    « De tous les centres hospitalo-universitaires (#CHU) et de la majorité des #centres_hospitaliers généraux s’élève la même plainte. L’#épuisement du #personnel, la #perte_de_sens et — c’est nouveau — l’#insécurité_des_soins y sont décriés. L’#AP-HP est emblématique car c’est le plus grand établissement hospitalier d’Europe. Je souhaite par ces quelques lignes lancer une alerte de plus afin que le grand public perçoive les enjeux de ce qui est en train de se dérouler.

    Le personnel non médical — infirmier(e) s, aide-soignant(e) s, psychologues… — est écrasé en raison de #salaires de misère, de plannings sans cesse modifiés, de l’impossibilité de se loger à proximité des hôpitaux, de la destruction des équipes attachées à un service, ne permettant pas une #formation adéquate ni la #transmission_du_savoir ni la #solidarité. Les infirmières n’ont plus les moyens d’accomplir leurs tâches dans le temps imparti… On doit fermer des lits par secteurs entiers, restreignant les capacités d’accueil. Il n’y a plus d’assistantes sociales pour accompagner la prise en charge des patients précaires.

    Dans les hôpitaux, il manque des manipulateurs radio. L’AP-HP remplace les #secrétaires par des #logiciels qui font des courriers. Mais les secrétaires organisent le temps des médecins, sont capables de distinguer l’urgence de l’accessoire, de gérer l’angoisse… L’#encadrement ne contrôle plus le #soin. Il est saturé par la gestion des plannings, les glissements de tâches. L’AP-HP a été sévèrement touchée par la #réforme_des_pôles qui a détruit les #unités_fonctionnelles qu’étaient les #services autour du #chef_de_service. La création des #pôles a généré d’innombrables réunions, des mises en place d’#indicateurs de #performance. Les super #pôles_interhospitaliers ont été inventés avec un responsable médical et un #cadre_paramédical très éloignés des différents services et de leurs préoccupations. Les #super_pôles ont encore moins bien fonctionné que les pôles. Puis on a créé, sans plus de succès, les #départements_médico-universitaires. Les jeunes #médecins sont maintenus dans un état précaire pendant des années. Malgré des besoins évidents de titulaires, ils restent #contractuels et sont renouvelés (ou non) tous les six mois. Ce sont pourtant des bacs +10, responsables de vies humaines !

    Les rapports avec les directions sont de plus en plus difficiles. Elles ne sont plus au service des équipes médicales, c’est l’inverse. Il nous faut remplir des #objectifs, expliquer des déficits, signer des contrats qui n’engagent que le #corps_médical. Il y a à l’AP-HP un #administratif pour deux médecins…

    On le comprendra, le problème de l’hôpital ne se limite pas aux urgences. C’est être aveugle que de le croire, de le dire, voire de le clamer. Voilà, mesdames et messieurs les futurs usagers, rapidement brossé le paysage dévasté de ce qui est fait de l’#hôpital_public censé pourtant assurer les soins au plus haut niveau de tous, pauvres comme riches, et assurer la recherche d’excellence et la formation. Nous sommes à un #point_de_non-retour où l’hôpital public va s’effondrer comme une barre obsolète de banlieue sous le regard avide de l’#hospitalisation_privée. Le #corps_médical et paramédical ainsi que la population doivent dire stop et se lever. Plus que temps ! »❞

    http://www.leparisien.fr/societe/philippe-levy-l-hopital-va-s-effondrer-comme-une-barre-obsolete-de-banlie
    #effondrement #privatisation #macronisme #santé #hôpital_public #accès_aux_soins #soins #précarité #new_management_public #néo-libéralisation #services_publics

  • Refugee : The Eritrean exodus
    Série en 5 parties

    Follow Chris Cotter, an American traveler, as he explores a common migration path through Ethiopia and into Israel, tracking the plight of Eritrean refugees. Chris and his crew visit several refugee camps, including the never-before-documented Afar region. The refugees tell stories of oppression, torture, and survival. Searching for solutions, Chris speaks to various NGOs and experts, including Assistant Secretary of State, Anne Richard. The outlook is bleak, but the spirit of the Eritrean refugees is hard to ignore.

    https://www.theeritreanexodus.com

    Part 1 :
    https://www.youtube.com/watch?v=YjouQhlllLY

    Part 2 :
    https://www.youtube.com/watch?v=0WHlK12IOG8

    Part 3 :
    https://www.youtube.com/watch?v=WkDeHGb8uWA

    Part 4 :
    https://www.youtube.com/watch?v=NqP2DQe34wo&t=36s

    Part 5 :
    https://www.youtube.com/watch?v=gqS6AadI4rk


    #réfugiés #réfugiés_érythréens #asile #migrations #Erythrée #Ethiopie #camps_de_réfugiés #frontières #histoire #frontière #indépendance #guerre_d'indépendance #Isaias_Afwerki #service_militaire #dictature #prisons #prisons_souterraines #sous-sol #souterrain #torture #enfants #Shire #Aysaita #Adi_Harush #Mai-Aini #Hitsas #viol #trafic_d'êtres_humains #Sinaï #kidnapping #esclavage #esclavage_moderne #néo-esclavage #rançon #Israël
    #film #film_documentaire #série

    –-> Très nord-américain dans le style, mais des images des camps de réfugiés en Ethiopie très parlantes et que je n’avais jamais vues...

    ping @isskein @karine4

  • Attention et société | InternetActu.net
    http://www.internetactu.net/2020/02/19/attention-et-societe

    Le 1er février se tenait à Paris la première édition des Assises de l’attention, organisée par un collectif d’associations… réunies pour alerter sur l’omniprésence des écrans, leurs dangers et réfléchir ensemble aux réponses individuelles, collectives et politiques à apporter à ce problème. L’éventail des associations représentées mêlait à la fois des associations volontairement alarmistes (comme le Collectif surexposition eux écrans dont la fondatrice est allée jusqu’à parler très exagérémentd’un risque d’autisme (...)

    #Google #Facebook #Netflix #Snapchat #YouTube #algorithme #Livre_électronique #smartphone #manipulation #technologisme #addiction #livre (...)

    ##santé
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    • Donc l’intolérance au lactose n’est pas seulement une mode destinée à montrer sa singularité ?

      Intéressant... Je n’avais aucune idée que ça pourrait varier si vite.

      "This combination of physical traits has been previously noted in other European hunter-gatherers, suggesting that this phenotype was widespread in Mesolithic Europe and that the adaptive spread of light skin pigmentation in European populations only occurred later in prehistory,” wrote Schroeder and his colleagues.

    • This single discarded piece of ancient chewing gum tells us that the ancient woman, who Schroeder and his colleagues have nicknamed Lola, was probably lactose intolerant, ate duck and hazelnuts, and may recently have had pneumonia. She also had blue eyes, dark brown hair, and dark skin

      #chewing_gum

      Article original :

      A 5700 year-old human genome and oral microbiome from chewed birch pitch
      Theis Z. T. Jensen, Jonas Niemann, Katrine Højholt Iversen, Anna K. Fotakis, Shyam Gopalakrishnan, Åshild J. Vågene, Mikkel Winther Pedersen, Mikkel-Holger S. Sinding, Martin R. Ellegaard, Morten E. Allentoft, Liam T. Lanigan, Alberto J. Taurozzi, Sofie Holtsmark Nielsen, Michael W. Dee, Martin N. Mortensen, Mads C. Christensen, Søren A. Sørensen, Matthew J. Collins, M. Thomas P. Gilbert, Martin Sikora, Simon Rasmussen & Hannes Schroeder
      Nature Communications 10:5520 (2019)
      https://www.nature.com/articles/s41467-019-13549-9

      A rajouter à la compilation #archéologie :
      https://seenthis.net/messages/633249

      #histoire #préhistoire #anthropologie #civilisation #évolution #nourriture #genome #microbiome

  • Why the FTC Wants to Revisit Hundreds of Deals by Big Tech | WIRED
    https://www.wired.com/story/ftc-special-order-review-big-tech-killer-acquisitions

    Silicon Valley’s “if you can’t beat ’em, buy ’em” approach comes under federal scrutiny. Some antitrust experts say better late than never. When Facebook bought WhatsApp for $22 billion in 2014, many observers scratched their heads. The smaller messaging platform had annual revenues in the low tens of millions. How could it be worth so much ? Soon enough, however, Facebook’s logic became clear. While little noticed in the US, WhatsApp was already a juggernaut overseas, with hundreds of millions (...)

    #Alphabet #DoubleClick #Google #Amazon #Facebook #Picasa #Snapchat #WhatsApp #Zappos #AdMob #domination #lutte #FTC #WholeFoods #Apple #Microsoft #Nest #Gmail #Instagram (...)

    ##GooglePhotos

  • Pourquoi je démissionne de toutes mes fonctions (administratives) à l’université de Nantes
    https://www.affordance.info/mon_weblog/2020/02/pourquoi-je-demissione-universite-nantes.html

    En 7 ans, je pense avoir exploré toutes les principales failles d’une université qui achève de se renier dans chacune de ses valeurs fondamentales et qui ne tient plus que par la curiosité et l’envie de ses étudiants et le dévouement, hélas souvent mortifère, d’une partie de son personnel enseignant, technique et administratif. Source : affordance.info

  • Zobeltitzstraße 3-118 in Berlin - KAUPERTS
    https://berlin.kauperts.de/Strassen/Zobeltitzstrasse-13403-Berlin


    Was der Kaupert nur ahnen läßt: Diese Reinickendorfer Straße ist einem der wichtigsten, zum Glück inzwischen fast vergessenen, Propagandisten der reaktionären Hohenzollernherrschaft gewidmet. Heute am 10.2.2020 jährt sich sein Tod zum sechundachtzigsten Mal. Zwei Jahre nach seinem Tod widmeten die Renickendorfer Nazis ihm eine Straße. Nach 1945 sorgten die nun zu lupenreinen Demokraten und Antikommunisten mutierten Verbrecher dafür, dass sein Name im Gedächtnis der Stadt erhalten blieb. In der DDR hingegen wurde seine Geschichtsklitterung über die Novemberrevolution aus den Bücherregalen entfernt.

    Straßenverlauf von Belowstraße bis Auguste-Viktoria-Allee und Quäkerstraße, rechts gerade, links ungerade
    Ortsteil: Reinickendorf
    Name seit 1.12.1936
    Alte Namen Wacholderstraße (vor 1887-1936 und 1945-1946)

    Zobeltitz, Fedor Carl Maria Hermann August von, geb. 5.10.1857 Spiegelberg, + 10.2.1934 Berlin, Schriftsteller.

    Zobeltitz, Fedor Carl Maria Hermann August von, geb. 5.10.1857 Spiegelberg, † 10.2.1934 Berlin, Schriftsteller.Er besuchte eine Kadettenanstalt, trat dann in ein Kavallerieregiment ein, nahm bald darauf aber seinen Abschied, um das väterliche Gut zu übernehmen. Danach wurde er Redakteur der „Militärischen Blätter“ in Berlin, gründete die „Gesellschaft der Bibliophilen“ und übernahm von 1897 bis 1909 die Redaktion für deren „Zeitschrift für Bücherfreunde“. Ab 1904 gab er die „Neudrucke literaturhistorischer Seltenheiten“ heraus. Er bereiste u. a. Italien, Frankreich, Algerien und Marokko. Zobeltitz schrieb wie sein Bruder Hanns Friedrich Gottlieb Ägidius Ehrenreich von Zobeltitz (1853-1918) vorrangig Gesellschaftsromane, deren Gestalten sie aus einer idealisierten Welt des Adels erfanden. Fedor Zobeltitz publizierte u. a. „Fürst Bismarck. Ein Lebensbild für Volk und Heer“ (1881), „Die Pflicht gegen sich selbst“ (1894), „Besser Herr als Knecht“ (1900), „Heinz Stirlings Abenteuer“ (1915/16) und die Autobiographie „Ich hab so gern gelebt“ (1934). Das Urnengrab des Schriftstellers befindet sich auf dem Städtischen Friedhof Wilmersdorf, Berliner Straße 81–103.

    1936 erhielten #Wacholderstraße und Straße Nr. 58 den Namen Zobeltitzstraße. 1945/46 trug der Weg kurzzeitig wieder den Namen Wacholderstraße, der jedoch wieder rückgängig gemacht wurde. Am 1.10.1963 wurde die Verlängerung der Zobeltitzstraße, die Straße Nr. 407, ebenso benannt.

    Fedor von Zobeltitz – Wikipedia
    https://de.wikipedia.org/wiki/Fedor_von_Zobeltitz

    Fedor Karl Maria Hermann August von Zobeltitz (geb. 5. Oktober 1857 auf Gut Spiegelberg, Provinz Brandenburg; † 10. Februar 1934 in Berlin) war ein deutscher Schriftsteller und Journalist.
    ...
    Neben seiner Bücherleidenschaft reiste Zobeltitz ausgesprochen gern. Seine Reisen führten ihn bis nach Afrika und Asien.
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    Kurz vor seinem Tod schrieb Fedor von Zobeltitz seine Autobiographie Ich habe so gern gelebt, die im Todesjahr 1934 [posthum] erschien. Sein Urnengrab befindet sich auf dem Städtischen #Friedhof #Wilmersdorf im Kreuzgang, Wand B, Nische 123.

    Fedor von Zobeltitz veröffentlichte auch unter dem Pseudonym F. Gruenewald.

    Im Dezember 1936 wurde eine Straße in Berlin-Reinickendorf nach ihm Zobeltitzstraße benannt.

    1953 wurde sein Werk Die von Schebitz. Geschichte einer Adelsfamilie im Revolutionsjahr (Ullstein 1920) in der DDR auf die Liste der auszusondernden Literatur gesetzt.

    EIne Leseprobe aus dem Werk des Hohenzollern-Bewunderers folgt als Beispiel für die devote Haltung gegenüber den damals herrschenden Berufsmördern, Räubern und Ausbeutern. Es sind die selben, deren Nachkommen heute die zwischen 1945 und 1949 von der Sowjetmacht vergesellschafteten Besitztümer zurück verlangen. Dank der Gesetz gewordenen Kohlschen Doktrin von Rückgabe vor Entschädigung konnten sie sich bereits den von der Regierung der DDR zwischen 1949 und 1989 in Volkseigentum überführten Besitz erneut aneignen.

    Dieser Text zeigt die preussischen Adligen, wie sie sich selber gerne porträtiert sahen. Aus „Besser Herr als Knecht“ spricht der arrogante Hochmut von Zobeltitz und seinen Klassengenossen auf dem Höhepunkt ihrer Macht.

    Besser Herr als Knecht
    https://www.projekt-gutenberg.org/zobeltit/bessherr/bessherr.html

    »Je bois à la santé de Sa Majesté l’empereur d’Allemagne et roi de Prusse et à la santé de l’impératrice et reine! ...«

    Der Schah sprach diesen kurzen Toast mit ziemlich leiser Stimme, so daß ihn nur die umsitzenden hohen Herrschaften verstehen konnten. An den entfernteren Tischen reckte man die Hälse. Ein paar Kammerherrn flüsterten sich mit ernst bleibenden Gesichtern boshafte Bemerkungen zu, und ein junges Mädchen, das erst bei der letzten Cour am Hofe eingeführt worden, kicherte verstohlen in ihre Serviette hinein.

    An der Tafel der Majestäten reihte sich Fürstlichkeit an Fürstlichkeit mit den Trägern berühmter Namen. Da sah man die Siegfriedserscheinung des Kronprinzen, noch stolz, kraftvoll und unberührt von dem Gifthauche jener dämonischen Krankheit, der er erliegen sollte, als ihn kaum das Diadem der Kaiserwürde schmückte – und ein paar Plätze weiter den Prinzen Friedrich Karl in seiner roten Attila, wie er soeben das Sektglas erhob, um seiner ältesten Tochter freundlich zuzutrinken, der Prinzessin Elisabeth, die neben dem Herzog Elimar von Oldenburg saß. Da sah man auch noch die meisten der Paladine des alten kaiserlichen Herrn – den schweigsamen Moltke mit seinem ausdrucksvollen Cäsarenkopf, Roon, Manteuffel, Göben und den gewaltigen Eisenfresser Steinmetz mit seiner schönen blutjungen Gattin. Nur Bismarck war daheim in seinem Sachsenwalde geblieben; die Neuralgie plagte ihn wieder, und so hatte er darauf verzichten müssen, sich im Glanze Persiens zu sonnen.

    Mohammed Ali Schah – Wikipedia
    https://de.wikipedia.org/wiki/Mohammed_Ali_Schah

    Mohammed Ali Schah oder Mohammad Ali Schah (Kadschar) (persisch محمدعلی شاه; geb. 21. Juni 1872; † 5. April 1925 in Sanremo) war als sechster Kadscharenkönig von 1907 bis 1909 Schah von Persien. Er war mit zwei Frauen verheiratet, die zusammen sechs Söhne und zwei Töchter gebaren.

    Friedrich III. (Deutsches Reich) – Wikipedia
    https://de.wikipedia.org/wiki/Friedrich_III._(Deutsches_Reich)#Deutscher_Kronprinz

    Seit 1871 in der Doppelrolle als „Deutscher Kronprinz und Kronprinz von Preußen“, wurde Friedrich Wilhelm durch die Langlebigkeit seines Vaters und die Dauer-Herrschaft Bismarcks politisch immer stärker zermürbt. Lediglich nach einem Attentat auf Wilhelm I. führte der Kronprinz 1878 vorübergehend die Regierungsgeschäfte, wurde von Bismarck aber so geschickt ausmanövriert, dass er auf dessen Politik keinerlei Einfluss nehmen konnte. Nach diesem Stellvertretungs-Semester wurde er schließlich wieder in einen machtlosen Wartestand zurückgestuft.

    Helmuth von Moltke (Generalfeldmarschall) – Wikipedia
    https://de.wikipedia.org/wiki/Helmuth_von_Moltke_(Generalfeldmarschall)

    Karl Bernhard von Moltke, ab 1870 Graf von Moltke, genannt der Ältere, volkstümlich Der große Schweiger (geb. 26. Oktober 1800 in Parchim; † 24. April 1891 in Berlin), war ein preußischer Generalfeldmarschall. Als Chef des Generalstabs hatte er wesentlichen Anteil am Erfolg Preußens in den deutschen Einigungskriegen. Laut Heinrich Walle gehört er zu den erfolgreichsten Feldherren seiner Zeit.

    Friedrich Karl von Preußen (1828–1885) – Wikipedia
    https://de.wikipedia.org/wiki/Friedrich_Karl_von_Preu%C3%9Fen_(1828%E2%80%931885)

    Friedrich Karl Nikolaus von Preußen (geb. 20. März 1828 in Berlin; † 15. Juni 1885 in Klein Glienicke) war ein preußischer Prinz und Generalfeldmarschall.

    Elisabeth Anna von Preußen – Wikipedia
    https://de.wikipedia.org/wiki/Elisabeth_Anna_von_Preu%C3%9Fen

    Elisabeth Anna von Preußen (geb. 8. Februar 1857 in Potsdam; † 28. August 1895 in Fulda) war ein Mitglied des Hauses Hohenzollern und durch Heirat Erbgroßherzogin von Oldenburg (1878–1895).

    Elimar Herzog von Oldenburg – Wikipedia
    https://de.wikipedia.org/wiki/Elimar_Herzog_von_Oldenburg

    Anton Günther Friedrich Elimar Herzog von Oldenburg (geb. 23. Januar 1844 in Oldenburg; † 17. Oktober 1895 in Wien-Erlaa) war ein deutscher Komponist, Schriftsteller und Militär.

    Albrecht von Roon – Wikipedia
    https://de.wikipedia.org/wiki/Albrecht_von_Roon

    Albrecht Theodor Emil von Roon, ab 1871 Graf von Roon (geb. 30. April 1803 in Pleushagen bei Kolberg; † 23. Februar 1879 in Berlin), war ein preußischer Generalfeldmarschall. Als Kriegsminister hatte er wesentlichen Anteil am Erfolg Preußens in den deutschen Einigungskriegen.

    Edwin Karl Rochus Freiherr von Manteuffel – Wikipedia
    https://de.wikipedia.org/wiki/Edwin_von_Manteuffel

    Am 18. Oktober 1861 wurde Manteuffel zum Generalleutnant befördert, gleichzeitig wurde er zusammen mit Roon, dessen Ernennung Manteuffel betrieben hatte, ständiger Berater des Monarchen. Auch um die Berufung Moltkes zum Generalstabschef hat er sich verdient gemacht, so dass man sagen muss, dieser Chef des Militärkabinetts besaß eine fast beispiellos glückliche Hand. Man überschätzte aber seine politische Tätigkeit und schrieb ihm vielfach einen sehr nachteiligen reaktionären Einfluss zu. So nannte ihn 1861 Karl Twesten in seiner Broschüre Was uns noch retten kann einen unheilvollen Mann in unheilvoller Stellung. Diesen Angriff auf seine amtliche Stellung beantwortete Manteuffel mit einer Herausforderung zum Duell, welcher Twesten eine Verwundung und Manteuffel einen kurzen Arrest in Magdeburg eintrug.

    August Karl von Goeben – Wikipedia
    https://de.wikipedia.org/wiki/August_Karl_von_Goeben

    August Karl Friedrich Christian von Goeben (10. Dezember 1816 in Stade; † 13. November 1880 in Koblenz) war ein preußischer General der Infanterie.

    Karl Friedrich von Steinmetz – Wikipedia
    https://de.wikipedia.org/wiki/Karl_Friedrich_von_Steinmetz

    Karl Friedrich von Steinmetz (27. Dezember 1796 in Eisenach; † 4. August 1877 in Bad Landeck) war ein preußischer Generalfeldmarschall.
    ...
    Am 19. November 1863 war seine erste Gattin verstorben, 1867 heiratete er auf Burg Hohenzollern die 52 Jahre jüngere Else von Krosigk (geb. 21. November 1848; † 3. Oktober 1905).

    Krosigk (Adelsgeschlecht) – Wikipedia
    https://de.wikipedia.org/wiki/Krosigk_(Adelsgeschlecht)

    Otto von Bismarck – Wikipedia
    https://de.wikipedia.org/wiki/Otto_von_Bismarck

    Projekt Gutenberg-DE - Startseite
    https://www.projekt-gutenberg.org

    Das Projekt Gutenberg-DE besteht seit 1994 und hat schon einige Umzüge hinter sich. Unser erstes Büro war in einem Hinterzimmer in Hamburg Bahrenfeld, die gesamte technische Ausstattung bestand aus einem selbst zusammengebauten PC, Betriebssystem Windows 3.1. Auch der Webserver war selbstgebastelt und hieß Web4ham. Die ganze Sache war zuerst nur ein leidenschaftlich betriebenes Hobby, denn wir waren schon immer große Leseratten. Mit der Zeit aber kam der Erfolg und damit auch ein großes Problem, denn wir mußten für jede abgerufene Seite bezahlen. Als unsere Kosten 2000 DM pro Monat überstiegen standen wir vor der Wahl, entweder Gutenberg einzustellen oder einen Sponsor zu finden. Glücklicherweise fand der sich auch in der AOL Deutschland GmbH. Nach einigen Jahren endete diese Zusammenarbeit jedoch abrupt, und so standen wir wieder vor dem gleichen, aber inzwischen auf ein Vielfaches angewachsenen Problem der hohen Kosten, die wir mit Auftragsarbeiten und dem Verkauf der Gutenberg-DE Editionen einbringen mußten. Nach einigen Wochen offline nahm uns dankenswerterweise Spiegel Online unter seine technischen Fittiche, hat unsere Seiten fast 20 Jahre kostenlos gehostet und uns finanziell beim Buchkauf unterstützt. Diese Zusammenarbeit endet am 8. 1. 2020, die technischen Fittiche bietet uns ab jetzt n@work.

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