• La synthèse des revendications de la Confédération paysanne pour un revenu paysan pour toutes et tous
    + Non au vol du travail des agriculteurs et des salariés par les multinationales
    + Colère des agriculteurs : le syndicat CGT des gardiens de troupeaux veut faire entendre la voix des ouvriers agricoles

    La préoccupation première et majoritaire des agriculteurs et agricultrices sur le terrain est bien de vivre dignement de leur métier. Les politiques orientées vers le « produire plus » ne correspondent pas aux enjeux actuels. Aujourd’hui, nous demandons une orientation et des politiques cohérentes pour garder des paysannes et paysans nombreux, assurer le renouvellement des générations et bâtir notre souveraineté alimentaire dans le contexte de crise climatique et environnementale.

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2024/02/02/la-synthese-des-revendications-de-la-confedera

    #agriculture

  • Il nuovo volto del #water_grabbing e la complicità della finanza

    Fondi pensione e società di private equity investono sulla produzione di colture di pregio, dai piccoli frutti alle mandorle, che necessitano abbondanti risorse idriche. Il ruolo del fondo emiratino #Adq che ha acquisito l’italiana #Unifrutti.

    Per osservare più da vicino il nuovo volto del water grabbing bisogna andare nella regione di Olmos, nel Nord del Perù, dove il Public sector pension investment board (Psp), uno dei maggiori gestori di fondi pensionistici canadesi (con un asset di circa 152 miliardi di dollari) ha acquistato nel 2022 un’azienda agricola di 500 ettari specializzata nella coltivazione di mirtilli. Un investimento finalizzato a sfruttare il boom della produzione di questi piccoli frutti, passata secondo le stime della Banca Mondiale dalle 30 tonnellate del 2010 alle oltre 180mila del 2020: quantità che hanno fatto del Paese latino-americano il secondo produttore mondiale dopo gli Stati Uniti.

    Nella regione di Olmos l’avvio di questa coltivazione intensiva è stato reso possibile grazie a un progetto idrico, costato al governo di Lima oltre 180 milioni di dollari, per deviare l’acqua dal fiume Huancabamba verso la costa e migliorare la produzione agricola locale. “Ma il progetto non ha ottenuto i risultati annunciati”, denuncia il report “Squeezing communities dry” pubblicato a metà settembre 2023 da Grain, una Ong che lavora per sostenere i piccoli agricoltori nella loro lotta per la difesa dei sistemi alimentari controllati dalle comunità e basati sulla biodiversità. Chi ha realmente beneficiato del progetto, infatti, sono state le grandi realtà agroindustriali. “Quasi tutta l’acqua convogliata dalle Ande va alle aziende di recente costituzione che producono avocado, mirtilli e altre colture che vengono vendute a prezzi elevati all’estero -continua Grain-. Il progetto, finanziato con fondi pubblici, ha avuto pochi benefici per la popolazione ma ha creato una fonte di profitti per le aziende che hanno accesso libero e gratuito all’acqua e i loro investitori”.

    I protagonisti di questa nuova forma di water grabbing sono fondi pensione, società di private equity e altri operatori finanziari che si stanno muovendo in modo sempre più aggressivo per garantirsi le abbondanti risorse idriche necessarie alla produzione di colture di pregio. A differenza del passato, però, non cercano più di acquisire enormi superfici di terre coltivabili.

    “L’accesso all’acqua è sempre stato un fattore cruciale -spiega ad Altreconomia Delvin Kuyek, ricercatore di Grain e autore dello studio-. Ma negli ultimi anni abbiamo osservato un nuovo modello: investimenti in colture come mirtilli, avocado o mandorle che richiedono meno terra rispetto al grano o alla soia, ma quantità molto maggiori di acqua. A guidare l’investimento, in questo caso, è proprio la possibilità di accedere ad abbondanti risorse idriche per mettere sul mercato prodotti che permettano di generare un ritorno economico importante”. Una forma di sfruttamento che Grain paragona all’estrazione di petrolio: si pompa acqua da fiumi o falde fino all’esaurimento, senza preoccuparsi degli impatti sull’ambiente o dei bisogni della popolazione locale. Gli operatori finanziari, infatti, non prevedono di sviluppare attività produttive sul lungo periodo ma puntano a ritorno sui loro investimenti entro 10-15 anni. Un’altra caratteristica di questi accordi, è che tendono a realizzarsi in località in cui l’acqua è già scarsa o in via di esaurimento.

    Negli ultimi anni il fondo pensionistico canadese ha acquistato direttamente o investito in società che gestiscono piantagioni di mandorle in California, di noci in Australia e California. Mentre in Spagna, attraverso la controllata Hortifruit, è diventato uno dei principali produttori di mirtilli nella regione di Huelva (nel Sud-Ovest del Paese) dove si concentra anche la quasi totalità della coltivazione di fragole spagnole, destinata per l’80% all’export.

    In Perù nel 2020 sono stati prodotte 180mila tonnellate di mirtilli. Numeri che fanno del Paese latinoamericano il secondo produttore mondiale dopo gli Stati Uniti. Nel 2010 erano solo 30

    Tutto questo sta avendo effetti devastanti sulle falde che alimentavano le zone umide della vicina riserva di Doñana, ricchissimo di biodiversità e patrimonio Unesco: un riconoscimento oggi messo a rischio proprio dall’eccessivo sfruttamento idrico. Lo studio “Thirty-four years of Landsat monitoring reveal long-term effects of groundwater abstractions on a World heritage site wetland” pubblicato ad aprile 2023 sulla rivista Science of the total environment, evidenzia come tra il 1985 e il 2018 il 59,2% della rete di stagni sia andata perduta a causa delle attività umane. “Il problema è collegato anche alla produzione di frutti rossi che ha iniziato a diffondersi a partire dagli anni Ottanta, grazie alla presenza di condizioni climatiche ottimali e a un suolo sabbioso”, spiega ad Altreconomia Felipe Fuentelsaz del Wwf Spagna. Ma la crescita del comparto ha portato a uno sfruttamento eccessivo delle falde, da cui viene prelevata troppa acqua rispetto al tempo che necessitano per rigenerarsi. L’organizzazione stima che nel corso degli anni siano stati scavati più di mille pozzi illegali: “L’80% dei produttori rispetta le norme per l’utilizzo delle risorse idriche, ma il restante 20%, che equivale a circa duemila ettari di terreno, pompa acqua senza averne diritto”, puntualizza Fuentelsaz.

    Questa nuova forma di water grabbing interessa diversi Paesi: dal Marocco (dove il settore agro-industriale pesa per l’85% sul consumo idrico nazionale) al Messico dove è attiva la società di gestione Renewable resources group. Secondo quanto ricostruito da Grain, nel 2018 ha acquisito centomila ettari di terreni agricoli in Messico, Stati Uniti, Cile e Argentina, nonché diritti idrici privati negli Stati Uniti, in Cile e in Australia, generando rendimenti annuali superiori al 20% per i suoi investitori, che comprendono fondi pensione, di private equity e compagnie di assicurazione.

    Tra le società indicate nel report di Grain figura anche Adq, il fondo sovrano degli Emirati Arabi Uniti, che negli ultimi anni ha effettuato importanti investimenti nel comparto agro-alimentare: attraverso la sua controllata Al Dahra ha acquistato terreni in Egitto, Sudan e Romania. Nel 2020 ha acquisito il 45% di Louis Dreyfus Company, una delle quattro principali aziende che controllano il mercato globale del commercio agricolo. E nel 2022 ha comprato la quota di maggioranza di Unifrutti group, società italiana specializzata nella produzione e nella commercializzazione di frutta fresca con oltre 14mila ettari di terreni tra Cile, Turchia, Filippine, Ecuador, Argentina, Sudafrica e Italia.

    Unifrutti group ha sede fiscale a Cipro, uno dei Paesi dell’Unione europea a fiscalità agevolata che garantiscono vantaggi alle società che vi hanno sede. Ma a sfruttare i benefici sono anche oligarchi russi colpiti dalle sanzioni dopo l’annessione russa della Crimea nel 2014 e inasprite a seguito dell’invasione dell’Ucraina nel febbraio 2022. A rivelarlo l’inchiesta “Cyprus confidential” pubblicata a novembre dal Consorzio internazionale di giornalisti investigativi (Icij)

    “Questi investimenti hanno un doppio obiettivo -spiega ad Altreconomia Christian Henderson, esperto di investimenti agricoli nel Golfo e docente presso l’Università di Leiden nei Paesi Bassi- da un lato, sono orientate a trarre profitto dal commercio internazionale e dalle materie prime. In secondo luogo, si preoccupano di garantire la sicurezza alimentare. Queste due logiche in qualche modo sono intrecciate tra loro, in modo da rendere la sicurezza alimentare redditizia per gli Emirati Arabi Uniti. C’è poi un altro elemento: penso che i Paesi del Golfo siano piuttosto preoccupati dal fatto di essere visti come ‘accaparratori’ di terra. In questo modo, invece, possono affermare di aver effettuato un semplice investimento sul mercato”.

    Fondata dall’imprenditore Guido De Nadai nel 1948 ad Asmara come compagnia di import/export di frutta e verdura, oggi Unifrutti group è una realtà globale “che produce in quattro diversi continenti e distribuisce in oltre 50 Paesi” si legge sul sito. Trecento tipologie di prodotti commercializzati, 14mila ettari di terreni (di proprietà o in gestione) e 12mila dipendenti sono solo alcuni numeri di una realtà che ha ancora la propria sede principale a Montecorsaro, in provincia di Macerata, dove si trova il domicilio fiscale di Unifrutti distribution spa. La società è controllata da Unifrutti international holdings limited, con sede fiscale a Cipro, Paese a fiscalità agevolata. Con l’ingresso di Adq come socio di maggioranza sono cambiati anche i vertici societari: il 13 novembre 2023, ha assunto l’incarico di amministratore delegato del gruppo Mohamed Elsarky che ha alle spalle una carriera ventennale come Ceo per società del calibro di Kellog’s Australia e Nuova Zelanda e Godiva chocolatier e come presidente di United biscuits del gruppo Danone. Mentre Gil Adotevi, chief executive officer per il settore “Food and agriculture” del fondo emiratino Adq, ricopre il ruolo di presidente del consiglio di amministrazione: “Mentre il Gruppo si avvia verso un nuovo entusiasmante capitolo di crescita -ha dichiarato- siamo certi che la guida e la leadership di Mohamed porteranno l’azienda a realizzare i suoi ambiziosi piani”.

    Nel 2021 il gruppo ha commercializzato circa 620mila tonnellate di prodotti (in primo luogo banane, uva, mele, pere, limoni e arance) registrando un fatturato complessivo di 720 milioni di dollari (in crescita del 2% rispetto al 2020) e un margine operativo lordo di 78 milioni. Una performance estremamente positiva che “si è verificata nonostante le numerose sfide che hanno caratterizzato il perimetro operativo del gruppo a partire dalle condizioni climatiche avverse senza precedenti in Cile e in Italia”. Il Paese latino-americano -principale sito produttivo del gruppo, con oltre seimila ettari di terreno dove si producono mele, uva, pere e ciliegie- è stato infatti colpito per il quarto anno di fila da una gravissima siccità che alla fine del 2021 ha visto 19 milioni di persone vivere in aree caratterizzate da “grave scarsità d’acqua”. Come ricorda Grain nel report “Squeezing communities dry” tutte le regioni cilene specializzate nella produzione di frutta “stanno affrontando una crisi idrica aggravata dalla siccità causata dal cambiamento climatico”.

    https://altreconomia.it/il-nuovo-volto-del-water-grabbing-e-la-complicita-della-finanza
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  • Così l’Italia ha svuotato il diritto alla trasparenza sulle frontiere

    Il Consiglio di Stato ha ribadito la inaccessibilità “assoluta” degli atti che riguardano genericamente la “gestione delle frontiere e dell’immigrazione”. Intanto le forniture milionarie del governo a Libia, Tunisia ed Egitto continuano.

    L’Italia fa un gigantesco e preoccupante passo indietro in tema di trasparenza sulle frontiere e di controllo democratico dell’esercizio del potere esecutivo. Su parte delle nostre forniture milionarie alla Libia, anche di natura militare, per bloccare le persone rischia infatti di calare un velo nero. A fine 2023 il Consiglio di Stato ha pronunciato una sentenza che riconosce come non illegittima la “assoluta” inaccessibilità di quegli atti della Pubblica amministrazione che ricadono genericamente nel settore di interesse della “gestione delle frontiere e dell’immigrazione”, svuotando così di fatto l’istituto dell’accesso civico generalizzato che è a disposizione di tutti i cittadini (e non solo dei giornalisti). Non è un passaggio banale dal momento che la conoscenza dei documenti, dei dati e delle informazioni amministrative consente, o meglio, dovrebbe consentire la partecipazione alla vita di una comunità, la vicinanza tra governanti e governati, il consapevole processo di responsabilizzazione della classe politica e dirigente del Paese. Ma la teoria traballa. E ne siamo testimoni.

    Breve riepilogo dei fatti. Il 21 ottobre 2021 l’Agenzia industrie difesa (Aid) -ente di diritto pubblico controllato dal ministero della Difesa- stipula un “Accordo di collaborazione” con la Direzione centrale dell’Immigrazione e della polizia delle frontiere in seno al ministero dell’Interno. Fu il Viminale -allora guidato dalla prefetta Luciana Lamorgese, che come capo di gabinetto ebbe l’attuale ministro, Matteo Piantedosi- a rivolgersi all’Agenzia, chiedendole “la disponibilità a fornire collaborazione per iniziative a favore dei Paesi non appartenenti all’Unione europea finalizzate al rafforzamento delle capacità nella gestione delle frontiere e dell’immigrazione e in materia di ricerca e soccorso in mare”. L’accordo dell’ottobre di tre anni fa riguardava una cooperazione “da attuarsi anche tramite la fornitura di mezzi e materiali” per dare impulso alla seconda fase del progetto “Support to integrated border and migration management in Libya”.

    Il Sibmmil è legato finanziariamente al Fondo fiduciario per l’Africa, istituito dalla Commissione europea a fine 2015 al dichiarato scopo di “affrontare le cause profonde dell’instabilità, degli spostamenti forzati e della migrazione irregolare e per contribuire a una migliore gestione della migrazione”. La prima “fase” del progetto è dotata di un budget di 46,3 milioni di euro, la seconda, quella al centro dell’accordo tra Aid e ministero dell’Interno, di 15 milioni. A beneficiare di queste forniture (navi, formazione, equipaggiamenti, tecnologie), come abbiamo ricostruito in questi anni, sono state soprattutto le milizie costiere libiche, che si sono rese responsabili di gravissime violazioni dei diritti umani. Nel 2022, pochi mesi dopo la stipula dell’accordo, abbiamo inoltrato come Altreconomia un’istanza di accesso civico alla Aid -allora guidata dall’ex senatore Nicola Latorre, sostituito dal dicembre scorso dall’accademica Fiammetta Salmoni- per avere la copia del testo e degli allegati.

    La richiesta fu negata richiamando a mo’ di “sostegno normativo” un decreto del ministero dell’Interno datato 16 marzo 2022 (ancora a guida Lamorgese). L’oggetto di quel provvedimento era l’aggiornamento della “Disciplina delle categorie di documenti sottratti al diritto di accesso ai documenti amministrativi”. Un’apparente formalità. Il Viminale, però, agì di sostanza, includendo tra i documenti ritenuti “inaccessibili per motivi attinenti alla sicurezza, alla difesa nazionale ed alle relazioni internazionali” anche quelli “relativi agli accordi intergovernativi di cooperazione e alle intese tecniche stipulati per la realizzazione di programmi militari di sviluppo, di approvvigionamento e/o supporto comune o di programmi per la collaborazione internazionale di polizia, nonché quelli relativi ad intese tecnico-operative per la cooperazione internazionale di polizia inclusa la gestione delle frontiere e dell’immigrazione”.

    Il 16 gennaio 2023 Roma e Ankara hanno firmato un memorandum per “procedure operative standard” per il distacco in Italia di “esperti della polizia nazionale turca”

    Non solo. In quel decreto si schermava poi un altro soggetto sensibile: Frontex. Vengono infatti classificati come inaccessibili anche i “documenti relativi alla cooperazione con l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera (appunto Frontex, ndr), per la sorveglianza delle frontiere esterne dell’Unione europea coincidenti con quelle italiane e che non siano già sottratti all’accesso dall’applicazione di classifiche di riservatezza Ue”. Così come le “relazioni, rapporti ed ogni altro documento relativo a problemi concernenti le zone di confine […] la cui conoscenza possa pregiudicare la sicurezza, la difesa nazionale o le relazioni internazionali”.

    È per questo motivo che lo definimmo il “decreto che azzera la trasparenza sulle frontiere”, promuovendo di lì a poco un ricorso al Tar -grazie agli avvocati Giulia Crescini, Nicola Datena, Salvatore Fachile e Ginevra Maccarone dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione e membri del progetto Sciabaca&Oruka- contro i ministeri dell’Interno, della Difesa, della Pubblicazione amministrazione, oltreché l’Agenzia industrie difesa (Aid), proprio per vedere riconosciuto il diritto all’accesso civico generalizzato. In primo grado, però, il Tar del Lazio ci ha dato torto.

    Ed eccoci arrivati al Consiglio di Stato, il cui pronunciamento, pubblicato a metà novembre 2023, ha ritenuto infondato il nostro appello, riconoscendo come “fonte di un divieto assoluto all’accesso civico generalizzato”, non sorretto perciò da alcuna motivazione, proprio quel decreto ministeriale firmato Luciana Lamorgese del marzo 2022. “All’ampliamento della platea dei soggetti che possono avvalersi dell’accesso civico generalizzato corrisponde un maggior rigore normativo nella previsione delle eccezioni poste a tutela dei contro-interessi pubblici e privati”, hanno scritto i giudici della quarta sezione.

    I legali che ci hanno accompagnato in questo percorso non la pensano allo stesso modo. “Il Consiglio di Stato ha affermato che il decreto ministeriale del 16 marzo 2022, una fonte secondaria, non legislativa, adottata in attuazione della disciplina del diverso istituto dell’accesso documentale, abbia introdotto nell’ordinamento un limite assoluto all’accesso civico, che può essere invocato dalla Pubblica amministrazione senza che questa sia tenuta a fornire alcuna motivazione in merito alla sua ricorrenza.

    Si tratta di un’evidente elusione del dettato normativo, che prevede in materia una riserva assoluta di legge”, osservano le avvocate Crescini e Maccarone. Che aggiungono: “I giudici hanno respinto anche la censura relativa all’assoluta genericità del limite introdotto con il decreto ministeriale, che non individua precisamente le categorie di atti sottratti all’accesso, ma al contrario solo il settore di interesse, cioè la gestione delle frontiere e dell’immigrazione, essendo idoneo a ricomprendere qualunque tipologia di atto, documento o dato, di fatto svuotando di contenuto l’istituto”. Questa sentenza del Consiglio di Stato rischia di rappresentare un precedente preoccupante. “L’accesso civico è uno strumento moderno che avrebbe potuto garantire la trasparenza degli atti della Pubblica amministrazione secondo canoni condivisibili che rispecchiano le esigenze che si sono cristallizzate in tutta Europa nel corso degli ultimi anni -riflettono le avvocate-. Tuttavia con questa interpretazione l’istituto viene totalmente svuotato di significato, costringendoci a fare un passo indietro di notevole importanza in tema di trasparenza, che è chiamata ad assicurare l’effettivo andamento democratico di un ordinamento giuridico”.

    I mezzi guardacoste che l’Italia si appresta a cedere quest’anno alla Guardia nazionale del ministero dell’Interno tunisino sono sei

    Le forniture italiane per ostacolare i transiti, intanto, continuano. Negli ultimi mesi la Direzione centrale dell’Immigrazione e della polizia delle frontiere del Viminale -retta da Claudio Galzerano, già a capo di Europol- ha ripreso con forza a bandire gare o pubblicare, a cose fatte, affidamenti diretti. Anche per trasferte o distacchi in Italia di “ufficiali” libici, tunisini, ivoriani o “esperti della polizia nazionale turca”. La delegazione della Libyan coast guard and port security, ad esempio, è stata portata dal 15 al 18 gennaio di quest’anno alla base navale della Guardia di Finanza a Capo Miseno (NA) per una “visita tecnica”. Nei mesi prima altre “autorità libiche” erano state formate alle basi di Gaeta (LT) o Capo Miseno. Gli ufficiali della Costa d’Avorio sono stati in missione dal 30 ottobre scorso al 20 gennaio 2024 “in materia di rimpatri”. Sono stati portati nei punti caldi di Lampedusa e Ventimiglia.

    Al dicembre 2023 risale invece la firma dell’accordo tra la Direzione centrale e il Comando generale della Gdf per la fornitura di navi, assistenza, manutenzione, supporto tecnico-logistico a beneficio di Libia, Tunisia ed Egitto. Obiettivo: il “rafforzamento delle capacità nella gestione delle frontiere e dell’immigrazione e in materia di ricerca e soccorso in mare”. Proprio alla Guardia nazionale del ministero dell’Interno di Tunisi finiranno sei guardacoste litoranei della classe “G.L. 1.400”, con servizi annessi del tipo “consulenza, assistenza e tutoraggio”, per un valore di 4,8 milioni di euro (i soldi li mette il Viminale, i mezzi e la competenza la Guardia di Finanza). Navi ma anche carburante. A inizio gennaio di quest’anno il direttore Galzerano, dietro presunta richiesta di non ben precisate “autorità tunisine”, ha approvato la spesa di “nove milioni di euro circa” (testualmente) per “il pagamento del carburante delle unità navali impegnate nella lotta all’immigrazione clandestina e nelle operazioni di ricerca e di soccorso” nelle acque tunisine. Dove hanno recuperato le risorse? Da un fondo ministeriale dedicato a “misure volte alla prevenzione e al contrasto della criminalità e al potenziamento della sicurezza nelle strutture aeroportuali e nelle principali stazioni ferroviarie anche attraverso imprescindibili misure di cooperazione internazionale”. Chissà quale sarà la prossima fermata.

    https://altreconomia.it/cosi-litalia-ha-svuotato-il-diritto-alla-trasparenza-sulle-frontiere
    #Tunisie #Egypte #transparence #Agenzia_industrie_difesa (#Aid) #Support_to_integrated_border_and_migration_management_in_Libya (#Sibmmil) #Fonds_fiduciaire_pour_l'Afrique #gardes-côtes_libyens #Frontex

  • Position et appel des Soulèvements de la terre sur le mouvement agricole en cours (+ Communiqué Confédération paysanne)

    Voilà une semaine que le monde agricole exprime sa colère au grand jour et en acte : celui d’un métier devenu quasiment impraticable, croulant sous la brutalité des dérèglements écologiques qui s’annoncent et sous des contraintes économiques, normatives, administratives et technologiques asphyxiantes.

    Alors que les blocages se poursuivent un peu partout, nous soumettons quelques mises au point sur la situation depuis le mouvement des Soulèvements de la terre.

    Nous sommes un mouvement, d’habitant·es des villes et des campagnes, d’écologistes et de paysan·nes, installé·es ou en installation. Nous refusons la polarisation que certains essaient de susciter entre ces mondes. Nous avons fait de la défense de la terre et de l’eau notre point d’entrée et d’ancrage. Ce sont les outils de travail des paysans et des milieux nourriciers.

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2024/02/01/position-et-appel-des-soulevements-de-la-terre

    #lutte #agriculture #ecologie

  • L’autre menace pour Gaza : sols et air pollués, eau contaminée
    https://www.lemonde.fr/international/article/2024/02/01/sols-pollues-armes-au-phosphore-eau-contaminee-a-gaza-la-crise-sanitaire-pou

    L’autre menace pour Gaza : sols et air pollués, eau contaminée
    Si les attaques israéliennes ont déjà provoqué plus de 25 000 morts dans la bande de Gaza, leurs conséquences sur l’environnement des habitants les exposent à des risques tout aussi fatals.
    [...]

    Les bombardements israéliens sur Gaza, menés en représailles de l’attaque du Hamas le 7 octobre 2023, tuent des centaines de Palestiniens chaque jour. Selon le Bureau de la coordination des affaires humanitaires de l’ONU (OCHA), plus de 25 000 personnes ont été tuées par les offensives successives d’Israël depuis quatre mois, et 85 % des 2,1 millions d’habitants de l’enclave palestinienne ont été déplacés. Mais ces attaques pourraient avoir d’autres conséquences fatales pour les Gazaouis.

    « Les opérations militaires israéliennes à Gaza ont des conséquences désastreuses, notamment à cause d’une pollution carbone énorme, que ce soit dans l’air, l’eau, les sols, exposant les Palestiniens à un large panel de substances toxiques », explique au Monde le Canadien David R. Boyd, rapporteur spécial des Nations unies sur les droits humains et l’environnement. En octobre 2023, l’organisation Human Rights Watch avait révélé que du phosphore blanc, une substance toxique inflammable à l’apparence jaunâtre, pouvant brûler jusqu’à une température de 800 °C, avait été utilisé par Israël à Gaza et dans le sud du Liban.

    L’ONG a analysé des séries d’images, concluant à l’emploi de « projectiles d’artillerie au phosphore blanc de 155 mm ». Selon l’Organisation mondiale de la santé (OMS), une personne rentrant directement en contact avec du phosphore blanc risque des nausées, des vomissements et des diarrhées, des douleurs abdominales sévères, des sensations de brûlure. « La mort peut advenir sous vingt-quatre à quarante-huit heures à cause d’un collapsus cardiovasculaire », complète l’agence fédérale américaine de santé publique. L’utilisation de cette substance par Israël sur Gaza est « une grave violation du droit international », ajoute M. Boyd.

    En 2009, Israël avait admis avoir « utilisé des munitions contenant du phosphore blanc » pendant son offensive militaire contre Gaza, entre décembre 2008 et janvier 2009, précisant qu’elles « ne visaient pas directement les zones civiles ».

    Destruction de terrains agricoles
    Plus de 25 000 tonnes de bombes auraient été larguées sur la bande de Gaza entre le 7 octobre et le début du mois de novembre 2023, estime l’ONG Euromed Droits, qui accuse l’armée israélienne d’avoir utilisé des « armes à sous-munitions ». Selon le service de lutte contre les mines des Nations unies, ce sont des « munitions classiques conçues pour disperser ou libérer des sous-munitions explosives dont chacune pèse moins de 20 kilos ». L’usage de ce type d’artillerie a été déclaré illégal, car particulièrement meurtrier, par 119 Etats signataires de la convention d’Oslo de 2008, dont l’Etat hébreu n’est pas partie prenante. De plus, selon la Croix-Rouge internationale, « un grand nombre de ces sous-munitions n’éclatent pas comme prévu, leur présence rend l’agriculture dangereuse et entrave les reconstructions ». Israël a déjà utilisé ce type d’armes, notamment au Liban en 2006.

    La dégradation, voire la destruction, des terres représente un autre enjeu. « Des images satellites montrent que des terres agricoles sont détruites de manière délibérée », affirme Omar Shakir, directeur Israël-Palestine de Human Rights Watch. Il fait notamment référence à la zone de Beit Hanoun, dans le Nord, tapissée par les bombes pour, selon l’armée israélienne, atteindre des tunnels et des cibles du Hamas et où des bulldozers frayent de nouvelles routes aux véhicules militaires. « Nous avons pu constater qu’approximativement 30 % des terres agricoles ont été endommagées », explique He Yin, chercheur en géographie à l’université d’Etat de Kent (Ohio), qui a contribué à concevoir des cartes satellites permettant d’observer les destructions de terres à Gaza.

    Créé par deux universitaires américains, Jamon Van Den Hoek (université de l’Oregon) et Corey Scher (université de New York), pour visualiser, grâce à des images satellites, les dégâts provoqués par le conflit, l’outil Conflict Damage révèle que, au 17 janvier, « 49,7 % à 61,5 % des bâtiments de Gaza ont probablement été endommagés ou détruits ». Or, lorsque les édifices, infrastructures ou résidences explosent, d’énormes quantités de poussières et de débris sont rejetées dans l’environnement. En 2021, un rapport de la Banque mondiale portant sur la campagne militaire israélienne cette année-là à Gaza estimait que « 30 000 tonnes de déchets dangereux, y compris amiante, pesticides, engrais, (…) tuyaux en amiante-ciment » avaient contaminé le territoire.

    Un scénario aujourd’hui décuplé par l’ampleur de l’offensive israélienne. « Nous souffrons d’un air pollué à cause des bombes. De plus en plus de gens tombent malades », témoigne par message Adam, un jeune homme originaire de Jabaliya, dans le nord de la bande, et actuellement réfugié à Rafah, dans le Sud.

    Accès à l’eau potable préoccupant
    Auteur d’un rapport pour l’ONG néerlandaise Pax for Peace portant sur les risques environnementaux et sanitaires de la guerre à Gaza, l’expert en désarmement Wim Zwijnenburg explique que les substances contenues dans ce type de débris ont été analysées dans des conflits précédents, comme en Syrie, ou lors de catastrophes naturelles, comme le séisme de février 2023 dans le sud de la Turquie, et « peuvent provoquer de graves maladies ».

    A cet air difficilement respirable vient s’ajouter un accès à l’eau potable devenu extrêmement rare. Cette difficulté n’est pas nouvelle. Dès 2012, un rapport des Nations unies estimait que 90 % du volume disponible était impropre à la consommation. Dix jours après le début de l’offensive israélienne d’octobre 2023, les capacités de pompage des nappes phréatiques étaient tombées à 5 % par rapport à leur niveau habituel, selon l’Unicef.

    D’après le Wall Street Journal, Israël aurait commencé début décembre à inonder des tunnels de Gaza d’eau de mer afin d’en déloger le Hamas. L’armée israélienne a confirmé mardi 30 janvier avoir procédé à l’inondation de certains tunnels. « Des rapports, non corroborés, affirment que des hydrocarbures et autres substances sont présentes dans ces tunnels. Si c’est le cas, elles pourront donc affecter le sol et s’infiltrer dans l’aquifère », souligne Wim Zwijnenburg.

    L’OCHA ajoute qu’une vingtaine d’infrastructures liées à l’eau, à l’assainissement ou à l’hygiène auraient été détruites par des attaques. « Les gens passent la plus grande partie de leur journée à essayer de trouver de l’eau pour boire », affirme Omar Shakir, de Human Rights Watch.

    Zones inhabitables
    Les eaux usées se déversent dans les lieux de vie. Le 4 janvier, une vidéo diffusée sur WhatsApp et consultée par Le Monde montrait un journaliste palestinien se filmant en train d’avancer au milieu d’une inondation d’eaux usées dans l’école servant de camp de réfugiés à Jabaliya. Ces déchets liquides peuvent également être déversés dans la mer, constituant un danger pour la santé humaine et la biodiversité. Un rapport du Programme pour l’environnement de l’ONU en 2020 affirmait avoir « trouvé des preuves substantielles de changements environnementaux et d’une dégradation du territoire palestinien ». Sur les soixante-cinq stations d’épuration d’eau que compte Gaza, la plupart seraient actuellement hors service, selon l’ONG Oxfam.

    La présence de certaines bactéries dans l’eau accroît de plus la résistance aux antibiotiques. Une étude publiée dans The Lancet, le 25 novembre 2023, rappelle l’urgence de la situation. « Sans une action rapide, cette guerre menace de redéfinir l’épidémiologie de la résistance aux antimicrobiens à Gaza et au-delà », peut-on lire. Selon un rapport de l’ONU du 2 janvier 2024, on comptait à Gaza 179 000 cas d’infections respiratoires aiguës, 136 400 cas de diarrhée chez les enfants de moins de 5 ans, 55 400 cas de gale et de poux et 4 600 cas de jaunisse.

    « Nous verrons plus de gens mourir de maladies que nous n’en voyons tués par les bombardements si nous ne pouvons pas remettre en place un système de santé », alertait Margaret Harris, porte-parole de l’OMS, à Genève, le 28 novembre 2023. Pour Wim Zwijnenburg, certaines parties de la bande de Gaza peuvent déjà être considérées comme inhabitables. « Les gens ne pourront pas retourner dans ces endroits. Il n’y a rien pour espérer rebâtir une société humaine », conclut-il.

    #gaza #sols #eau #pollution #risques #maladies

  • Une vraie #souveraineté_alimentaire pour la #France

    Le mercredi 6 décembre 2023, la FNSEA sortait du bureau d’Elisabeth Borne en déclarant fièrement que l’État abandonnait son projet de taxer l’usage des pesticides et des retenues d’eau. Cela vient conclure une séquence historique. Le 16 novembre déjà, l’Europe reconduisait l’autorisation du glyphosate pour 10 ans. Et, six jours plus tard, abandonnait aussi l’objectif de réduction de 50 % de l’usage des pesticides à l’horizon 2030.

    Comment en est-on arrivé là ? La question a été récemment posée dans un rapport de l’Assemblée nationale. En plus du #lobbying habituel de la #FNSEA et de l’état de crise permanent dans laquelle vivent les agriculteurs et qui rend toute #réforme explosive, la question de la souveraineté alimentaire – qui correspond au droit d’un pays à développer ses capacités productives pour assurer la sécurité alimentaire des populations – a joué un rôle clé dans cette dynamique.

    La souveraineté alimentaire est ainsi devenue, depuis la crise du Covid et la guerre en Ukraine, l’argument d’autorité permettant de poursuivre des pratiques qui génèrent des catastrophes écologiques et humaines majeures. Il existe pourtant d’autres voies.

    Le mythe de la dépendance aux #importations

    De quelle souveraineté alimentaire parle-t-on ? Les derniers chiffres de FranceAgrimer montrent que notre « #dépendance aux importations » – comme aiment à le répéter les défenseurs d’un modèle intensif – est de 75 % pour le blé dur, 26 % pour les pommes de terre, 37 % pour les fruits tempérés ou 26 % pour les porcs.

    Mais ce que l’on passe sous silence, c’est que le taux d’#autoapprovisionnement – soit le rapport entre la production et la consommation françaises – est de 148 % pour le blé dur, 113 % pour les pommes de terre, 82 % pour les fruits tempérés et 103 % pour le porc. Le problème de souveraineté alimentaire n’en est pas un. Le vrai problème, c’est qu’on exporte ce que l’on produit, y compris ce dont on a besoin. Cherchez l’erreur.

    D’autres arguments viennent encore se greffer à celui de la souveraineté, dans un monde d’#interdépendances : la #France serait le « grenier à blé de l’Europe », il faudrait « nourrir les pays du Sud », la France serait « une puissance exportatrice », etc.

    Au-delà de l’hypocrisie de certaines de ces affirmations – en effet, les #exportations des surplus européens subventionnés ont détruit tout un tissu productif, en Afrique de l’Ouest notamment – il ne s’agit pas là d’enjeux liés à la souveraineté alimentaire, mais d’enjeux stratégiques et politiques liés à la #compétitivité de certains produits agricoles français sur les marchés internationaux.

    Comprendre : la France est la 6e puissance exportatrice de #produits_agricoles et agroalimentaires au monde et elle entend bien le rester.

    Voir la #productivité de façon multifonctionnelle

    S’il ne faut évidemment pas renoncer aux objectifs de #productivité_alimentaire nationaux, ces derniers gagneraient à être redéfinis. Car comment évoquer la souveraineté alimentaire sans parler des besoins en #eau pour produire les aliments, de la dépendance aux #énergies_fossiles générée par les #intrants de synthèse, de l’épuisement de la #fertilité des #sols lié à la #monoculture_intensive ou encore des effets du #réchauffement_climatique ?

    Comment évoquer la souveraineté alimentaire sans parler des enjeux fonciers, de l’évolution du #travail_agricole (25 % des #agriculteurs sont en passe de partir à la retraite), du #gaspillage_alimentaire – qui avoisine les 30 % tout de même – des #besoins_nutritionnels et des #habitudes_alimentaires de la population ?

    La #productivité_alimentaire doit dorénavant se conjuguer avec d’autres formes de productivité tout aussi essentielles à notre pays :

    – la capacité de #rétention_d’eau dans les sols,

    – le renouvellement des #pollinisateurs,

    – le maintien des capacités épuratoires des milieux pour conserver une #eau_potable,

    – le renouvellement de la #fertilité_des_sols,

    – la régulation des espèces nuisibles aux cultures,

    – ou encore la séquestration du carbone dans les sols.

    Or, il est scientifiquement reconnu que les indicateurs de productivité relatifs à ces services baissent depuis plusieurs décennies. Pourtant, ce sont bien ces services qui permettront de garantir une véritable souveraineté alimentaire future.

    La #diversification pour maintenir des rendements élevés

    Une revue de littérature scientifique parue en 2020, compilant plus de 5000 études menées partout dans le monde, montrait que seules des stratégies de diversification des #pratiques_agricoles permettent de répondre à ces objectifs de #performance_plurielle pour l’agriculture, tout en maintenant des #rendements élevés.

    Les ingrédients de cette diversification sont connus :

    – augmentation de la #rotation_des_cultures et des #amendements_organiques,

    – renoncement aux #pesticides_de_synthèse et promotion de l’#agriculture_biologique à grande échelle,

    - réduction du #labour,

    - diversification des #semences et recours aux #variétés_rustiques,

    - ou encore restauration des #haies et des #talus pour limiter le ruissellement de l’#eau_de_pluie.

    Dans 63 % des cas étudiés par ces chercheurs, ces stratégies de diversification ont permis non seulement d’augmenter les #services_écosystémiques qui garantissent la souveraineté alimentaire à long terme, mais aussi les #rendements_agricoles qui permettent de garantir la souveraineté alimentaire à court terme.

    Les sérieux atouts de l’agriculture biologique

    Parmi les pratiques de diversification qui ont fait leurs preuves à grande échelle en France, on retrouve l’agriculture biologique. Se convertir au bio, ce n’est pas simplement abandonner les intrants de synthèse.

    C’est aussi recourir à des rotations de cultures impliquant des #légumineuses fixatrices d’azote dans le sol, utiliser des semences rustiques plus résilientes face aux #parasites, des amendements organiques qui nécessitent des couplages culture-élevage, et enfin parier sur la restauration d’un #paysage qui devient un allié dans la lutte contre les #aléas_naturels. La diversification fait ainsi partie de l’ADN des agriculteurs #bio.

    C’est une question de #réalisme_économique. Les exploitations bio consomment en France deux fois moins de #fertilisant et de #carburant par hectare que les exploitants conventionnels, ce qui les rend moins vulnérables à l’évolution du #prix du #pétrole. En clair, l’agriculture biologique pourrait être la garante de la future souveraineté alimentaire française, alors qu’elle est justement souvent présentée comme une menace pour cette dernière du fait de rendements plus faibles à court terme.

    Au regard des éléments mentionnés plus haut, il s’agit évidemment d’un #faux_procès. Nous sommes autosuffisants et nous avons les réserves foncières qui permettraient de déployer le bio à grande échelle en France, puisque nous sommes passé de 72 % du territoire dédié aux activités agricoles en 1950 à 50 % en 2020. Une petite partie de ces surfaces a été artificialisée tandis que la majorité a tout simplement évolué en friche, à hauteur de 1000 km2 par an en moyenne.

    Par ailleurs, le différentiel de rendement entre le bio et le #conventionnel se réduit après quelques années seulement : de 25 % en moyenne (toutes cultures confondues) au moment de la conversion, il descend à 15 % ensuite. La raison en est l’apprentissage et l’innovation dont font preuve ces agriculteurs qui doivent en permanence s’adapter aux variabilités naturelles. Et des progrès sont encore à attendre, si l’on songe que l’agriculture bio n’a pas bénéficié des 50 dernières années de recherche en #agronomie dédiées aux pratiques conventionnelles.

    Relever le niveau de vie des agriculteurs sans éroder le #pouvoir_d’achat des consommateurs

    Mais a-t-on les moyens d’opérer une telle transition sans réduire le pouvoir d’achat des Français ? Pour répondre à cette question, il faut tout d’abord évoquer le #revenu des #agriculteurs. Il est notoirement faible. Les agriculteurs travaillent beaucoup et vivent mal de leur métier.

    Or, on oublie souvent de le mentionner, mais le surcoût des produits bio est aussi lié au fait que les consommateurs souhaitent mieux rémunérer les agriculteurs : hors subventions, les revenus des agriculteurs bio sont entre 22 % et 35 % plus élevés que pour les agriculteurs conventionnels.

    Ainsi, le consommateur bio consent à payer plus parce que le bio est meilleur pour l’environnement dans son ensemble (eau, air, sol, biodiversité), mais aussi pour que les paysans puissent mieux vivre de leur métier en France sans mettre en danger leur santé.

    Par ailleurs, si le consommateur paie plus cher les produits bio c’est aussi parce qu’il valorise le #travail_agricole en France. Ainsi la production d’aliments bio nécessite plus de #main-d’oeuvre (16 % du total du travail agricole pour 10 % des surfaces) et est très majoritairement localisée en France (71 % de ce qui est consommé en bio est produit en France).

    Cette question du #travail est centrale. Moins de chimie, c’est plus de travail des communautés humaines, animales et végétales. C’est aussi plus d’incertitudes, ce qui n’est évidemment pas simple à appréhender pour un exploitant.

    Mais il faut rappeler que le discours sur le pouvoir d’achat des français, soi-disant garanti par le modèle hyper-productiviste de l’agriculture française, vise surtout à conforter les rentes de situations des acteurs dominants du secteur agricole. Car les coûts sanitaires et environnementaux de ce modèle sont payés par le contribuable.

    Rien que le #traitement_de_l’eau, lié aux pollutions agricoles, pour la rendre potable, coûte entre 500 millions d’euros et 1 milliard d’euros par an à l’État. Or, ce que le consommateur ne paie pas au supermarché, le citoyen le paie avec ses #impôts. Le rapport parlementaire évoqué plus haut ne dit pas autre chose : la socialisation des coûts et la privatisation des bénéfices liés aux #pesticides ne sont plus tolérables.

    Le bio, impensé de la politique agricole française

    Une évidence s’impose alors : il semblerait logique que l’État appuie massivement cette filière en vue de réduire les coûts pour les exploitants bio et ainsi le prix pour les consommateurs de produits bio. En effet, cette filière offre des garanties en matière de souveraineté alimentaire à court et long terme, permet de protéger l’eau et la #santé des Français, est créatrice d’emplois en France. Il n’en est pourtant rien, bien au contraire.

    L’État a promu le label #Haute_valeur_environnementale (#HVE), dont l’intérêt est très limité, comme révélé par l’Office français de la biodiversité (OFB). L’enjeu semble surtout être de permettre aux agriculteurs conventionnels de toucher les aides associés au plan de relance et à la nouvelle #PAC, au risque de créer une #concurrence_déloyale vis-à-vis des agriculteurs bio, d’autant plus que les #aides_publiques au maintien de l’agriculture biologique ont été supprimées en 2023.

    La décision récente de l’État de retirer son projet de #taxe sur l’usage des pesticides créé aussi, de facto, un avantage comparatif pour le conventionnel vis-à-vis du bio. Enfin, rappelons que la Commission européenne a pointé à plusieurs reprises que la France était le seul pays européen à donner moins de subventions par unité de travail agricole aux céréaliers bio qu’aux conventionnels.

    Ainsi, un céréalier bio français reçoit un tiers de subventions en moins par unité de travail agricole qu’un céréalier conventionnel, alors qu’en Allemagne ou en Autriche, il recevrait 50 % de #subventions supplémentaires. En France, l’État renonce aux taxes sur les pesticides tout en maintenant des #charges_sociales élevées sur le travail agricole, alors que c’est évidemment l’inverse dont aurait besoin la #transition_agroécologique.

    Que peuvent faire les citoyens au regard de ce constat déprimant ? Consommer des produits bio malgré tout, et trouver des moyens de les payer moins cher, grâce par exemple à la #vente_directe et à des dispositifs tels que les #AMAP qui permettent de réduire le coût du transport, de la transformation et de la distribution tout autant que le gâchis alimentaire, les variabilités de la production étant amorties par la variabilité du contenu du panier.

    Les agriculteurs engagés pour la #transition_écologique, de leur côté, peuvent réduire les risques associés aux variabilités naturelles et économiques en créant de nouvelles formes d’exploitations coopératives combinant plusieurs activités complémentaires : élevage, culture, transformation, conditionnement et distribution peuvent être organisés collectivement pour mutualiser les coûts et les bénéfices, mais aussi se réapproprier une part significative de la #chaîne_de_valeur laissée aujourd’hui au monde de l’agro-industrie et de la grande distribution.

    Il ne s’agit pas d’une #utopie. De nombreux acteurs essaient de faire émerger, malgré les résistances institutionnelles, ces nouvelles pratiques permettant de garantir la souveraineté alimentaire de la France à long terme.

    https://theconversation.com/une-vraie-souverainete-alimentaire-pour-la-france-220560
    #foncier #industrie_agro-alimentaire #alimentation #collectivisation
    #à_lire #ressources_pédagogiques

  • Étudiantes en terrain miné

    Si les étudiantes sont 5 fois plus victimes de violences sexistes et sexuelles que la moyenne des femmes, l’université serait-elle un terrain miné ?
    Charlotte Espel donne la parole à 5 étudiantes ou doctorantes, victimes de #harcèlement ou de #viol, qui se battent pour que les violences ne soient plus passées sous silence.

    Les #chiffres sont édifiants. Selon l’Observatoire des violences sexuelles et sexistes dans l’enseignement supérieur, en France, 1 étudiante sur 10 aurait été victime d’#agression_sexuelle lors de ses #études. 1 étudiante sur 20 de viol. 60% des étudiant(e)s ont été victimes ou témoins d’au moins une violence sexiste ou sexuelle. 45% des étudiant(e)s n’ont accès à aucun dispositif de lutte contre les violences ou d’accompagnement au sein de leur établissement.

    Après le scandale « #Sciences_Porcs » début 2021 et les récentes enquêtes ayant dénoncé l’ampleur des viols et agressions sexuelles à Centrale Supelec ou en écoles de commerce, de plus en plus d’étudiant(e)s dénoncent des cas de harcèlement ou d’agressions sexuelles.

    Quelles conséquences sur la psyché humaine ? Comment se reconstruire ? Quelle réponse des pouvoirs publics dans la prévention et le traitement de ces violences ?

    A travers des témoignages poignants, le #documentaire de Charlotte Espel met en lumière ce #drame_sociétal méconnu et le travail de ces associations qui tentent de briser l’#omerta.

    https://www.france.tv/france-3/paris-ile-de-france/la-france-en-vrai-paris-ile-de-france/5678475-etudiantes-en-terrain-mine.html

    #VSS #violences_sexistes #violences_sexuelles #étudiants #étudiantes #université #facs #témoignage #vidéo #documentaire #film_documentaire #ESR

    ping @_kg_

  • Christophe Bex : « Le gouvernement est incapable de répondre aux problèmes des agriculteurs »
    https://lvsl.fr/christophe-bex-le-gouvernement-est-incapable-de-repondre-aux-problemes-des-agri

    L’agriculture fait face au même dilemme que l’industrie avant elle : que veut-on produire, où, et dans quelles conditions sociales et environnementales ? Soit on se focalise sur quelques secteurs exportateurs et on importe tout le reste, avec un coût humain et environnemental considérable, soit on relocalise, on réindustrialise, on répond aux besoins français en priorité, avec les savoir-faire des travailleurs. Pour l’instant, c’est la première option qui est choisie. En Lorraine par exemple, lorsque la sidérurgie a été liquidée avec l’aide des socialistes au pouvoir, on a remplacé les hauts-fourneaux par un parc d’attractions, le Schtroumpfland, en espérant redynamiser le secteur.

    #agroindustrie #capitalisme_des_flux #paysannerie #agriculteurs #travail #rémunérations #appauvrissement

  • Algérie : près de 2 000 migrants expulsés vers le « Point zéro » au Niger en deux semaines - InfoMigrants
    https://www.infomigrants.net/fr/post/54862/algerie--pres-de-2-000-migrants-expulses-vers-le-point-zero-au-niger-e

    Actualités
    Algérie : près de 2 000 migrants expulsés vers le « Point zéro » au Niger en deux semaines
    Par Charlotte Boitiaux Publié le : 30/01/2024
    Entre le 1er et le 17 janvier, 1 939 migrants ont été expulsés par l’Algérie dans le Sahara à la frontière nigérienne, une zone appelée « Point zéro ». Du jamais vu, selon le collectif Alarme Phone Sahara qui a effectué le recensement. Parmi les exilés expulsés, se trouvent majoritairement des Subsahariens et des Africains de l’Ouest. Certains habitaient en Algérie, d’autres avaient déjà été expulsés des pays frontaliers comme la Tunisie, la Libye ou le Maroc.
    « L’année 2024 a commencé avec des expulsions au Niger », a tweeté le collectif Alarme Phone Sahara sur les réseaux sociaux. Et les chiffres sont « alarmants », selon Azizou Chehou, le coordinateur du collectif, contacté par InfoMigrants : 1 939 migrants ont été renvoyés illégalement d’Algérie dans le désert nigérien en un peu plus de deux semaines. « Du jamais vu », affirme-t-il.
    C’est en plein Sahara aux portes du désert du Ténéré que sont envoyés les exilés. La zone frontalière est aussi appelée au « Point zéro ». Selon les équipes d’Alarme Phone Sahara - basées à Agadez, Assamaka, Arlit, Niamey, dans la région de Kawar (sur la route vers la Libye) - les migrants expulsés ces deux dernières semaines viennent du Sahel et d’Afrique de l’Ouest principalement.
    « Les mesures de l’UE pour retenir les migrants sur le continent africain sont en grande partie responsables de la situation », juge Azizou Chehou, d’Alarme Phone en évoquant les partenariats migratoires signés entre Bruxelles et le Maroc, la Tunisie, la Libye. « Ils font tout pour que les pays africains empêchent les départs, donc les migrants sont bloqués puis renvoyés plus au sud ».
    Alarme Phone Sahara évoque aussi la reprise des rafles par les autorités algériennes dans les villes du pays. « Ces arrestations arbitraires ont toujours existé mais leur fréquence varie. Aujourd’hui, on arrête les Noirs dans leur appartement, dans la rue, sur leur lieu de travail, sur les terrains de sport et puis on les envoie vers Point zéro », explique-t-il.
    Il existe aussi des renvois transfrontaliers. Depuis des mois, par exemple, la Tunisie expulse illégalement des Subsahariens vers l’Algérie. « Quand les autorités algériennes constatent que des Noirs ont traversé la frontière, ils les arrêtent ». Les migrants qui viennent de Tunisie « se reposent généralement quelques jours » puis « sont expulsés à leur tour », détaille Azizou Chehou. Ces renvois sont loin d’être nouveaux. Entre les mois de juillet et octobre 2023, environ 5 000 migrants avaient été expulsés vers « Point Zéro ». En 2021 déjà, de nombreuses expulsions avaient eu lieu. Et les dangers sont réels. Les exilés sont généralement abandonnés à la tombée de la nuit. Lorsqu’ils sont lâchés, ils sont livrés à eux-mêmes. Sans eau ni nourriture, ils doivent parcourir 15 kilomètres à pied pour rejoindre le village nigérien le plus proche, Assamaka. C’est là que se trouve le centre de transit de l’Organisation internationale des migrations (OIM), le bras de l’ONU qui assiste les retours volontaires des migrants vers leur pays d’origine. Chaque année, de nombreux exilés disparaissent aussi sans laisser de trace dans le Sahara. Ils peuvent se perdre, mourir de déshydratation, ou être victimes de groupes mafieux. Amadou, un migrant contacté par InfoMigrants en juillet 2020, racontait avoir vu trois personnes mourir sous ses yeux dans le désert. « Ils étaient tellement fatigués qu’ils se sont effondrés au sol », avait expliqué le jeune Africain qui travaillait depuis deux ans en Algérie avant d’être arrêté

    #Covid-19#migrant#migration#niger#algerie#assamaka#sahara#routemigratoire#OIM#frontiere#expulsion#libye#agadez#arlit#niamey#sante

  • La Conf’ appelle à bloquer les taxeurs

    https://www.liberation.fr/environnement/agriculture/en-direct-mouvement-des-agriculteurs-le-convoi-du-lot-et-garonne-a-repris

    La Confédération paysanne a appelé mardi soir « à bloquer les centrales d’achat » de la grande distribution et à « cibler les prédateurs du revenu paysan », après le discours de politique générale de Gabriel Attal, qui n’a offert selon elle « aucune perspective de long terme » au monde paysan. « Il n’y a encore aucun engagement de la part du gouvernement pour ouvrir un chantier sur l’interdiction d’achat en dessous du prix de revient de nos produits agricoles » [...]

    En conséquence, elle « appelle à orienter les mobilisations en bloquant les lieux où s’exerce cette pression sur nos prix : centrales d’achats (plateforme logistique de la grande distribution), marchés de gros, industries agroalimentaires et autres prédateurs de la valeur ». Interdire « l’achat de nos produits agricoles en dessous du prix de revient », « c’est la réponse première attendue pour répondre à la colère paysanne », a indiqué la Confédération paysanne, qui entend porter cette réclamation mercredi matin, lors d’un « entretien » avec le Premier ministre.

  • Position et appel des Soulèvements de la terre sur le mouvement agricole en cours
    https://lundi.am/Position-et-appel-des-Soulevements-de-la-terre-sur-le-mouvement-agricole-en

    Si nous nous soulevons, c’est en grande partie contre les ravages de ce complexe agro-industriel, avec le vif souvenir des fermes de nos familles que nous avons vu disparaître et la conscience aiguë des abîmes de difficultés que nous rencontrons dans nos propres parcours d’installation. Ce sont ces industries et les méga-sociétés cumulardes qui les accompagnent, avalant les #terres et les fermes autour d’elles, accélérant le devenir firme de la production agricole, et qui ainsi tuent à bas bruit le monde #paysan. Ce sont ces industries que nous ciblons dans nos actions depuis le début de notre mouvement - et non la classe paysanne.

    Si nous clamons que la liquidation sociale et économique de la paysannerie et la destruction des milieux de vie sont étroitement corrélées - les fermes disparaissant au même rythme que les oiseaux des champs et le complexe agro-industriel resserrant son emprise tandis que le réchauffement climatique s’accélère - nous ne sommes pas dupes des effet délétères d’une certaine écologie industrielle, gestionnaire et technocratique. La gestion par les normes environnementales-sanitaires de l’#agriculture est à ce titre absolument ambigüe. À défaut de réellement protéger la santé des populations et des milieux de vie, elle a, derrière de belles intentions, surtout constitué un nouveau vecteur d’industrialisation des exploitations. Les investissements colossaux exigés par les mises aux normes depuis des années ont accéléré, partout, la concentration des structures, leur #bureaucratisation sous contrôles permanents et la perte du sens du métier.

    Nous refusons de séparer la question écologique de la question sociale, ou d’en faire une affaire de consom’acteurs citoyens responsables, de changement de pratiques individuelles ou de « transitions personnelles » : il est impossible de réclamer d’un éleveur piégé dans une filière hyperintégré qu’il bifurque et sorte d’un mode de production industriel, comme il est honteux d’exiger que des millions de personnes qui dépendent structurellement de l’aide alimentaire se mettent à « consommer bio et local ». Pas plus que nous ne voulons réduire la nécessaire écologisation du travail de la terre à une question de « réglementations » ou de « jeu de normes » : le salut ne viendra pas en renforçant l’emprise des bureaucraties sur les pratiques paysannes. Aucun changement structurel n’adviendra tant que nous ne déserrerons pas l’étau des contraintes économiques et technocratiques qui pèsent sur nos vies : et nous ne pourrons nous en libérer que par la lutte.

    Si nous n’avons pas de leçons à donner aux agriculteur·rices ni de fausses promesses à leur adresser, l’expérience de nos combats aux côtés des paysan·nes - que ce soit contre des grands projets inutiles et imposés, contre les méga-bassines, ou pour se réapproprier les fruits de l’accaparement des terres - nous a offert quelques certitudes, qui guident nos paris stratégiques.

    L’écologie sera paysanne et populaire ou ne sera pas. La #paysannerie disparaîtra en même temps que la sécurité alimentaire des populations et nos dernières marges d’autonomie face aux complexes industriels si ne se lève pas un vaste mouvement social de #reprise_des_terres face à leur #accaparement et leur #destruction. Si nous ne faisons pas sauter les verrous (traités de #libre-échange, dérégulation des prix, emprise monopolistique de l’#agro-alimentaire et des hypermarchés sur la consommation des ménages) qui scellent l’emprise du marché sur nos vies et l’agriculture. Si n’est pas bloquée la fuite en avant techno-solutionniste (le tryptique biotechnologies génétiques - robotisation - numérisation). Si ne sont pas neutralisés les méga-projets clés de la restructuration du modèle agro-industriel. Si nous ne trouvons pas les leviers adéquats de socialisation de l’#alimentation qui permettent de sécuriser les revenus des producteurs et de garantir le droit universel à l’alimentation.

    #revenu #écologie

    (pour mémoire : bucolisme et conflictualité)

    • C’est signé « Les Soulèvements de la Terre - le 30 janvier 2024 » ; c’est pas lundiamiste, c’est SDLTique :-)

    • 😁 merci @colporteur 🙏

      je colle ici un ou deux bouts de l’appel du lundiisme soulevementier, y’a une synthèse paysano-intello avec des chiffres

      Dans le monde, le pourcentage du prix de vente qui revient aux agriculteurs est passé de 40 % en 1910 à 7 % en 1997, selon l’Organisation des Nations unies pour l’agriculture et l’alimentation (FAO). De 2001 à 2022, les distributeurs et les entreprises agroalimentaires de la filière lait ont vu leur marge brute s’envoler de respectivement 188% et 64%, alors même que celle des producteurs stagne quand elle n’est pas simplement négative.
      [...]
      C’est ce pillage de la valeur ajoutée organisé par les filières qui explique, aujourd’hui, que sans les subventions qui jouent un rôle pervers de béquilles du système (en plus de profiter essentiellement aux plus gros) 50% des exploitant·es auraient un résultat courant avant impôts négatif : en bovins lait, la marge hors subvention qui était de 396€/ha en moyenne entre 1993 et 1997 est devenue négative à la fin des années 2010 (-16€/ha en moyenne), tandis que le nombre de paysans pris en compte par le Réseau d’information comptable agricole dans cette filière passe sur cette période de 134 000 à 74 000.

  • A43 : péage bloqué par la Conf paysanne à St Quentin Fallavier, plus grande zone logistique de France
    https://ricochets.cc/A43-peage-bloque-par-la-Conf-paysanne-a-St-Quentin-Fallavier-plus-grande-z

    La Confédération Paysanne Auvergne-Rhône-Alpes frappe un grand coup ce mardi 30 janvier en bloquant le gros Péage sur l’A43 à St Quentin Fallavier, qui est relié à la plus grande zone logistique de France. Bancs et tables sont installés, un blocage qui semble parti pour durer ! Des paysans et soutiens y sont allés aussi depuis la Drôme. Des prises de parole du meeting dans cette vidéo. ❌️La barrière autoroute de la plus grande zone logistique de France bloquée❌️❌️❌️ (...) #Les_Articles

    / #Agriculture, Révoltes, insurrections, débordements...

    #Révoltes,_insurrections,_débordements...
    https://fb.watch/pUDmgfHy4E}

  • Quand l’archéologie des « mauvaises herbes » bouscule l’Histoire (et le futur) de l’agriculture - Geo.fr
    https://www.geo.fr/environnement/archeobiologie-quand-banales-mauvaises-herbes-adventices-bousculent-histoire-agr

    Des scientifiques des universités britanniques de Sheffield et d’Oxford ont constitué le catalogue le plus exhaustif des adventices – communément appelées « mauvaises herbes ». D’après leur analyse, l’Histoire de l’agriculture est loin d’être celle d’une simple transition d’un modèle extensif vers un schéma intensif.

    Alors que les agriculteurs se mobilisent en Europe pour défendre le droit à un revenu décent, une nouvelle base de données unique en son genre nous invite à replacer les pratiques agricoles dans leur contexte géographique et historique – avec ceci de particulier (et de surprenant) que ses contributeurs n’ont pas retracé le parcours des variétés cultivées… mais celui des « adventices ».

    Au-delà de leur réputation de « mauvaises herbes », ces plantes qui s’immiscent spontanément dans et autour des champs s’avèrent en effet des indices précieux, éclairant à la fois le passé agricole de l’humanité – et peut-être également son avenir face au changement climatique.

    Agriculture intensive ou extensive ?

    Le domaine fascinant de l’archéobotanique, ou l’étude des relations entre les sociétés humaines et le monde végétal par l’analyse des restes végétaux trouvés en contexte archéologique, vise notamment à décrire l’économie végétale des sociétés anciennes et à reconstituer les pratiques agricoles (université de Genève).

    En identifiant les adventices présentes, les spécialistes de cette discipline pourront désormais se référer à un catalogue précis afin de connaître les caractéristiques écologiques de ces plantes, et en déduire si l’agriculture était plutôt extensive ou au contraire intensive – un terme qui fait référence non pas à l’usage de pesticides modernes mais au fait d’optimiser la productivité, avant même l’essor de la chimie.

    Développé par des scientifiques des universités britanniques de Sheffield et d’Oxford à l’issue de trois décennies de recherche, le catalogue des adventices (gratuit et en accès libre) recense quelque 928 espèces végétales en Eurasie et en Afrique du nord, présentes dans les champs de céréales et de légumineuses cultivés sans engrais de synthèse et sans herbicides.

    « Dans les environnements agricoles modernes, où les cultures sont minutieusement gérées et où tout ce qui n’est pas désiré est éliminé, il peut être difficile de suivre les changements à long terme des environnements et des espèces végétales. En étudiant les populations historiques d’adventices au lieu des cultures, les données offrent aux chercheurs un moyen unique de voir ce qui a été perdu et gagné au fil du temps », explique dans un communiqué le Pr John Hodgson, qui a contribué aux recherches.

    Fertilisation, arrosage et désherbage à l’âge du bronze

    « Nous avons tendance à penser que l’agriculture a commencé de manière non intensive et qu’elle s’est progressivement intensifiée au fil du temps. Cependant, nous avons trouvé des sites du Néolithique [entre 6 000 et 2 200 ans avant notre ère] et de l’âge du bronze [-2 200 ans à -800 ans] qui remettent en cause cette croyance », détaille la Pr Glynis Jones, de l’université de Sheffield (communiqué).

    L’archéologue explique qu’à ces périodes, de petites parcelles de terre étaient cultivées de manière intensive, avec des pratiques telles que la « fertilisation, l’arrosage et le désherbage de cultures comme le blé ou l’orge ». Autrement dit, « des endroits où l’effort humain était important pour la culture des plantes ».

    « Nous avons également constaté que les sites de l’âge du fer [-800 ans à -450 ans] et de la période romaine qui s’étendaient sur des zones plus vastes étaient cultivés de manière moins intensive, ce qui signifie que les cultures pouvaient être plus nombreuses, mais qu’elles n’étaient pas exploitées de manière aussi intensive qu’auparavant puisqu’elles couvraient des zones plus vastes », compare-t-elle.

    Reste désormais à élargir ce catalogue des adventices à d’autres régions du monde – afin que les spécialistes des peuples d’Amérique, d’Afrique sub-saharienne, d’Asie et d’ailleurs puissent disposer eux aussi d’un nouvel outil puissant pour comprendre les liens tissés par ces populations avec la terre nourricière…

  • Décrypter le mouvement des agriculteurs
    https://lundi.am/Decrypter-le-mouvement-des-agriculteurs

    [...] les dirigeants de la #FNSEA, c’est vraiment les 1% contre les 99%. Arnaud Rousseau, c’en est vraiment la caricature, c’est un grand patron de l’agro industrie, extrêmement riche, qui possède 700 ou 800 hectares, ce qui n’est vraiment pas le cas des 99% d’adhérents aux FDSEA. Il y a donc une déconnexion de plus en plus grande entre cette toute petite élite qui est très proche du gouvernement, qui prend les décisions main dans la main avec lui et les gens, syndiqués ou non, sur le terrain, qu’ils soient dans les modèles bio ou pas. Je peux prendre l’exemple de mes voisins, ils ont 100 hectares et pourtant ils galèrent. En Bretagne, par exemple, quand tu as 50 hectares, tu as deux choix : soit tu passes en bio, mais ça ça valait le coup il y a 5 ans, soit tu rachètes la ferme de ton voisin et tu prends 50 hectares et 50 vaches de plus pour faire plus de volume, travailler comme des malades nuit et jour et tenter de rester à flot. Et l’option du #bio devient aussi une impasse car on a de plus en plus de mal à vendre nos produits depuis la crise du Covid et on les vend à des tarifs très proches du celui du circuit conventionnel. Donc quelques soient les choix que les uns et les autres ont fait, quand ont fait partie des 99% on partage vraiment la même galère.

    Après il y a de vraies questions sur les produits que l’on utilise. Dans notre modèle économique de libre-échange, si on n’utilise plus de #pesticides, on se retrouve à ne plus être compétitifs. Et donc il y a ce faux choix : se suicider économiquement ou se suicider avec les produits qu’on utilise. Parce que concrètement, on sait qu’en utilisant des pesticides on a de très fortes chances de tomber malades. Cela se dit pas beaucoup dans les campagnes mais ça se sait ; quand on emprunte le circuit des pesticides, on sait qu’on a de grandes chances de mourir entre 55 et 65 ans.

    Mais c’est parce qu’on est coincés dans cette alternative que certains arrivent à défendre le glyphosate ou les méga-bassines. Nous ce qu’on dit c’est que la seule solution, c’est de sortir des accords de libre-échange et de l’injonction à la compétitivité mondiale.

    #confédération_paysanne #modèle_agricole #agriculture

  • Agriculteurs et écolos : nous refusons d’être catalogués comme ennemis

    Avec cette tribune nous nous adressons à tous les agriculteurs et agricultrices ayant manifesté leur colère ces derniers jours, mais aussi à toutes celles et ceux qui hésiteraient encore à les rejoindre. Nous, organisations écologistes, paysan-nes et militant-e-s pour un autre modèle agricole depuis des décennies partageons cette colère, et refusons le discours dominant qui voudrait faire de nous vos ennemis.

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2024/01/29/la-confederation-paysanne-ne-peut-se-satisfaire-des-annonces-du-gouvernement-et-poursuit-la-mobilisation-autres-textes/#comment-60038

    #ecologie #agriculture

  • Révolte d’agriculteurs laminés : nouvelle phase de blocages/actions suspendue aux promesses du régime Macron ?
    https://ricochets.cc/Revolte-d-agriculteurs-lamines-nouvelle-phase-de-blocages-actions-suspendu

    Le gouvernement macroniste mise sur l’épuisement, sur de nouvelles annonces mardi, et sur l’espérance d’un lâchage de l’opinion publique et des transporteurs. Davantage d’agriculteurs vont-ils déborder franchement les syndicats type FNSEA pour peser ensemble vers des changements importants et salvateurs au lieu de réformettes qui ne changent rien au modèle en place ? Les graves problèmes des agriculteurs (anciens, connus et documentés) concernent en fait tout le monde, et les résoudre (...) #Les_Articles

    / #Agriculture, Révoltes, insurrections, débordements..., #Le_monde_de_L'Economie

    #Révoltes,_insurrections,_débordements...
    https://paris-luttes.info/communique-du-26-janvier-de-la-17812
    https://reporterre.net/Champignons-polonais-haricots-de-Madagascar-Des-paysans-vident-les-rayon
    https://terresdeluttes.fr/tribune-agriculteurs-et-ecolos-nous-refusons-detre-catalogues-comme-e

  • La Confédération paysanne ne peut se satisfaire des annonces du gouvernement et poursuit la mobilisation
    Vivre et non survivre ! Soutien à l’agriculture paysanne
    Salarié·es, paysan·nes, convergeons ! Nous voulons vivre dignement de notre travail
    Aux côtés des paysan·nes, pour une agriculture paysanne
    Sauvons les fermes et leur transition ! La FUGEA se mobilise pour crier le désarroi de ses membres

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2024/01/29/la-confederation-paysanne-ne-peut-se-satisfair

    #agriculture

  • Colère des #agriculteurs : « Ce qui était cohérent et cohésif est devenu explosif »
    https://theconversation.com/colere-des-agriculteurs-ce-qui-etait-coherent-et-cohesif-est-devenu

    Médiatiquement, il est souvent question des agriculteurs, comme si ces derniers représentaient un groupe social unifié. Est-ce le cas ? 

    D’un point de vue administratif, institutionnel, du point de vue de la description économique d’une tâche productive, « les agriculteurs », entendus comme les exploitants agricoles, ça existe. Mais d’un point de vue sociologique, non, ce n’est pas un groupe. Les viticulteurs de régions canoniques du vin, ou les grands céréaliers des régions les plus productives, n’ont pas grand-chose à voir avec les petits éleveurs, les maraîchers ou ceux qui pratiquent une agriculture alternative.

    Le sociologue aura dont plutôt tendance à rattacher certains d’entre eux aux catégories supérieures, proches des artisans, commerçants, chefs d’entreprises voire des cadres, et d’autres aux catégories supérieures des classes populaires. La plupart des agriculteurs sont proches des pôles économiques, mais une partie, sont aussi fortement dotés en capitaux culturels. Et, encore une fois, même dans les classes populaires, les agriculteurs y seront à part. C’est une classe populaire à patrimoine, ce qui les distingue de manière très décisive des ouvriers ou des petits employés.

    • Dans l’histoire de la sociologie, les agriculteurs ont d’ailleurs toujours été perçus comme inclassables. Ils sont autant du côté du #capital que du travail. Car ils sont propriétaires de leur propre moyen de production, mais en revanche ils n’exploitent souvent personne d’autre qu’eux-mêmes et leur famille, pour une grande partie. Autre dualité dans leur positionnement : ils sont à la fois du côté du travail en col blanc avec un ensemble de tâches administratives de planification, de gestion, de projection d’entreprise sur le futur, de captation de marchés, mais ils sont aussi du côté du col bleu, du travail manuel, de ses compétences techniciennes.

      Comment expliquer alors qu’en France, ce groupe soit encore si souvent présenté comme unifié ?

      Cette illusion d’unité est une construction à la fois de l’#État et de la Fédération nationale des syndicats d’exploitants agricoles (FNSEA) pour un bénéfice mutuel historique : celle d’une co-gestion. Globalement, l’État s’adresse aux agriculteurs via ce syndicat dominant, pour tâcher de bâtir une politique publique agricole cohérente. Même si la co-gestion a été dépassée pour être plus complexe, cette idée que l’agriculture était une histoire entre l’État et les agriculteurs perdure comme on le voit dans les syndicats invités à Matignon, uniquement la FNSEA au début de la crise. La FNSEA a tenté historiquement de rassembler les agriculteurs pour être l’interlocuteur légitime. Mais cet état des lieux est aussi le fruit de l’action historique de l’État, qui a forgé une batterie d’institutions agricoles depuis la IIIème République avec le Crédit Agricole, une mutuelle sociale agricole spécifique, des chambres d’agriculture… Jusque dans les statistiques, les agriculteurs sont toujours un groupe uni, à part, ce qui est une aberration pour les sociologues.

      [...]
      Ceux qui manifestent pour avoir du gazole moins cher et des pesticides savent qu’ils ont perdu la bataille, et qu’ils ne gagneront qu’un sursis de quelques années, car leur modèle n’est tout simplement plus viable. Ils sont aussi en colère contre les syndicats qui étaient censés penser pour eux la transformation nécessaire. La FNSEA ne maîtrise pas vraiment le mouvement.

      Gilles Laferté :
      https://www.cairn.info/publications-de-Gilles-Laferté--8803.htm
      #agriculteurs #patrimoine #dette #travail_immatériel #travail_manuel #travail #FNSEA #productivisme #agroécologie #suicide

    • Colère des agriculteurs : « Ces changements qui travaillent les campagnes à bas bruit »
      https://www.lemonde.fr/idees/article/2024/01/29/colere-des-agriculteurs-ces-changements-qui-travaillent-les-campagnes-a-bas-

      Dans l’imaginaire des Français, et chez de nombreux exploitants agricoles eux-mêmes, il est difficile de penser l’avenir en dehors d’un modèle familial, qui ne concerne pourtant plus que 37 % des fermes, analyse dans sa chronique Jean-Michel Bezat, journaliste au « Monde ».

      A la faveur des lois d’orientation de 1960-1962, la figure immémoriale du paysan gardien de la nature a cédé la place à celle de l’agriculteur. (...) Quel métier a subi un tel « plan social » durant cette révolution ? On comptait 1,6 million d’exploitations en 1970, elles ne sont plus que 380 000. (...)
      [Ils] ont perdu le monopole de l’espace rural, de plus en plus disputé par les urbains et les néoruraux.

      https://justpaste.it/ac2ok

      #modèle_agricole (feu le) #écologie #green_new_deal

    • Car ils sont propriétaires de leur propre moyen de production, mais en revanche ils n’exploitent souvent personne d’autre qu’eux-mêmes et leur famille, pour une grande partie.

      « grande partie » c’est un peu vague : en 2021 43% de l’agriculture c’étaient PAS les agriculteurs « chef-exploitant ». Et ça ne fait qu’augmenter chaque année donc en 2023 après covid sûrement encore plus.

      https://agreste.agriculture.gouv.fr/agreste-web/download/publication/publie/Dos2303/Dossiers2023-3_EmploiAgricole2021.pdf

      Les chefs et coexploitants assurent en 2021 la plus grande part du travail agricole, avec 57 % des ETP

      Ça fait quand même un sacré paquet de vrais patrons, qui n’exploitent pas qu’eux-mêmes.

  • Top du tas de #fumier, les cons qui croient que le monde ne va pas tourner sans eux

    "Anti-écolo, anti-FNSEA : la #Coordination_rurale de mon cul, le syndicat qui attise la colère agricole

    Courtisée par l’extrême droite, la Co. ru. est un des acteurs de la mobilisation en cours. Elle se bat contre la mondialisation et les mesures écologiques, avec des méthodes parfois violentes. Les appels à bloquer Paris lundi se multiplient. (...)) #OMG

    Vous étiez où, les #culs_terreux, avec les #Gilets_Jaunes ?

     :-D :-D :-D Au boulot, les #bouseux #politique #agricole #France #souveraineté #nombril #seenthis #vangauguin

    https://www.mediapart.fr/journal/politique/280124/anti-ecolo-anti-fnsea-la-coordination-rurale-le-syndicat-qui-attise-la-col

  • #Macron, #Attal, et #Darmanin font dans leur culotte, et "ils assument" #mdr #guignolos #bouses #tartuffes #petites_bites #politique #France #agriculture #Europe #monde #miniature #microcosmos #minimundus #seenthis #vangauguin

    https://www.politis.fr/articles/2024/01/colere-des-agriculteurs-le-deux-poids-deux-mesures-assume-du-gouvernement

    "Colère des agriculteurs : le « deux poids deux mesures » assumé du gouvernement

    Le gouvernement, Gérald Darmanin en tête, se montre indulgent envers les agriculteurs en colère. Cette approche met en lumière une réelle partialité, suscitant des questions sur l’équité dans le traitement des différentes expressions de mécontentement social. (...)"

  • Documentaire : Tu Nourriras le monde - Un film accessible à tous, réalisé par deux agronomes engagés
    https://ricochets.cc/Documentaire-Tu-Nourriras-le-monde-Un-film-accessible-a-tous-realise-par-d

    Désertification des campagnes, disparition des agriculteurs et de la biodiversité, agrandissement à outrance des exploitations : mais pourquoi ? A travers leur documentaire « Tu nourriras le monde », deux jeunes agronomes se sont rendus au cœur d’une région emblématique de l’agriculture céréalière industrielle française : la Champagne crayeuse. Leur objectif : rencontrer les céréaliers champenois et comprendre l’origine des freins à la transition agro-écologique. Etant donné les (...) #Les_Articles

    / #Agriculture, #Ecologie, #Le_monde_de_L'Economie