• The pact kills : l’istituzionalizzazione della fine del diritto d’asilo nell’UE

    Un documento dell’Associazione #Open_Your_Borders di Padova sul nuovo patto europeo sulla migrazione e l’asilo.

    Il 10 aprile il Parlamento europeo ha approvato il Nuovo Patto sulla Migrazione e l’Asilo, frutto di un lungo negoziato cominciato nel 2020 tra Parlamento, Consiglio e Commissione.

    Prima di entrare in vigore, dovrà essere votato anche dal Consiglio dell’UE, l’organo in cui risiedono i rappresentanti dei governi dei 27 stati membri, la cui votazione è attesa entro la fine di aprile.

    In sintesi, questo Nuovo Patto prevede una serie di riforme del sistema di gestione dei flussi migratori e della richiesta di protezione internazionale nel territorio dell’Unione Europea e, in particolare, raccoglie al suo interno dieci proposte di legge che vanno brutalmente a rafforzare l’approccio securitario della ormai consolidata “fortezza Europa”, costituita dalle 27 nazioni, sulle 43 + 7 dell’Europa geografica.

    È evidente che i tempi e i contenuti di questa mossa hanno chiare motivazioni elettoralistiche in vista delle elezioni Europee, con il riposizionamento dei vari partiti nazionali in funzione sia della propria affermazione locale che della futura riaggregazione in probabili inedite coalizioni. Infatti “il Patto” è stato approvato trasversalmente con 301 voti favorevoli, 269 contrari e 51 astensioni.

    La coalizione di centrodestra governativa guidata da Giorgia Meloni è risultata non omogenea, con lo spostamento di Fratelli d’Italia (attualmente all’opposizione in Europa) a favore e con la Lega che ha confermato il proprio voto contrario, probabilmente perché considera la linea adottata troppo moderata e poco sovranista.

    Con motivazioni opposte, si sono schierati contrari anche il PD (che è organico dell’attuale maggioranza in UE) e il Movimento 5 stelle.

    Si rincorrono i toni trionfalistici per la “decisione storica” presa, dipinta come “un enorme risultato per l’Europa”, “un solido quadro legislativo su come affrontare la migrazione e l’asilo nell’Unione europea” e per una fantomatica e propagandistica “vittoria italiana” sottolineata da Meloni, nonostante il tanto criticato Regolamento di Dublino (per cui è il paese di primo ingresso l’unico responsabile di esaminare le richieste di protezione internazionale e di gestire e trattenere al suo interno le persone migranti) sia stato di fatto rafforzato.

    Noi, in questa giornata buia per il diritto d’asilo europeo e per la libertà di movimento internazionale, vediamo solo un consolidamento di pratiche di violazione dei diritti umani, che sono già attuate e condivise da parecchio tempo, sia alle frontiere che nei territori degli Stati dell’Unione Europea, in vista di quello che si prospetta come un inasprimento e allargamento del conflitto mediorientale e di una sempre maggiore instabilità di tutta l’area del Sahel (testimoniato da 7 colpi di Stato in pochi anni e dalla guerra solo apparentemente interna in Sudan che continua nell’indifferenza generale) dove si stanno giocando gli interessi egemonici in Africa dei due blocchi politici ed economici contrapposti, con Stati Uniti e Francia su tutti da un lato, e paesi Brics (Russia, Cina, India, ecc.) dall’altro.

    Con l’Unione Europa dal peso politico inconsistente tra le due parti e i suoi Stati membri che si percepiscono (erroneamente) come meta di approdo per tutti i movimenti di fuga delle popolazioni, i confini esterni dell’Unione diventano in primis la rappresentazione materiale da blindare assolutamente a scopo preventivo.

    Di seguito, analizziamo nello specifico le nuove norme per noi più critiche e problematiche.
    1) Procedure accelerate e sommarie per la richiesta di protezione internazionale

    Il Nuovo Patto divide in maniera importante i percorsi di richiesta di protezione internazionale, con l’applicazione di una procedura accelerata e generalizzata basata soprattutto sulla provenienza geografica legata alla classificazione dei cosiddetti “Stati sicuri” e non sulla storia individuale delle persone.

    Il testo prevede che tali procedure accelerate – che dovrebbero durare al massimo 12 settimane – siano svoltedirettamente nelle zone di frontiera, con il trattenimento di migliaia di persone in centri di detenzione posizionati ai confini degli Stati dell’Unione Europea.

    Lo svolgimento dell’esame approssimativo delle richieste sulla base della nazionalità porterà quindi ad un aumento generalizzato delle espulsioni, limitando la possibilità di richiesta di asilo, in violazione del principio internazionale del non respingimento, ma anche, ad esempio, al diritto alle cure mediche e al ricongiungimento familiare.

    Il criterio basato sullo Stato di provenienza è già stato eccezionalmente usato per velocizzare l’ingresso e l’integrazione diffusa delle persone rifugiate ucraine – però limitato a donne, bambin* e anzian*. Tale applicazione, causata dal conflitto Russia-Ucraina, che evidentemente ci tocca da vicino sia per posizione geografica che etnica, ha però contestualmente escluso l’evacuazione di tutti gli altri “non bianchi” presenti in quel territorio per motivi di lavoro, di studio o in transito migratorio. Anche per questo motivo, utilizzare solamente il criterio di provenienza geografica di origine senza considerare le specificità delle persone nelle procedure accelerate è funzionale alla negazione dell’asilo, in quanto arbitraria e strumentale da parte degli Stati.
    2) Un nuovo regolamento di screening (ovvero l’esercizio della bio-politica)

    Le persone richiedenti asilo non possono scegliere se seguire una procedura tradizionale (che richiede molti mesi) o accelerata, ma vengono divisi e indirizzati in base al loro profilo, stilato attraverso un nuovo e uniforme regolamento di screening obbligatorio inserito nell’Eurodac, creando così una enorme banca dati comune: questa “procedura di frontiera” preliminare, da farsi entro 7 giorni dall’arrivo, comprende identificazione, raccolta dei dati biometrici, controlli sanitari e di sicurezza, controllo di eventuali trasferimenti e precedenti, il tutto a partire dai 6 anni di età. Questa procedura sarà adottata principalmente per le persone richiedenti asilo che per qualche motivo vengono considerati un “pericolo” per i paesi dell’Unione, per coloro che provengono dai paesi considerati “sicuri” e per chi proviene da paesi che, anche per altri motivi, hanno un tasso molto basso (sotto il 20 per cento) di domande d’asilo accolte.
    3) Introduzione del concetto di “finzione del non ingresso”

    Il patto introduce il concetto di “finzione giuridica di non ingresso”, secondo il quale le zone di frontiera sono considerate come non parte del territorio degli Stati membri. Questo interessa in particolare l’Italia, la Grecia e la Spagna per gli sbarchi della rotta mediterranea, mentre sono più articolati “i confini” per la rotta balcanica. Durante le 12 settimane di attesa per l’esito della richiesta di asilo, le persone sono considerate legalmente “non presenti nel territorio dell’UE”, nonostante esse fisicamente lo siano (in centri di detenzione ai confini), non avranno un patrocinio legale gratuito per la pratica amministrativa e tempi brevissimi per il ricorso in caso di un primo diniego (e in quel caso rischiano anche di essere espulse durante l’attesa della decisione che li riguarda). In assenza di accordi con i paesi di origine (come nella maggioranza dei casi), le espulsioni avverranno verso i paesi di partenza.

    Tale concetto creadelle pericolose “zone grigie” in cui le persone in movimento, trattenute per la procedura accelerata di frontiera, non potranno muoversi sul territorio né tantomeno accedere a un supporto esterno. Tutto questo in spregio del diritto internazionale e della tutela della persona che, sulla carta, l’UE si propone(va) di difendere.
    4) L’istituzione di un meccanismo di “solidarietà obbligatoria” e l’esternalizzazione dei confini

    All’interno di una narrazione in cui le persone in movimento sono un onere da cui gli Stati Europei cercano di sottrarsi, viene istituito un meccanismo di “accettazione obbligatoria” di ricollocamento e trasferimento delle persone migranti, ma solo in caso di non precisate impennate di arrivi. Gli Stati potranno però scegliere se “accettare” un certo numero di migranti o, in alternativa all’accoglienza, fornire supporto operativo al paese d’arrivo, inviando del personale o mezzi, oppure pagare una quota di 20mila euro per ogni richiedente che si rifiutano di accogliere, da versare in un fondo comune dell’Unione Europea.

    I soldi versati in questo fondo comune, oltre a poter essere redistribuiti tra i paesi di frontiera (come l’Italia), potranno essere utilizzati per sostenere e finanziare «azioni nei paesi terzi o in relazione ad essi che hanno un impatto diretto sui flussi migratori verso l’UE» ossia paesi, come Libia e Tunisia da cui le persone migranti partono per raggiungere l’Europa.

    Un meccanismo disumanizzante e che trasforma le persone e le garanzie dei diritti umani in merci barattabili con un compenso economico destinabile a rafforzare i confini ancora più esternamente.

    Un ulteriore sviluppo è dato dalla delocalizzazione della zona di frontiera, attraverso la creazione di hotspot al di fuori dei confini nazionali, come nel caso dei futuri centri italiani in Albania.

    L’adozione di questo Nuovo Patto – non ancora definitivo, si ricorda – dimostra come i valori di accoglienza e “integrazione” e il diritto alla libertà di movimento, previsto dall’art. 12 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, vengano sgretolati di fronte ad una sempre più marcata diffidenza, chiusura e difesa della sovranità nazionale.

    Con la recrudescenza dei nazionalismi negli Stati Europei e la loro incapacità di agire con una lungimiranza alternativa e una visione decolonializzata nello scacchiere geopolitico, la tutela degli individui e della dignità umana viene “semplicemente” sostituita da inquietanti concetti privi di senso legati alla purezza della nazione e dell’etnia e alla difesa, in modalità securitaria e repressiva, della patria e della tradizione, che si traducono in istituzionalizzazione e normalizzazione dell’agire violento ai confini della UE e in una crescente esternalizzazione della frontiera attraverso il respingimento delle persone razzializzate nell’ultimo Paese di partenza, con l’intento dichiarato di voler scoraggiare la mobilità verso l’Europa.

    https://www.meltingpot.org/2024/04/the-pact-kills-listituzionalizzazione-della-fine-del-diritto-dasilo-nell
    #pacte #asile #migrations #réfugiés #droit_d'asile #procédure_accélérée #pays_sûrs #rétention #frontières #rétention_aux_frontières #screening #Eurodac #procédure_de_frontière #biométrie #fiction_juridique #zones_frontalières #solidarité_obligatoire #externalisation #relocalisation

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    ajouté à la métaliste sur #Pacte_européen_sur_la_migration_et_l’asile :
    https://seenthis.net/messages/1019088

    ajouté à la métaliste autour de la Création de zones frontalières (au lieu de lignes de frontière) en vue de refoulements :
    https://seenthis.net/messages/795053

  • Lecture d’un extrait du livre « Cent portraits vagues » de Milène Tournier, paru aux Éditions Lurlure en 2024.

    https://liminaire.fr/radio-marelle/article/cent-portraits-vagues-de-milene-tournier

    En une ou deux pages, parfois quelques lignes seulement, Milène Tournier parvient à dresser le portrait de femmes, d’hommes, d’âges et d’origines diverses, solitaires souvent, à un tournant de leur existence, avec une sensibilité bouleversante. Elle saisit l’essentielle d’une vie, d’un parcours, d’un moment, d’une personnalité, en allant droit au cœur de celle-ci, sans jamais les caricaturer, mais en rendant leur caractère au plus juste. On retrouve dans ce texte la maîtrise envoûtante de ses œuvres précédentes, entre poésie et théâtre, une voix singulière, un regard aiguisé sur le monde, à l’écoute de ses blessures, de son absurdité.

    (...) #Radio_Marelle, #Écriture, #Livre, #Lecture, #En_lisant_en_écrivant, #Podcast, #Sensation, #Biographie, #Littérature, #Édition, #Récit, #Portrait (...)

    https://liminaire.fr/IMG/mp4/en_lisant_cent_portraits_vagues_mile_ne_tournier.mp4

    https://lurlure.net/cent-portraits-vagues

  • Biovallée invite SMASH, avec promotion de « La comptabilité écologique du capital naturel »
    https://ricochets.cc/Biovallee-invite-SMASH-avec-promotion-de-La-comptabilite-ecologique-du-cap

    Ce soir à #Eurre, modélisation mathématique et Intelligence Artificielle au service du capitalisme « vert » sont à l’honneur à l’écocite. SMASH fait une présentation avec Biovallée et l’institut Michel Serres. Qui peut croire sérieusement à l’intérêt d’appliquer à l’écologie des méthodes et concepts du capitalisme : la comptabilité et le capital ? Réduire la nature et sa biodiversité à des bilans comptables, des ressources, des stocks, des coûts, des risques, et intégrer les externalités (...) #Les_Articles

    / Eurre, #Ecologie, Biovallée ®, #Le_monde_de_L'Economie

    #Biovallée_®
    https://biovallee.net/venez-decouvrir-la-comptabilite-ecologique-du-capital-naturel-le-11-avril
    https://www.smash.fr/d-tails-et-inscription/la-comptabilite-ecologique-du-capital-naturel
    https://ufe-electricite.fr/qui-sommes-nous/presentation-de-ufe
    https://institutmichelserres.fr/historique

  • La conservation contre le #capitalisme
    https://laviedesidees.fr/La-conservation-contre-le-capitalisme

    Comment sauver la biodiversité de son extinction programmée sans appauvrir et exclure les populations dépendantes des écosystèmes ? En admettant la portée politique de la conservation et en l’inscrivant dans un projet anticapitaliste, répondent les sociologues Bram Büscher et Robert Fletcher.

    #Philosophie #biodiversité #révolution #vivant
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/20240410_conservation.pdf

  • Blasenperforation durch intravesikale Knallgasexplosion
    https://link.springer.com/article/10.1007/s00120-008-1718-1
    Vous vous en doutiez. L’homme est un être explosif.

    Zusammenfassung

    Bei einem 74-jährigen Patienten kam es während der transurethralen Resektion (TUR) eines Blasentumors an der Vorderwand zur Knallgasexplosion in der Blase mit Zerreißung der Blasenvorderwand. Die Computertomographie (CT) zeigte zahlreiche verstreut liegende Gasbläschen im perivesikalen Bereich. Die Behandlung erfolgte konservativ.

    Intravesikale Explosionen entstehen, wenn der durch TUR freigesetzte Wasserstoff sich mit Außenluft vermischt und dann durch Funkenschlag gezündet wird. Zur Prophylaxe muss eine Elektroresektion mit Kontakt zur Luftblase vermieden werden.
    Abstract

    A 74-year-old patient underwent transurethral electroresection for a bladder tumor located at the anterior wall close to the air bubble. Intraoperatively, an explosion occurred. Computed tomography documented laceration of the anterior bladder wall with numerous small gas bubbles dispersed in the perivesical area. The etiology of intravesical explosions is based on formation of hydrogen during electroresection.

    Hydrogen by itself is not explosive; a blast will occur only when atmospheric oxygen is admixed and then ignited by sparks from electroresection. To prevent such a complication, care must be taken not to activate the resection loop within the air bubble of the bladder.

    Enfin c’est l’horreur totale. Pas seulement tu te coltines une tumeur de la prostate potentiellement mortelle, mais en plus tu te remplis avec du gaz qui te transforne en suicide bomber involontaire. Tout ça est complètement naturel jusqu’au moment quand le toubib arrive avec son robot d’opération qui provoque l’étincelle qui te fait exploser. Glauque. Je n’invente rien.

    #biologie #médecine #explosion #wtf

  • Cancer-causing PCB chemicals still being produced despite 40-year-old ban
    https://www.theguardian.com/environment/2024/mar/08/cancer-causing-pcb-chemicals-still-produced-despite-40-year-old-ban

    Research seen by the Guardian and Watershed Investigations shows that PCBs are being produced as byproducts in chemical reactions, which means small proportions of them are present in many chemicals used today.

    This is staggering given that production of PCBs was banned over 40 years ago and we are supposed to be eliminating them under the Stockholm convention,” said the environmental forensic scientist Dr Dave Megson from Manchester Metropolitan University, who conducted the study.

    When we take into account the volumes of these chemicals and the small levels of PCBs within them then this adds up to a massive number – around 45,000 tonnes per year in the US alone.” During peak commercial production in the 1970s about 39,000 tonnes were made each year, states the study.

    Most people associate this accidental production of PCBs with paints and pigments, but our research shows it’s much broader than that,” said Megson. Chlorinated solvents, which are used in chemical manufacturing, are a major source according to the research.

    PCBs are currently going undetected in many studies as the specific PCBs produced accidentally are different from the PCBs that were produced intentionally in the commercial mixtures of 50-plus years ago.”

    The study says these kinds of by-product PCBs are not measured in many existing monitoring programmes and may pose a “growing, unmonitored environmental and human health risk”. It suggests they should be classified as “a pollutant of emerging concern” and that they need to be addressed urgently as all PCBs are considered toxic, not just legacy PCBs from commercial mixtures.

    Lee Bell from the international chemicals NGO network who is also a member of the Stockholm convention PCB expert group said: “Not a lot of effort has been made in regulating unintentional production of PCB from chemical manufacture. In the case of intentional PCB production, the parties to the convention have a deadline to eliminate all stockpiles of old PCB by 2028. They are woefully behind on this task and about 80% of PCB stockpiles have yet to be destroyed."

    [...]

    “_It is disappointing that hundreds of millions of dollars are being spent to destroy legacy PCBs while regulators allow unintentional PCB contamination to spread virtually unabated.

    [...]

    PCB production was banned in the US in 1979 and in 1981 in the UK, and work to restrict their use in electrical equipment in the UK is continuing. Sources of legacy pollution from commercially made PCBs include landfills and materials in buildings.

    #PCB #pollution #Monsanto #biodiversité

  • À Strasbourg, l’Europe intensifie discrètement le fichage des migrants

    Dans un bâtiment discret, 350 personnes travaillent à renforcer le #contrôle et le #suivi des personnes entrant dans l’#espace_Schengen. Reportage dans l’agence de l’Union européenne qui renforce le fichage des migrants.

    Dans le quartier du Neuhof à Strasbourg, un bâtiment hautement sécurisé attire l’œil. Dissimulée derrière le gymnase du Stockfeld et entourée de terrains vagues, l’#agence_européenne #eu-Lisa est protégée par deux lignes barbelées surplombées de caméras. Aux alentours du bâtiment, les agents de sécurité portent au cœur un petit drapeau bleu aux douze étoiles. Des véhicules immatriculés en France, au Luxembourg, en Belgique et en Allemagne stationnent sur le parking.

    Créée en 2011 et opérationnelle depuis 2012, l’#agence_européenne_pour_la_gestion_opérationnelle_des_systèmes_d’information à grande échelle eu-Lisa développe et fait fonctionner les #bases_de_données de l’Union européenne (UE). Ces dernières permettent d’archiver les #empreintes_digitales des demandeurs et demandeuses d’asile mais aussi les demandes de visa ou les alertes de personnes portées disparues.

    Le siège d’eu-Lisa est à Tallinn, en Estonie. Un bureau de liaison se trouve à Bruxelles et son centre opérationnel a été construit à Strasbourg. Lundi 26 février, le ministre délégué aux affaires européennes, Jean-Noël Barrot, est venu visiter l’endroit, où sont développés les nouveaux systèmes de suivi et de #filtrage des personnes migrantes et des voyageurs et voyageuses non européen·nes. Le « cœur de Schengen », selon la communication de l’agence.

    Sur les écrans de contrôle, des ingénieur·es suivent les requêtes adressées par les États membres aux différents #systèmes_d’information_opérationnels. L’un d’eux raconte que le nombre de cyberattaques subies par l’agence est colossal : 500 000 tentatives par mois environ. La quantité de données gérées est aussi impressionnante : en 2022, le système #VIS (#Visa_Information_System) a enregistré 57 millions de demandes de #visas et 52 millions d’empreintes digitales. La même année, 86,5 millions d’alertes ont été transmises au système #SIS (#Schengen_Information_System).

    Dans l’agence du Neuhof, une vingtaine de nationalités sont représentées parmi les 350 travailleurs et travailleuses. En tout, 500 mètres carrés sécurisés abritent les données confidentielles de dizaines de millions de personnes. 2 500 ordinateurs fonctionnent en permanence pour une capacité de stockage de 13 petabytes, soit 13 milliards de gigabytes. Vingt-quatre heures sur vingt-quatre et sept jours sur sept, l’eu-Lisa répond aux demandes de données des pays membres de l’espace Schengen ou de l’Union européenne.

    Traduire la politique en #technologie

    Au-delà de la salle de réunion, impossible de photographier les murs ou l’environnement de travail. L’enclave européenne est sous haute surveillance : pour entrer, les empreintes digitales sont relevées après un passage des sacs au scanner. Un badge connecté aux empreintes permet de passer un premier sas d’entrée. Au-delà, les responsables de la sécurité suivent les visiteurs de très près, au milieu d’un environnement violet et vert parsemé de plantes de toutes formes.

    Moins de six mois avant le début des Jeux olympiques et paralympiques de Paris et deux mois après l’accord européen relatif au Pacte sur la migration et l’asile, l’agence aux 260 millions d’euros de budget en 2024 travaille à mettre en place le système de contrôle des flux de personnes le plus précis, efficace et complet de l’histoire de l’espace Schengen. Le pacte prévoit, par exemple, que la demande d’asile soit uniformisée à travers l’UE et que les « migrants illégaux » soient reconduits plus vite et plus efficacement aux frontières.

    Pour accueillir le ministre, #Agnès_Diallo, directrice de l’eu-Lisa depuis 2023, diffuse une petite vidéo en anglais dans une salle de réunion immaculée. L’ancienne cadre de l’entreprise de services numériques #Atos présente une « agence discrète » au service de la justice et des affaires intérieures européennes. À l’eu-Lisa, pas de considération politique. « Notre agence a été créée par des règlements européens et nous agissons dans ce cadre, résume-t-elle. Nous remplaçons les frontières physiques par des #frontières_numériques. Nous travaillons à laisser passer dans l’espace Schengen les migrants et voyageurs qui sont légitimes et à filtrer ceux qui le sont moins. »

    L’eu-Lisa invente, améliore et fait fonctionner les sept outils informatiques utilisés en réseau par les États membres et leurs institutions. L’agence s’assure notamment que les données sont protégées. Elle forme aussi les personnes qui utiliseront les interfaces, comme les agents de #Frontex, d’#Europol ou de la #police_aux_frontières. Au Neuhof, les personnes qui travaillent n’utilisent pas les informations qu’elles stockent.

    Fichés dès l’âge de 6 ans

    L’agence eu-Lisa héberge les empreintes digitales de 7,5 millions de demandeurs et demandeuses d’asile et « migrants illégaux » dans le système appelé Eurodac. Pour le moment, les données récoltées ne sont pas liées à l’identité de la personne ni à sa photo. Mais avec l’adoption des nouvelles règles relatives au statut de réfugié·e en Europe, Eurodac est en train d’être complètement refondé pour être opérationnel en 2026.

    La réforme décidée en décembre 2023 prévoit que les demandeurs d’asile et « migrants illégaux » devront fournir d’autres informations biométriques : en plus de leurs empreintes, leur photo, leur nom, prénom et date et lieu de naissance seront enregistrés lors de leur entrée dans Schengen. La procédure vaudra pour toute personne dès l’âge de 6 ans (contre 14 avant la réforme). Les #données qui étaient conservées pour dix-huit mois pourront l’être jusqu’à cinq ans.

    La quantité d’informations stockées va donc croître exponentiellement dès 2026. « Nous aurons énormément de données pour #tracer les mouvements des migrants irréguliers et des demandeurs d’asile », se félicite #Lorenzo_Rinaldi, l’un des cadres de l’agence venant tout droit de Tallinn. Eurodac permettra à n’importe quelle autorité policière habilitée de savoir très précisément par quel pays est arrivée une personne, ainsi que son statut administratif.

    Il sera donc impossible de demander une protection internationale dans un pays, puis de s’installer dans un autre, ou de demander une seconde fois l’asile dans un pays européen. Lorenzo Rinaldi explique : « Aujourd’hui, il nous manque la grande image des mouvements de personnes entre les États membres. On pourra identifier les tendances, recouper les données et simplifier l’#identification des personnes. »

    Pour identifier les itinéraires et contrôler les mouvements de personnes dans l’espace Schengen, l’agence travaille aussi à ce que les sept systèmes d’information fonctionnent ensemble. « Nous avions des bases de données, nous aurons désormais un système complet de gestion de ces informations », se réjouit Agnès Diallo.

    L’eu-Lisa crée donc également un système de #traçage des entrées et des sorties de l’espace Schengen, sobrement appelé #Entry-Exit_System (ou #EES). Développé à l’initiative de la France dès 2017, il remplace par une #trace_numérique le tamponnage physique des passeports par les gardes-frontières. Il permet notamment de détecter les personnes qui restent dans Schengen, après que leur visa a expiré – les #overstayers, celles qui restent trop longtemps.

    Frontières et Jeux olympiques

    « Toutes nos équipes sont mobilisées pour faire fonctionner le système EES [entrées-sorties de l’espace Schengen – ndlr] d’ici à la fin de l’année 2024 », précise Agnès Diallo. Devant le Sénat en 2023, la directrice exécutive avait assuré que l’EES ne serait pas mis en place pendant les Jeux olympiques et paralympiques si son influence était négative sur l’événement, par exemple s’il ralentissait trop le travail aux frontières.

    En France et dans onze autres pays, le système EES est testé depuis janvier 2024. L’agence estime qu’il sera prêt pour juillet 2024, comme l’affirme Lorenzo Rinaldi, chef de l’unité chargé du soutien à la direction et aux relations avec les partenaires de l’eu-Lisa : « Lorsqu’une personne non européenne arrive dans Schengen, elle devra donner à deux reprises ses #données_biométriques. Donc ça sera plus long la première fois qu’elle viendra sur le territoire, mais ses données seront conservées trois ans. Les fois suivantes, lorsque ses données seront déjà connues, le passage sera rapide. »

    Ce système est prévu pour fonctionner de concert avec un autre petit nouveau, appelé #Etias, qui devrait être opérationnel d’ici au premier semestre de 2025. Les personnes qui n’ont pas d’obligation d’avoir de visa pour entrer dans 30 pays européens devront faire une demande avant de venir pour un court séjour – comme lorsqu’un·e citoyen·ne français·e demande une autorisation électronique de voyage pour entrer aux États-Unis ou au Canada. La procédure, en ligne, sera facturée 7 euros aux voyageurs et voyageuses, et l’autorisation sera valable trois ans.

    L’eu-Lisa gère enfin le #système_d’information_Schengen (le #SIS, qui gère les alertes sur les personnes et objets recherchés ou disparus), le système d’information sur les visas (#VIS), la base de données des #casiers_judiciaires (#Ecris-TCN) et le #Codex pour la #coopération_judiciaire entre États membres.

    L’agence travaille notamment à mettre en place une communication par Internet entre ces différents systèmes. Pour Agnès Diallo, cette nouveauté permettra une coordination sans précédent des agents aux frontières et des institutions judiciaires nationales et européennes dans les 27 pays de l’espace Schengen.

    « On pourra suivre les migrants, réguliers et irréguliers », se félicite Fabienne Keller, députée européenne Renew et fervente défenseuse du Pacte sur les migrations. Pour la mise en place de tous ces outils, l’agence eu-Lisa devra former les États membres mais également les transporteurs et les voyageurs et voyageuses. L’ensemble de ces systèmes devrait être opérationnel d’ici à la fin 2026.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/050324/strasbourg-l-europe-intensifie-discretement-le-fichage-des-migrants

    #fichage #migrations #réfugiés #biométrie
    via @karine4
    ping @_kg_

  • Border security with drones and databases

    The EU’s borders are increasingly militarised, with hundreds of millions of euros paid to state agencies and military, security and IT companies for surveillance, patrols and apprehension and detention. This process has massive human cost, and politicians are planning to intensify it.

    Europe is ringed by steel fences topped by barbed wire; patrolled by border agents equipped with thermal vision systems, heartbeat detectors, guns and batons; and watched from the skies by drones, helicopters and planes. Anyone who enters is supposed to have their fingerprints and photograph taken for inclusion in an enormous biometric database. Constant additions to this technological arsenal are under development, backed by generous amounts of public funding. Three decades after the fall of the Berlin Wall, there are more walls than ever at Europe’s borders,[1] and those borders stretch ever further in and out of its territory. This situation is the result of long-term political and corporate efforts to toughen up border surveillance and controls.

    The implications for those travelling to the EU depend on whether they belong to the majority entering in a “regular” manner, with the necessary paperwork and permissions, or are unable to obtain that paperwork, and cross borders irregularly. Those with permission must hand over increasing amounts of personal data. The increasing automation of borders is reliant on the collection of sensitive personal data and the use of algorithms, machine learning and other forms of so-called artificial intelligence to determine whether or not an individual poses a threat.

    Those without permission to enter the EU – a category that includes almost any refugee, with the notable exception of those who hold a Ukrainian passport – are faced with technology, personnel and policies designed to make journeys increasingly difficult, and thus increasingly dangerous. The reliance on smugglers is a result of the insistence on keeping people in need out at any cost – and the cost is substantial. Thousands of people die at Europe’s borders every year, families are separated, and people suffer serious physical and psychological harm as a result of those journeys and subsequent administrative detention and social marginalisation. Yet parties of all political stripes remain committed to the same harmful and dangerous policies – many of which are being worsened through the new Pact on Migration and Asylum.[2]

    The EU’s border agency, Frontex, based in Warsaw, was first set up in 2004 with the aim of providing technical coordination between EU member states’ border guards. Its remit has been gradually expanded. Following the “migration crisis” of 2015 and 2016, extensive new powers were granted to the agency. As the Max Planck Institute has noted, the 2016 law shifted the agency from a playing “support role” to acting as “a player in its own right that fulfils a regulatory, supervisory, and operational role.”[3] New tasks granted to the agency included coordinating deportations of rejected refugees and migrants, data analysis and exchange, border surveillance, and technology research and development. A further legal upgrade in 2019 introduced even more extensive powers, in particular in relation to deportations, and cooperation with and operations in third countries.

    The uniforms, guns and batons wielded by Frontex’s border guards are self-evidently militaristic in nature, as are other aspects of its work: surveillance drones have been acquired from Israeli military companies, and the agency deploys “mobile radars and thermal cameras mounted on vehicles, as well as heartbeat detectors and CO2 monitors used to detect signs of people concealed inside vehicles.”[4] One investigation described the companies that have held lobbying meetings or attended events with Frontex as “a Who’s Who of the weapons industry,” with guests including Airbus, BAE Systems, Leonardo and Thales.[5] The information acquired from the agency’s surveillance and field operations is combined with data provided by EU and third country agencies, and fed into the European Border Surveillance System, EUROSUR. This offers a God’s-eye overview of the situation at Europe’s borders and beyond – the system also claims to provide “pre-frontier situational awareness.”

    The EU and its member states also fund research and development on these technologies. From 2014 to 2022, 49 research projects were provided with a total of almost €275 million to investigate new border technologies, including swarms of autonomous drones for border surveillance, and systems that aim to use artificial intelligence to integrate and analyse data from drones, satellites, cameras, sensors and elsewhere for “analysis of potential threats” and “detection of illegal activities.”[6] Amongst the top recipients of funding have been large research institutes – for example, Germany’s Fraunhofer Institute – but companies such as Leonardo, Smiths Detection, Engineering – Ingegneria Informatica and Veridos have also been significant beneficiaries.[7]

    This is only a tiny fraction of the funds available for strengthening the EU’s border regime. A 2022 study found that between 2015 and 2020, €7.7 billion had been spent on the EU’s borders and “the biggest parts of this budget come from European funding” – that is, the EU’s own budget. The total value of the budgets that provide funds for asylum, migration and border control between 2021-27 comes to over €113 billion[8]. Proposals for the next round of budgets from 2028 until 2035 are likely to be even larger.

    Cooperation between the EU, its member states and third countries on migration control comes in a variety of forms: diplomacy, short and long-term projects, formal agreements and operational deployments. Whatever form it takes, it is frequently extremely harmful. For example, to try to reduce the number of people arriving across the Mediterranean, member states have withdrawn national sea rescue assets (as deployed, for example, in Italy’s Mare Nostrum operation) whilst increasing aerial surveillance, such as that provided by the Israel-produced drones operated by Frontex. This makes it possible to observe refugees attempting to cross the Mediterranean, whilst outsourcing their interception to authorities from countries such as Libya, Tunisia and Egypt.

    This is part of an ongoing plan “to strengthen coordination of search and rescue capacities and border surveillance at sea and land borders” of those countries. [9] Cooperation with Tunisia includes refitting search and rescue vessels and providing vehicles and equipment to the Tunisian coastguard and navy, along with substantial amounts of funding. The agreement with Egypt appears to be structured along similar lines, and five vessels have been provided to the so-called Libyan Coast Guard in 2023.[10]

    Frontex also plays a key role in the EU’s externalised border controls. The 2016 reform allowed Frontex deployments at countries bordering the EU, and the 2019 reform allowed deployments anywhere in the world, subject to agreement with the state in question. There are now EU border guards stationed in Albania, Montenegro, Serbia, Bosnia and Herzegovina, and North Macedonia.[11] The agency is seeking agreements with Niger, Senegal and Morocco, and has recently received visits from Tunisian and Egyptian officials with a view to stepping up cooperation.[12]

    In a recent report for the organisation EuroMed Rights, Antonella Napolitano highlighted “a new element” in the EU’s externalisation strategy: “the use of EU funds – including development aid – to outsource surveillance technologies that are used to entrench political control both on people on the move and local population.” Five means of doing so have been identified: provision of equipment; training; financing operations and procurement; facilitating exports by industry; and promoting legislation that enables surveillance.[13]

    The report highlights Frontex’s extended role which, even without agreements allowing deployments on foreign territory, has seen the agency support the creation of “risk analysis cells” in a number of African states, used to gather and analyse data on migration movements. The EU has also funded intelligence training in Algeria, digital evidence capacity building in Egypt, border control initiatives in Libya, and the provision of surveillance technology to Morocco. The European Ombudsman has found that insufficient attention has been given to the potential human rights impacts of this kind of cooperation.[14]

    While the EU and its member states may provide the funds for the acquisition of new technologies, or the construction of new border control systems, information on the companies that receive the contracts is not necessarily publicly available. Funds awarded to third countries will be spent in accordance with those countries’ procurement rules, which may not be as transparent as those in the EU. Indeed, the acquisition of information on the externalisation in third countries is far from simple, as a Statewatch investigation published in March 2023 found.[15]

    While EU and member state institutions are clearly committed to continuing with plans to strengthen border controls, there is a plethora of organisations, initiatives, campaigns and projects in Europe, Africa and elsewhere that are calling for a different approach. One major opportunity to call for change in the years to come will revolve around proposals for the EU’s new budgets in the 2028-35 period. The European Commission is likely to propose pouring billions more euros into borders – but there are many alternative uses of that money that would be more positive and productive. The challenge will be in creating enough political pressure to make that happen.

    This article was originally published by Welt Sichten, and is based upon the Statewatch/EuroMed Rights report Europe’s techno-borders.

    Notes

    [1] https://www.tni.org/en/publication/building-walls

    [2] https://www.statewatch.org/news/2023/december/tracking-the-pact-human-rights-disaster-in-the-works-as-parliament-makes

    [3] https://www.mpg.de/14588889/frontex

    [4] https://www.theguardian.com/global-development/2021/dec/06/fortress-europe-the-millions-spent-on-military-grade-tech-to-deter-refu

    [5] https://frontexfiles.eu/en.html

    [6] https://www.statewatch.org/publications/reports-and-books/europe-s-techno-borders

    [7] https://www.statewatch.org/publications/reports-and-books/europe-s-techno-borders

    [8] https://www.statewatch.org/publications/reports-and-books/europe-s-techno-borders

    [9] https://www.statewatch.org/news/2023/november/eu-planning-new-anti-migration-deals-with-egypt-and-tunisia-unrepentant-

    [10] https://www.statewatch.org/media/4103/eu-com-von-der-leyen-ec-letter-annex-10-23.pdf

    [11] https://www.statewatch.org/analyses/2021/briefing-external-action-frontex-operations-outside-the-eu

    [12] https://www.statewatch.org/news/2023/november/eu-planning-new-anti-migration-deals-with-egypt-and-tunisia-unrepentant-, https://www.statewatch.org/publications/events/secrecy-and-the-externalisation-of-eu-migration-control

    [13] https://privacyinternational.org/challenging-drivers-surveillance

    [14] https://euromedrights.org/wp-content/uploads/2023/07/Euromed_AI-Migration-Report_EN-1.pdf

    [15] https://www.statewatch.org/access-denied-secrecy-and-the-externalisation-of-eu-migration-control

    https://www.statewatch.org/analyses/2024/border-security-with-drones-and-databases
    #frontières #militarisation_des_frontières #technologie #données #bases_de_données #drones #complexe_militaro-industriel #migrations #réfugiés #contrôles_frontaliers #surveillance #sécurité_frontalière #biométrie #données_biométriques #intelligence_artificielle #algorithmes #smugglers #passeurs #Frontex #Airbus #BAE_Systems #Leonardo #Thales #EUROSUR #coût #business #prix #Smiths_Detection #Fraunhofer_Institute #Engineering_Ingegneria_Informatica #informatique #Tunisie #gardes-côtes_tunisiens #Albanie #Monténégro #Serbie #Bosnie-Herzégovine #Macédoine_du_Nord #Egypte #externalisation #développement #aide_au_développement #coopération_au_développement #Algérie #Libye #Maroc #Afrique_du_Nord

  • « La vraie #souveraineté_alimentaire, c’est faire évoluer notre #modèle_agricole pour préparer l’avenir »

    Professeur à l’université Paris-Saclay AgroParisTech, l’économiste de l’environnement #Harold_Levrel estime que le concept de « souveraineté alimentaire » a été détourné de sa définition originelle pour justifier un modèle exportateur et productiviste.

    Hormis les denrées exotiques, dans la plupart des secteurs, la #production_agricole nationale pourrait suffire à répondre aux besoins des consommateurs français, sauf dans quelques domaines comme les fruits ou la volaille. Or, les #importations restent importantes, en raison d’un #modèle_intensif tourné vers l’#exportation, au risque d’appauvrir les #sols et de menacer l’avenir même de la production. D’où la nécessité de changer de modèle, plaide l’économiste.

    Comment définir la souveraineté alimentaire ?

    Selon la définition du mouvement altermondialiste Via Campesina lors du sommet mondial sur l’alimentation à Rome en 1996, c’est le droit des Etats et des populations à définir leur #politique_agricole pour garantir leur #sécurité_alimentaire, sans provoquer d’impact négatif sur les autres pays. Mais les concepts échappent souvent à ceux qui les ont construits. Mais aujourd’hui, cette idée de solidarité entre les différents pays est instrumentalisée pour justifier une stratégie exportatrice, supposée profiter aux pays du Sud en leur fournissant des denrées alimentaires. Le meilleur moyen de les aider serait en réalité de laisser prospérer une #agriculture_vivrière et de ne pas les obliger à avoir eux aussi des #cultures_d’exportation. Au lieu de ça, on maintient les rentes de pays exportateurs comme la France. Quand le gouvernement et d’autres parlent d’une perte de souveraineté alimentaire, ça renvoie en réalité à une baisse des exportations dans certains secteurs, avec un état d’esprit qu’on pourrait résumer ainsi : « Make French agriculture great again. » Depuis le Covid et la guerre en Ukraine, la souveraineté alimentaire est devenue l’argument d’autorité pour poursuivre des pratiques qui génèrent des catastrophes écologiques et humaines majeures.

    Nous n’avons donc pas en soi de problème d’#autonomie_alimentaire ?

    Ça dépend dans quel domaine. Les défenseurs d’un modèle d’exploitation intensif aiment à rappeler que notre « #dépendance aux importations » est de 70 % pour le #blé dur, 40 % pour le #sucre, et 29 % pour le #porc. Mais omettent de préciser que nos taux d’auto-approvisionnement, c’est-à-dire le rapport entre la production et la consommation françaises, sont de 123 % pour le blé dur, 165 % pour le sucre, et 99 % pour le porc. Ça signifie que dans ces secteurs, la production nationale suffit en théorie à notre consommation, mais que l’on doit importer pour compenser l’exportation. Il y a en réalité très peu de produits en France sur lesquels notre production n’est pas autosuffisante. Ce sont les fruits exotiques, l’huile de palme, le chocolat, et le café. On a aussi des vrais progrès à faire sur les fruits tempérés et la viande de #volaille, où l’on est respectivement à 82 et 74 % d’auto-approvisionnement. Là, on peut parler de déficit réel. Mais il ne serait pas très difficile d’infléchir la tendance, il suffirait de donner plus d’aides aux maraîchers et aux éleveurs, qu’on délaisse complètement, et dont les productions ne sont pas favorisées par les aides de la #Politique_agricole_commune (#PAC), qui privilégient les grands céréaliers. En plus, l’augmentation de la production de #fruits et #légumes ne nécessite pas d’utiliser plus de #pesticides.

    Que faire pour être davantage autonomes ?

    A court terme, on pourrait juste rebasculer l’argent que l’on donne aux #céréaliers pour soutenir financièrement les #éleveurs et les #maraîchers. A moyen terme, la question de la souveraineté, c’est : que va-t-on être capable de produire dans dix ans ? Le traitement de l’#eau polluée aux pesticides nous coûte déjà entre 500 millions et 1 milliard d’euros chaque année. Les pollinisateurs disparaissent. Le passage en #bio, c’est donc une nécessité. On doit remettre en état la #fertilité_des_sols, ce qui suppose d’arrêter la #monoculture_intensive de #céréales. Mais pour cela, il faut évidemment réduire certaines exportations et investir dans une vraie souveraineté alimentaire, qui nécessite de faire évoluer notre modèle agricole pour préparer l’avenir.

    https://www.liberation.fr/environnement/agriculture/la-vraie-souverainete-alimentaire-cest-faire-evoluer-notre-modele-agricol
    #agriculture_intensive #industrie_agroalimentaire

  • La #rémunération hors norme d’#Arnaud_Rousseau, président de la #FNSEA, à la tête du groupe #Avril

    L’émission de France 2 « Complément d’enquête », consacrée jeudi soir à la FNSEA, révèle le montant de la rémunération d’Arnaud Rousseau par sa société Avril : 187 000 euros en 2022. Sans compter ses autres revenus liés à ses multiples casquettes.

    Le chiffre est dix fois supérieur au revenu moyen des agriculteurs et agricultrices du pays. Président du conseil d’administration du groupe Avril et président du syndicat de la FNSEA, Arnaud Rousseau a touché en 2022 une rémunération supérieure à 187 000 euros de la part de la société spécialisée dans le colza et le tournesol. C’est ce que révèle l’émission de France 2 « Complément d’enquête », dans un long format consacré à la FNSEA, diffusé jeudi 29 février à partir de 23 heures (https://www.france.tv/france-2/complement-d-enquete/5714862-agriculture-pour-qui-roule-la-fnsea.html).

    Rapportée à une moyenne mensuelle, cette rémunération, dans laquelle sont inclus des jetons de présence et des avantages en nature – voiture et logement de fonction –, est équivalente à plus de 15 500 euros par mois. L’information de l’équipe de « Complément d’enquête » a été confirmée par le directeur juridique du groupe Avril. Il a toutefois été précisé à France 2 que « ce que perçoit Arnaud Rousseau est confidentiel ».

    Ce montant ne fait pas le tour des rémunérations d’Arnaud Rousseau, dont l’ensemble des revenus est, à l’évidence, encore supérieur. L’homme est en effet président de la FNSEA – où il touche des indemnités d’élu –, exploitant agricole à la tête de plusieurs structures bénéficiaires des aides publiques de la PAC – dont Mediapart révélait les montants l’an dernier –, vice-président de la chambre d’agriculture de la région Île-de-France, vice-président de la FOP (Fédération française des producteurs d’oléagineux et de protéagineux), et maire de sa commune.
    Des manœuvres pour empêcher la reconnaissance de maladies liées aux pesticides

    Dans son enquête, le magazine de France 2 révèle également comment la FNSEA a tenté de manœuvrer pour empêcher la reconnaissance de maladies liées aux pesticides. Au cours de réunions rassemblant expert·es et partenaires sociaux pour décider de la reconnaissance de maladies professionnelles agricoles, le syndicat majoritaire des exploitantes et exploitants agricoles s’est notamment opposé, en 2011, à la reconnaissance de la maladie de Parkinson et, en 2013, à la reconnaissance du lymphome non hodgkinien. L’une et l’autre seront tout de même reconnus respectivement en 2012 et en 2015.

    La reconnaissance de maladies liées aux pesticides permet aux victimes de toucher, via la MSA, la Mutuelle sociale agricole, des indemnités à vie. Plus il y a de maladies reconnues, plus les cotisations sociales des exploitantes et exploitants agricoles sont susceptibles d’augmenter. À ce jour, de nombreuses victimes sont obligées d’aller jusqu’en justice pour faire reconnaître leur maladie.

    https://www.mediapart.fr/journal/ecologie/290224/la-remuneration-hors-norme-d-arnaud-rousseau-president-de-la-fnsea-la-tete
    #agriculture

    • Le groupe Avril, présidé par le patron de la FNSEA, carbure aux frais de l’État

      L’entreprise d’Arnaud Rousseau est devenue leader sur le marché des « #biocarburants ». Son or jaune, c’est le #colza. La société a prospéré grâce à une réglementation sur mesure et à un important #rabais_fiscal.

      Le 30 mars 2022, à quelques jours du premier tour de l’élection présidentielle, la #Fédération_nationale_des_syndicats_d’exploitants_agricoles (FNSEA) organise un « grand oral » des candidats à la fonction suprême à l’occasion de son congrès annuel qui se tient à Angers (Maine-et-Loire). Emmanuel Macron intervient, en vidéo, depuis son QG de campagne. Et il fait cette promesse : « Je voulais ici vous le dire très clairement. Le Crit’Air 1 sera attribué aux véhicules qui roulent en permanence au B100. C’était, je le sais, attendu. »

      Le #B100 ? C’est un #carburant fait d’#huile_de_colza. Les #poids_lourds roulant exclusivement avec ce produit vont donc obtenir la #vignette qui autorise à circuler dans les « #zones_à_faibles_émissions » (#ZFE) mises en place dans les grandes agglomérations pour limiter la pollution locale. Deux semaines plus tard, le 16 avril, l’arrêté paraît au Journal officiel. On est entre les deux tours de la présidentielle, il n’y a eu aucune consultation publique.

      La décision ne tombe pas du ciel. Elle est particulièrement favorable à une société étroitement liée à la FNSEA : Avril, quatrième groupe agroalimentaire français, qui a lancé trois ans et demi plus tôt l’Oleo100, un carburant B100. De la graine de colza qu’il achète auprès des coopératives de producteurs comme sur les marchés mondiaux, et qu’il fait passer dans ses usines de trituration, le groupe Avril tire à la fois un produit sec – ce qu’on appelle les tourteaux, destinés à l’alimentation animale – et une huile végétale. C’est cette huile qui fait tourner des moteurs Diesel.

      L’entreprise est présidée par Arnaud Rousseau, alors premier vice-président de la FNSEA et dans les starting-blocks pour succéder à sa présidente, Christiane Lambert – il prendra la tête du syndicat un an plus tard. L’attribution de la vignette vient compléter un arsenal règlementaire qui contribue directement aux bénéfices mirobolants du groupe : grâce à un important rabais fiscal et à la vente, en plus de son propre carburant, de « certificats » censés aider à la décarbonation des transports, le groupe Avril, via sa filiale Saipol, dégage des dizaines de millions d’euros de bénéfices sur un produit à la rentabilité hors normes. Loin, très loin, de ce que touchent réellement agricultrices et agriculteurs. Et sans que l’écologie y gagne.

      Le jour même de l’intervention d’Emmanuel Macron au congrès de la FNSEA, Arnaud Rousseau se réjouit de la nouvelle dans un communiqué de la FOP (Fédération française des producteurs d’oléagineux et de protéagineux), qu’il préside également à ce moment-là : « L’ensemble des acteurs de la filière française des huiles et protéines végétales se félicite de l’obtention de la vignette Crit’Air 1 pour le B100, carburant 100 % végétal », écrit-il.

      La mesure était, de fait, attendue. Une présentation commerciale de l’Oleo100 auprès de potentiels clients évoquait déjà, début 2021, la future vignette en indiquant « actions en cours pour Crit’Air 1 et classification “véhicule propre” ».

      Elle ne fait certes pas grand bruit mais certains s’en émeuvent. Le sénateur (Europe Écologie-Les verts) Jacques Fernique s’est étonné de cette décision discrétionnaire, prise au profit d’un seul produit. « Cette évolution réglementaire soudaine interpelle […] au sortir d’un premier quinquennat marqué par la tenue de la convention citoyenne pour le climat et à l’orée d’un second, placé, selon le président de la République, sous le signe d’une “méthode nouvelle” associant l’ensemble des acteurs et dont l’écologie serait “la politique des politiques” », dit-il dans une question adressée au Sénat le 14 juillet 2022.

      Répondant à nos questions, le service communication d’Avril le reconnaît : « La demande de classification Crit’Air 1 a été portée par les différentes associations professionnelles représentatives des industriels producteurs de B100, des constructeurs et des transporteurs ». On peut d’ailleurs relever sur le site de la Haute Autorité pour la transparence de la vie publique (HATVP) que le groupe déclare avoir mené des actions de lobbying auprès de décideurs sur le sujet.

      Côté producteurs de B100, ces associations, précise-t-il, ce sont « Estérifrance, le syndicat français des producteurs de biocarburants de type Ester méthylique d’acide gras [type dont fait partie l’huile de colza – ndlr] », et « l’European Biodiesel Board, une association européenne visant à promouvoir l’utilisation des biocarburants dans l’UE ». La filiale Saipol d’Avril fait partie de l’une et de l’autre.
      Un « biocarburant » polluant

      L’an dernier, le député (MoDem) Mohamed Laqhila posait une question similaire à l’Assemblée nationale, s’interrogeant sur la différence de « traitement » entre le B100 et le HVO, alors même que ce dernier « est homologué dans de nombreux pays européens depuis plusieurs années ».

      Le HVO est un autre carburant alternatif qui peut être composé, celui-là, à partir d’huiles usagées, de graisses animales et de déchets. Autrement dit, sans recourir aux terres agricoles. Mais les véhicules roulant au HVO, eux, ne sont pas autorisés dans les centres-villes classés ZFE.

      Pourquoi une telle distinction ? Au regard de ce que dit la science, elle n’a pas lieu d’être. « Dans un moteur, la combustion du B100 se traduit par plus de NOx [oxydes d’azote – ndlr] qu’un carburant fossile, explique le chercheur Louis-Pierre Geffray, de l’institut Mobilités en transition. Ces NOx supplémentaires sont normalement traités par le système antipollution du véhicule, mais il n’y a aucune raison objective qui explique pourquoi, en usage réel, ce biocarburant est classé Crit’Air 1, à la différence du HVO et du diesel qui sont restés en Crit’Air 2. »

      AirParif, qui observe la qualité de l’air en Île-de-France, est arrivé aux mêmes conclusions en comparant les émissions du diesel et des carburants alternatifs.

      Interrogé sur le sujet, le ministère des finances – auquel est maintenant rattachée la Direction générale de l’énergie et du climat qui avait signé l’arrêté en question – indique que le B100 permet des réductions d’autres émissions. Et que si le HVO est exclu, c’est qu’il n’y a pas de moteur permettant de s’assurer qu’« il ne sera utilisé que du carburant HVO ».

      Ce traitement favorable au carburant issu de l’huile de colza n’est pas anecdotique. Il fait partie du « business model » d’Avril, mastodonte présent dans dix-neuf pays, au chiffre d’affaires, en 2022, de 9 milliards d’euros. Depuis longtemps, le groupe développe une stratégie d’influence auprès de la puissance publique comme auprès des gros acteurs du secteur, afin de s’assurer une position hégémonique sur le marché.

      Comme Mediapart l’avait écrit, une importante niche fiscale était déjà favorable, au cours des années 2000 et 2010, à un produit du groupe Avril – qui s’appelait alors Sofiprotéol –, le diester.
      De niche fiscale en niche fiscale

      Les bonnes affaires avec la bénédiction de l’État ne se sont pas arrêtées là. Dès son homologation par arrêté ministériel, en avril 2018, le B100 a bénéficié d’un énorme rabais fiscal. Cette année-là, Avril déclare à la HATVP l’action de lobbying suivante : « défendre les intérêts de la filière française lors des révisions du dispositif fiscal d’incitation à l’incorporation de biocarburants ».

      Sept mois après l’arrêté ministériel, Saipol annonçait le lancement de l’Oleo100. La société est la première sur le coup. Les concurrents n’arriveront que dans un second temps - un an plus tard pour la coopérative Centre ouest céréales, trois ans plus tard pour Bolloré. Eux et une poignée d’autres resteront minoritaires sur le marché.

      Cette ristourne fiscale donne un sacré avantage au B100 sur les autres carburants : il n’est taxé qu’à hauteur de 118,30 euros par mètre cube. Le produit alternatif HVO, commercialisé entre autres par TotalEnergies, Dyneff ou encore le néerlandais Neste, est imposé au même niveau que le diesel issu du pétrole, soit une taxe à hauteur de 607,5 euros par mètre cube.

      Pour l’État, la perte est substantielle. Elle pèse 489,20 euros par mètre cube de B100. Pour l’année 2023 où la filiale Saipol d’Avril, a vendu, selon ses propres chiffres, 185 000 mètres cubes d’Oleo100, ce manque à gagner dans les recettes publiques s’élève à 90,5 millions d’euros.

      Le ministère des finances dément avoir mis en place un traitement privilégié. « Aucune mesure favorisant un groupe n’a été prise. » Bercy explique la différence de taxation entre B100 et HVO par leurs caractéristiques chimiques. Le B100 est « un carburant qui ne peut être utilisé qu’avec des moteurs dédiés, et dans le cadre de flottes captives de camions spécifiquement conçus pour ce carburant. Son utilisation est donc particulièrement encadrée et restrictive ». À l’inverse, le HVO pouvant être utilisé dans différents types de moteur, le contrôle de sa bonne utilisation n’est pas possible.

      Au total, selon les chiffres d’Avril, la société présidée par Arnaud Rousseau a vendu environ 360 000 m³ d’Oleo100 depuis 2020. Ce sont plus de 176 millions d’euros qui ne sont pas allés dans les caisses de l’État. Et ce trou dans les recettes fiscales pourrait encore se creuser : selon nos informations, les projections du groupe continuent de suivre une courbe ascendante, avec l’estimation que le marché du B100 avoisinera les 600 000 m³ en 2025.

      Même si le B100 est moins émetteur de gaz à effet de serre que le gazole ordinaire, l’apport écologique de ce développement n’est pas avéré. « La fiscalité très avantageuse sur le B100 se traduit par un fort développement de ce carburant, au détriment de l’incorporation de renouvelables dans le diesel classique B7 vendu à la pompe aux particuliers, fait valoir le chercheur Louis-Pierre Geffray. Car, sur l’ensemble des carburants, l’incorporation d’énergies issues de productions agricoles en concurrence avec l’alimentation humaine est limitée par le cadre réglementaire européen à 7 %, et ce seuil a été atteint en France. » Au bénéfice du B100, donc, et au détriment des autres carburants. « Ce qui ne se justifie que partiellement en termes de vertu environnementale », souligne le chercheur.

      Dans une note publiée l’année dernière par l’Institut du développement durable et des relations internationales (Iddrri), ce chercheur et deux de ses collègues relèvent en outre que la culture de colza est très consommatrice de produits phytosanitaires. C’est « la deuxième culture française la plus traitée » aux pesticides, et elle absorbe en moyenne 170 kilos par hectare d’engrais azoté, estiment-ils, soulignant par ailleurs que la consommation française d’huile de colza est très dépendante des importations.

      Fin 2021, la fiscalité du B100 a d’ailleurs été étrillée par la Cour des comptes, qui avait mis en exergue, dans un rapport sur le développement des biocarburants, des taux d’imposition « sans aucune rationalité », conduisant à un système « qui n’est pas conforme à la réglementation européenne sur la taxation des produits énergétiques ». De fait, le niveau d’imposition du B100 est plus de deux fois inférieur au minimum fixé par la directive européenne sur la taxation de l’énergie pour les équivalents au gazole routier.

      La stratégie de maximisation du quatrième groupe agroalimentaire français ne s’est pas arrêtée là. Ces dernières années, il a étendu son emprise du côté des acheteurs de carburant. C’est ainsi qu’il a noué des partenariats avec des constructeurs automobiles – Renault Trucks, Volvo Trucks, Man, Scania –, comme l’écrivait Transport Infos l’an dernier, mais aussi signé des contrats avec des sociétés de la logistique et des transports. L’objectif ? garantir des débouchés pour son carburant, en concevant des modèles de véhicules qui ne peuvent rouler qu’au B100, et en incitant des transporteurs à se tourner vers ces nouveaux poids lourds.

      Depuis le projet de loi de finances (PLF) 2020, une nouvelle niche fiscale est apparue : l’achat de tels véhicules, pour les entreprises qui en font l’acquisition, entraîne, suivant le poids de l’engin, une déduction d’impôt de 5 à 15 %. C’est ce que le secteur appelle le « suramortissement ».
      Le bénéfice de Saipol, une info « confidentielle »

      Il est, enfin, encore une politique publique qui contribue directement aux juteuses affaires du groupe Avril sans pour autant contribuer efficacement à la décarbonation du secteur pour laquelle elle a été conçue. C’est celle des « certificats ». Ce système complexe, mis en place en 2019 – au départ pour pousser le secteur des carburants vers la décarbonation –, est un marché secondaire, où ne s’échangent plus des matières premières, mais des tickets permettant d’éviter des pénalités de l’État. Un mécanisme semblable aux droits à polluer pour le CO2.

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      Le marché des certificats

      Le marché des certificats permet à un fournisseur de gazole qui a dépassé le seuil obligatoire d’incorporation de 9 % d’énergie renouvelable dans son produit de vendre l’équivalent de son surplus sous forme de certificats. C’est le cas de la filiale Saipol d’Avril, dont le produit Oleo100 est constitué à 100 % de renouvelable, et qui peut donc vendre des certificats pour 91 % de ses volumes.

      À l’inverse, le fournisseur n’ayant pas atteint ce seuil des 9 % achète les certificats qui lui permettent de combler virtuellement l’écart. S’il ne le fait pas, des pénalités, plus douloureuses pour ses comptes, lui sont imposées par l’État. C’est la taxe incitative relative à l’utilisation d’énergie renouvelable dans le transport (Tiruert).

      Le principe de ce mécanisme, non réglementé et opaque, est de donner aux fournisseurs abondants en renouvelables une assise financière confortable de façon à ce qu’ils poursuivent dans cette voie, afin d’obtenir, sur l’ensemble de la production française de carburant le mix attendu par les directives européennes. Cela génère donc pour eux deux sources de revenu : la vente du biocarburant en lui-même, et la vente des certificats.

      Le premier est indexé sur le prix du gazole, vendu quelques centimes au-dessous. Pour les seconds, les prix ne sont pas publics. Selon nos informations, ces certificats s’échangeaient l’année dernière autour de la coquette somme de 900 euros par mètre cube de carburant renouvelable – en ce début d’année, le prix était descendu à 700 euros.

      –—

      La filiale d’Avril vend à la fois son produit Oleo100 et des certificats qui lui sont associés. C’est ainsi qu’elle dégage, sur son carburant, une marge incongrue. Celle-ci pèserait, pour la seule année 2023, entre 110 et 150 millions d’euros (voir en annexes notre calcul à partir du prix de vente du carburant, du coût de production et de la vente des certificats).

      Si l’on retient le bas de la fourchette, cela donnerait un taux de marge d’environ 29 %. Soit une rentabilité digne de l’industrie du luxe - en 2023, le taux de marge de LVMH, qui a publié ses chiffres en début d’année, était de 26,5 %...

      Comment justifier ce profit colossal que les contribuables financent pour partie ? Contacté, Arnaud Rousseau ne nous a pas répondu. Il n’est que le président « non exécutif » du groupe, nous précise le groupe Avril, lequel nous indique que le montant des bénéfices et du chiffre d’affaires de la filiale Saipol en 2023 est une information « confidentielle ».

      À l’évidence, l’activité biocarburants, avec ces dispositifs et traitements fiscaux particuliers, est la locomotive du groupe. En 2022, où le chiffre d’affaires d’Avril avait fait un bond à 9 milliards d’euros, la filiale Saipol dégageait, selon les derniers comptes disponibles, 135,5 millions d’euros de bénéfices. Ce qui représentait plus de 50 % du résultat net du groupe Avril.

      Depuis le début du mouvement de colère du monde agricole, l’un des principaux arguments d’Arnaud Rousseau pour maintenir la pression et obtenir la levée d’un maximum de contraintes pour le secteur est d’invoquer la fonction nourricière de l’agriculture et la nécessité de préserver la souveraineté alimentaire de la France.

      Il l’a répété sur France 2, sur RTL et sur France Inter ces dernières semaines : « Notre objectif, c’est de produire pour nourrir. » Devant les grilles du parc des expositions Paris Expo, Porte de Versailles à Paris, peu avant l’ouverture du Salon de l’agriculture samedi matin, où il réclamait « une vision » et « des réponses » du chef de l’État, le patron de la FNSEA le disait encore : « Produire pour nourrir, pour nous ça a du sens. La souveraineté alimentaire et faire en sorte que dans ce pays on continue à produire une des alimentations les plus sûres du monde, dont on est fiers […], tout cela, ça a du sens pour nous. »

      L’activité phare du mastodonte qu’il préside bénéficie pourtant déjà des attentions du gouvernement, et n’a rien à voir avec le fait de nourrir la population : elle fait tourner des bus et des camions, et elle rapporte énormément d’argent.

      https://www.mediapart.fr/journal/economie-et-social/290224/le-groupe-avril-preside-par-le-patron-de-la-fnsea-carbure-aux-frais-de-l-e
      #fiscalité #fisc

  • Au #Cambodge, un important projet de #compensation #carbone viole les droits d’un #peuple_autochtone | Mediapart

    https://www.mediapart.fr/journal/international/290224/au-cambodge-un-important-projet-de-compensation-carbone-viole-les-droits-d

    Human Rights Watch a enquêté dans une réserve forestière créée pour vendre sur les marchés le carbone stocké par ses arbres. Des communautés chong ont été expulsées de leurs terres et ne bénéficient pas des retombées financières du projet, révèle l’ONG.

    Mickaël Correia

    29 février 2024 à 08h07

    C’est une #forêt tropicale étalée sur près d’un demi-million d’hectares. Dans le sud du #Cambodge, le massif des #Cardamomes est l’un des trente-six « points chauds » de la #biodiversité mondiale et renferme une soixantaine d’espèces menacées, comme l’éléphant d’Asie, l’ours malais ou la panthère nébuleuse.

    Depuis janvier 2015, le gouvernement cambodgien et l’organisme de conservation Wildlife Alliance (créé par l’Américaine Suwanna Gauntlett, héritière du géant pharmaceutique Upjohn) ont décidé de protéger cette vaste zone forestière grâce à la compensation carbone.

    Sous l’égide d’un mécanisme onusien lancé en 2008 et nommé REDD+ (Réduction des émissions de gaz à effet de serre dues à la déforestation et à la dégradation des forêts), l’objectif est de mettre en vente, sur le marché international, des crédits carbone en échange de la protection de cet espace forestier. En somme, une entreprise, pour compenser ses émissions de CO2, peut acheter du carbone stocké par les arbres de la forêt des Cardamomes. La firme peut ensuite déduire ce CO2 de son bilan carbone.

    Baptisé Southern Cardamom #REDD+, ce projet de compensation carbone, considéré comme l’un des plus importants au monde, a fait l’objet d’une enquête de deux ans menée par Human Rights Watch (#HRW). Dans un volumineux rapport qu’elle publie jeudi 29 février, l’organisation dévoile que le projet a été mis en œuvre au détriment des communautés autochtones chong qui vivent dans la région depuis des siècles.

    Human Rights Watch a recueilli de nombreux témoignages qui démontrent que ce projet de #compensation_carbone a démarré deux ans et demi avant qu’ait été demandé « le consentement préalable, libre et éclairé » des familles chong. Par ailleurs, plusieurs habitants chong de ce territoire ont rapporté des faits d’expulsion et d’arrestation par la police cambodgienne pour avoir pratiqué l’agriculture sur leurs propres terres, ou prélevé des produits forestiers traditionnels tels que de la résine d’arbre.

  • Paul Veyne l’historien-explorateur
    https://laviedesidees.fr/Paul-Veyne-l-historien-explorateur

    S’il ne s’est jamais pris au sérieux, Paul Veyne s’est aventuré sur des terrains neufs : l’évergétisme, la sexualité, la famille, sans oublier l’écriture de l’histoire. Suivons-le sur ses chemins de traverse. À propos de : Paul Cournarie, Pascal Montlahuc (dir.), Comment Paul Veyne écrit l’histoire. Un roman vrai, Puf

    #Histoire #université #historiographie #Antiquité #biographie
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/20240221_veyne.pdf
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/20240221_veyne.docx

  • Immigration en Europe : la France à la manœuvre pour autoriser la rétention des enfants dès le plus jeune âge
    https://disclose.ngo/fr/article/immigration-en-europe-la-france-a-la-manoeuvre-pour-autoriser-la-retention

    La France a œuvré dans le plus grand secret, pour obtenir l’autorisation d’enfermer des mineurs, sans limite d’âge, dans des centres construits aux frontières de l’Europe. Cette disposition inscrite dans le Pacte sur la migration et l’asile, qui sera voté au printemps par le Parlement européen, pourrait violer la Convention internationale des droits de l’enfant. Lire l’article

  • Zéro artificialisation nette : « En Ile-de-France, produire des logements sans détruire les espaces naturels, c’est possible »
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2024/02/09/zero-artificialisation-nette-en-ile-de-france-produire-des-logements-sans-de

    L’objectif du zéro artificialisation nette (ZAN) d’ici à 2050, instauré par la loi Climat & Résilience de 2021, et précisé par la loi ZAN de 2023, contraint les collectivités à intégrer l’exigence de sobriété foncière dans leur politique d’aménagement. L’urgence de préserver la biodiversité et d’éviter toute destruction supplémentaire d’espaces naturels est en effet devenue évidente. Alors que sécheresses, canicules et inondations se multiplient, il est grand temps de se donner les moyens de bâtir un monde vivable.

    Certains exécutifs régionaux ne semblent pourtant pas partager cette vision. La région francilienne bénéficie ainsi d’une dérogation à la loi Climat & Résilience, à l’inverse des autres régions métropolitaines. Cette dérogation lui laisse la liberté de fixer sa propre trajectoire à condition d’atteindre le zéro #artificialisation nette en 2050.
    Or, l’Ile de France se cantonne à poursuivre une trajectoire trop peu ambitieuse. Un objectif de -20 % d’artificialisation nette d’ici à 2031, puis un nouveau de − 20 % d’ici 2040 sont visés et inscrits dans la version actuelle du schéma d’aménagement régional (le SDRIF-E), en cours de révision. Dans son avis du 21 décembre 2023, l’autorité environnementale est pourtant très claire : « la trajectoire proposée de consommation d’espace ne conduit pas à l’absence d’artificialisation nette à l’horizon 2050 ».

    Baisse de la qualité de vie

    La région francilienne se met donc délibérément « hors la loi » à horizon 2050. L’Ile-de-France est loin d’être la plus mauvaise élève sur le rythme d’artificialisation, mais elle reste tout de même la région la plus bétonnée de France et celle souffrant le plus de la concentration démographique et économique (îlots de chaleur, congestion des axes de transport, pollutions atmosphériques).
    La santé des habitants y est fortement menacée, et la baisse de la qualité de vie est désormais manifeste. Seulement 29 % des salariés seraient prêts à s’installer en Ile-de-France (données de l’Observatoire des Métropoles, Stan & Newton Offices - novembre 2023.), la qualité de vie et de l’environnement étant le critère déterminant de l’attractivité d’un territoire.

    Face à ce triste constat et à l’heure de la planification territoriale, il est urgent de se saisir du SDRIF-E comme d’une opportunité pour planifier le ZAN à horizon 2040 et garantir un environnement vivable aux habitants et aux habitantes.

    L’objectif des 70 000 logements par an

    Plusieurs personnes publiques associées à l’élaboration du document, à l’image de la Ville de #Paris et du Conseil économique social et environnemental régional, représentation de la société civile francilienne, ont regretté le manque de mesures prescriptives et ambitieuses permettant de réaliser l’objectif ZAN, pourtant affiché dans l’exposé des motifs du SDRIF-E.

    Un réel enjeu de santé et de bien-être est présent dans ce choix de planifier la trajectoire ZAN. Alertée de toute part, la Région #Ile-de-France est aujourd’hui face à ses responsabilités dans l’élaboration de son schéma d’aménagement. Le SDRIF-E est l’occasion de se donner les moyens d’une ambition politique forte. La loi du Grand Paris de 2010 imposant l’objectif des 70 000 logements par an contraint la région Ile-de-France à augmenter son parc de logements.

    Une contrainte qui semble s’ériger en totale contradiction avec l’exigence de sobriété foncière imposée par le paquet législatif et réglementaire des dernières années. Cette équation complexe, supposée insolvable, est en fait largement réalisable au vu des leviers disponibles. Cet argument ne peut plus être entendu comme un prétexte pour artificialiser. Au-delà du fort potentiel que représente la part de logements inoccupés et des ajustements qu’il serait judicieux d’opérer dans l’attribution des logements, l’effort de production de logements doit être tourné vers le #logement social très déficitaire

    En finir avec les projets anachroniques

    Or, produire ces logements sans détruire les espaces naturels, c’est possible. Les moyens sont multiples : réutilisation du bâti existant par la rénovation ou la reconversion de bureaux en logements, réhabilitation des friches, densification douce. L’ensemble de ces solutions répondant aux principes de l’économie circulaire méritent d’être entendues à leur juste valeur par la Région.

    De nombreux projets en cours portent encore l’héritage d’une vision dépassée de l’aménagement du territoire, se plaçant alors en totale contradiction avec les objectifs de planification. Le secteur des #transports et plus précisément des axes routiers en est l’exemple parfait. Alors que l’on dit vouloir viser la neutralité carbone en 2050 au niveau national et que la décarbonation des transports représente un levier majeur dans la réalisation de cet objectif, les instances exécutives continuent de soutenir des projets destructeurs du vivant et de l’avenir.

    Le dispositif ZAN a l’ambition de replacer la fonction du vivant au cœur des arbitrages. Concilier non-artificialisation et activité humaine doit permettre d’en finir avec les projets anachroniques, allant contre les objectifs de transition écologique (zéro émission nette, zéro perte nette de #biodiversité). La voie des documents d’urbanisme doit être privilégiée pour territorialiser l’objectif ZAN. Or, concernant l’Ile-de-France, certaines ambitions locales, protectrices du vivant, pourraient être rapidement sapées par l’adoption de l’actuel document cadre.
    Le SDRIF-E pourrait se montrer bien trop permissif quant au devenir de certains espaces naturels, agricoles et forestiers, laissant ainsi la porte ouverte aux futures exploitations et destructions. L’enquête publique sur le SDRIF-E ouverte du 1er février au 16 mars 2024, est l’occasion de faire remonter ces préoccupations et de demander l’inscription effective du territoire francilien dans la trajectoire ZAN nationale.

    Luc Blanchard(Coprésident de FNE Ile-de-France et membre du Conseil économique social et environnemental régional) et Muriel Martin-Dupray(Administratrice de FNE au niveau national et coprésidente de FNE Ile-de-France depuis 2020)

    #métropole #écologie

  • « Le dispositif de récupération des biodéchets est un miroir aux alouettes », Sabine Barles, urbaniste

    Jusqu’au tournant du XXe siècle, le mot « déchet » n’est pas employé pour désigner les matières organiques, tout simplement parce que ces résidus – épluchures, os, excréments… – sont considérés comme très utiles, notamment pour l’agriculture, où ils servent d’engrais. On les appelle boues, ordures (du latin horridus, qui veut dire « horrible »), ou immondices (du latin immunditia, « saleté »), ce qui n’empêche pas de les valoriser.

    Le mot déchet (qui vient du verbe choir) désigne, au contraire, ce qu’on n’utilise pas dans la fabrication ou la transformation d’un objet, comme les chutes de tissu lors de la confection d’un vêtement.

    [...]

    Depuis le 1er janvier, les collectivités doivent organiser le tri à la source des déchets organiques. Cette mesure marque-t-elle une étape dans ce nouveau récit ?

    A première vue, récupérer les matières organiques semble être une mesure positive. Mais au-delà même des difficultés de faisabilité, le dispositif est un miroir aux alouettes, une façon de nous laisser croire qu’on agit sans aborder les problèmes de fond. Pour que cette collecte soit vraiment utile, il ne suffit pas de déposer un bac et d’organiser une tournée supplémentaire. Il faut un objectif.

    Les #villes concentrent un gisement d’#engrais qui, si on le mobilise, peut contribuer à la nécessaire transformation de l’#agriculture et à la sortie des engrais industriels, à la fois à l’échelle locale pour développer l’agriculture urbaine, mais aussi plus largement à l’échelle régionale. Car il n’existe pas de ville autarcique, c’est une illusion. Chacune entretient des liens avec des territoires qui l’approvisionnent et qu’elle peut approvisionner. Et il est logique et nécessaire que les villes rendent à la #campagne ce qu’elles lui prennent, comme elles l’ont fait jusqu’au début du XXe siècle.

    Malheureusement, la question de cette complémentarité entre la ville et la campagne n’est pas abordée aujourd’hui. Pourtant, l’agriculture n’est jamais très loin de la ville. L’objectif n’est pas que le compost fasse des milliers de kilomètres, mais il peut en parcourir dix à vingt.

    Pour une région comme l’Ile-de-France et le bassin de la Seine, où plus de 40 % de l’espace est agricole, la récupération des fertilisants urbains permettrait, avec la généralisation d’un système de #polyculture et d’élevage biologique, de sortir des engrais industriels. On sait que cela fonctionne, mais ce n’est pas à l’agenda politique.

    Quels sont les principaux freins à de tels changements ?

    La valorisation agricole des #biodéchets se heurte à plusieurs obstacles : la production d’#énergie continue d’avoir la faveur de nombreuses collectivités, qui sont aussi souvent dépendantes des filières existantes. Ces filières nécessitent des équipements lourds – la massification entraînant des économies d’échelle – qui doivent être nourris en permanence. C’est le cas de l’#incinération, qui s’est considérablement développée depuis les années 1970 et permet la production de chaleur. Les villes équipées n’ont aucun intérêt à priver leurs incinérateurs de #déchets.

    Dans d’autres cas, la #méthanisation, qui consiste à dégrader les matières organiques par l’action de bactéries pour produire du biogaz, vient directement concurrencer le compostage des biodéchets. Or, ce procédé ne produit qu’une quantité limitée d’énergie et conduit à la perte d’une matière organique qui serait bien plus utile à l’agriculture. La priorité de l’utilisation agricole par rapport à la valorisation énergétique est pourtant inscrite depuis 2008 dans la hiérarchie officielle des traitements des déchets.

    Que faudrait-il faire pour aller plus loin ?

    Outre la mise en place d’une filière structurée de valorisation agricole, le plus urgent est aujourd’hui de diminuer les quantités de biodéchets. De 20 % à 30 % des produits alimentaires sont perdus à différents niveaux de la chaîne : une partie non négligeable du gaspillage intervient dans la sphère domestique et les services de restauration collective, mais beaucoup de pertes ont lieu plus en amont. Il serait nécessaire d’engager une réflexion sur l’ensemble du système #agri-alimentaire, ce qui n’est pas du ressort des collectivités qui gèrent les déchets.

    Le #recyclage, présenté comme l’alpha et l’oméga de la croissance verte, est une mauvaise réponse s’il est pensé en bout de chaîne, comme c’est le cas aujourd’hui. Une vraie stratégie de sobriété énergétique et matérielle suppose des implications économiques et politiques autrement importantes et une transformation profonde de la société. On en est encore loin.
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2024/01/04/sabine-barles-urbaniste-le-dispositif-de-recuperation-des-biodechets-est-un-

    https://justpaste.it/fthlb

    #histoire #écologie

  • Pesticides : « Nous, chercheurs et chercheuses, dénonçons une mise au placard des connaissances scientifiques »
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2024/02/07/pesticides-nous-chercheurs-et-chercheuses-denoncons-une-mise-au-placard-des-

    En 2021 et en 2022, nous avons présenté les conclusions de trois synthèses des connaissances scientifiques sur les impacts des produits phytopharmaceutiques (« pesticides ») et les solutions alternatives. Conduits dans le cadre du plan Ecophyto à la demande du gouvernement pour éclairer sa prise de décision, ces travaux, coordonnés par l’Institut national de la santé et de la recherche médicale (Inserm), l’Institut national de recherche pour l’agriculture, l’alimentation et l’environnement (Inrae) et l’Institut français de recherche pour l’exploitation de la mer (Ifremer) sont inédits par la centaine d’experts mobilisés et les plus de 11 000 publications analysées.

    Nos expertises scientifiques collectives ont démontré l’ampleur des impacts des #pesticides sur la #santé humaine et l’#environnement, et mis en évidence des alternatives agroécologiques capables de répondre aux enjeux environnementaux tout en préservant la production agricole. Nos travaux ont aussi identifié les verrous socio-économiques et institutionnels qui limitent le déploiement des alternatives, et les leviers pour les dépasser. Nos conclusions ont alimenté des travaux parlementaires soulignant le besoin de renforcer le plan #Ecophyto, car il n’a pas permis de réduire l’usage des pesticides. Pourtant, le gouvernement a choisi de suspendre ce plan pour apaiser le conflit avec une partie du monde agricole.
    Nous, chercheurs et chercheuses, manifestons ici notre inquiétude face à cette décision, symptomatique du traitement disjoint des enjeux agricoles et environnementaux. Nous dénonçons une mise au placard des connaissances scientifiques et réaffirmons la nécessité d’une politique multisectorielle d’envergure et de long terme, en faveur d’une #agriculture économiquement viable et respectueuse de la santé et de l’environnement.

    Enjeux de santé publique et animale

    Tous les milieux (sols, #eau, #air), même éloignés des zones d’application, sont contaminés par des pesticides. Des liens existent entre pesticides et santé humaine chez les #agriculteurs, les autres professionnels manipulant ces produits, et les #enfants exposés pendant la grossesse : maladies respiratoires, troubles cognitifs, maladie de Parkinson, troubles du développement neuropsychologique et moteur, cancers. L’usage généralisé de pesticides favorise les résistances chez les organismes qu’ils sont censés éliminer – compromettant l’efficacité des produits à plus long terme – et chez des organismes responsables de maladies – soulevant de nouveaux enjeux de santé publique et animale.
    Les pesticides contribuent à l’effondrement de la #biodiversité : déclin des invertébrés terrestres (vers de terre, insectes…) et aquatiques, des oiseaux, etc. Ils altèrent certains processus naturels, tels que la #pollinisation, la régulation des ravageurs et des maladies des cultures. Or, ces services que la biodiversité rend gratuitement aux agriculteurs leur sont essentiels pour gagner en durabilité et en autonomie.

    Des solutions existent pour protéger les cultures autrement : semer des mélanges variétaux, cultiver plusieurs espèces dans un même champ, allonger les #rotations ou encore pratiquer l’#agroforesterie. Toutes ces pratiques concourent à contrôler les ravageurs et les maladies des cultures.

    Par exemple, les associations de cultures aident à contrôler les adventices, tandis que les #haies, bandes fleuries et #prairies abritent des oiseaux, des chauves-souris, des araignées et des insectes auxiliaires de culture qui se nourrissent des ravageurs et pollinisent les plantes cultivées. La littérature scientifique signale la baisse de l’usage des pesticides dans les systèmes qui mettent en œuvre ces pratiques.
    De plus, un paysage avec une diversité de cultures et au moins 20 % de végétation non cultivée (haies, prairies, bosquets…) offre des refuges à la biodiversité tout en limitant la dispersion des pesticides. Un autre levier d’action est l’amélioration de l’évaluation des risques liés aux pesticides, notamment en s’appuyant sur les connaissances scientifiques robustes les plus récentes, en renforçant la surveillance postautorisation et en continuant à se fonder sur l’expertise des agences de sécurité sanitaire.

    Les agriculteurs supportent une très grande part du poids des réglementations, alors que leurs choix de pratiques sont contraints par les filières en amont et en aval : #semenciers, conseil agricole, #industries_agroalimentaires, #grande_distribution… En dehors de la certification « Agriculture biologique », les initiatives pour produire de façon rentable sans pesticides de synthèse sont marginales.
    Pour opérer un changement à large échelle, l’ensemble des maillons des filières doit évoluer. Cette évolution doit s’accompagner d’une meilleure évaluation et d’une meilleure répartition des coûts et des bénéfices des pratiques agricoles. Alors que les coûts de l’usage des pesticides sont essentiellement supportés à bas bruit par les contribuables (dépenses de santé, coûts de dépollution…), les cobénéfices de pratiques respectueuses de l’environnement et de la santé restent insuffisamment rémunérés aux agriculteurs.

    Rôle-clé des politiques publiques

    Le succès de la politique agricole commune [PAC] pour moderniser l’agriculture au sortir de la seconde guerre mondiale témoigne du rôle-clé des politiques publiques dans une transition d’envergure. Garantir durablement la sécurité alimentaire en préservant les écosystèmes est possible à condition de se doter de politiques cohérentes qui gèrent simultanément les enjeux sanitaires, agricoles, environnementaux et alimentaires.
    Ces politiques doivent tenir compte des effets du #changement_climatique. Les rendements des systèmes intensifs sont d’ailleurs plus affectés par les épisodes de sécheresse ou d’inondations que ceux des systèmes diversifiés.

    Ces politiques doivent concerner l’ensemble des filières agricoles et alimentaires, de la réorientation de la sélection variétale à la création de débouchés rémunérateurs pour les systèmes vertueux. Elles doivent accompagner les agriculteurs dans la transition en favorisant les relations entre recherche, conseil et pratique. Enfin, elles doivent inciter à l’évolution des comportements alimentaires vers des régimes favorables à la santé et à l’environnement.
    L’objectif de réduction de l’usage de pesticides est atteignable sans opposer agriculture et environnement. Sans nier les imperfections du plan Ecophyto, nous estimons que sa mise en pause est un signal à l’encontre de cet objectif. Le moment n’est-il pas opportun pour construire des politiques publiques audacieuses appuyées sur les connaissances scientifiques ?

    Premiers signataires : Cécile Chevrier, épidémiologiste, Inserm ; Xavier Coumoul, toxicologue, université Paris Cité ; Clémentine Fritsch, écotoxicologue, CNRS ; Vincent Martinet, économiste, Inrae ; Wilfried Sanchez, écotoxicologue, Ifremer ; Aude Vialatte, agroécologue, Inrae.

    #alimentation #économie #science #maladies_respiratoires #troubles_cognitifs #maladie_de_Parkinson #troubles_du_développement_neuropsychologique_et_moteur #TDN #cancers #écologie #agroécologie

    • #Hommage à #Bernie_Krause

      La ricercatrice Karen Bakker a ottobre 2023 per Feltrinelli pubblica “I suoni segreti della natura”, un saggio affascinante che racconta le ricerche scientifiche nell’ambito della Bioacustica. Il libro tratta dei primi esperimenti condotti da Roger Paine per ascoltare le balene. Prima di lui però, durante la seconda guerra mondiale, ascoltare i fondali marini era diventato strategico, il canale oceanico SONAR fu luogo del progetto SOSUS: Sound Surveillance System per controllare i sommergibili sovietici. Nel 1957 venne pubblicato un primo studio sui suoni delle balene e nel 1970 usci un disco di enorme successo; Songs of the Humpback Whales che contribuì alla campagna di Greenpeace del 1972 per salvare le balene. In seguito furono desecretate alcune registrazioni segrete militari. Ai nativi pescatori artici, gli Inupiat venne vietato di fare la loro caccia tradizionale ma furono loro a guidare le ricerche utili a scoprire il mondo segreto delle migrazioni delle balene guidate da suoni e infrasuoni. Negli stessi anni il musicista Bernie Krause abbandona la sua carriera e si dedica totalmente ai suoni della natura lavorando nelle foreste pluviali inaugurando la “Fitoacustica” coniando l’ipotesi di una “Nicchia acustica” e cioè una orchestra di suoni animali e vegetali che caratterizzano un ambiente naturale. Il passo poi è breve per analizzare ambienti sottomarini quali le barriere coralline minacciate dalla acidificazione, le grotte abitate dai pipistrelli grandi navigatori di ultrasuoni. Poi gli elefanti e l’uso di infrasuoni per guidare le migrazioni e segnalare allarmi e via via fino alle tartarughe, alle api. Nel passo successivo di queste ricerche si magnifica l’importanza delle nuove tecnologie, oggi alla portata di tutti sia nei costi che nella accessibilità, che si possono interfacciare con l’intelligenza artificiale, per trovare algoritmi che traducano questi linguaggi sonori e ci permettano di “dialogare” con gli animali allo scopo di proteggerli e salvarli dall’estinzione. Ci sono progetti che riguardano i delfini, le raganelle, i lupi, gli ibis, api, scoiattoli, coralli.
      La mia speranza è che il mondo militare, sempre all’avanguardia nell’uso delle tecnologie, non se ne appropri per le solite finalità armate nascondendole sotto la bugia di nominarle “difesa”.

      –—

      Intelligenze artificiali per ascoltar balene
      Per tradurre il loro canto quasi fossero sirene
      Gli Inupiat nell’Artico ponevano in acqua un remo
      Appoggiavano l’orecchio ed era meglio di Sanremo
      Le barriere coralline sono bianche di paura
      Ridotte al silenzio in cambio c’è l’acquacultura
      I fondali del Senegal arati da pesca a strascico
      I pescatori di Saint Luis dall’oceano all’Adriatico

      Sembravano grandi orchestre le foreste equatoriali
      Dove han tagliato gli alberi per allevare maiali
      Piantagioni di soia per un miliardo di cinesi
      Bistecche di manzo per gli americani obesi
      Il ronzio delle api mette in fuga gli elefanti
      E gli può salvare la vita dai più belligeranti
      Son gli stessi contadini che delle api fan sterminio
      È sorda l’agroindustria nei pesticidi il suo dominio

      Ho sentito un albero ritmare la sua sete
      Noi balliamo lui sta fermo ed il suo suono si ripete
      Balliamo insieme agli orsi di Wall Street che cola a picco
      Quotiamo l’acqua in borsa alla ricerca di un profitto
      Nelle caverne i pipistrelli per cacciare e per nutrirsi
      Hanno sonar ad ultrasuoni per volare ed orientarsi
      Purtroppo per mangiarli c’è chi vivi li cattura
      Ma qualche virus sfugge e l’uomo è brodo di coltura

      Cerchiamo gli algoritmi per parlare agli animali
      Caliamo dei microfoni in acqua nei fondali
      Siamo diventati sordi al grido della terra
      Proviam con la bioacustica mentre facciam la guerra
      Cerchiamo gli algoritmi per parlare agli animali
      Caliamo dei microfoni in acqua nei fondali
      Siamo diventati sordi al grido della terra
      Proviam con la bioacustica mentre facciam la guerra

      https://www.youtube.com/watch?v=EJRk3q4YOSc&t=73s

      #bioacoustique #musique #chanson #environnement

  • #Productivisme et destruction de l’#environnement : #FNSEA et #gouvernement marchent sur la tête

    Répondre à la #détresse des #agriculteurs et agricultrices est compatible avec le respect de l’environnement et de la #santé_publique, expliquent, dans cette tribune à « l’Obs », les Scientifiques en rébellion, à condition de rejeter les mesures productivistes et rétrogrades du duo FNSEA-gouvernement.

    La #crise de l’agriculture brasse croyances, savoirs, opinions, émotions. Elle ne peut laisser quiconque insensible tant elle renvoie à l’un de nos #besoins_fondamentaux – se nourrir – et témoigne du #désarroi profond d’une partie de nos concitoyen·nes qui travaillent pour satisfaire ce besoin. Reconnaître la #souffrance et le désarroi du #monde_agricole n’empêche pas d’examiner les faits et de tenter de démêler les #responsabilités dans la situation actuelle. Une partie de son #traitement_médiatique tend à faire croire que les agriculteurs et agricultrices parleraient d’une seule voix, celle du président agro-businessman de la FNSEA #Arnaud_Rousseau. Ce directeur de multinationale, administrateur de holding, partage-t-il vraiment la vie de celles et ceux qui ne parviennent plus à gagner la leur par le travail de la terre ? Est-ce que les agriculteur·ices formeraient un corps uniforme, qui valoriserait le productivisme au mépris des #enjeux_environnementaux qu’ils et elles ne comprendraient soi-disant pas ? Tout cela est difficile à croire.

    Ce que la science documente et analyse invariablement, en complément des savoirs et des observations de nombre d’agriculteur·ices, c’est que le #modèle_agricole industriel et productiviste conduit à une #catastrophe sociale et environnementale. Que ce modèle concurrence dangereusement les #alternatives écologiquement et socialement viables. Que cette agriculture ne s’adaptera pas indéfiniment à un environnement profondément dégradé. Qu’elle ne s’adaptera pas à un #réchauffement_climatique de +4 °C pour la France et une ressource en #eau fortement diminuée, pas plus qu’à une disparition des #insectes_pollinisateurs.

    Actuellement, comme le rappelle le Haut Conseil pour le Climat (HCC), l’agriculture représente le deuxième secteur d’émissions de #gaz_à_effet_de_serre, avec 18 % du total français, derrière les transports. La moitié de ces émissions agricoles (en équivalent CO2) provient de l’#élevage_bovin à cause du #méthane produit par leur digestion, 14 % des #engrais_minéraux qui libèrent du #protoxyde_d’azote et 13 % de l’ensemble des #moteurs, #engins et #chaudières_agricoles. Le HCC rappelle aussi que la France s’est engagée lors de la COP26 à baisser de 30 % ses émissions de méthane d’ici à 2030, pour limiter le réchauffement climatique. L’agriculture, bien que répondant à un besoin fondamental, doit aussi revoir son modèle dominant pour répondre aux enjeux climatiques. De ce point de vue, ce qu’indique la science, c’est que, si l’on souhaite faire notre part dans le respect de l’accord de Paris, la consommation de #viande et de #produits_laitiers doit diminuer en France. Mais la solidarité avec nos agriculteur.ices ainsi que l’objectif légitime de souveraineté et #résilience_alimentaire nous indiquent que ce sont les importations et les élevages intensifs de ruminants qui devraient diminuer en premier.

    Côté #biodiversité, la littérature scientifique montre que l’usage des #pesticides est la deuxième cause de l’effondrement des populations d’#insectes, qui atteint 80 % dans certaines régions françaises. Les #oiseaux sont en déclin global de 25 % en quarante ans, mais ce chiffre bondit à 60 % en milieux agricoles intensifs : le printemps est devenu particulièrement silencieux dans certains champs…

    D’autres voies sont possibles

    Le paradoxe est que ces bouleversements environnementaux menacent particulièrement les agriculteur·ices, pour au moins trois raisons bien identifiées. Tout d’abord environnementale, à cause du manque d’eau, de la dégradation des sols, des événements météorologiques extrêmes (incendies ou grêles), ou du déclin des insectes pollinisateurs, qui se traduisent par une baisse de production. Sanitaires, ensuite : par leur exposition aux #produits_phytosanitaires, ils et elles ont plus de risque de développer des #cancers (myélome multiple, lymphome) et des #maladies_dégénératives. Financière enfin, avec l’interminable fuite en avant du #surendettement, provoqué par la nécessité d’actualiser un équipement toujours plus performant et d’acheter des #intrants pour pallier les baisses de production engendrées par la dégradation environnementale.

    Depuis des décennies, les #traités_de_libre-échange et la compétition intra-européenne ont privé la grande majorité des agriculteur·ices de leur #autonomie, dans un cercle vicieux aux répercussions sociales tragiques pouvant mener au #suicide. Si la FNSEA, les #JA, ou la #Coordination_rurale réclament une forme de #protectionnisme_agricole, d’autres de leurs revendications portent en revanche sur une baisse des #contraintes_environnementales et sanitaires qui font porter le risque de la poursuite d’un modèle délétère sur le long terme. Ce sont justement ces revendications que le gouvernement a satisfaites avec, en particulier, la « suspension » du #plan_Ecophyto, accueilli par un satisfecit de ces trois organisations syndicales rappelant immédiatement « leurs » agriculteurs à la ferme. Seule la #Confédération_paysanne refuse ce compromis construit au détriment de l’#écologie.

    Pourtant, des pratiques et des modèles alternatifs existent, réduisant significativement les émissions de gaz à effet de serre et préservant la biodiversité ; ils sont déjà mis en œuvre par des agriculteur·ices qui prouvent chaque jour que d’autres voies sont possibles. Mais ces alternatives ont besoin d’une réorientation des #politiques_publiques (qui contribuent aujourd’hui pour 80 % au #revenu_agricole). Des propositions cohérentes de politiques publiques répondant à des enjeux clés (#rémunération digne des agriculteur·ices non soumis aux trusts’de la grande distribution, souveraineté alimentaire, considérations climatiques et protection de la biodiversité) existent, comme les propositions relevant de l’#agroécologie, qu’elles émanent du Haut Conseil pour le Climat, de la fédération associative Pour une autre PAC, de l’IDDRI, ou encore de la prospective INRAE de 2023 : baisse de l’#élevage_industriel et du cheptel notamment bovin avec soutien à l’#élevage_extensif à l’herbe, généralisation des pratiques agro-écologiques et biologiques basées sur la valorisation de la biodiversité (cultures associées, #agro-foresterie, restauration des #haies favorisant la maîtrise des bio-agresseurs) et arrêt des #pesticides_chimiques_de_synthèse. Ces changements de pratiques doivent être accompagnés de mesures économiques et politiques permettant d’assurer le #revenu des agriculteur·ices, leur #accès_à_la_terre et leur #formation, en cohérence avec ce que proposent des syndicats, des associations ou des réseaux (Confédération paysanne, Atelier paysan, Terre de liens, Fédérations nationale et régionales d’Agriculture biologique, Réseau salariat, …).

    Nous savons donc que les politiques qui maintiennent le #modèle_agro-industriel sous perfusion ne font qu’empirer les choses et qu’une réorientation complète est nécessaire et possible pour la #survie, la #dignité, la #santé et l’#emploi des agriculteur·ices. Nombre d’enquêtes sociologiques indiquent qu’une bonne partie d’entre elles et eux le savent très bien, et que leur détresse témoigne aussi de ce #conflit_interne entre le modèle productiviste qui les emprisonne et la nécessité de préserver l’environnement.

    Une #convention_citoyenne

    Si le gouvernement convient que « les premières victimes du dérèglement climatique sont les agriculteurs », les mesures prises démontrent que la priorité gouvernementale est de sanctuariser le modèle agro-industriel. La remise en cause du plan Ecophyto, et la reprise en main de l’#Anses notamment, sont en totale contradiction avec l’urgence de s’attaquer à la dégradation environnementale couplée à celle des #conditions_de_vie et de travail des agriculteur·ices. Nous appelons les citoyen·nes et les agriculteur·rices à soutenir les changements de politique qui iraient réellement dans l’intérêt général, du climat, de la biodiversité. Nous rappelons que le sujet de l’agriculture et de l’#alimentation est d’une redoutable complexité, et qu’identifier les mesures les plus pertinentes devrait être réalisé collectivement et démocratiquement. Ces mesures devraient privilégier l’intérêt général et à long-terme, par exemple dans le cadre de conventions citoyennes dont les conclusions seraient réellement traduites dans la législation, a contrario a contrario de la précédente convention citoyenne pour le climat.

    https://www.nouvelobs.com/opinions/20240203.OBS84041/tribune-productivisme-et-destruction-de-l-environnement-fnsea-et-gouverne
    #tribune #scientifiques_en_rébellion #agriculture #souveraineté_alimentaire #industrie_agro-alimentaire

  • « Si “réarmement agricole” il y a, c’est surtout d’un “réarmement chimique” de l’agriculture qu’il est question »

    Le surgissement et la diffusion éclair de certains mots, qui sculptent tout à coup le débat public, a quelque chose de fascinant. Ainsi du vocabulaire martial subitement apparu le 31 décembre 2023 dans la parole présidentielle et, depuis, inlassablement commenté, répercuté, repris, répété, et surtout raccommodé jusqu’à l’indigestion par les membres du gouvernement : il faut se réarmer, il faut tout #réarmer.
    L’armement, les armes sont devenus en quelques semaines la métrique de toute chose. « Réarmement démographique », « réarmement civique », « réarmement moral », « réarmement des services publics »… C’est donc dans le contexte d’une propagation rapide – et assez inquiétante – de cette terminologie guerrière, que le premier ministre, Gabriel Attal, et le ministre de l’agriculture, Marc Fesneau, ont annoncé, jeudi 1er février, la mise en branle des grandes manœuvres du « #réarmement agricole ».
    Si « réarmement agricole » il y a, c’est surtout d’un « réarmement chimique » de l’agriculture qu’il est question. A l’heure où l’#infertilité et les #maladies_chroniques s’envolent dans la population générale, où environ un tiers des foyers français reçoivent au robinet une eau non conforme aux critères de qualité pour cause de métabolites de #pesticides, où sans doute plus de 80 % de la #biomasse d’insectes volants et 60 % des oiseaux des champs ont disparu en quarante ans, on se plaît à imaginer le fou rire nerveux d’hypothétiques historiens qui chercheraient, dans les prochaines décennies, à décrire et surtout comprendre la logique de ce qui se produit ces jours-ci.

    Le plan #Ecophyto est d’abord mis à l’arrêt, le temps, comme l’a dit M. Attal, de « mettre en place un nouvel indicateur ». Bénigne en apparence, cette annonce signe en réalité la mort du plan destiné à réduire l’usage des pesticides en France. Mais après tout qu’importe, peut-on objecter, puisque le plan Ecophyto a, depuis son lancement en 2008, complètement échoué à atteindre ses objectifs.
    Ce n’est pas si simple. D’abord, malgré sa relative inefficience, le plan était l’incarnation d’une volonté partagée de réduire la pression des pesticides sur l’environnement et la #santé. Ensuite et surtout, il reposait sur un indicateur stable – le NODU (nombre de doses unités) – reflétant la réalité des usages de « phytos » et de leur évolution dans le temps.

    C’est une question bien plus importante et subtile qu’il n’y paraît. Une expérience de pensée toute simple permet de comprendre pourquoi. Figurez-vous un indicateur principalement lié à la quantité des différents produits utilisés sur les parcelles. Si vous remplacez 10 kilogrammes de DDT (un insecticide organochloré) épandus sur un champ, par 1 kg d’imidaclopride (un insecticide #néonicotinoïde) utilisés sur ce même champ, votre indicateur vous dira que vous avez fait baisser le recours aux #insecticides de 90 %. Vous serez donc très satisfait et vous pourrez annoncer ce chiffre sans craindre de démenti. Mais cette diminution de 90 % correspondrait en réalité à une aggravation des dommages sur les pollinisateurs d’environ 80 000 %, puisque 1 gramme d’imidaclopride peut tuer autant d’abeilles que 8 kg de DDT.

    Il ne fait ainsi aucun doute que le démantèlement du NODU et la coconstruction d’un nouvel indicateur d’usage – avec l’aimable concours des syndicats agricoles productivistes –, signerait la mort du plan Ecophyto, donc la fin d’une ambition.

    Tutelle politique

    Dans ce plan de « réarmement chimique » de l’#agriculture française, il y a plus inquiétant que la destruction du thermomètre. Il y a les pressions sur ceux qui sont chargés, au sein des institutions publiques, de le lire et de l’interpréter. Gabriel Attal a ainsi mis en cause, sans la nommer, l’Agence nationale de sécurité sanitaire de l’alimentation, de l’environnement et du travail (#Anses), chargée d’évaluer les risques sanitaires et environnementaux des pesticides et de leur octroyer (ou leur retirer) leur autorisation de mise sur le marché. Le premier ministre annonce de facto vouloir placer l’agence – coupable selon lui d’interdire des molécules en France avant qu’elles ne soient interdites dans l’Union européenne –, sous une forme de tutelle politique.
    Pour Dominique Potier, agriculteur de métier et député (Parti socialiste) de Meurthe-et-Moselle, rapporteur de la commission d’enquête sur les pesticides tenue en 2023, il s’agit là « d’un recul de l’Etat de droit ». « Dans une démocratie, la remise en cause par le pouvoir politique d’une autorité scientifique constituée n’est pas un acte banal, dit au Monde cet élu peu coutumier des outrances et des vociférations d’Hémicycle. C’est un moment de bascule. »

    Bien sûr, l’expertise peut – et doit – être constamment interrogée dans sa rigueur, son indépendance, dans ses choix de tenir compte de tel ou tel élément plutôt que de tel autre. Mais elle doit l’être avec les instruments intellectuels de la disputatio savante, et il va sans dire que l’injonction politique n’en fait pas partie. La volonté de contrôle de la science et de l’expertise est un trope des régimes césaristes ou à tentation autoritaire. De fait, on se souvient que parmi les premières décisions de Donald Trump, à son arrivée à la présidence des Etats-Unis, figuraient la reprise en main de l’Agence fédérale américaine pour la protection de l’environnement (EPA) et sa mise sous tutelle par le pouvoir.
    Le « réarmement chimique » de l’agriculture française et ses modalités ne sont donc pas seulement une catastrophe environnementale et sanitaire dont les effets seront irréversibles à brève ou moyenne échéance. Ils s’inscrivent, comme pour la question migratoire, dans un mouvement de ratification culturelle de l’#extrême droite : est-ce vraiment une bonne idée ?

    https://www.lemonde.fr/planete/article/2024/02/03/si-rearmement-agricole-il-y-a-c-est-surtout-d-un-rearmement-chimique-de-l-ag

  • Le coût du travail humain reste généralement inférieur à celui de l’IA, d’après le MIT FashionNetwork.com ( Bloomberg )

    Pour le moment, employer des humains reste plus économique que de recourir à l’intelligence artificielle pour la majorité des emplois. C’est en tout cas ce qu’affirme une étude menée par le Massachusetts Institute of Technology, alors que bon nombre de secteurs se sentent menacés par les progrès faits par l’IA.

    Il s’agit de l’une des premières études approfondies réalisées à ce sujet. Les chercheurs ont établi des modèles économiques permettant de calculer l’attractivité de l’automatisation de diverses tâches aux États-Unis, en se concentrant sur des postes “digitalisables“, comme l’enseignement ou l’intermédiation immobilière.

    Source : https://fr.fashionnetwork.com/news/premiumContent,1597548.html

    #ia #intelligence_artificielle #algorithme #surveillance #ai #google #technologie #facebook #technologisme #travail #biométrie #bigdata #coût #MIT

  • Une vraie #souveraineté_alimentaire pour la #France

    Le mercredi 6 décembre 2023, la FNSEA sortait du bureau d’Elisabeth Borne en déclarant fièrement que l’État abandonnait son projet de taxer l’usage des pesticides et des retenues d’eau. Cela vient conclure une séquence historique. Le 16 novembre déjà, l’Europe reconduisait l’autorisation du glyphosate pour 10 ans. Et, six jours plus tard, abandonnait aussi l’objectif de réduction de 50 % de l’usage des pesticides à l’horizon 2030.

    Comment en est-on arrivé là ? La question a été récemment posée dans un rapport de l’Assemblée nationale. En plus du #lobbying habituel de la #FNSEA et de l’état de crise permanent dans laquelle vivent les agriculteurs et qui rend toute #réforme explosive, la question de la souveraineté alimentaire – qui correspond au droit d’un pays à développer ses capacités productives pour assurer la sécurité alimentaire des populations – a joué un rôle clé dans cette dynamique.

    La souveraineté alimentaire est ainsi devenue, depuis la crise du Covid et la guerre en Ukraine, l’argument d’autorité permettant de poursuivre des pratiques qui génèrent des catastrophes écologiques et humaines majeures. Il existe pourtant d’autres voies.

    Le mythe de la dépendance aux #importations

    De quelle souveraineté alimentaire parle-t-on ? Les derniers chiffres de FranceAgrimer montrent que notre « #dépendance aux importations » – comme aiment à le répéter les défenseurs d’un modèle intensif – est de 75 % pour le blé dur, 26 % pour les pommes de terre, 37 % pour les fruits tempérés ou 26 % pour les porcs.

    Mais ce que l’on passe sous silence, c’est que le taux d’#autoapprovisionnement – soit le rapport entre la production et la consommation françaises – est de 148 % pour le blé dur, 113 % pour les pommes de terre, 82 % pour les fruits tempérés et 103 % pour le porc. Le problème de souveraineté alimentaire n’en est pas un. Le vrai problème, c’est qu’on exporte ce que l’on produit, y compris ce dont on a besoin. Cherchez l’erreur.

    D’autres arguments viennent encore se greffer à celui de la souveraineté, dans un monde d’#interdépendances : la #France serait le « grenier à blé de l’Europe », il faudrait « nourrir les pays du Sud », la France serait « une puissance exportatrice », etc.

    Au-delà de l’hypocrisie de certaines de ces affirmations – en effet, les #exportations des surplus européens subventionnés ont détruit tout un tissu productif, en Afrique de l’Ouest notamment – il ne s’agit pas là d’enjeux liés à la souveraineté alimentaire, mais d’enjeux stratégiques et politiques liés à la #compétitivité de certains produits agricoles français sur les marchés internationaux.

    Comprendre : la France est la 6e puissance exportatrice de #produits_agricoles et agroalimentaires au monde et elle entend bien le rester.

    Voir la #productivité de façon multifonctionnelle

    S’il ne faut évidemment pas renoncer aux objectifs de #productivité_alimentaire nationaux, ces derniers gagneraient à être redéfinis. Car comment évoquer la souveraineté alimentaire sans parler des besoins en #eau pour produire les aliments, de la dépendance aux #énergies_fossiles générée par les #intrants de synthèse, de l’épuisement de la #fertilité des #sols lié à la #monoculture_intensive ou encore des effets du #réchauffement_climatique ?

    Comment évoquer la souveraineté alimentaire sans parler des enjeux fonciers, de l’évolution du #travail_agricole (25 % des #agriculteurs sont en passe de partir à la retraite), du #gaspillage_alimentaire – qui avoisine les 30 % tout de même – des #besoins_nutritionnels et des #habitudes_alimentaires de la population ?

    La #productivité_alimentaire doit dorénavant se conjuguer avec d’autres formes de productivité tout aussi essentielles à notre pays :

    – la capacité de #rétention_d’eau dans les sols,

    – le renouvellement des #pollinisateurs,

    – le maintien des capacités épuratoires des milieux pour conserver une #eau_potable,

    – le renouvellement de la #fertilité_des_sols,

    – la régulation des espèces nuisibles aux cultures,

    – ou encore la séquestration du carbone dans les sols.

    Or, il est scientifiquement reconnu que les indicateurs de productivité relatifs à ces services baissent depuis plusieurs décennies. Pourtant, ce sont bien ces services qui permettront de garantir une véritable souveraineté alimentaire future.

    La #diversification pour maintenir des rendements élevés

    Une revue de littérature scientifique parue en 2020, compilant plus de 5000 études menées partout dans le monde, montrait que seules des stratégies de diversification des #pratiques_agricoles permettent de répondre à ces objectifs de #performance_plurielle pour l’agriculture, tout en maintenant des #rendements élevés.

    Les ingrédients de cette diversification sont connus :

    – augmentation de la #rotation_des_cultures et des #amendements_organiques,

    – renoncement aux #pesticides_de_synthèse et promotion de l’#agriculture_biologique à grande échelle,

    - réduction du #labour,

    - diversification des #semences et recours aux #variétés_rustiques,

    - ou encore restauration des #haies et des #talus pour limiter le ruissellement de l’#eau_de_pluie.

    Dans 63 % des cas étudiés par ces chercheurs, ces stratégies de diversification ont permis non seulement d’augmenter les #services_écosystémiques qui garantissent la souveraineté alimentaire à long terme, mais aussi les #rendements_agricoles qui permettent de garantir la souveraineté alimentaire à court terme.

    Les sérieux atouts de l’agriculture biologique

    Parmi les pratiques de diversification qui ont fait leurs preuves à grande échelle en France, on retrouve l’agriculture biologique. Se convertir au bio, ce n’est pas simplement abandonner les intrants de synthèse.

    C’est aussi recourir à des rotations de cultures impliquant des #légumineuses fixatrices d’azote dans le sol, utiliser des semences rustiques plus résilientes face aux #parasites, des amendements organiques qui nécessitent des couplages culture-élevage, et enfin parier sur la restauration d’un #paysage qui devient un allié dans la lutte contre les #aléas_naturels. La diversification fait ainsi partie de l’ADN des agriculteurs #bio.

    C’est une question de #réalisme_économique. Les exploitations bio consomment en France deux fois moins de #fertilisant et de #carburant par hectare que les exploitants conventionnels, ce qui les rend moins vulnérables à l’évolution du #prix du #pétrole. En clair, l’agriculture biologique pourrait être la garante de la future souveraineté alimentaire française, alors qu’elle est justement souvent présentée comme une menace pour cette dernière du fait de rendements plus faibles à court terme.

    Au regard des éléments mentionnés plus haut, il s’agit évidemment d’un #faux_procès. Nous sommes autosuffisants et nous avons les réserves foncières qui permettraient de déployer le bio à grande échelle en France, puisque nous sommes passé de 72 % du territoire dédié aux activités agricoles en 1950 à 50 % en 2020. Une petite partie de ces surfaces a été artificialisée tandis que la majorité a tout simplement évolué en friche, à hauteur de 1000 km2 par an en moyenne.

    Par ailleurs, le différentiel de rendement entre le bio et le #conventionnel se réduit après quelques années seulement : de 25 % en moyenne (toutes cultures confondues) au moment de la conversion, il descend à 15 % ensuite. La raison en est l’apprentissage et l’innovation dont font preuve ces agriculteurs qui doivent en permanence s’adapter aux variabilités naturelles. Et des progrès sont encore à attendre, si l’on songe que l’agriculture bio n’a pas bénéficié des 50 dernières années de recherche en #agronomie dédiées aux pratiques conventionnelles.

    Relever le niveau de vie des agriculteurs sans éroder le #pouvoir_d’achat des consommateurs

    Mais a-t-on les moyens d’opérer une telle transition sans réduire le pouvoir d’achat des Français ? Pour répondre à cette question, il faut tout d’abord évoquer le #revenu des #agriculteurs. Il est notoirement faible. Les agriculteurs travaillent beaucoup et vivent mal de leur métier.

    Or, on oublie souvent de le mentionner, mais le surcoût des produits bio est aussi lié au fait que les consommateurs souhaitent mieux rémunérer les agriculteurs : hors subventions, les revenus des agriculteurs bio sont entre 22 % et 35 % plus élevés que pour les agriculteurs conventionnels.

    Ainsi, le consommateur bio consent à payer plus parce que le bio est meilleur pour l’environnement dans son ensemble (eau, air, sol, biodiversité), mais aussi pour que les paysans puissent mieux vivre de leur métier en France sans mettre en danger leur santé.

    Par ailleurs, si le consommateur paie plus cher les produits bio c’est aussi parce qu’il valorise le #travail_agricole en France. Ainsi la production d’aliments bio nécessite plus de #main-d’oeuvre (16 % du total du travail agricole pour 10 % des surfaces) et est très majoritairement localisée en France (71 % de ce qui est consommé en bio est produit en France).

    Cette question du #travail est centrale. Moins de chimie, c’est plus de travail des communautés humaines, animales et végétales. C’est aussi plus d’incertitudes, ce qui n’est évidemment pas simple à appréhender pour un exploitant.

    Mais il faut rappeler que le discours sur le pouvoir d’achat des français, soi-disant garanti par le modèle hyper-productiviste de l’agriculture française, vise surtout à conforter les rentes de situations des acteurs dominants du secteur agricole. Car les coûts sanitaires et environnementaux de ce modèle sont payés par le contribuable.

    Rien que le #traitement_de_l’eau, lié aux pollutions agricoles, pour la rendre potable, coûte entre 500 millions d’euros et 1 milliard d’euros par an à l’État. Or, ce que le consommateur ne paie pas au supermarché, le citoyen le paie avec ses #impôts. Le rapport parlementaire évoqué plus haut ne dit pas autre chose : la socialisation des coûts et la privatisation des bénéfices liés aux #pesticides ne sont plus tolérables.

    Le bio, impensé de la politique agricole française

    Une évidence s’impose alors : il semblerait logique que l’État appuie massivement cette filière en vue de réduire les coûts pour les exploitants bio et ainsi le prix pour les consommateurs de produits bio. En effet, cette filière offre des garanties en matière de souveraineté alimentaire à court et long terme, permet de protéger l’eau et la #santé des Français, est créatrice d’emplois en France. Il n’en est pourtant rien, bien au contraire.

    L’État a promu le label #Haute_valeur_environnementale (#HVE), dont l’intérêt est très limité, comme révélé par l’Office français de la biodiversité (OFB). L’enjeu semble surtout être de permettre aux agriculteurs conventionnels de toucher les aides associés au plan de relance et à la nouvelle #PAC, au risque de créer une #concurrence_déloyale vis-à-vis des agriculteurs bio, d’autant plus que les #aides_publiques au maintien de l’agriculture biologique ont été supprimées en 2023.

    La décision récente de l’État de retirer son projet de #taxe sur l’usage des pesticides créé aussi, de facto, un avantage comparatif pour le conventionnel vis-à-vis du bio. Enfin, rappelons que la Commission européenne a pointé à plusieurs reprises que la France était le seul pays européen à donner moins de subventions par unité de travail agricole aux céréaliers bio qu’aux conventionnels.

    Ainsi, un céréalier bio français reçoit un tiers de subventions en moins par unité de travail agricole qu’un céréalier conventionnel, alors qu’en Allemagne ou en Autriche, il recevrait 50 % de #subventions supplémentaires. En France, l’État renonce aux taxes sur les pesticides tout en maintenant des #charges_sociales élevées sur le travail agricole, alors que c’est évidemment l’inverse dont aurait besoin la #transition_agroécologique.

    Que peuvent faire les citoyens au regard de ce constat déprimant ? Consommer des produits bio malgré tout, et trouver des moyens de les payer moins cher, grâce par exemple à la #vente_directe et à des dispositifs tels que les #AMAP qui permettent de réduire le coût du transport, de la transformation et de la distribution tout autant que le gâchis alimentaire, les variabilités de la production étant amorties par la variabilité du contenu du panier.

    Les agriculteurs engagés pour la #transition_écologique, de leur côté, peuvent réduire les risques associés aux variabilités naturelles et économiques en créant de nouvelles formes d’exploitations coopératives combinant plusieurs activités complémentaires : élevage, culture, transformation, conditionnement et distribution peuvent être organisés collectivement pour mutualiser les coûts et les bénéfices, mais aussi se réapproprier une part significative de la #chaîne_de_valeur laissée aujourd’hui au monde de l’agro-industrie et de la grande distribution.

    Il ne s’agit pas d’une #utopie. De nombreux acteurs essaient de faire émerger, malgré les résistances institutionnelles, ces nouvelles pratiques permettant de garantir la souveraineté alimentaire de la France à long terme.

    https://theconversation.com/une-vraie-souverainete-alimentaire-pour-la-france-220560
    #foncier #industrie_agro-alimentaire #alimentation #collectivisation
    #à_lire #ressources_pédagogiques

  • Décrypter le mouvement des agriculteurs
    https://lundi.am/Decrypter-le-mouvement-des-agriculteurs

    [...] les dirigeants de la #FNSEA, c’est vraiment les 1% contre les 99%. Arnaud Rousseau, c’en est vraiment la caricature, c’est un grand patron de l’agro industrie, extrêmement riche, qui possède 700 ou 800 hectares, ce qui n’est vraiment pas le cas des 99% d’adhérents aux FDSEA. Il y a donc une déconnexion de plus en plus grande entre cette toute petite élite qui est très proche du gouvernement, qui prend les décisions main dans la main avec lui et les gens, syndiqués ou non, sur le terrain, qu’ils soient dans les modèles bio ou pas. Je peux prendre l’exemple de mes voisins, ils ont 100 hectares et pourtant ils galèrent. En Bretagne, par exemple, quand tu as 50 hectares, tu as deux choix : soit tu passes en bio, mais ça ça valait le coup il y a 5 ans, soit tu rachètes la ferme de ton voisin et tu prends 50 hectares et 50 vaches de plus pour faire plus de volume, travailler comme des malades nuit et jour et tenter de rester à flot. Et l’option du #bio devient aussi une impasse car on a de plus en plus de mal à vendre nos produits depuis la crise du Covid et on les vend à des tarifs très proches du celui du circuit conventionnel. Donc quelques soient les choix que les uns et les autres ont fait, quand ont fait partie des 99% on partage vraiment la même galère.

    Après il y a de vraies questions sur les produits que l’on utilise. Dans notre modèle économique de libre-échange, si on n’utilise plus de #pesticides, on se retrouve à ne plus être compétitifs. Et donc il y a ce faux choix : se suicider économiquement ou se suicider avec les produits qu’on utilise. Parce que concrètement, on sait qu’en utilisant des pesticides on a de très fortes chances de tomber malades. Cela se dit pas beaucoup dans les campagnes mais ça se sait ; quand on emprunte le circuit des pesticides, on sait qu’on a de grandes chances de mourir entre 55 et 65 ans.

    Mais c’est parce qu’on est coincés dans cette alternative que certains arrivent à défendre le glyphosate ou les méga-bassines. Nous ce qu’on dit c’est que la seule solution, c’est de sortir des accords de libre-échange et de l’injonction à la compétitivité mondiale.

    #confédération_paysanne #modèle_agricole #agriculture

  • Decoding #Balkandac : Navigating the EU’s Biometric Blueprint

    This report, authored by the Border Violence Monitoring Network with support from Privacy International, investigates the development of interoperable biometric databases, akin to Eurodac, in the Western Balkans, referred to as the “Balkandac” system. It highlights a lack of transparency in current regional data-sharing systems and underscores the significant role of EU institutions in their creation.

    The report employs a comprehensive methodology, combining grassroots observations, open-source research, and Freedom of Information Requests (FOI) submissions to address human rights violations.

    This report aims to contextualise recent developments towards the digitalisation of biometric data collection in the Western Balkans into wider shifts in migration policy and data-sharing frameworks at the EU level. In order to achieve this, the report first unpacks the key regulations envisioned under the EU’s New Pact on Migration and Asylum and how these are envisioned to operate within EU Member States. Collectively, they establish a system whereby people on the move are prevented from entering the territory of Member States, subjected to expedited procedures, and returned directly to “safe third countries”. This manifests as a legalisation of the pushback process; individual claims will undergo insufficient scrutiny within compressed timeframes and procedural rights, such as access to free legal aid and the suspensive effect of appeals against inadmissabiliy decisions, are not yet guaranteed at the time of writing. These legal shifts unequivocally obstruct access to the right to asylum within the new regulatory framework.

    A key ongoing development in this line is the development of biometric data collection systems that are modelled off the EURODAC system, allowing for seamless interoperability in the future. Funding from the EU’s Instruments for Pre-Accession Assistance and bilateral agreements with Member States have supported these data systems in the Western Balkans, mirroring Eurodac. Critiques arise from increased interoperability of EU databases, which blur immigration and criminal law purposes, lack anti-discrimination safeguards, and bypass key data protection principles.

    The core issue lies in the balance between personal data protection and fundamental rights, contrasted with the use of biometric systems for mass surveillance and data analysis. The report emphasizes the merging of migration and security discourses, underscoring the potential for unjust criminalisation of migrants, making it harder for them to seek asylum and international protection.

    https://borderviolence.eu/reports/balkandac
    #biométrie #Balkans #rapport #Border_Violence_Monitoring_Network (#BVMN) #interopérabilité #données #base_de_données #Balkans_occidentaux #données_biométriques #pacte_européen_sur_la_migration_et_l’asile #migrations #asile #réfugiés #frontières #pays-tiers_sûrs #accès_à_l'asile #eurodac #Instruments_for_Pre-Accession_Assistance #droits_fondamentaux

  • Japan’s thirst for biomass is having a harmful impact on Canada’s forests

    When you walk through a fresh clearcut in British Columbia, you are surrounded by a “one-dimensional, dead landscape,” says Michelle Connolly of Conservation North, a volunteer conservation group based in the Canadian province.

    The forest’s soft, mossy ground, the birdcalls and the cool moisture in the air are gone. In their place, twigs and debris lay everywhere, occasionally interspersed with pieces of garbage. Sound and movement from plants or animals have almost ceased, except for the buzzing of insects. The smell of burned piles of slash — wood debris not profitable enough to bring to a mill — hangs in the air.

    “That’s the story of conventional forestry in BC,” Connolly says.

    Last month, Connolly visited Japan to share how such scenes are linked to the nation’s “green” energy: A portion of BC’s razed forests are being used to make wood pellets, a type of biofuel that Japan is importing and burning in increasing quantities as an alternative to fossil fuels.

    The Japanese government claims wood pellets are “carbon neutral” because trees absorb carbon dioxide throughout their lives and, therefore, do not result in a net increase of atmospheric carbon dioxide when burned. The Agency for Natural Resources and Energy, which is in charge of Japan’s biomass policy, did not respond to a request for comment.

    Experts in the field, however, warn that this kind of carbon accounting is dangerously misguided.

    Research by British think tank Chatham House details how woody biomass fuels like wood pellets release a large amount of carbon dioxide during combustion — even more than coal — due to having lower energy density. Burning trees for electricity increases atmospheric carbon dioxide in the near term, precisely when the world most needs to reduce greenhouse gas emissions. And when forests are cut, their ability to absorb and sequester carbon is halted for decades.

    The Japanese government plans to have biomass contribute 5% of Japan’s power needs by 2030, putting it on par with wind. Hydrogen and ammonia, the government and industry’s controversial long-term bet to decarbonize the power sector, are expected to only contribute 1% by that year.

    Japan began seriously investing in woody biomass after the 2011 Fukushima nuclear disaster triggered a sudden shortage of zero-emission energy, as the nation took all of its reactors offline. Beginning in 2012, generous government support for renewable energy projects led to 434 approvals for power plants designed to run either partially or fully on woody biomass, although only 191 had come online as of June 2022 and many don’t use imported pellets.

    Still, the country’s wood pellet imports from Canada shot up accordingly, from 76,000 metric tons in 2013 to 1.4 million in 2022, representing 31% of Japan’s total pellet imports that year (other top sources of pellets include Vietnam, the U.S. and Malaysia).

    Japan received 40% of all Canadian wood pellet exports in 2022, according to Canadian government statistics. Over the first 10 months of 2023, that figure rose to 55%, with practically all of that coming from BC.

    However, Connolly and other experts warn that BC’s overstretched and declining forestry sector may not be able to provide Japan with a steady supply of wood pellets for long — and, for the present, it is leaving a trail of environmental destruction in its wake.

    Unknown exploitation

    Wood pellets are enmeshed in BC’s forestry industry, and proponents claim that pellets help utilize waste generated from producing other products, such as lumber. The catch, according to Connolly, is that “BC’s forestry system is fundamentally unsustainable.”

    The province has experienced roughly a century “of forest exploitation, and the last 60 years of that has been ultra-aggressive,” she adds.

    Forest land accounts for roughly two-thirds of BC’s total area, and that’s a large area — the province is three times the size of all of Japan. It’s unknown exactly how much of the province’s 600,000 square kilometers of forest remain untouched by logging, but experts and activists warn that such “primary forests” are dwindling. Although BC does release figures for “old growth” logging, primary forests represent a wider category of ecosystems that don’t contain signs of human disturbance but whose trees might not fit the definition of “old growth.”

    The results of a government-initiated strategic review of old-growth forests in BC noted in 2020 that the province’s “economy is heavily dependent on trees harvested from primary forests of old trees.” This is especially true of logging in the province’s interior, where “large-scale commercial cutting of primary forests” began 50 or fewer years ago and where it can take “several decades” for replanted trees to be ready for a second harvest.

    BC’s pellet industry is located in the interior. As a result, wood pellet feedstock likely comes from clearcut primary forest, whether a pellet mill uses byproducts such as sawmill waste or whole trees sourced directly from a logging site.

    Connolly’s home city, Prince George, lies in an area of the BC interior where forests are currently being harvested — in part, for pellets.

    From 2017, 9% of the output of the 80,000-square-kilometer Prince George timber supply area has been set aside for “bioenergy stands” — trees fit for logging for pellets — defined as “mature, damaged pine-leading stands” with relatively low marketability as saw logs.

    However, Andrew Weaver, a professor at the University of Victoria’s School of Earth & Ocean Sciences and a former member of the province’s Legislative Assembly, told The Japan Times that even harvesting such “damaged” stands could set a dangerous precedent. After being cut, replanted trees will take decades to grow, during which time the wood pellet industry will need more raw materials. The impacts of climate change also make a future second harvest less predictable, Weaver added.

    Connolly argues that BC’s remaining primary forest would be better left as-is.

    Primary forests are the best habitat for much of BC’s wildlife, especially large-bodied mammals, including critically endangered caribou, as well as bears that make dens in large tree trunks. They also keep watersheds clean, an essential ecosystem service that benefits both animals and people (Vancouver, the province’s economic capital, has banned logging in its watersheds since the 1990s).

    In addition, primary forests contribute significant carbon sinks, with much carbon dioxide stored in large, old trees and undisturbed soil and peat. Scientists note that primary forests are more effective at storing carbon than single-species plantation forests; it can take centuries for a replanted forest to store as much carbon as the primary forest it replaced.

    Currently, U.K.-headquartered Drax — a utility at home and a pellet producer in Canada and the U.S. — controls eight of 12 BC pellet mills, roughly 80% of the province’s total wood pellet production capacity.

    At its mills, huge piles of trees await processing. Although the company previously claimed to only use “sawdust and waste wood,” a 2022 investigation by BBC Panorama found evidence that Drax was also sourcing directly from primary forests. Drax responded to the BBC investigation by saying that 80% of its source material is “sawmill residues” and the rest is “waste material” from forests at risk of fire or disease.

    “In Canada, good forest management includes managed removals, which create less dense stands of trees and reduce what’s left lying on the forest floor, helping to protect from fires, pests and diseases, and preserving biodiversity,” a Drax spokesperson told The Japan Times in an email. “We support good forest management by providing a market for this material and turning it into something useful — sustainable biomass — which can be used as fuel for renewable, low carbon power.”

    During her trip to Japan, Connolly felt that Japanese audiences — including wood pellet stakeholders, media and members of the general public — were puzzled and disappointed to learn how BC’s primary forests are being turned into wood pellets.

    “It was actually really emotional for me to see people’s faces fall,” Connolly says.
    A finite amount of wood

    Although wood pellets are often billed as a “sustainable” resource, there may be a limit on the amount of pellets BC can provide Japan, warned Ben Parfitt, a resource policy analyst for the Canadian Center for Policy Alternatives who also covered forestry in BC for many years as a journalist. Parfitt traveled to Japan with Connolly to speak about wood pellets.

    BC’s logging industry, which pellet manufacturers rely on, is shrinking. Roughly 51.3 million cubic meters of timber were logged in 2022, down from 76.6 million in 2013, according to data Parfitt compiled from government statistics. Many companies are moving their operations to the southern U.S., where trees grow faster in a milder climate on already extensive forest plantations. The number of sawmills in BC is also decreasing, down from 111 in 2005 to 64 in 2023.

    In Parfitt’s view, the logging industry is contracting primarily because it logged too much, too quickly. “They have run out of the easiest-to-access and cheapest fiber,” he said.

    With logging in decline, Parfitt predicted increasing competition for resources going forward.

    “That’s pretty much where, I think, the rubber hits the road,” he concludes. “There’s a finite amount (of wood) out there.”

    In a public event during his visit to Japan, Parfitt highlighted both Drax’s overwhelming control of BC’s wood pellet industry and the fact that the company itself consumes vast quantities of wood pellets at its own power plant in the U.K. As competition for resources intensifies, the decisions Drax makes going forward could potentially have a big impact on Japan’s wood pellet supply, Parfitt warned.

    The company itself brushed off such concerns, saying in its statement to The Japan Times that it responsibly manages its commercial agreements and closely analyzes market issues affecting itself and its suppliers.

    “The majority of the sustainable biomass we supply to Japan is sourced from British Columbia in Canada where the forests are sustainably managed and subject to environmental regulation, careful management and third-party certification,” the Drax representative wrote.

    Still, Parfitt is not alone in his concern over the future of Japan’s supply of BC wood pellets. Weaver too sees BC’s relatively slow-growing forest resources as “mismatched” with the wood pellet industry and its eager customers in Japan. Wood pellets aren’t anything more than a “short-term fix” for the country’s energy needs, he said.

    Going forward, Weaver suggested that Japan, known abroad as a nation of innovators, could show more international leadership in renewable energy.

    “Burning wood is literally what our ancestors and Neanderthals did many hundred thousands of years ago,” he says. “Surely we’re better than that.”

    https://www.japantimes.co.jp/environment/2024/01/14/resources/biomass-canada-japan-imports
    #Canada #forêts #déforestation #Japon #transition_énergétique #green-washing #bois #pellets #extractivisme #énergie #bioénergie