• Vivre de vie. Théories et pratiques biorégionales
    https://topophile.net/savoir/vivre-de-vie-theories-et-pratiques-bioregionales

    Je veux être très clair : je ne suis pas du tout sûr de ce que le biorégionalisme est. A ma connaissance, le biorégionalisme est une idée à la formulation encore imprécise et approximative, relevant davantage de la déclaration pleine d’espoirs que de la pratique réelle. En fait, parler d’« idéal » serait exagéré : il serait plus juste... Voir l’article

  • Il saccheggio ambientale e culturale del Treno Maya in Messico

    Una rete ferroviaria di oltre 1.500 chilometri permetterà ai turisti di viaggiare tra le città coloniali della Penisola dello Yucatán, i siti archeologici e le spiagge caraibiche. Un’opera inquinante che rischia di cancellare tradizioni millenarie.

    Lo speleologo Hoppenheimer camminava lungo il tracciato del Treno Maya quando si è accorto che, a un passo dai piloni che ne sosterranno il viadotto, c’era una caverna sotterranea. I colleghi l’hanno presto battezzata con il suo soprannome, motivato dalla somiglianza con l’attore del film. La caverna “Oppenheimer”, che si trova nello Stato del Quintana Roo, fra le città di Playa del Carmen e Tulum, è una delle migliaia di “porte” di accesso all’intricato sistema di canali che si trova sotto la penisola dello Yucatán: una rete sotterranea lunga 1.800 chilometri che costituisce una delle falde acquifere più grandi del mondo e, per la cultura maya, rappresenta l’inframundo, il luogo dove camminano i morti.

    Si tratta di un sistema che ha una composizione geologica carsica e per questo è soggetto a crolli e collassi. “In alcuni punti il tetto della caverna Oppenheimer ha ceduto a causa delle vibrazioni dei lavori di costruzione del Treno Maya, che ha impattato più di centoventi cenotes (grotte con acqua dolce, ndr) e caverne -spiega Guillermo D. Christy, membro del collettivo Cenotes Urbanos-. È un progetto improvvisato, i lavori sono iniziati senza lo studio di impatto ambientale e non ne è stato neanche fatto uno di meccanica del suolo che dimostri la capacità del terreno di reggere un’opera così imponente”.

    È sopra questo fragile sistema di canali sotterranei che si sta costruendo il Treno Maya: una rete ferroviaria di più di 1.500 chilometri che permetterà ai turisti di viaggiare tra le città coloniali della penisola dello Yucatán, tra le sue lagune e i cenotes, di visitare i siti archeologici maya e le spiagge caraibiche. Si tratta del megaprogetto “preferito” dal presidente messicano Andrés Manuel López Obrador, il quale ha assicurato che verrà interamente inaugurato entro la fine di febbraio 2024 e ha promesso di portare il Sud-Est del Messico fuori dalla povertà grazie alla crescita del turismo. Per questo, buona parte della popolazione è a favore dell’opera, anche se le voci critiche si fanno sentire.

    Il governo non ne parla molto ma, in realtà, il Treno Maya non è solo un treno turistico. Sui suoi binari correranno anche vagoni merci che nella città di Palenque, in Chiapas, si connetteranno a un’altra grande opera promossa dall’amministrazione di López Obrador: il Treno Transistmico, che unirà i due oceani (Atlantico e Pacifico) nel punto più stretto del Messico e si presenterà come un’alternativa al Canale di Panama. “Sono treni neoliberali al servizio dell’agricoltura industriale e funzionale al saccheggio delle risorse naturali presenti nei nostri territori maya ancestrali”, dice Sara López González del Consejo regional indígena y popular de xpujil (Crip).

    “Nemmeno un albero verrà abbattuto per costruire il Treno Maya”, ha dichiarato il presidente López Obrador prima dell’inizio dei lavori. In verità, ne sono stati abbattuti circa dieci milioni, soprattutto per costruire il tracciato delle tratte cinque e sei, che corrono parallele alla costa del Mar dei Caraibi e alla strada che collega Cancún a Chetumal. Secondo il biologo Omar Irám Martínez Castillo dell’associazione locale U’yoolche, nello spazio tra la strada e il tracciato della tratta sei, che è protetto da un recinto, si è formata una “terra di nessuno” in cui sono rimaste intrappolate delle scimmie. “La frammentazione dell’habitat mi preoccupa più della deforestazione -spiega il biologo- il treno divide in due la selva yucateca e per gli animali che ci vivono, stiamo parlando di giaguari, tapiri, scimmie e molte altre specie, sarà complicato avere una comunicazione che permetta di evitare l’endogamia e favorire la diversità genetica”.

    Un’altra preoccupazione delle organizzazioni che difendono il territorio, alcune delle quali sono indigene, è che molti cenotes sono stati riempiti di cemento per permettere ai binari del treno di passarci sopra. Questo crea un problema ecologico a tutto il sistema di canali sotterranei, che sono interconnessi e rappresentano l’unica fonte di acqua potabile per milioni di persone. Inoltre, questo sistema drena nel Mar dei Caraibi e inquinerà quindi anche le sue acque, con effetti devastanti per la barriera corallina, i pesci e tutto l’ecosistema connesso. “Il mare caraibico cristallino che si vede nelle foto esposte nelle agenzie di viaggi dipende da un equilibrio che ha radici nella selva yucateca, nelle caverne e nei fiumi sotterranei”, dice Miriam Moreno del collettivo SOS Cenotes e della Red de resistencias sur sureste en defensa de la vida y los territorios Utsil Kuxtal. In altre parole, l’industria del turismo di questa regione dipende in buona parte dalla salute dell’ecosistema.

    Secondo Ángel Sulub Santos del Centro comunitario u kúuchil k ch’i’ibalo’on, il Treno Maya è il secondo megaprogetto che è stato impiantato nella penisola dello Yucatán. Il primo è stato la città di Cancún, fondata nel 1974 a servizio del turismo di massa, concetto intorno al quale è stata creata l’identità culturale della regione dove, anche nelle scuole, viene presentato come fattore di sviluppo economico e sociale. Prima del 1974 Cancún, che oggi ha quasi un milione di abitanti e spiagge costellate da grattacieli di lusso, era un villaggio di pescatori. In tutto il Quintana Roo la crescita della popolazione negli ultimi decenni è stata velocissima: solo tra il 2010 e il 2020, i suoi abitanti sono aumentati di più del 40%.

    Il popolo indigeno maya ha lavorato al servizio di questa espansione, di cui i principali beneficiari sono le grandi corporazioni turistiche che hanno visto nella costa caraibica messicana la gallina dalle uova d’oro. I maya hanno abbandonato l’agricoltura, la pesca e il loro stile di vita millenario per essere impiegati come camerieri, facchini o nel settore delle pulizie. Intanto, la loro cultura viene “venduta” sotto forma di souvenirs o di balli tradizionali messi in scena nei ristoranti per turisti.

    Secondo l’artista maya Marcelo Jiménez Santos, il turismo ha “saccheggiato culturalmente” il suo popolo. “Parlano di Treno Maya e Riviera Maya, ma la comunità maya è invitata a partecipare a questi progetti solo come manodopera a basso costo. Vengono promossi i popoli precolombiani e le loro vestigia come dei prodotti turistici in vendita, ma il popolo maya che tuttora vive nella Penisola dello Yucatán non viene minimamente considerato”, dice Jiménez Santos. “Tuttavia, non credo che la nostra cultura maya sparirà; ha capacità di reazione, come è stato dimostrato in 500 anni di tentativi di sterminio”.

    L’esercito messicano ha costruito buona parte del tracciato ferroviario. I militari hanno anche il compito di amministrare il treno e di incassare i suoi introiti, di gestire sei hotel di lusso che sono stati costruiti nei pressi delle stazioni e alcuni aeroporti. La Penisola dello Yucatán è stata quindi militarizzata, con grande preoccupazione di parte dei suoi abitanti, visto che le statistiche mostrano che la presenza dei soldati porta un aumento delle denunce di violazione ai diritti umani. “I militari ora pattugliano con le armi in vista anche Bacalar, malgrado non esistano particolari problemi di sicurezza -racconta Aldair T’uut’, membro dell’Asamblea de defensores del territorio maya múuch’ xíinbal-. Godono di totale impunità, non solo quando violano i diritti umani, ma anche quando distruggono l’ambiente: stanno tagliando le mangrovie, deforestando la selva e cementificando cenotes, ma non riceveranno nessuna sanzione per questo”.

    Come in altre cittadine della regione, a Bacalar una delle maggiori preoccupazioni riguarda l’assenza di impianti di depurazione e di un adeguato sistema di trattamento dei rifiuti. L’espansione turistica, che nei dieci anni prima della pandemia è stata del 800%, ha già cambiato il tono delle acque della sua laguna, che è sempre più verde e marrone. Da villaggetto, Bacalar è diventato paese e la riviera della laguna è stata quasi totalmente privatizzata. Ai suoi abitanti, che lavorano in gran parte nel settore turistico, sono rimasti solo un paio di moli da cui nel fine settimana si possono tuffare.

    https://altreconomia.it/il-saccheggio-ambientale-e-culturale-del-treno-maya-in-messico

    #tourisme #Mexique #environnement #train #chemin_de_fer #culture #destruction #saccage #Treno_Maya #Yucatán #Train_Interocéanique #peuples_autochtones #forêt #biodiversité #cenotes #maya

  • L’ombre du racisme sur E. O. Wilson, géant de la biologie
    https://www.lemonde.fr/sciences/article/2023/12/30/l-ombre-du-racisme-sur-e-o-wilson-geant-de-la-biologie_6208436_1650684.html

    E. O. Wilson ne souhaite pas apparaître comme parrain d’un article soutenant la réalité de différences de comportements entre « races » humaines, mais il suggère à Rushton de soumettre son manuscrit à une autre revue, Ethology and Sociobiology. *Il se propose d’évaluer l’article en tant qu’expert anonyme* pour le compte de l’éditeur en chef. Ses commentaires sont dithyrambiques. « Il s’agit d’un article brillant, l’un des plus originaux et des plus heuristiques sur la biologie humaine ces dernières années, écrit-il. C’est la première théorie cohérente des variations raciales humaines en matière de comportement et de physiologie de la reproduction. S’il ne portait pas sur les différences raciales, ou s’il concernait une autre espèce, il serait accepté dans Nature ou Science. » En dépit de ce soutien, l’article ne sera pas accepté, l’autre reviewer sollicité par la revue le jugeant « erroné ».

    #science #racisme

    • Le soutien d’E. O. Wilson à Rushton est-il la preuve de penchants réellement racistes ? Le philosophe Philippe Huneman (Institut d’histoire et de philosophie des sciences et des techniques, CNRS) met en garde contre les conclusions hâtives. « Ces éléments de correspondance sont, à ma connaissance, les seuls exemples où Wilson évoque explicitement ces questions de différences raciales, dit-il. Il est possible qu’il ait soutenu Rushton par esprit de solidarité, parce que lui-même avait été attaqué, des années auparavant, par certains de ses collègues marqués à gauche et se revendiquant de l’antiracisme. » La Fondation E. O. Wilson pour la biodiversité rappelle de son côté que l’intéressé avait écrit, dans la préface à la seconde édition (2004) de son On Human Nature (Harvard University Press, 1978), que « la plupart des scientifiques reconnaissent depuis longtemps que tenter de définir des races humaines disjointes est un exercice futile ». « De telles entités, en réalité, n’existent pas », ajoutait-il.

      https://archive.is/xuuy4

      #biologie #corporatisme

  • Lecture d’un extrait du livre « Hêtre pourpre » de Kim de l’Horizon, traduit de l’allemand (Suisse) par Rose Labourie, paru aux Éditions Julliard, en 2023.

    https://liminaire.fr/radio-marelle/article/hetre-pourpre-de-kim-de-l-horizon

    Hêtre pourpre est un roman d’apprentissage qui mélange de manière tourbillonnante des formes et des récits divers, sur la vie sexuelle d’une jeune personne non binaire, une quête identitaire (de genre et de classe), ses souvenirs d’enfance, tout entremêlant l’histoire botanique du hêtre pourpre à celle des sorcières et de leurs combats. Roman qui joue avec les mots, les néologismes, l’inventivité de nappes successives de langues, de l’allemand au suisse-allemand, et leurs dialectes, en passant par l’anglais, en les imbriquant les unes aux autres pour se les approprier et nous les rendre audibles.

    (...) #Radio_Marelle, #Écriture, #Langage, #Livre, #Lecture, #En_lisant_en_écrivant, #Podcast, #Famille, #Mémoire, #Biographie, #Enfance, #Transition, #Littérature (...)

    https://liminaire.fr/IMG/mp4/he_tre_rouge_kim_de_l_horizon.mp4

    https://www.lisez.com/livre-grand-format/hetre-pourpre/9782260055938

  • « L’extrême droite et la crise écologique sont les deux portions d’un même cercle vicieux »
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/12/24/l-extreme-droite-et-la-crise-ecologique-sont-les-deux-portions-d-un-meme-cer

    Publié aujourd’hui à 06h30 Temps de Lecture 3 min.

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    https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/12/24/l-extreme-droite-et-la-crise-ecologique-sont-les-deux-portions-d-un-meme-cer

    Au reste, pourquoi agir ? La montée en puissance de l’extrême droite est le meilleur carburant à la crise environnementale, et la crise environnementale a toutes les chances, en retour, de nourrir l’adhésion aux idées de Marine Le Pen, d’Eric Zemmour ou de Vincent Bolloré. L’extrême droite et la crise écologique ont tout pour être les deux portions d’un même cercle vicieux. Car ce que le débat public a bien du mal à rendre accessible à l’opinion est que la « crise écologique » n’est pas qu’une abstraction : c’est du malheur et de l’adversité saupoudrés sur la société.

    Ce sont des inondations qui n’en finissent pas, dopées par les précipitations extrêmes, l’artificialisation des sols, la simplification des paysages et l’imperméabilisation des terres arables ; ce sont les récoltes détruites par les orages de grêle ou des cheptels perdus dans les sécheresses ; c’est l’exacerbation de maladies chroniques et débilitantes. C’est, en bref, tout ce qui éprouve le corps social, qui nourrit les sentiments d’injustice et d’abandon, alimente la colère muette et le ressentiment…

    L’adversité et le malheur rendent-ils réellement plus perméable à la rhétorique des droites extrêmes ? Une étude de chercheurs français conduits par Jean-David Zeitoun (centre d’épidémiologie clinique de l’Hôtel-Dieu, à Paris), publiée en 2019 dans la revue BMC Public Health, en offre un indice frappant. Les auteurs cherchaient des déterminants locaux du vote pour Marine Le Pen à l’élection présidentielle de 2017 : même après avoir corrigé l’analyse des inégalités socio-économiques, la prévalence sur un territoire du diabète de type 2, de maladies chroniques sévères et un taux élevé de mortalité étaient, écrivent-ils, « les plus forts déterminants du vote pour Marine Le Pen ».

    #Ecologie #Extrême-droite

    • .... Les ressorts du vote lepéniste sont bien sûr nombreux et complexes, mais il est fort probable que la crise écologique, par l’adversité et le malheur qu’elle distribue dans la société, en forme une part non négligeable, et destinée à grandir.

      L’adversité et le malheur rendent-ils réellement plus perméable à la rhétorique des droites extrêmes ? Une étude de chercheurs français conduits par Jean-David Zeitoun (centre d’épidémiologie clinique de l’Hôtel-Dieu, à Paris), publiée en 2019 dans la revue BMC Public Health, en offre un indice frappant. Les auteurs cherchaient des déterminants locaux du vote pour Marine Le Pen à l’élection présidentielle de 2017 : même après avoir corrigé l’analyse des inégalités socio-économiques, la prévalence sur un territoire du diabète de type 2, de maladies chroniques sévères et un taux élevé de mortalité étaient, écrivent-ils, « les plus forts déterminants du vote pour Marine Le Pen ».

      https://archive.is/sIiop
      #extrême_droite #fascisation #réchauffement #biodiversité #écologie

  • EU’s AI Act Falls Short on Protecting Rights at Borders

    Despite years of tireless advocacy by a coalition of civil society and academics (including the author), the European Union’s new law regulating artificial intelligence falls short on protecting the most vulnerable. Late in the night on Friday, Dec. 8, the European Parliament reached a landmark deal on its long-awaited Act to Govern Artificial Intelligence (AI Act). After years of meetings, lobbying, and hearings, the EU member states, Commission, and the Parliament agreed on the provisions of the act, awaiting technical meetings and formal approval before the final text of the legislation is released to the public. A so-called “global first” and racing ahead of the United States, the EU’s bill is the first ever regional attempt to create an omnibus AI legislation. Unfortunately, this bill once again does not sufficiently recognize the vast human rights risks of border technologies and should go much further protecting the rights of people on the move.

    From surveillance drones patrolling the Mediterranean to vast databases collecting sensitive biometric information to experimental projects like robo-dogs and AI lie detectors, every step of a person’s migration journey is now impacted by risky and unregulated border technology projects. These technologies are fraught with privacy infringements, discriminatory decision-making, and even impact the life, liberty, and security of person seeking asylum. They also impact procedural rights, muddying responsibility over opaque and discretionary decisions and lacking clarity in mechanisms of redress when something goes wrong.

    The EU’s AI Act could have been a landmark global standard for the protection of the rights of the most vulnerable. But once again, it does not provide the necessary safeguards around border technologies. For example, while recognizing that some border technologies could fall under the high-risk category, it is not yet clear what, if any, border tech projects will be included in the final high-risk category of projects that are subject to transparency obligations, human rights impact assessments, and greater scrutiny. The Act also has various carveouts and exemptions in place, for example for matters of national security, which can encapsulate technologies used in migration and border enforcement. And crucial discussions around bans on high-risk technologies in migration never even made it into the Parliament’s final deal terms at all. Even the bans which have been announced, for example around emotion recognition, are only in place in the workplace and education, not at the border. Moreover, what exactly is banned remains to be seen, and outstanding questions to be answered in the final text include the parameters around predictive policing as well as the exceptions to the ban on real-time biometric surveillance, still allowed in instances of a “threat of terrorism,” targeted search for victims, or the prosecution of serious crimes. It is also particularly troubling that the AI Act explicitly leaves room for technologies which are of particular appetite for Frontex, the EU’s border force. Frontex released its AI strategy on Nov. 9, signaling an appetite for predictive tools and situational analysis technology. These tools, which when used without safeguards, can facilitate illegal border interdiction operations, including “pushbacks,” in which the agency has been investigated. The Protect Not Surveil Coalition has been trying to influence European policy makers to ban predictive analytics used for the purposes of border enforcement. Unfortunately, no migration tech bans at all seem to be in the final Act.

    The lack of bans and red lines under the high-risk uses of border technologies in the EU’s position is in opposition to years of academic research as well as international guidance, such as by then-U.N. Special Rapporteur on contemporary forms of racism, E. Tendayi Achiume. For example, a recently released report by the University of Essex and the UN’s Office of the Human Rights Commissioner (OHCHR), which I co-authored with Professor Lorna McGregor, argues for a human rights based approach to digital border technologies, including a moratorium on the most high risk border technologies such as border surveillance, which pushes people on the move into dangerous terrain and can even assist with illegal border enforcement operations such as forced interdictions, or “pushbacks.” The EU did not take even a fraction of this position on border technologies.

    While it is promising to see strict regulation of high-risk AI systems such as self-driving cars or medical equipment, why are the risks of unregulated AI technologies at the border allowed to continue unabated? My work over the last six years spans borders from the U.S.-Mexico corridor to the fringes of Europe to East Africa and beyond, and I have witnessed time and again how technological border violence operates in an ecosystem replete with the criminalization of migration, anti-migrant sentiments, overreliance on the private sector in an increasingly lucrative border industrial complex, and deadly practices of border enforcement, leading to thousands of deaths at borders. From vast biometric data collected without consent in refugee camps, to algorithms replacing visa officers and making discriminatory decisions, to AI lie detectors used at borders to discern apparent liars, the roll out of unregulated technologies is ever-growing. The opaque and discretionary world of border enforcement and immigration decision-making is built on societal structures which are underpinned by intersecting systemic racism and historical discrimination against people migrating, allowing for high-risk technological experimentation to thrive at the border.

    The EU’s weak governance on border technologies will allow for more and more experimental projects to proliferate, setting a global standard on how governments will approach migration technologies. The United States is no exception, and in an upcoming election year where migration will once again be in the spotlight, there does not seem to be much incentive to regulate technologies at the border. The Biden administration’s recently released Executive Order on the Safe, Secure, and Trustworthy Development and Use of Artificial Intelligence does not offer a regulatory framework for these high-risk technologies, nor does it discuss the impacts of border technologies on people migrating, including taking a human rights based approach to the vast impacts of these projects on people migrating. Unfortunately, the EU often sets a precedent for how other countries govern technology. With the weak protections offered by the EU AI act on border technologies, it is no surprise that the U.S. government is emboldened to do as little as possible to protect people on the move from harmful technologies.

    But real people already are at the centre of border technologies. People like Mr. Alvarado, a young husband and father from Latin America in his early 30s who perished mere kilometers away from a major highway in Arizona, in search of a better life. I visited his memorial site after hours of trekking through the beautiful yet deadly Sonora desert with a search-and-rescue group. For my upcoming book, The Walls have Eyes: Surviving Migration in the Age of Artificial Intelligence, I was documenting the growing surveillance dragnet of the so-called smart border that pushes people to take increasingly dangerous routes, leading to increasing loss of life at the U.S.-Mexico border. Border technologies as a deterrent simply do not work. People desperate for safety – and exercising their internationally protected right to asylum – will not stop coming. They will instead more circuitous routes, and scholars like Geoffrey Boyce and Samuel Chambers have already documented a threefold increase in deaths at the U.S.-Mexico frontier as the so-called smart border expands. In the not so distant future, will people like Mr. Alvarado be pursued by the Department of Homeland Security’s recently announced robo-dogs, a military grade technology that is sometimes armed?

    It is no accident that more robust governance around migration technologies is not forthcoming. Border spaces increasingly serve as testing grounds for new technologies, places where regulation is deliberately limited and where an “anything goes” frontier attitude informs the development and deployment of surveillance at the expense of people’s lives. There is also big money to be made in developing and selling high risk technologies. Why does the private sector get to time and again determine what we innovate on and why, in often problematic public-private partnerships which states are increasingly keen to make in today’s global AI arms race? For example, whose priorities really matter when we choose to create violent sound cannons or AI-powered lie detectors at the border instead of using AI to identify racist border guards? Technology replicates power structures in society. Unfortunately, the viewpoints of those most affected are routinely excluded from the discussion, particularly around areas of no-go-zones or ethically fraught usages of technology.

    Seventy-seven border walls and counting are now cutting across the landscape of the world. They are both physical and digital, justifying broader surveillance under the guise of detecting illegal migrants and catching terrorists, creating suitable enemies we can all rally around. The use of military, or quasi-military, autonomous technology bolsters the connection between immigration and national security. None of these technologies, projects, and sets of decisions are neutral. All technological choices – choices about what to count, who counts, and why – have an inherently political dimension and replicate biases that render certain communities at risk of being harmed, communities that are already under-resourced, discriminated against, and vulnerable to the sharpening of borders all around the world.

    As is once again clear with the EU’s AI Act and the direction of U.S. policy on AI so far, the impacts on real people seems to have been forgotten. Kowtowing to industry and making concessions for the private sector not to stifle innovation does not protect people, especially those most marginalized. Human rights standards and norms are the bare minimum in the growing panopticon of border technologies. More robust and enforceable governance mechanisms are needed to regulate the high-risk experiments at borders and migration management, including a moratorium on violent technologies and red lines under military-grade technologies, polygraph machines, and predictive analytics used for border interdictions, at the very least. These laws and governance mechanisms must also include efforts at local, regional, and international levels, as well as global co-operation and commitment to a human-rights based approach to the development and deployment of border technologies. However, in order for more robust policy making on border technologies to actually affect change, people with lived experiences of migration must also be in the driver’s seat when interrogating both the negative impacts of technology as well as the creative solutions that innovation can bring to the complex stories of human movement.

    https://www.justsecurity.org/90763/eus-ai-act-falls-short-on-protecting-rights-at-borders

    #droits #frontières #AI #IA #intelligence_artificielle #Artificial_Intelligence_Act #AI_act #UE #EU #drones #Méditerranée #mer_Méditerranée #droits_humains #technologie #risques #surveillance #discrimination #transparence #contrôles_migratoires #Frontex #push-backs #refoulements #privatisation #business #complexe_militaro-industriel #morts_aux_frontières #biométrie #données #racisme #racisme_systémique #expérimentation #smart_borders #frontières_intelligentes #pouvoir #murs #barrières_frontalières #terrorisme

    • The Walls Have Eyes. Surviving Migration in the Age of Artificial Intelligence

      A chilling exposé of the inhumane and lucrative sharpening of borders around the globe through experimental surveillance technology

      “Racism, technology, and borders create a cruel intersection . . . more and more people are getting caught in the crosshairs of an unregulated and harmful set of technologies touted to control borders and ‘manage migration,’ bolstering a multibillion-dollar industry.” —from the introduction

      In 2022, the U.S. Department of Homeland Security announced it was training “robot dogs” to help secure the U.S.-Mexico border against migrants. Four-legged machines equipped with cameras and sensors would join a network of drones and automated surveillance towers—nicknamed the “smart wall.” This is part of a worldwide trend: as more people are displaced by war, economic instability, and a warming planet, more countries are turning to A.I.-driven technology to “manage” the influx.

      Based on years of researching borderlands across the world, lawyer and anthropologist Petra Molnar’s The Walls Have Eyes is a truly global story—a dystopian vision turned reality, where your body is your passport and matters of life and death are determined by algorithm. Examining how technology is being deployed by governments on the world’s most vulnerable with little regulation, Molnar also shows us how borders are now big business, with defense contractors and tech start-ups alike scrambling to capture this highly profitable market.

      With a foreword by former U.N. Special Rapporteur E. Tendayi Achiume, The Walls Have Eyes reveals the profound human stakes, foregrounding the stories of people on the move and the daring forms of resistance that have emerged against the hubris and cruelty of those seeking to use technology to turn human beings into problems to be solved.

      https://thenewpress.com/books/walls-have-eyes
      #livre #Petra_Molnar

  • Nos chats sont-ils des terreurs écologiques ?

    “Les chats sont une #catastrophe pour la #biodiversité. Les chiens sont une catastrophe pour le climat” a affirmé le 13 décembre, sur TF1, le chercheur médiatique #François_Gemenne, ancien membre du GIEC et enseignant à Science Po Paris. En disant cela, il a admis lui-même aborder un sujet sensible, susceptible de déclencher la colère des téléspectateurs. Et cela n’a pas loupé : la séquence a été largement commentée sur les réseaux sociaux, beaucoup de gens – y compris d’autres écologistes – rappelant qu’il y avait beaucoup à faire, par exemple s’en prendre aux grands bourgeois et leur train de vie délirant, avant de s’intéresser à l’impact de nos chats et de nos chiens sur la biodiversité et le #climat. Oui mais ne serions-nous pas des défenseurs de la planète en carton-pâte si nous ne considérions pas honnêtement la #responsabilité des animaux les plus populaires et les plus mignons sur ce qu’il nous arrive ?

    1 – La destruction de la biodiversité a plusieurs causes

    Quand on pense à l’écologie, on pense d’abord au sujet du réchauffement climatique dû à l’impact des activités humaines carbonés. Mais il y a d’autres sujets à prendre en compte parmi lesquels la baisse très rapide de la biodiversité (quantité d’espèces différentes sur la planète). Elle est en chute libre car de nombreux êtres vivants disparaissent du fait de la transformation, par les activités humaines, de leur environnement. C’est pourquoi on parle d’une “#sixième_extinction_de_masse” : une grande partie des espèces qui peuplent la terre pourrait disparaître prochainement. Selon l’Office Français de la Biodiversité, un établissement public créé récemment pour promouvoir la sauvegarde de ces espèces, 68 % des populations de vertébrés (mammifères, poissons, oiseaux, reptiles et amphibiens) ont disparu entre 1970 et 2016, soit en moins de 50 ans. Et rien qu’en 15 ans, 30% des oiseaux des champs ont disparu, ainsi que 38% des chauves-souris. Si jamais on s’en fout royalement de ces animaux, on peut se rappeler que tout est lié et que ces disparitions ont des conséquences sur nos vies, car chacune de ces espèces jouent un rôle au sein d’un #écosystème, et que certaines peuvent ensuite prendre le dessus et devenir envahissantes…

    La France a un rôle particulier à jouer car elle est le 6e pays du monde à héberger des espèces menacées. Qu’est-ce qui, chez nous, contribue à cette #extinction_de_masse ? Comme partout, le #changement_climatique joue un rôle important en déstabilisant la vie et la reproduction de nombre d’espèces. Ensuite, la pollution de l’air, de l’eau et du sol est considérée par l’ONG WWF comme la première cause de perte de biodiversité dans le monde. On peut également citer la transformation de l’usage des #sols, avec le développement de l’agriculture intensive et l’étalement urbain : le premier transforme la végétation, par exemple en détruisant les #haies pour augmenter les surfaces cultivables par des engins de plus en plus gros, ce qui dégomme des lieux de vie pour nombres d’espèces, en particulier les insectes et les rongeurs, dont la disparition affecte ensuite les oiseaux.

    Il faut aussi mentionner la surexploitation des animaux, via la #pêche_intensive mais aussi la #chasse, bien que sur cette dernière activité, le débat fasse rage dans le cas de la France : les défenseurs de la chasse estiment qu’elle contribue à préserver la biodiversité, puisque les chasseurs “régulent” certaines espèces potentiellement envahissantes et relâchent dans la nature des animaux qu’ils élèvent le reste de l’année. Les lobbies de chasseurs dépensent beaucoup d’argent et de temps pour imposer cette réalité dans le débat public, allant jusqu’à dire que les chasseurs sont “les premiers écologistes de France”, mais les faits sont têtus : seuls 10% des oiseaux relâchés par leurs soins survivent car ils sont désorientés, incapables de se nourrir correctement et pas autonome. Quiconque vit en zone rurale connaît le spectacle navrant de ces faisans et autres bécasses qui errent au bord des routes, attirés par la présence humaine, en quête de nourriture… Quant à la “régulation” des #espèces_invasives, il semble que cela soit en grande partie une légende urbaine : “La grande majorité des animaux tués à la chasse, approximativement 90 ou 95 % n’ont pas besoin d’être régulés” explique le biologiste Pierre Rigaud au Média Vert.

    2 – Les espèces invasives, produits du #capitalisme mondialisé

    Mais dans la liste des causes de la baisse de la biodiversité, il faut mentionner l’impact très important des espèces invasives introduites par l’homme dans la nature – on arrive à nos chatons. Dans son dernier rapport, la Plateforme intergouvernementale scientifique et politique sur la biodiversité et les services écosystémiques (IPBES, qui représente 130 gouvernements et publie des rapports réguliers) établit que la “présence cumulative d’#espèces_exotiques s’est accrue de 40% depuis 1980, et est associée à l’intensification des échange commerciaux ainsi qu’à la dynamique et aux tendances démographiques”. Parce que la “#mondialisation” est passée par là, ou, pour le dire clairement, que la #colonisation et la mise sous régime capitaliste du monde entier a eu lieu au cours du XXe siècle, des espèces circulent d’un continent à l’autre et parviennent dans des endroits où elles commettent de gros dégâts sur les espèces endémiques (“endémique” : qui vit dans un lieu donné. S’oppose à “exotique”).

    Le cas du #frelon_asiatique est très symptomatique : cette espèce a débarqué en France, vraisemblablement dans un conteneur venu de Chine, il y a 20 ans et nuit depuis largement à la biodiversité, notamment aux abeilles. 2004, c’est le début de l’intensification des #échanges_commerciaux avec l’Asie du fait de la délocalisation de toute une partie de la production industrielle en Chine, au grand bonheur des entreprises européennes et de leurs profits. Au passage, ils nous ont ramené le frelon.

    Mais nos animaux préférés seraient aussi en cause : les chats sont des mangeurs d’#oiseaux et ont effectivement, comme le dit François Gemenne, une part de responsabilité dans la baisse de la biodiversité… Ce qu’il ne dit pas, c’est qu’ils provoquent autant de mortalité en France et en Belgique que… nos #fenêtres, contre lesquelles les oiseaux se cognent et meurent… Selon le Muséum d’Histoire Naturelle, interrogé par France Info, les chats ne sont pas les principaux responsables de la disparition des oiseaux car ”Leur raréfaction tient avant tout à la disparition des #insectes et la perte d’habitat. Le chat représente toutefois une pression supplémentaire importante sur une population fragilisée.” Ce serait en #ville et sur les #îles que l’impact des chats serait important, et non dans les campagnes, où il est “un prédateur parmi d’autres”.

    3 – Accuser les chats pour préserver les capitalistes ?

    Lorsque l’on regarde les principaux facteurs de chute de la biodiversité dans le monde, on constate que tout à avoir des décisions humaines. Quel type d’#agriculture développons-nous ? Comment construisons-nous nos villes ? A quelle fréquence faisons-nous circuler les marchandises et les animaux entre les différentes parties du monde ? Quelles activités polluantes décidons-nous de réduire et lesquelles nous choisissons de garder ? On est donc très loin d’une simple équation scientifique : face à un problème comme la sixième extinction de masse, ce sont des décisions collectives potentiellement très conflictuelles que nous devons prendre. Qui arrête son activité ? Qui la poursuit ? Qui va continuer à gagner de l’argent ? Qui va devoir perdre une activité très rentable ?

    Puisque le pouvoir, en France comme dans le monde, appartient aux défenseurs du capitalisme, la décision est pour l’instant la suivante : ce qui génère du profit doit continuer à pouvoir générer plus de profit. L’#agriculture_intensive doit donc continuer et se développer. C’est pourquoi, depuis 50 ans, 70% des haies et des #bocages, refuges de biodiversité, ont disparu, et le phénomène s’accélère. Car les lobbies de l’#agriculture_industrielle ont sévi et, encore récemment, ont obtenu de pouvoir continuer leur jeu de massacre. La #pollution des sols et de l’air ? Elle continue. Le #glyphosate, cet #herbicide qui dégomme les insectes et rend les animaux malades, a été autorisé pour 10 années de plus par l’Union Européenne, pour continuer à produire davantage sur le plan agricole, une production qui sera en grande partie exportée et qui contribuera au grand jeu des profits de l’#agroalimentaire

    Les villes et les villages peuvent continuer de s’étendre et c’est flagrant en zone rurale : puisque le marché du logement est dérégulé et qu’il est plus profitable de construire sur terrain nu que de réhabiliter de l’ancien dans les centre-bourgs, les périphéries des petites villes s’étendent tandis que les centres se meurent… L’#étalement_urbain, qui fait reculer la biodiversité, s’étend sous la pression du #marché_immobilier. Là encore, c’est un choix en faveur du capitalisme et au détriment de la biodiversité… Et inutile de parler du réchauffement climatique : la COP 28, dont la délégation française comprenait Patrick Pouyanné, le patron de TotalEnergies, s’est soldée par un “accord pitoyable”, pour reprendre les mots de Clément Sénéchal, spécialiste du climat, dans Politis. Mais François Gemenne, lui, s’en est réjoui avec enthousiasme.

    Le consensus des dirigeants du monde entier est donc le suivant : il ne faut donner aucune véritable contrainte aux marchés qui prospèrent sur la destruction des espèces vivantes sur cette planète. Et en France, puissance agricole, ce constat est encore plus flagrant.

    Alors, que nous reste-t-il ? Les #décisions_individuelles. Ce pis-aller de l’#écologie_bourgeoise qui consiste finalement à dire : “bon, on a tranché, on ne va pas toucher au train-train du capitalisme qui nous plaît tant mais par contre on va vous demander à vous, citoyens, de faire des efforts pour la planète”. Mais attention : sans trop mentionner la consommation de #viande, le seul “#petit_geste” qui a un impact très significatif parce que la consommation de viande est en moyenne la troisième source d’émission carbone des Français (avant l’avion). Les industriels de la viande veillent au grain et ne veulent surtout pas qu’on se penche là-dessus.

    Parler des animaux domestiques s’inscrit dans cette veine-là. Bien sûr que, dans l’absolu, les chats et les chiens ont un impact sur la biodiversité et sur le climat. Car tout a un #impact. Mais d’une part cet impact reste marginal et d’autre part il est non systémique. Certes, le capitalisme a trouvé un bon filon pour faire du profit sur le dos de nos amours pour ces animaux qui apportent de la joie et du bonheur chez de nombreuses personnes, il suffit d’entrer dans une animalerie pour cela : la diversité des aliments, des jouets, des accessoires, le tout dans des couleurs chatoyantes pour appâter le maître bien plus que le chien… Mais lorsque l’on parle des chats qui mangent des oiseaux, on ne parle pas du capitalisme. Pire, on en profite pour masquer l’impact bien plus significatif de certaines activités. Les chasseurs, qui dépensent de lourds moyens pour influencer le débat public et ne reculent devant aucun argument ne s’y sont pas trompés : #Willy_Schraen, le président de la Fédération Nationale des Chasseurs (FNC) a tenté d’orienter, en 2020, l’attention du public sur l’impact des chats, qu’il accuse, ironie du sort, de trop chasser et qu’il a appelé à piéger. Aucune solidarité dans la profession !

    4 – Sortir du discours écolo bourgeois : un mode d’emploi

    Les chats sont bel et bien des chasseurs mais il existe des solutions pour limiter leur impact sur la biodiversité : stériliser le plus souvent possible pour éviter leur prolifération, les faire sortir uniquement à certaines heures de la journée ou… jouer davantage avec eux durant la journée. Pas sûr que les mêmes solutions fonctionnent pour réduire l’impact de la FNSEA, de TotalEnergies, de Lactalis, de la CMA CGM et de tous les milliardaires français : le patrimoine de 63 d’entre eux, en France, émettent autant de gaz à effet de serre que la moitié de la population française.

    Pour amuser vos petites boules de poils, la rédaction de Frustration recommande l’arbre à chat. Pour amuser vos petits milliardaires on recommande la visite de l’épave du Titanic dans un sous-marin peu étanche

    Comment utiliser efficacement son temps d’antenne quand on est un scientifique médiatique comme #François_Gemenne ? On peut se faire mousser en se payant un petit bad buzz par la #culpabilisation des individus possédant un chat. Ou bien on peut prioriser les sujets, étant entendu que dans l’absolu, oui, toutes les activités humaines polluent et ont un impact sur la biodiversité. Comment procéder ?

    - Aller du plus systémique au moins systémique : critiquer le capitalisme (ou ses sous-catégories : marché immobilier, #agro-industrie, industrie pétrolière etc.), qui conduit les entreprises et les individus à chercher la production permanente et l’exploitation permanente dans un monde aux ressources finies, plutôt que les chats, qui se contentent de vivre et de paresser sans chercher à performer ou faire preuve de leur respect de la “valeur travail”.
    - Aller du plus impactant au moins impactant : oui, la nourriture des chiens pollue, mais l’industrie de la viande dans le monde est une bombe climatique. Mais peut-être est-il moins gênant de vexer Frolic et Royal Canin que Fleury Michon et Fabien Roussel ?
    – Aller du plus superflu au moins superflu : dans l’ordre, commencer à interdire les yachts et les vols en jet privé avant de s’en prendre à la voiture individuelle serait une bonne chose. Sans quoi, personne ne comprend la demande d’un effort à forte conséquence sur son mode de vie quand, pour d’autres, ce sont les loisirs qui seraient visés.

    Ensuite, puisqu’il faut trancher, que ces choix se fassent démocratiquement. Pour préserver la biodiversité, préfère-t-on interdire la chasse ou limiter le nombre de chats par personne ? Veut-on sortir du modèle agricole productiviste orienté vers la production de viande ou interdire les chiens ? Et si on rappelait au passage que les #animaux_de_compagnie sont parfois la seule famille des personnes seules et fragilisées, notamment parmi les personnes pauvres, et qu’ils fournissent des services à la population, non quantifiable sur le plan financier ?

    Bref, préférez-vous en finir avec les chatons ou avec la bourgeoisie ? De notre côté, la réponse est toute trouvée.

    https://www.frustrationmagazine.fr/chats-ecologie

    #chats #chat #écologie #animaux_domestiques #industrie_agro-alimentaire #priorité #à_lire

  • BLOOM Association Les mensonges gouvernementaux sur les chalutiers géants - BLOOM Association
    https://bloomassociation.org/le-mensonge-ehonte-du-secretaire-detat-a-la-mer-devant-les-francai

    Le 28 novembre dernier, une digue de plus a lâché.

    Sur le plateau de l’émission « Les super-pouvoirs de l’océan » présentée par Léa Salamé et Hugo Clément, le secrétaire d’État à la mer Hervé Berville a menti aux Françaises et Français de façon répétée et délibérée.

    Il a osé affirmer plusieurs fois que les navires-usines géants et les chalutiers étaient interdits dans les aires marines protégées (AMP) ! Alors qu’il est lui-même l’artisan de cette réalité française aberrante : NON, les engins de pêche destructeurs et la pêche industrielle ne sont pas interdits dans les aires marines protégées.

    Fact-checking d’une parole gouvernementale qui a perdu attache avec la forme la plus élémentaire d’intégrité.

    • Reçu de Bloom, par mail :
      Les lobbies ont gagné
      Oui, le temps d’une manche, les lobbies de la pêche industrielle ont gagné.
      Les temps leur sont particulièrement favorables, on ne va pas se raconter d’histoires, mais ce gouvernement est loin d’être le premier à obéir fidèlement au diktat des lobbies industriels, notamment bretons. La différence aujourd’hui, c’est qu’on est justement en 2023 et que la société tout entière parle de transition, mais la pêche industrielle a réussi à obtenir un passe-droit de l’Élysée lui évitant de remettre en cause ses pratiques destructrices. Deux jours avant le début de la COP28, c’est ce qu’Emmanuel Macron a confirmé à un parterre d’industriels exultant de joie.

      Le Noël des industriels

      Le 28 novembre, c’était Noël avant l’heure pour les partisans des pêches destructrices : alors que le soir, le secrétaire d’État à la mer Hervé Berville protégeait les chalutiers géants en mentant en toute impunité sur les plateaux de télévision, le Président de la République en personne s’adressait l’après-midi même à Nantes aux ardents défenseurs du chalut et de l’économie maritime extractive.
      Dans un discours-fleuve de plus d’une heure aux « Assises de l’économie de la mer », Emmanuel Macron a tenu aux industriels et aux élus le discours de leurs rêves. En substance, il leur a garanti que rien ne changerait jamais, que la recette du désastre pourrait se poursuivre ad vitam aeternam, que les aides au gasoil continueraient à pleuvoir, que le secteur de la pêche industrielle n’aurait jamais à se remettre en question et que la « transition » ne serait ni écologique, ni sociale.
      En somme, le chef de l’État a assuré qu’il n’était nul besoin de remettre en cause le modèle industriel dès lors que celui-ci résumait sa « transition » à la seule décarbonation. Le discours d’Emmanuel Macron était surréaliste. Chez BLOOM, on a dû se pincer pour y croire.
      Aucune mention de la mauvaise santé des écosystèmes marins, de l’extinction de masse des espèces vivantes, de l’impact à proprement parler délirant des pêches industrielles sur la biodiversité (les chaluts sont responsables à 93% de l’ensemble des animaux rejetés morts à la mer par les navires de pêche chaque année en Europe), de la nécessité de restaurer les habitats, de laisser repousser les forêts sous-marines composées de coraux, d’algues corallifères, d’éponges et d’organismes calcaires menacés par l’acidification et le labour des chaluts.
      Aucune mention, cela va sans dire, de la resuspension du carbone stocké dans les sédiments marins par le passage constant des bulldozers sous-marins que sont les chalutiers ni de l’absolue, incontournable, urgentissime nécessité de maintenir les fonctions de régulateur climatique de l’océan.

      Ce que l’Élysée défend : l’importation du poisson par avion

      De justice sociale aussi, nulle mention. Même si en pulvérisant les écosystèmes marins, les pêches industrielles conduisent inévitablement à la ruine sociale et économique.
      Il faut avoir à l’esprit l’histoire récente pour prendre la mesure du modèle que le pouvoir défend : après avoir anéanti les populations de poissons proches des côtes, les chalutiers industriels sont allés plus au large. Ayant fait péricliter les poissons au large, ils sont allés les chercher dans les eaux distantes d’Afrique. Simultanément, ils ont aussi « enfoncé » leurs filets jusqu’à 2000 mètres de profondeur. Ils ont massacré des écosystèmes de coraux d’eau froide aussi vieux que les pyramides d’Égypte et des animaux profonds à la longévité extrême qui avaient jusque-là toujours été épargnés par les filets géants des chalutiers. Ils ont pillé les ressources des pêches vivrières du continent africain et mis en péril des pans indispensables de la sécurité alimentaire du Sud.
      Les pêches industrielles reposent sur une surexploitation séquentielle : la logique financière qui préside à leur modèle impose d’aller chercher toujours plus loin, plus profond, de nouvelles espèces à commercialiser, peu importe le chaos social, peu importe la destruction de masse du vivant et la déforestation sous-marine à grande échelle.
      La pêche industrielle est irresponsable, vorace et immorale. Osons le mot.
      Voyez ce que le port de Lorient s’apprête à faire pour comprendre que le drame ne prendra fin qu’avec la disparition de la pêche industrielle.
      Lorient, premier port industriel de France, premier responsable de la ruine des pêcheurs artisans français et du siphonnage des eaux de l’Atlantique Nord-Est, est en train d’investir au Sultanat d’Oman dans la construction d’un port immense pour piller les eaux encore intactes de la Mer d’Arabie et importer à terme du poisson… par avion !
      Voilà le modèle ahurissant que soutient notre gouvernement.
      Il arrive que les lobbies gagnent la bataille, mais ils doivent perdre la guerre

      Le 10 décembre 2013, il y a exactement dix ans, lors d’un vote cataclysmique à Bruxelles, le Parlement européen se prononçait en faveur de la destruction des océans profonds. Toutes les magouilles avaient été déployées contre la mobilisation citoyenne et scientifique orchestrée par BLOOM en vue d’interdire le chalutage en eaux profondes. L’ordre de vote avait été changé à la dernière minute, certains députés s’étaient sincèrement trompés, d’autres avaient fait semblant de se tromper pour être fidèles aux lobbies…
      Après quatre ans de campagne contre l’aberration du chalutage en eaux profondes, nous perdions le vote à neuf voix près. C’était un coup terrible.
      On aurait pu s’avouer vaincus. C’était très mal engagé, les lobbies avaient rallié à leur cause les États membres et le Parlement européen, l’horizon était bouché. Mais ce n’était pas juste. Ce n’était pas acceptable. Si nous jetions l’éponge, alors qui allait défendre les écosystèmes profonds ? Qui allait dénoncer ce modèle de ravages et de ruines de la pêche industrielle ? Qui se battrait pour l’intégrité physique et biologique de l’océan face au changement climatique et à la disparition des espèces ?
      La raison disait « c’est impossible à gagner ». Le cœur disait « plutôt mourir que d’abandonner ».
      Nous avons poursuivi le combat. Avec vous à nos côtés. Vous avez mis une telle pression à Intermarché, dont les flottes étaient les acteurs dominants de la pêche profonde, que nous avons fini par gagner. Il a fallu trois ans de plus, mais en juillet 2016, le chalutage en eaux profondes était interdit dans toutes les eaux de l’Union européenne.
      Voilà ce que nous devons recommencer. Gagner coûte que coûte.
      C’est notre persévérance à toute épreuve et votre mobilisation indéfectible à nos côtés qui peuvent et qui DOIVENT façonner le monde pour nous protéger des dégâts irréparables causés par une poignée d’individus et de corporations sans foi ni loi.

  • Retard dans la délivrance de passeports : Les mesures d’urgences prises par l’ambassade du Sénégal au Canada
    https://www.dakaractu.com/Retard-dans-la-delivrance-de-passeports-Les-mesures-d-urgences-prises-par

    Retard dans la délivrance de passeports : Les mesures d’urgences prises par l’ambassade du Sénégal au Canada
    L’ambassade du Sénégal au Canada informe ses ressortissants qui sont enrôlés dans la période du 10 juillet au 16 octobre 2023, que « la valise biométrique confiée à FEDEX, pour expédition à Dakar, aux fins de production des passeports, n’est toujours pas arrivée à destination ». Dans son communiqué, l’ambassade informe que « FEDEX, qui a scanné le colis, le 28 octobre 2023, dans ses entrepôts de Memphis (États-Unis d’Amérique), ne parvient plus, depuis cette date, à en donner une localisation exacte ». D’où la décision de prendre des mesures dérogatoires pour les demandeurs, de recevoir leurs passeports. L’ambassade du Sénégal au Canada décide de reprendre l’enrôlement de ressortissants concernés. L’ambassade informe qu’une « nouvelle valise biométrique est mise à sa disposition à Ottawa par le ministère de l’intérieur pour que les opérations d’enrôlement des demandeurs de passeports reprennent.
    Ainsi, apprend le communiqué, en vue de la poursuite des opérations de recherche de la valise retardée, « les équipes de l’Ambassade sont en train de contacter les compatriotes impactés pour les modalités liées à leur nouvel enrôlement. Lesdites modalités, parmi lesquelles le déploiement de missions mobiles à Québec et à Montréal, feront l’objet d’un communiqué ultérieur ». Aussi, des dispositions spéciales sont en train d’être prises par les autorités pour qu’à la fin des opérations d’enrôlement, les passeports puissent être produits en urgence, dans les semaines à venir, au niveau du Consulat général du Sénégal à New York.
    Il y aura aussi une prorogation d’une année, à titre dérogatoire, des passeports dont la date d’expiration est imminente. D’après le communiqué, « les compatriotes, dont le passeport expire en décembre 2023 ou janvier 2024, peuvent exceptionnellement, en obtenir la prorogation d’une année. Pour ce faire, il leur faut se présenter à l’Ambassade, munis de l’original du passeport et de leur récépissé d’enrôlement ; ou envoyer à l’Ambassade, l’original du passeport à proroger et le récépissé d’enrôlement, en prenant le soin d’y joindre une enveloppe retour Xpress Post portant leur adresse exacte à la place destinataire (préciser, s’il y a lieu, le numéro d’appartement). L’Ambassade, qui reste saisie de cette question, informera les usagers de toute évolution à ce sujet.

    #Covid-19#migrant#migration#canada#senegal#passeport#biometrie

  • Lecture d’un extrait du livre « La dernière place » de Négar Djavadi, paru aux Éditions Stock, en 2023.

    https://liminaire.fr/radio-marelle/article/la-derniere-place-de-negar-djavadi

    Le vol PS752 reliant Téhéran à Kiev s’écrase quelques minutes après son décollage, le 8 janvier 2020. La dernière place, c’est celle qu’a prise, en dernière minute, repoussant son départ initial, la cousine de l’autrice. Négar Djavadi propose une plongée lucide et saisissante dans la dictature iranienne, retraçant méticuleusement les événements à l’origine de ce drame : les tensions entre l’Iran et les États-Unis, les risques de représailles et d’escalade, puis les mensonges du gouvernement pour tenter de dissimuler la responsabilité iranienne d’un tir de missile.

    (...) #Radio_Marelle, #Écriture, #Langage, #Essai, #Livre, #Lecture, #En_lisant_en_écrivant, #Podcast, #Famille, #Mémoire, #Biographie, #Iran, #Ukraine, #Politique, #Aviation, #Littérature (...)

    https://liminaire.fr/IMG/mp4/en_lisant_la_dernie_re_place_ne_gar_djavadi.mp4

    https://www.editions-stock.fr/livres/la-derniere-place-9782234093942

  • #Interpol makes first border arrest using Biometric Hub to ID suspect

    Global database of faces and fingerprints proves its worth.

    European police have for the first time made an arrest after remotely checking Interpol’s trove of biometric data to identify a suspected smuggler.

    The fugitive migrant, we’re told, gave a fake name and phony identification documents at a police check in Sarajevo, Bosnia and Herzegovina, while traveling toward Western Europe. And he probably would have got away with it, too, if it weren’t for you meddling kids Interpol’s Biometric Hub – a recently activated tool that uses French identity and biometrics vendor Idemia’s technology to match people’s biometric data against the multinational policing org’s global fingerprint and facial recognition databases.

    “When the smuggler’s photo was run through the Biometric Hub, it immediately flagged that he was wanted in another European country,” Interpol declared. “He was arrested and is currently awaiting extradition.”

    Interpol introduced the Biometric Hub – aka BioHub – in October, and it is now available to law enforcement in all 196 member countries.

    Neither Interpol nor Idemia immediately responded to The Register’s questions about how the technology and remote access works.

    But Cyril Gout, Interpol’s director of operational support and analysis, offered a canned quote: “The Biometric Hub helps law enforcement officers know right away whether the person in front of them poses a security risk.”

    That suggests Interpol member states’ constabularies can send biometric data to BioHub from the field and receive real-time info about suspects’ identities.

    The multinational policing org has said that Hub’s “biometric core” combines Interpol’s existing fingerprint and facial recognition databases, which both use Idemia tech, with a matching system also based on Idemia’s biometric technology.

    Interpol and Idemia have worked together for years. In 1999, he police organization chose Idemia to develop its fingerprint database, called the Automated Fingerprint Identification System (AFIS). And then in 2016, Interpol inked another contract with Idemia to use the French firm’s facial recognition capabilities for the Interpol Face Recognition System (IFRS).

    According to Idemia, the latest version of its Multibiometric Identification System, MBIS 5, uses “new generation algorithms which provide a higher matching accuracy rate with a shorter response time and a more user-friendly interface.”

    In its first phase, Interpol will use MBIS 5 to identify persons of interest (POIs) for police investigations.

    A second phase, which will take two years to become fully operational, will extend the biometric checks to border control points. During this phase the system will be able to perform up to one million forensic searches per day – including fingerprints, palm prints, and portraits.

    Interpol expects the combined fingerprints and facial recognition system will speed future biometric searches. Instead of running a check against separate biometric databases, BioHub allows police officers to submit data to both through one interface, and it only requires human review if the “quality of the captured biometric data is such that the match falls below a designated threshold.”

    To address data governance concerns, Interpol claims BioHub complies with its data protection framework. Additionally, scans of faces and hands uploaded to the Hub are not added to Interpol’s criminal databases or made visible to other users. Any data that does not result in a match is deleted following the search, we’re told.

    While The Register hasn’t heard of any specific data privacy and security concerns related to BioHub, we’re sure it’s only a matter of time before it’s misused.

    America’s Transportation Security Agency (TSA) over the summer also said it intends to expand its facial recognition program, which also uses Idemia’s tech, to screen air travel passengers to 430 US airports. The TSA wants that capability in place within ten years.

    The TSA announcement was swiftly met with opposition from privacy and civil rights organizations, along with some US senators who took issue [PDF] with the tech.

    https://www.theregister.com/2023/12/01/interpol_biohub_arrest

    #frontières #contrôles_frontaliers #technologie #empreintes_digitales #biométrie #Interpol #migrations #asile #réfugiés #Biometric_Hub #Balkans #route_des_Balkans #Bosnie-Herzégovine #Idemia #reconnaissance_faciale #passeurs #BioHub #extradition #sécurité #risque #interopérabilité #base_de_données #Automated_Fingerprint_Identification_System (#AFIS) #Interpol_Face_Recognition_System (#IFRS) #Multibiometric_Identification_System #MBIS_5 #algorithmes #persons_of_interest (#POIs) #portraits #Transportation_Security_Agency (#TSA)

  • Lecture d’un extrait du livre « L’Alligator albinos » de Xavier Person, paru aux Éditions Verticales, en 2023.

    https://liminaire.fr/radio-marelle/article/l-alligator-albinos-de-xavier-person

    Récit personnel sur une histoire familiale complexe, ce livre est traversé de réflexions sur l’état du monde, le dérèglement climatique dont l’auteur décrit les signes inquiétants, de références à de nombreux auteurs et artistes dont il fait résonner les pensées en écho, comme celles de Walter Benjamin pour : « transformer intellectuellement ce qui a déjà eu lieu avec la rapidité et l’intensité du rêve, afin de faire l’expérience, sous la forme du monde éveillé, du présent auquel chaque rêve renvoie en dernière analyse. » Ce récit intime et mélancolique tente de faire le deuil du monde d’avant.

    (...) #Radio_Marelle, #Écriture, #Langage, #Essai, #Livre, #Lecture, #En_lisant_en_écrivant, #Podcast, #Famille, #Mémoire, #Biographie, #Écologie, #Littérature (...)

    https://liminaire.fr/IMG/mp4/en_lisant_l_alligator_albinos_xavier_person.mp4

    http://www.editions-verticales.com/fiche_ouvrage.php?rubrique=3&id=482

  • Rezension zu: Helmut Schmidt
    https://www.hsozkult.de/publicationreview/id/reb-24837

    Claudia Hiepel, Historisches Institut, Universität Duisburg-Essen - Die geradezu kultische Verehrung, die Helmut Schmidt in seinen letzten Lebensjahren in der Öffentlichkeit erfuhr, kontrastiert merkwürdig mit dem doch eher kritischen Bild während seiner Kanzlerschaft in den Jahren 1974–1982. Zwei biographische Arbeiten über den 2015 verstorbenen Bundeskanzler a.D. Helmut Schmidt gehen diesem scheinbaren Widerspruch nun aus unterschiedlichen Perspektiven auf den Grund.

    Kristina Spohr, Associate Professor für Internationale Geschichte an der London School of Economics, behandelt die acht Jahre seiner Kanzlerschaft und konzentriert sich dabei inhaltlich auf die globale Wirtschafts- und Sicherheitspolitik. Anhand umfangreicher Quellenrecherchen im Privatarchiv Helmut Schmidts wie in weiteren Archiven in Deutschland, Großbritannien und den USA liefert sie eine Analyse dieser beiden Pfeiler der Außenpolitik Schmidts. Sie setzt ihm postum ein Denkmal als „Weltkanzler“, der eine einflussreiche weltpolitische Rolle gespielt und Entwicklungen angestoßen habe, die in ihren Nachwirkungen bis in die Gegenwart hineinragen. Im Gegensatz zur positiven öffentlichen Wahrnehmung Schmidts werde seine Rolle jedoch von der wissenschaftlichen Forschung nicht hinreichend gewürdigt. Schon die zeitgenössische Rezeption seiner Kanzlerschaft fiel nicht uneingeschränkt positiv aus. Für den „SPIEGEL“ war Helmut Schmidt im Herbst 1982, kurz vor dem Misstrauensvotum im Bundestag, ein guter Kanzler mit schlechter Bilanz – sein ständiger Rivale Willy Brandt hingegen ein schlechter Kanzler mit guter Bilanz.[1] Die Wissenschaft verwehrte Schmidt laut Spohr zu Unrecht den Platz in der „hall of fame“ (S. 11) der ganz großen Kanzler der Bundesrepublik. Den meisten galt er als ,bloßer‘ Macher und Krisenmanager, aber nicht als eigenständiger Denker und Stratege. Selbst sein politischer Freund Henry Kissinger schrieb ihm lediglich die Rolle eines „Übergangskanzlers“ (S. 299) in einem schwierigen Krisenjahrzehnt zu, der aber nichts Bleibendes, nichts historisch Herausragendes hinterlassen habe.

    Aus Sicht Spohrs sind dies krasse Fehlurteile über einen Politiker, dessen Fähigkeiten und Qualitäten ihn weit über das Normalmaß hinaushoben. Schmidt war für die Autorin vielmehr einer derjenigen Kanzler, mit denen die kleine Bundesrepublik gleichsam in eine internationale Liga aufstieg, in der sie als nicht-nuklearer und halb-souveräner Staat eigentlich nicht als gleichberechtigter Mitspieler oder gar Spielführer vorgesehen war. Schmidts Expertise, seine außergewöhnliche Fähigkeit zu konzeptionellem Denken und die daraus resultierende politische Praxis weisen für Spohr „Merkmale echter Staatskunst“ auf (S. 16). Er habe als „Verteidigungsintellektueller“ und „Weltökonom“ brilliert; er sei der Zeit und den Zeitgenossen weit vorausgewesen, indem er die neuen Anforderungen erkannt habe, die die zunehmende Interdependenz der Staatenwelt in den 1970er-Jahren an die Nationalstaaten und ihre Akteure herantrug.

    Als Schmidt nach dem Rücktritt Brandts das Amt des Bundeskanzlers übernahm, war das drängendste Problem die globale Wirtschafts- und Währungskrise, verbunden mit dem Ende des Währungssystems von Bretton Woods 1973, dem Floating der Währungen, der Ölkrise 1973/74, Inflation und Arbeitslosigkeit. Die Krise der 1930er-Jahre vor Augen, sah Schmidt Demokratie und Weltfrieden gleichermaßen bedroht. Eine isolierte nationale Lösung hielt er angesichts der zunehmenden wechselseitigen Abhängigkeiten und Verflechtungen nicht für möglich. Weltwirtschaft wurde zur Kernaufgabe der Staats- und Regierungschefs der führenden Industrienationen, die erstmals 1975 in Rambouillet zu alljährlichen Gipfeltreffen zusammenkamen. Schmidt war maßgeblich an der Implementierung dieser Gipfel beteiligt, ein als Krisenmechanismus entstandenes multilaterales Forum, das bis heute Bestand hat und aus der internationalen Politik nicht wegzudenken ist. Das Europäische Währungssystem (EWS), das Schmidt mit dem französischen Staatspräsidenten Giscard d’Estaing initiierte und das die Wechselkursstabilität innerhalb der Europäischen Gemeinschaft sichern sollte, ist als Antwort auf die Krise der 1970er-Jahre zu sehen und zugleich als Vorgeschichte des Euro. Beides, G7-Gipfel und EWS, lassen sich mit einiger Berechtigung auf der Habenseite der Kanzlerschaft Schmidts verbuchen.

    Aber auch bei den großen sicherheitspolitischen Themen der Zeit ist die Sache für Spohr klar: Die von Schmidt lancierte NATO-Doppelstrategie könne als Vorgeschichte der Abrüstungsverhandlungen zwischen Gorbatschow und Reagan betrachtet werden und als „wichtiger Beitrag zur Entschärfung des Kalten Krieges“ (S. 17). Die „Staatskunst“ Schmidts basierte demnach auf einer Kombination aus intellektueller Durchdringung eines komplexen Gegenstandes und einer den Realitäten angemessenen, im Prinzip alternativlosen Strategie, die er in politische Entscheidungsmacht transformieren konnte. Ähnlich wie in ökonomischen Fragen habe Schmidt auch hier auf seine Kompetenz bauen können. Seit den 1950er-Jahren gehörte er zu den wenigen sicherheitspolitischen Experten in der SPD. Spohr spart wiederum nicht mit Superlativen: Als „Vordenker in Verteidigungsfragen“ sei Schmidt in der Bundesrepublik „konkurrenzlos“ gewesen (S. 77).

    Militärisches Gleichgewicht war das zentrale Credo von Schmidts sicherheitspolitischen Vorstellungen. Dieses sah er mit dem Beschluss der Sowjetunion zur Stationierung der SS 20-Raketen bedroht. Schon 1977 entwickelte er eine Doppelstrategie: Rüstungsbegrenzung war das Ziel, aber im Zweifel sollte die Aufstockung des Waffenarsenals erfolgen. Spohr kann anhand zahlreicher Äußerungen Schmidts nachweisen, dass dieser immer eine Null-Lösung bevorzugt hätte. Dennoch hielt er an einer „ziemlich mechanischen Vorstellung“[2] von militärischem Gleichgewicht fest, wonach die strategische Parität bei den Mittelstreckenwaffen nicht mehr gewährleistet sei und daher die westliche Seite nachziehen müsse. Diese Auffassung teilte man in der US-Administration durchaus nicht. Antworten auf die Modernisierung des sowjetischen Waffenarsenals hätte es auch jenseits der Stationierung neuer Raketensysteme gegeben, und das strategische Gleichgewicht war nicht zwangsläufig aus den Fugen geraten. Der NATO-Doppelbeschluss vom Dezember 1979 war daher vor allem das Ergebnis der beharrlichen Interventionen Schmidts.

    Neuland zu betreten ist bei diesem mittlerweile gut erforschten Thema schwierig. Spohrs Verdienst ist es, hier sehr tief in die Feinheiten der sicherheitspolitischen Implikationen einzelner Waffensysteme einzudringen. Die Autorin zeichnet zudem ein farbiges Bild der Gipfeldiplomatie, das mitunter beim Lesen das Gefühl hervorruft, mit am Verhandlungstisch zu sitzen. Allerdings birgt diese Erzählweise die Gefahr des Distanzverlustes, vor der Spohr leider nicht gefeit ist. Sie erzählt die Geschichte konsequent aus der Perspektive ihres Protagonisten. Der Bewunderung für Schmidt lässt sie dabei freien Lauf. Lediglich seine Launenhaftigkeit und Arroganz werden kritisch angemerkt (S. 312). Dass er damit maßgeblich für das zerrüttete Verhältnis zum US-Präsidenten Carter verantwortlich war, spricht nicht für seine „Staatskunst“.

    In einem Anflug von Überidentifikation übernimmt Spohr bestimmte Feindbilder Schmidts. Egon Bahr wird hier zum „Quälgeist“ (S. 123), der aus Eitelkeit und Opportunismus einen Proteststurm gegen Neutronenbombe und Nachrüstung inszenierte, den es ohne ihn nicht gegeben hätte. Dass Bahr und andere Kräfte in der SPD aus Überzeugung und aus einem anderen Sicherheitsverständnis heraus handelten, zieht Spohr nicht einmal in Erwägung, wie überhaupt der linke Flügel in der SPD und die Friedensbewegung nur als lästige Störfaktoren wahrgenommen werden. Von einer kritisch-reflektierenden Zeitgeschichtsschreibung wären differenziertere Urteile zu erwarten.

    Die Marginalisierung anderer Akteure gehört ebenfalls zu den Fallstricken biographischen Erzählens. Ohne die enge Kooperation und politische Freundschaft mit Giscard d’Estaing aber wären weder die G7-Gipfel zustande gekommen noch das EWS. Überhaupt waren Gipfeltreffen als Kriseninterventionsmechanismus nicht neu, sondern wurde bereits seit 1969 erfolgreich im Rahmen der Europäischen Gemeinschaft angewandt. Und auch bei der NATO-Doppelstrategie spielten Giscard und der britische Premierminister Callaghan auf der Konferenz von Guadeloupe 1979 eine wichtige Rolle, als sie gemeinsam auf den US-Präsidenten einwirkten.

    Zuzustimmen ist Spohr, dass die „langen“ 1970er-Jahre keine bloße Übergangsperiode waren, sondern als eine Art Frühgeschichte der zweiten Globalisierung zu lesen sind, die von den Zeitgenossen wahrgenommen, aber noch nicht so bezeichnet wurde. Damit allerdings rennt man in der Forschung offene Türen ein. Helmut Schmidt spielte in diesem Kontext sicher eine wichtigere Rolle als bislang wahrgenommen. Ihn als „Weltkanzler“ derart herauszuheben schießt aber über das Ziel hinaus.

    Thomas Karlaufs Schmidt-Biographie tappt nicht in die biographische Falle. Ihm gelingt es, sich seinen Helden „vom Leib zu halten“ (Christian Meier), obgleich er Schmidt als dessen langjähriger Lektor auch persönlich sehr gut kannte. Er genoss das Vertrauen des Altkanzlers und hatte uneingeschränkten Zugang zum Privatarchiv und zu Schmidt selbst, mit dem er in ständigem Kontakt stand. Trotz dieser Nähe ist ihm ein ausgewogenes, nüchternes und facettenreiches, mitunter auch kritisches Porträt Schmidts gelungen.

    Es geht um die „späten Jahre“ vom Kanzlersturz 1982 bis zu Schmidts Tod, immerhin 33 Jahre, in denen Schmidt „außer Dienst“, aber in der Öffentlichkeit präsent war. Während dieser Zeit avancierte er zum Welterklärer und Idol der Deutschen, der sich gerade im letzten Jahrzehnt immenser Beliebtheit erfreute. Karlauf erzählt diese zweite Karriere Schmidts als Elder Statesman – ohne politisches Amt, aber nicht ohne politischen Einfluss. Karlauf sucht die Gründe und Hintergründe für diese einzigartige Rolle, die Schmidt als „Altkanzler“ in der Geschichte der Bundesrepublik auch nach seinem Sturz spielte. Der späte Ruhm speiste sich demnach aus zwei Quellen: zum einen aus der Sehnsucht der Deutschen nach Orientierung, zum anderen aus Schmidts besonderer Fähigkeit, auch komplizierte Dinge verständlich darzustellen und die langen Linien der Entwicklung im Blick zu haben.

    Das Zusammenspiel dieser Faktoren ergab sich nicht von allein, und Karlauf verfolgt die Genese in seiner chronologischen Darstellung. Nach dem Schock des Kanzlersturzes und dem Verlust der politischen Ämter gab es zunächst „Jahre der Zurückhaltung“ (1982–1990, Teil I), in denen Schmidt versuchte, mit sich und der Partei ins Reine zu kommen. Die Tätigkeit als Herausgeber bei der ZEIT half ihm, über den Bedeutungsverlust hinwegzukommen und die Basis für seine zweite Karriere zu legen. Es folgten „Jahre der Einmischung“ (1991–2003, Teil II), in denen Schmidt seine vielfältigen internationalen Netzwerke ausbaute und in verschiedenen Organisationen und Diskussionsforen Einfluss nahm auf die politischen Debatten. Erst spät beschritt er dann die „Wege des Ruhms“ (2003–2015, Teil III), die ihn zu dem unantastbaren Status führten, den er bis zu seinem Tod innehatte. Er besaß eine Autorität wie kaum ein anderer ehemaliger Politiker. Am ehesten wäre Brandt zu nennen, der aber als Parteivorsitzender noch lange nach seiner Kanzlerschaft auf ganz andere Weise in den politischen Betrieb eingebunden war. Sicher spielte auch Kohls Gegenwart eine Rolle, die Schmidts Vergangenheit gleichsam vergoldete (S. 199). Als „Kanzler der Einheit“ hätte Kohl seinem Vorgänger dennoch Konkurrenz machen können. Bezeichnenderweise aber begann der Aufstieg des einen Altkanzlers mit dem Abstieg des anderen im Zuge der CDU-Spendenaffäre um das Jahr 2000.

    Dass Schmidt sehr konsequent an seinem Bild für die Geschichtsbücher arbeitete, hat man immer schon geahnt. Wie intensiv, mit welchen Finessen und welcher Beharrlichkeit, das erhält man hier kenntnisreich und überzeugend belegt. Seine mehrbändigen, vielgelesenen Memoiren, die in jahrelanger sorgfältiger Arbeit entstanden, sollten ebenso dazu beitragen wie alle anderen schriftlichen und mündlichen Äußerungen Schmidts. Seine Geschichtsdeutung begann bereits mit seinem Sturz 1982. Schon hier ließ er sich, obwohl in der Defensive, das Heft des Handelns nicht aus der Hand nehmen und arbeitete an dem Bild vom „Verrat“ der FDP. Tatsächlich waren es die auseinanderdriftenden wirtschaftspolitischen Vorstellungen in der Krise, die den sich lange ankündigenden Sprung der FDP begründeten. Vor allem aber ging es Schmidt darum, die SPD unbeschädigt aus der Krise herauszubringen. Es war die Version der CDU, dass der Kanzler an seiner eigenen Partei gescheitert sei – eine Auffassung, die im Übrigen bei Kristina Spohr durchklingt. Das Leiden an der störrischen, von Linkskräften dominierten SPD, die dem eigentlich vernünftigen und alternativlosen Kurs des Kanzlers nicht habe folgen wollen, ist bei Spohr eine ständig durchklingende Melodie. Karlauf dagegen weist in diesem Zusammenhang auf eine Selbstverständlichkeit hin: Die Partei ist ein Ort der politischen Willensbildung und insofern nicht zu übergehen oder abzutun. Das war auch Schmidt bewusst, der intensiv für seinen Kurs warb – mit dem Ergebnis, dass die SPD ihm auf dem Parteitag im April 1982 durchaus (noch) folgte. Die eigentliche Zerreißprobe blieb Schmidt erspart, denn die definitive Entscheidung über den zweiten Teil des Doppelbeschlusses, die Stationierung, stand erst im Herbst 1983 an. Hier wäre die Partei Schmidt vermutlich in der Tat nicht mehr gefolgt. Dass die SPD aber auch später das Ende des Kalten Krieges nicht ihm, sondern der Friedenspolitik Brandts zuschrieb, schmerzte ihn sehr.

    Schmidt wollte nicht als Krisenmanager oder Übergangskanzler in die Geschichte eingehen, sondern als Europapolitiker, als Weltökonom und Sicherheitsexperte. Kristina Spohr leitet dieses Bild aus der „realen“ Außenpolitik seiner Kanzlerjahre ab. Thomas Karlauf macht hingegen deutlich, wie sehr diese Sicht das Ergebnis einer retrospektiven Geschichtskonstruktion ist. Ob das Krisenmanagement bei der Sturmflut in Hamburg 1962 oder Schmidts Geradlinigkeit gegenüber dem Terror der Roten Armee Fraktion dieses gewünschte Narrativ nicht doch am Ende überlagern werden, muss die Zukunft zeigen.

    Spohr, Kristina: Helmut Schmidt. Der Weltkanzler. Aus dem Englischen von Werner Roller. Darmstadt 2016 : Theiss Verlag, ISBN 978-3-8062-3404-6 384 S., 17 SW-Abb. € 29,95

    Karlauf, Thomas: Helmut Schmidt. Die späten Jahre. München 2016 : Siedler Verlag, ISBN 978-3-8275-0076-2 555 S. € 26,99

    Anmerkungen:
    [1] Wolfram Bickerich, Dreizehn Jahre geliehene Macht, in: SPIEGEL, 27.09.1982, S. 40–56, hier S. 40, http://www.spiegel.de/spiegel/print/d-14353616.html (07.06.2017).
    [2] Wilfried Loth, Die Rettung der Welt. Entspannungspolitik im Kalten Krieg 1950–1991, Frankfurt am Main 2016, S. 205.

    #Allemagne #histoire #politique #SPD #social-démocrates #biographie

  • Die Welt : Sabine Pamperriens Biografie wird Helmut Schmidt nicht gerecht
    https://www.welt.de/geschichte/zweiter-weltkrieg/article135130653/So-eine-Biografie-verdient-Helmut-Schmidt-nicht.html

    Helmut Schmidt avait vingt ans en 1935 et trente en 1945. Il fait partie de le génération qui a rendu possible la guerre allemande et les méfaits des nazis. Le journaliste du journal de droite Die Welt pense au contraire que les allemandes de l’age de H.S. étaient trop jeunes pour être responsables de quoi que ce soit. Le mensonge national sépare toujours la majorité conservatrice des provinces allemandes de leurs compatriotes oeuvrant pour le progrès social et la paix dans le monde. Pour la droite une biographie critique de la jeunesse du grand homme ne peut contenir que de fausses dénonciations.

    He’s the one who gives his body as a weapon of the war
    And without him all this killing can’t go on.

    Buffy Sainte-Marie, Universal Soldier , 1964

    8.12.2023 von Sven Felix Kellerhoff - Die Journalistin Sabine Pamperrien wollte den Erfahrungen Helmut Schmidts im Zweiten Weltkrieg nachforschen. Doch ihr Buch geht an der Wirklichkeit des Lebens im Nationalsozialismus weit vorbei.

    Exakte Erinnerung gehört nicht zu den allergrößten Stärken von Helmut Schmidt. Und das liegt keineswegs nur an seinem Alter von inzwischen fast 96 Jahren – Geburtstag feiert der mit weitem Abstand beliebteste Ex-Politiker der Deutschen kurz vor Weihnachten. Bekanntermaßen hat der Altkanzler die Neigung, unangenehme Dinge tatsächlich oder angeblich zu vergessen. Legendär ist sein Satz „Das erinnere ich nicht!“ in Interviews, wenn es etwa um den Preis für die Erlaubnis geht, die deutschen Geiseln 1977 aus der Lufthansa-Boeing in Mogadischu zu befreien.

    Erstaunlich deshalb, dass die Journalistin Sabine Pamperrien in ihrer jetzt erschienenen Biografie „Helmut Schmidt und der Scheißkrieg“ über sein Leben in den Jahren 1918 bis 1945 mit dem Gegenteil der bekannten Tatsache einsteigt: „Schmidt ist berühmt für sein glänzendes Gedächtnis“.

    Schon bald zeigt die Lektüre, dass die Autorin diese falsche Prämisse unbedingt braucht. Denn ihr Buch besteht wesentlich aus der Konfrontation von Schmidts zahlreichen Äußerungen über seine Jugend und Soldatenzeit mit in Akten überlieferten Darstellungen.

    Das ist keineswegs grundsätzlich illegitim. In Pamperriens Fall jedoch war es zugleich die einzige Möglichkeit, ihr Projekt zu vollenden. Denn offenbar entzog der Protagonist der Autorin die Unterstützung, als er erkannte, in welche Richtung die Biografie sich entwickelte.
    Sabine Pamperrien: Helmut Schmidt und der Scheißkrieg. Die Biografie 1918 bis 1945. Piper Verlag München. 352 S., 19,99 Euro.

    Sabine Pamperrien: Helmut Schmidt und der Scheißkrieg. Die Biografie 1918 bis 1945. Piper Verlag München. 352 S., 19,99 Euro.

    Quelle: Piper Verlag

    Jedenfalls gibt Pamperrien offen zu: „Trotz anfänglich positiver Signale“ zu ihrem Buchprojekt habe Schmidt „nicht zur Beseitigung von Widersprüchen und Unklarheiten“ beigetragen. „Alle an ihn gerichteten Fragen und Bitten um Stellungnahmen blieben unbeantwortet.“

    Wer das Ergebnis betrachtet, versteht warum. So hält die Autorin fest: „Klare Strukturen und Ordnungen, Kameradschaft als Einstehen für den anderen, Fürsorge für den Schwächeren: das sind die Werte, die Helmut Schmidt im Innersten prägen.“ Das stimmt sicher, und es ist uneingeschränkt positiv.

    Bei Pamperrien aber liest es sich unangenehm ähnlich wie der infame Vorwurf des damaligen SPD-Nachwuchsstars Oskar Lafontaine. Der hatte Schmidt 1982 „Sekundärtugenden“ vorgeworfen, mit denen man „auch ein KZ betreiben“ könne.

    Zwar schreibt die Autorin, die bisher lediglich zwei Bücher über die Rezeption von Heiner Müllers Werken und über den DDR-Schriftstellerverband veröffentlicht hat: „Verwunderlich ist, wie schwer Schmidt sich mit seiner eigenen Geschichte tut, obwohl kaum jemand seiner Generation (und schon gar nicht ihm, zu Recht) die Verstrickung zum Vorwurf macht.“

    Doch beim Lesen des Buches stellt sich ein anderer Eindruck ein. Seite für Seite treffen den Altkanzler Vorwürfe wegen seines Lebens während des NS-Regimes und des Zweiten Weltkrieges. Fast genauso häufig wundert man sich über die nicht offen ausgesprochene, aber stets zu spürende Unterstellung, Schmidt habe seine eigene Vergangenheit bewusst verbogen.

    Schmidts Erinnerung entspricht in mehr als einem Detail nicht der Aktenlage

    Etwa 20 Seiten des Kapitels „Hitler-Jugend“ sind den „Widersprüchen“ gewidmet, eingeleitet von gleich zweimal derselben These: Schmidt erinnere sich falsch. Mal heißt es „an eine andere Version“, mal: „Schmidts Erinnerung entspricht in mehr als einem Detail nicht der Aktenlage.“

    Zum Problem wird diese schlichte Banalität nur, weil Pamperrien eingangs zu Unrecht das vermeintlich hervorragende Gedächtnis des Altkanzlers so sehr gelobt hat. Es wäre von jedem Menschen zu viel verlangt, dass er sich Einzelheit für Einzelheit an die Version seines Lebens erinnert, die etwa in Schul- oder Sportvereinsakten steht. Die übrigens auch nicht immer die reine Wahrheit enthalten.

    Ist Helmut Schmidt nun freiwillig oder unfreiwillig in die Hitler-Jugend eingetreten? Aus der zeithistorischen Forschung ist bekannt, dass auf Jugendliche in den 1930er-Jahren ein hoher Konformitätsdruck lastete. Und Schmidt hat ja auch selbst eingeräumt, zeitweise fasziniert gewesen zu sein vom Nationalsozialismus, wovon ihn dann aber spätestens der Krieg kuriert habe.

    Hat der Altkanzler in seinen vielen, von Pamperrien sorgfältig zusammengetragenen autobiografischen Äußerungen immer schlüssig sein eigenes Leben beschrieben? Mit Sicherheit nicht; um das zu wissen, braucht man ihr Buch allerdings nicht. Ein sensibler Historiker weiß um die Stärken, aber eben auch Schwächen von Zeitzeugen und ihren Erinnerungen. Diese Sensibilität vermisst man in „Helmut Schmidt und der Scheißkrieg“ sehr.

    Einen weiteren, eklatanten Fall von ahistorischer Argumentation hat das Magazin „Der Spiegel“ in einem furiosen Verriss des Buches aufgespießt. Ausführlich zitiert Pamperrien aus den Beurteilungen von Vorgesetzten des Luftwaffen-Leutnants Helmut Schmidt. Da wurde ihm etwa attestiert, „auf dem Boden der nationalsozialistischen Weltanschauung“ zu stehen.
    Bundestagsabgeordneter, verteidigungspolitischer Sprecher und Reservist, aber sicher kein „Soldatenkanzler“: Helmut Schmidt 1958 während einer Übung der Bundeswehr

    Bundestagsabgeordneter, verteidigungspolitischer Sprecher und Reservist, aber sicher kein „Soldatenkanzler“: Helmut Schmidt 1958 während einer Übung der Bundeswehr

    Quelle: picture-alliance / dpa

    Allerdings wiesen sowohl eher linksliberale und eher konservative Militärhistoriker wie Wolfram Wette und Manfred Messerschmidt oder Rolf-Dieter Müller den daraus gezogenen Schluss zurück, Schmidt sei „von Nazi-Ideologie kontaminiert“ gewesen.

    Jedenfalls, wenn es die Form eines Vorwurfs annimmt. Wieder einmal gilt, wie fast in Pamperriens gesamtem Buch: Das Ausblenden des historischen Kontextes und das Urteilen von einem heutigen, moralisierenden Mainstreamstandpunkt aus führt in die Irre.

    Sehr deutlich wird das in einer Passage im Kapitel „In der Etappe“, in der es über Helmut Schmidt heißt: „Die Lektüre von Remarques ‚Im Westen nichts Neues‘ hatte ihm zwar die Schrecken des modernen Krieges plastisch vor Augen geführt, doch hatte ihn das offenbar nicht zum Nachdenken über den Pazifismus und auch nicht zur Entwicklung einer Antikriegshaltung gebracht.“ In einer in den Anmerkungen versteckten Bemerkung steht dann sogar noch: „Später wird er den Pazifismus als unrealistisch abtun.“

    Hier wird also der durch grausame Erfahrung getriebene Pazifismus eines Erich Maria Remarque unterschiedslos gleichgesetzt mit der gesinnungsethischen Beliebigkeit der westdeutschen „Friedensbewegung“ der 70er- und 80er-Jahre – verbunden durch die Erwartung, ein bei Kriegsbeginn 1939 gerade einmal 20-Jähriger müsse doch eine „Antikriegshaltung“ gehabt haben. Viel weiter daneben liegen kann man kaum.

    Man muss kein Freund des „Überkanzlers“ Helmut Schmidt sein, als der er sich selbst sah und heute wohl immer noch sieht. Seine jüngsten Auslassungen zum Regime in China etwa, das die Nachteile von Kommunismus und Kapitalismus vereint, sind ziemlich schwer erträglich. Unabhängig davon ist die angedeutete, aber natürlich gleich relativierte Unterstellung in Pamperriens Buch, er sei ein „Soldatenkanzler“ gewesen, hinterhältig.
    Schmidts Gedächtnis funktioniert strategisch

    Ja, Helmut Schmidt hat sich vieles in seinen Erinnerungen zurechtgebogen. Und ja, sein Gedächtnis funktioniert durchaus strategisch. Das hebt ihn aber nicht heraus gegenüber anderen Menschen; es ist einfach bei jedem so, ob in der NS-Zeit oder, mit erheblich geringeren Herausforderungen, heute.

    Eine Biografie wie diese hat niemand verdient. Zuallerletzt Helmut Schmidt. Es gibt genug Kritisches über ihn zu sagen. Wahrscheinlich nicht zuletzt über seine Zeit in der Wehrmacht während des „Scheißkriegs“. Lesenswert ist das aber nur, wenn es seriös beschrieben wird.

    #Allemagne #histoire #guerre #nazis #SPD #social-démocrates #biographie

  • La Réunion est en train de perdre toute sa vie végétale unique au monde !
    https://www.futura-sciences.com/planete/actualites/biodiversite-reunion-train-perdre-toute-vie-vegetale-unique-monde-1

    L’île de La Réunion est réputée pour ses plages paradisiaques, ses volcans, mais aussi pour sa végétation foisonnante. Cependant l’urbanisation, le développement des activités agricoles, la déforestation et l’introduction d’espèces extérieures ont mis à mal cette nature riche et diversifiée. Près d’une espèce végétale sur deux est désormais menacée de disparition sur l’île.

  • Kurt Hager über Wissenschaftsmissbrauch im Sozialismus – Ein sinnentstellender Fehler
    https://www.berliner-zeitung.de/open-source/osten-ddr-kurt-hager-ueber-wissenschaftsmissbrauch-im-sozialismus-e

    Les Trotzkystes qualifient le socialisme de type stalinien comme règne de la bureaucratie. Ils ont raison. Voilà la preuve.

    19.11.2023 von Erhard Geißler| - Wie die Genossen das Politbüromitglied Kurt Hager ins offene Messer des Klassenfeinds laufen ließen.

    Vor fünf Jahrzehnten wurde die Gentechnik eingeführt. Sofort gab es nicht nur große Erwartungen, sondern auch erhebliche Bedenken. Genetic Engineering ist nicht nur mit Sicherheitsrisiken verbunden, sondern besitzt auch erhebliches Missbrauchspotenzial.

    In der DDR wurde das vor allem von einigen prominenten Schriftstellern artikuliert. Ernst Schumacher warnte in der Berliner Zeitung vor „kaltblütigen Genexperimentatoren“ und Jurij Brezan meinte, alle müssten nun „Angst vor Biologen haben“. Auch im Sozialismus?

    Wenn man wissen will, wie sich Partei- und Staatsführung der DDR zu den neuen Entwicklungen verhielten, bietet sich eine Lektüre der Werke des Chefideologen Kurt Hager an. Der hatte sich 1979 ausführlich zu Vorzügen und Nachteilen der Gentechnik in seiner Schrift „Philosophie und Politik“ geäußert. Die kann man noch heute ausleihen, beispielsweise in der Deutschen Nationalbibliothek.

    Sie residiert an zwei Standorten, in Frankfurt am Main und Leipzig, und verfügt folglich über zwei Hager-Broschüren. Im Leipziger Exemplar steht, was der informierte Leser von einem solchen Autor erwartet: Unter sozialistischen Produktions­verhältnissen sei der Missbrauch wissenschaftlicher Erkenntnisse ausgeschlossen.

    Ein sinnentstellender Fehler

    In der Frankfurter Ausgabe steht auf Seite 24 jedoch das glatte Gegenteil: „Gesellschaftliche Garantien zum Missbrauch von Forschungsresultaten bietet aber allein der Sozialismus“. So heißt es auch in der Broschüre, die man in Madison, Wisconsin, ausleihen kann. Wie das? Unterschiedliche Ost- und Westtexte?

    Ich stieß auf diese merkwürdige Tatsache erst neulich. Dirk Oschmann, Katja Hoyer, die Berliner Zeitung und andere hatten endlich eine breite Diskussion darüber angestoßen, wie überaus vielschichtig es in der DDR tatsächlich zugegangen war, und ich begann in diesem Zusammenhang über den sinnentstellenden Fehler in Hagers Broschüre zu recherchieren.

    Hagers Text ist das Schlußwort, das er im November 1979 auf dem V. Philosophen­kongress der DDR gehalten hatte. Es war von einer Arbeitsgruppe entworfen worden, welche die Abteilung Wissenschaften des Zentralkomitees der SED einberufen hatte. Die Gruppe legte einen 54-seitigen Entwurf vor.

    Etwa ein Viertel des Textes beschäftigt sich unter der Überschrift „Sozialismus und Wissenschaft“ mit neuen Entwicklungen in Naturwissenschaft und Technik, vor allem mit Mikroelektronik und mit den Pros und Kontras der Gentechnik. Und in diesem Zusammenhang ist der überraschende Satz über den im Sozialismus garantierten Wissenschaftsmissbrauch in den Text geraten, ganz sicher nicht absichtlich, sondern wohl beim Diktieren oder Abschreiben.

    Der Entwurf wurde dann gründlich überarbeitet und stark gekürzt. Aber die Passagen, die sich mit der Gentechnik und ihren Implikationen beschäftigten, wurden fast unverändert übernommen. Wer der Endkorrektor war, ist nicht überliefert. Das finale Manuskript ist im Bundesarchiv nicht in den Unterlagen des Büros Hager oder anderer Einrichtungen der SED-Führung archiviert, sondern in den Akten des Ministeriums für Hoch- und Fachschulwesen. Vielleicht war ein Wissenschaftler der Korrektor?

    Aber vielleicht war es auch Hager selbst. Dafür sprechen die wenigen, sehr speziellen Detailkorrektoren. Beispielsweise wurde hinter der ursprünglichen Formulierung, die „vielschichtige Problematik von Gesundheit und Krankheit“ sei eine Herausforderung der marxistisch-leninistischen Philosophie, hinter „Krankheit“ eingefügt: „und Sterben“ – also ein realsozialistisches Tabuthema. Das konnte sich eigentlich nur ein Politbüromitglied erlauben.

    Dieser Teil des Manuskriptes wurde also bei der Endkorrektur offensichtlich ganz genau, Wort für Wort, gelesen, von wem auch immer. Um so erstaunlicher ist, dass dabei der sinnentstel­lende Fehler übersehen wurde.

    Jedenfalls war es Hager selbst, der ihn während seines Vortrages übersah. Ich nahm damals am Kongress teil und hörte sehr gespannt zu, denn ich war von Anfang an bei der Einführung der Gentechnik in der DDR beteiligt. Kurz vor der Tagung war ich vom Gesund­heits­minister zum Vorsitzenden der Kommission zur In-vitro-Rekombination von DNA berufen und damit für die Sicherheit gentechnischer Experimente verantwortlich gemacht worden.

    Deshalb fiel mir auf, dass sich der Redner in diesem Zusammenhang nicht an sein Manuskript hielt und minuten­lang völlig frei sprach. Allerdings war manches davon fachlich nicht korrekt. Dies habe ich dann wenige Tage später meinem Chef, dem Genossen Direktor des Zentralin­stituts für Molekularbiologie, mitgeteilt. Hager habe sich „fast ausschließlich auf veraltete Informationen bezogen“. Man soll ihm das in geeigneter Form mitteilen, damit „vor einer eventuellen Veröffentlichung des Gesamttextes noch eine Durchsicht und Überarbeitung erfolgen“ könne.

    Aber mein Brief kam zu spät: Im Dietz-Verlag war man bereits dabei, den Druck des Schlusswortes vorzubereiten. Schon am 6. Dezember waren die Korrekturbögen fertig und wurden Hager – auf dessen ausdrücklichen Wunsch hin – übersandt, mit der Bitte, die „von dir bearbeiteten Fahnenabzüge so bald wie möglich“ zurückzuschicken. Zwei Tage später antwortete Hager – ohne Kommentar zu den Fahnen. Auch dieses Mal hatte er den Fehler also übersehen. Und deshalb ging der Druckauftrag ohne weitere Änderungen an die Druckerei Neues Deutschland.

    Bereits am 14. Dezember 1979 erhielt der Verlag die ersten 100 Exemplare der Broschüre. 25 wurden sofort an Kurt Hager weitergeleitet. Drei Tage später wurden 41.280 Exemplare an den Buchhandel ausge­liefert. Besondere Abnehmer wurden individuell versorgt: Je 500 Exemplare gingen ans Ministerium für Staatssicherheit, an die Nationale Volksarmee und an die Partei­hochschule. Inhaltsschwere Lektüre für die Weihnachtsfeiertage – oder für die Wache in der Stasi-Zentrale oder in den Objekten der NVA. Aber offenbar stieß nicht einer auf den sinnentstellenden Fehler – oder scheute davor zurück, ihn zu melden.

    Ich scheute mich nicht. Ich fand ihn, als ich um den Jahreswechsel herum den Wissenschafts­teil der Broschüre sehr genau, Wort für Wort las, auf der Suche nach Hagers Fehleinschätzungen. Die waren nicht übernommen worden. Wohl aber der peinliche Lapsus.

    Ich war zwar schon seit mehr als zwei Jahrzehnten kein SED-Mitglied mehr, war aber auch kein Dissident. Wenn dieses Zitat Richard Löwenthal, dem westdeutschen Pendant unseres „Sudel-Ede“ Karl-Eduard von Schnitzler, in die Hände fiele … Nicht auszudenken, wenn der die Haltung der Partei- und Staatsführung zur Gentechnik lächerlich machte.

    Also suchte ich gleich im Januar 1980 meine Vorgesetzen an der Akademie der Wissen­schaften auf. Mein Institutsdirektor hörte entgeistert zu, sah aber keine Handlungsmöglichkeit. Der Direktor des Forschungsbereiches Molekularbiologie und Medizin ebenso. Vermutlich aus Angst, als Überbringer der schlechten Nachricht bestraft zu werden, riskierten diese einflussreichen Genossen lieber, einen ihrer obersten Chefs ins offene Messer des Klassenfeinds stolpern zu lassen.

    Also wandte ich mich eine Etage höher und informierte den Akademie-Präsidenten. Als ZK-Mitglied hatte der direkten Zugang zu Hager. Trotzdem wandte er sich nicht an den, sondern nur an den Leiter der Abteilung Wissenschaften des ZK. Der aber meinte, man solle die Sache besser auf sich beruhen lassen.

    Auslieferung der Exemplare wird gestoppt

    Hager wurde tatsächlich nicht informiert, aber die Auslieferung der restlichen 5700 Exemplare wurde am 5. Februar 1980 gestoppt. Die Mitarbeiter des Dietz-Verlags wurden über den „sinnentstellenden Fehler“ informiert und darüber, dass der „bereits im Manuskript enthalten“ war. Diesen peinlichen Befund konnte man Hager natürlich nicht mitteilen. Und vermutlich deshalb wurde auch keine Rückrufaktion der Broschüre gestartet, denn das hätte der Chef sicher gemerkt, vielleicht sogar selbst genehmigen müssen.

    Davon drang natürlich nichts nach außen. Und die fehlerhafte Schrift war weiter im Umlauf. Also fasste ich mir ein Herz und schrieb selbst an Kurt Hager, am 25. März 1980. Aber darauf gab es wochenlang keine Reaktion. Das war merkwürdig, denn auf Eingaben von Bürgern wurde gerade in Partei- und Sicherheitskreisen meist sehr aktuell und akkurat reagiert.

    Tatsächlich reagierte man – von mir unbemerkt – sofort auf mein Schreiben und beschloss, eine korrigierte Auflage der Broschüre zu drucken: Am 11. April wurde die Druckerei beauftragt, 10.000 Exemplare einer „zweiten Bindequote“ zu produzieren. Fünf Tage später begann deren Auslieferung. Hager selbst bekam diesmal kein Stück.

    Erst danach wurde mein Brief beantwortet. Ich wurde ins Haus des ZK der SED eingeladen, ins Büro Hager. Am 30. April erwarteten mich dort der Leiter des Büros sowie der Direktor des Dietz-Verlags. Man sei mir ja sooo dankbar, aber sie hätten bereits Bescheid gewusst. Zehn Genossen hätten Korrektur gelesen, aber ein elfter habe den Fehler dann doch noch gefunden.

    Druck und Auslieferung der Broschüre seien sofort gestoppt und eine korrigierte Ausgabe gedruckt worden. Die wurde mir in die Hand gedrückt. Es sei ihnen unvorstellbar, wieso ich trotzdem ein fehlerhaftes Exemplar in die Hand bekommen hätte. Aber nun sei die Sache aus der Welt, und den Genossen Hager, den wolle man damit gar nicht erst beunruhigen.

    Ich zog von hinnen – und merkte schon damals bald, dass ich nach Strich und Faden belogen worden war. Es gab nicht nur mein Exemplar. Die fehlerhafte Broschüre wurde immer noch im Buchhandel angeboten. Ich informierte den Verlagsleiter darüber am 16. Mai schriftlich. Der zeichnete meinen Brief ab und gab ihn in die Ablage. Eine Antwort blieb er mir schuldig.

    Und noch heute kann man Hagers verballhorntes Statement in mindestens 17 deutschen Bibliotheken unkommentiert lesen, allein im Bundesarchiv in fünf Exemplaren. Korrigierte Broschüren haben es in weit weniger Sammlungen geschafft, aber immerhin auch nach Los Angeles und nach Shanghai. In Hagers Nachlass befindet sich nur ein Exemplar, eines mit dem Fehler. Zu Lebzeiten hat er wohl nie von dem Vorfall erfahren.

    Notabene zur gleichen Zeit, als Hagers Rede veröffentlicht wurde, erschienen in der „West-Presse“ die ersten Meldungen, in der sowjetischen Waffenschmiede Swerdlowsk – dem heutigen Jekaterinburg – habe es in einer Biowaffeneinrichtung eine Explosion gegeben, die eine tödliche Milzbrandepidemie ausgelöst hätte. Missbrauch der Wissenschaft gab es tatsächlich im Sozialismus, unter brutalem Bruch völkerrechtlicher Verträge. Rechtssicher bewiesen werden konnte das aber erst nach der Wende.

    #socialisme #DDR #bureaucratie #sciences #histoire #biologie #recherche_génétique #culture #polirique

  • « En Ile-de-France, 90% des hirondelles ont disparu depuis vingt ans » – Libération
    https://www.liberation.fr/environnement/biodiversite/en-ile-de-france-90-des-hirondelles-ont-disparu-depuis-vingt-ans-20231118
    https://www.liberation.fr/resizer/oI9k2bf6Zgkt5BuuuQfGpbQD8yw=/1200x630/filters:format(jpg):quality(70):focal(2153x1087:2163x1097)/cloudfront-eu-central-1.images.arcpublishing.com/liberation/232MD6IYDBG2DK24FQ6UKAB2PU.jpg

    Et si le chant des oiseaux disparaissait des campagnes franciliennes ? Jeudi 16 novembre, la Ligue de protection des oiseaux (LPO) d’Ile-de-France et le Muséum national d’histoire naturelle ont rendu publics les résultats franciliens d’une enquête nationale dénombrant les espèces d’oiseaux de la région pour la période 2001-2021 et réalisée grâce à un réseau d’observateurs bénévoles. « Nous prenons la tension, la température ou l’analyse sanguine d’un méta organisme que serait la biodiversité. Et on constate qu’il n’est clairement pas en bonne santé », explique le naturaliste Grégoire Loïs, chargé de mission au Muséum, à l’Office français de la biodiversité et à l’Agence régionale de la biodiversité d’Ile-de-France. En vingt ans, 90% des hirondelles ont par exemple disparu d’Ile-de-France, et 86% des serins cinis ou 65% des faucons crécerelles. Pour l’ornithologue, la région est un miroir grossissant du déclin du vivant en France à cause de l’urbanisation, de l’agriculture intensive ou de la surfréquentation des massifs forestiers.

  • #Total en #Ouganda : les opposants subissent #arrestations et pressions

    Le projet #Eeacop se retrouve de nouveau sous le feu des critiques. Dans son rapport « Working On Oil is Forbidden : Crackdown Against Environmental Defenders in Uganda » (https://www.hrw.org/report/2023/11/02/working-oil-forbidden/crackdown-against-environmental-defenders-uganda), publié le jeudi 2 novembre, l’ONG Human Rights Watch dénonce les pressions et les arrestations arbitraires dont seraient victimes des défenseurs de l’environnement et des activistes ougandais opposés au projet d’oléoduc en Afrique de l’Est. Selon les auteurs du rapport, au moins trente manifestants et défenseurs des droits humains, dont beaucoup d’étudiants, ont été arrêtés à Kampala et dans d’autres régions de l’Ouganda depuis 2021.

    Pour réaliser ce travail, l’ONG a collecté les témoignages de 31 personnes, dont 21 activistes anti-Eacop en Ouganda. « [La police] me posait des questions sur le pétrole… À un moment donné, ils me traitaient de terroriste, de saboteur des programmes gouvernementaux…. À la fin, ils ont écrit sur le document de libération sous caution : attroupement illégal », raconte Maxwell Atuhura, défenseur de l’environnement, arrêté à Bullisa en 2021.

    Le mégaprojet du groupe français comprend le #forage de 419 #puits dans l’ouest de l’Ouganda, dont un tiers se situent dans le #parc_naturel de #Murchison_Falls. En plus des dégâts sur la #biodiversité du pays, « plus de 100 000 personnes en Ouganda et en #Tanzanie perdront leurs #terres à cause de l’#exploitation_pétrolière », rappelle l’ONG. Dans une lettre du 23 octobre à Human Rights Watch, #TotalÉnergies affirme ne tolérer « aucune attaque ou menace contre ceux qui promeuvent pacifiquement et légalement les #droits_humains dans le cadre de leurs activités ».

    https://reporterre.net/TotalEnergies-en-Ouganda-HRW-denonce-les-pressions-contre-les-opposants-
    #rapport #HRW #pétrole #TotalEnergies

  • #Titane, #lithium : l’#Europe ouvre « un open bar pour l’#industrie_minière »

    Plutôt que l’instrument d’une transition « verte », la future législation européenne sur les #matières_premières_critiques est une offrande aux industries polluantes, dénonce Laura Verheecke de l’Observatoire des multinationales.

    Reporterre — En quoi consiste la législation européenne sur les matières premières critiques, actuellement discutée ?

    Lora Verheecke — Cette #loi est pensée par la #Commission_européenne pour permettre à l’#Union_européenne (#UE) un approvisionnement plus conséquent et plus sûr en #minerais indispensables pour la transition « verte ». Ces minerais serviront à fabriquer les #capteurs, les #moteurs ou encore les #batteries des #voitures_électroniques, des rotors d’#éoliennes, des #panneaux_photovoltaïques

    En pratique, le texte prévoit un #soutien_financier pour ouvrir des mines hors de l’UE, avec très peu de contraintes pour les entreprises en termes de respect de l’environnement et des populations locales. Il permet aussi d’ouvrir plus de mines en Europe à travers le principe d’« #intérêt_stratégique_supérieur », c’est-à-dire en limitant les motifs d’objection juridique des populations, en reléguant les lois environnementales et démocratiques. Par conséquent, on consultera moins, plus vite et on pourra plus difficilement remettre en cause l’ouverture d’une mine.

    Le processus législatif en cours est très rapide — « le plus rapide de l’histoire » selon certains journalistes — et le brouillon de loi publié en mars par la Commission est aujourd’hui au stade final de discussions et compromis entre le Parlement européen et le Conseil, c’est-à-dire les États membres. Les deux institutions ont déjà arrêté leurs positions.

    Une fois leurs discussions achevées, la loi n’aura plus qu’à être votée par les États membres et le Parlement et elle deviendra loi partout dans l’Union européenne. Si le processus est si rapide, c’est qu’il y a encore peu d’attention publique et médiatique sur ce projet de loi et le soutien est large — mais pas entier — du côté des capitales européennes et des députés européens.

    Dans le rapport Du sang sur le Green Deal publié avec Corporate Europe Observatory (https://multinationales.org/fr/enquetes/du-sang-sur-le-pacte-vert/du-sang-sur-le-green-deal-comment-l-ue-sous-pretexte-d-action-clima), vous montrez comment cette loi, présentée comme favorable au climat, profite largement à l’industrie minière, pourtant « intrinsèquement sale ».

    On peut même affirmer que cette loi s’est transformée en un #open_bar pour l’industrie minière, sale, et celle de l’#armement, mortifère. Elle est le fruit d’un #lobbying soutenu et de longue date, notamment au sein d’un groupe de travail de la Commission, actif depuis les années 80 et qui compte comme membres de nombreuses entreprises telles que #Volkswagen, #Umicore — spécialisé dans la technologie des matériaux —, #Nokia et #Boliden, une entreprise minière suédoise.

    Sous couvert de garantir la #transition_écologique, les conséquences de cette loi seront donc potentiellement désastreuses : une mine est et sera toujours sale. En ouvrir une requiert de grandes quantités de terres, peut entraîner le déplacement de communautés.

    L’extraction des minerais de la terre implique une grande #pollution de l’#eau, des #sols et de l’#air, car cette extraction utilise de nombreux produits chimiques. C’est un réel #danger pour la #biodiversité : en 2019, 79 % de l’extraction mondiale de minerais métalliques provenait de cinq des six biomes les plus riches en espèces, dont les écosystèmes tropicaux forestiers.

    En #France, l’ouverture de la plus grande mine de lithium est prévue pour 2028, dans l’#Allier. Des organisations locales s’y opposent déjà pour éviter la pollution de leurs terres et leurs rivières et le secteur de la mine a été placé sous surveillance comme « site avec une contestation susceptible de se radicaliser à court terme » par les services du ministère de l’Intérieur.

    Parmi les groupes de pression, on retrouve des secteurs de la défense et de l’aéronautique, comme #Airbus ou #Safran. Comment ont-ils influé sur le processus de décision ?

    Airbus et Safran, mais aussi #Dassault, ont rencontré de nombreux décideurs politiques européens. Ils sont également membres de nombreuses associations d’entreprises et paient des agences de lobbying comme #Avisa_Partners pour supplémenter leur lobbying.

    De plus, les portes tournent [1] entre les entreprises de l’armement et l’Union européenne. En 2020, par exemple, l’ex-président de l’Agence européenne de défense est devenu lobbyiste en chef d’Airbus.

    Ces rencontres, études et événements et ces aller-retours leur ont permis de se faire des alliés au sein même de la Commission, au Parlement européen et dans de nombreux États membres. La Commission a même cofinancé une alliance sur les #matériaux_rares — dont #France_Industrie est membre — et créé un groupe d’experts dans lesquels les industriels de l’armement ont voix au chapitre.

    Tout ceci a mené à deux victoires majeures : premièrement, on ouvrira des mines dans le futur à la fois pour les #voitures_électriques, mais aussi pour des #missiles ; et deuxièmement l’extraction de certains minerais sera aidée financièrement et politiquement pour l’industrie de la défense, comme le titane.

    Ce #minerai est aujourd’hui classé stratégique, d’après l’UE, suite au lobbying de l’industrie de la #défense et de l’#aérospatial. Alors même qu’il n’est pas utile à la transition « verte ». Cette catégorisation était une des demandes du PDG de Safran auprès du vice-président de la Commission lors de leur rencontre en mai 2023.

    Pour résumer, la #défense et l’#aéronautique ont tout fait, donc, pour s’assurer que les métaux qui les intéressaient bénéficieraient du même soutien public et des mêmes déréglementations environnementales que ceux qui sont réellement utiles aux transitions climatique et numérique.

    Quel rôle a joué la France et le commissaire français #Thierry_Breton dans ce processus ?

    Les deux ont été des alliés très importants des industriels. M. Breton n’a pas hésité à se faire la voix de l’industrie de l’armement, en clamant notamment en mars 2023, lorsque la Commission européenne dévoilait le projet de loi : « Pas de batteries sans lithium, pas d’éoliennes sans terres rares, pas de munitions sans #tungstène… » Le #lobby européen des entreprises de la défense dira de M. Breton, en novembre 2021 : « Nous sommes très fiers et heureux de vous considérer comme "notre commissaire" ».

    C’est de ce même lobby que la France copiera d’ailleurs une partie de ses positions au Conseil — l’institution au sein de laquelle les États membres débattent. La France a d’ailleurs créé en novembre 2022 un #Observatoire_français_des_ressources_minérales_pour_les_filières_industrielles (#Ofremi), qui a d’ailleurs placé, dès son lancement, les difficultés d’approvisionnement du secteur de la défense au rang de ses priorités. L’Ofremi tient par exemple un discours similaire au PDG de Safran sur le titane.

    Est-il encore possible de sauver ce texte ?

    Ce texte est principalement débattu aujourd’hui dans la bulle européenne d’experts, avec des discussions qui se limitent à des considérations techniques. Il est temps d’avoir une discussion politique pour savoir sous quelles conditions ouvrir des mines et quelle doit être l’utilisation des minerais et terres rares. Nous devons nous poser la question des priorités d’usage. Ouvre-t-on des mines pour des 4x4 électriques lourds, pour des bus électriques ou pour des drones ?

    Il est nécessaire d’avoir une discussion politique sur les conséquences environnementales de notre transition dite verte. Aujourd’hui, ces discussions sont trop absentes du débat public européen. La loi ne mentionne pas la question de notre boulimie de consommation, d’une limite à notre demande en matériaux rares. Sous couvert de #Green_Deal et de transition « verte », on met de côté les nouvelles pollutions, émissions et atteintes aux droits de l’homme à venir.

    Notre chance, ce sont les élections européennes qui approchent : les députés seront de plus en plus réceptifs aux demandes des citoyens européens sur leur position sur ce texte. Certains États membres posent timidement la question de la réduction de notre consommation en minerais et terres rares, comme la Belgique, qui prend la présidence du Conseil en janvier. On peut pousser nos gouvernements à avoir cette position : plutôt qu’ouvrir des mines, ouvrons le débat sur la consommation de minerais.

    https://reporterre.net/Titane-lithium-l-Union-europeenne-ouvre-un-open-bar-pour-l-industrie-min
    #terres_rares #transition_énergétique #énergie #mines #extractivisme

  • Laid Off Dragon Age: Dreadwolf Devs Sue BioWare Over Severance
    https://kotaku.com/dragon-age-dreadwolf-bioware-layoffs-lawsuit-ea-1850900755

    A notice of the lawsuit was shared on Twitter yesterday by former BioWare developer Jon Renish. In its statement of facts, which were reviewed by Kotaku, an attorney for the group claims that BioWare was only willing to offer laid-off employees two weeks of severance per year of service, rather than the one month commonly awarded under other recent labor cases. The lawsuit also claims that BioWare was unwilling to include the value of health benefits in the severance package, further shortchanging the departing developers who average 14 years of service each. EA reported over $400 million in net income in August, up 23 percent from the year prior. The company bought back $325 million in stock the same month.

    #jeux_vidéo #jeu_vidéo #bioware #ea #ressources_humaines #licenciements #justice #jeu_vidéo_dreadwolf #jeu_vidéo_mass_effect_4

  • Lecture d’un extrait du livre « L’échiquier » de Jean-Philippe Toussaint, paru aux Éditions de Minuit, en 2023.

    https://liminaire.fr/radio-marelle/article/l-echiquier-de-jean-philippe-toussaint

    Jean-Philippe Toussaint se déplace à travers les 64 courts chapitres de son livre comme sur les 64 cases de l’échiquier à la manière du Cavalier, sans suivre une ligne droite. L’occasion de se livrer, de confier son amour de la littérature et des événements qui ont décidé de sa vocation. L’auteur évoque son enfance, sa relation avec les échecs. Il déroule le fil de son passé par le biais de scènes (sa jeunesse à Bruxelles, ses amitiés adolescentes, les souvenirs de la maison familiale) en jouant avec l’espace-temps...

    (...) #Radio_Marelle, #Écriture, #Langage, #Roman, #Livre, #Lecture, #En_lisant_en_écrivant, #Podcast, #Mémoire, #Biographie, #Bruxelles, #Échecs, #Littérature (...)

    https://liminaire.fr/IMG/mp4/en_lisant_l_e_chiquier_jean-philippe_toussaint.mp4

    http://www.leseditionsdeminuit.fr/livre-L_Echiquier-3408-1-1-0-1.html

  • Greek data watchdog to rule on AI systems in refugee camps

    A forthcoming decision on the compliance of surveillance and security systems in Greek refugee camps could set a precedent for how AI and biometric systems are deployed for ‘migration management’ in Europe

    Greece’s data protection watchdog is set to issue a long-awaited decision on the legality of controversial high-tech surveillance and security systems deployed in the country’s refugee camps.

    The Greek Data Protection Authority’s (DPA) decision, expected by the end of the year, concerns in part a new multimillion-euro Artificial Intelligence Behavioural Analytics security system, which has been installed at several recently constructed refugee camps on the Aegean islands.

    The system – dubbed #Centaur and funded through the European Union (EU) – relies on algorithms and surveillance equipment – including cameras, drones, sensors and other hardware installed inside refugee camps – to automatically detect purported threats, alert authorities and keep a log of incidents. Hyperion, another system that relies on biometric fingerprint data to facilitate entry and exit from the refugee camps, is also being examined in the probe.

    Centaur and #Hyperion came under investigation in March 2022, after several Greek civil society organisations and a researcher filed a complaint to the Greek DPA questioning the legality of the programs under Greek and European laws. The Greek DPA’s decision could determine how artificial intelligence (AI) and biometric systems are used within the migration management context in Greece and beyond.

    Although the data watchdog’s decision remains to be seen, a review of dozens of documents obtained through public access to documents requests, on-the-ground reporting from the islands where the systems have been deployed, as well as interviews with Greek officials, camp staff and asylum seekers, suggest the Greek authorities likely sidestepped or botched crucial procedural requirements under the European Union’s (EU) privacy and human rights law during a mad rush to procure and deploy the systems.

    “It is difficult to see how the DPA will not find a breach,” said Niovi Vavoula, a lecturer at Queen Mary University of London, who petitioned the Greek DPA alongside Greek civil society organisations Homo Digitalis, The Hellenic League for Human Rights, and HIAS Greece.

    She said “major shortcomings” identified include the lack of appointment of a data protection officer at the Greek Migration Ministry prior to the launch of its programs.

    Security systems a hallmark of new EU camps

    Centaur and Hyperion are hallmarks of Greece’s newest migrant facilities, also known as Closed Controlled Access Centres (CCACs), which began opening in the eastern Aegean in 2021 with funding and supervision from the European Commission (EC). Greek authorities have lauded the surveillance apparatus at the revamped facilities as a silver-bullet solution to the problems that plagued previous makeshift migrant camps in Greece.

    The Centaur system allows authorities to monitor virtually every inch of the camps’ outdoor areas – and even some indoor spaces – from local command and control centres on the islands, and from a centralised control room in Athens, which Greece’s former migration minister Notis Mitarachi unveiled with much fanfare in September 2021.

    “We’re not monitoring people. We’re trying to prevent something bad from happening,” Anastasios Salis, the migration ministry’s director general of ICT and one of the self-described architects of the Centaur system, told me when I visited the ministry’s centralised control room in Athens in December 2021. “It’s not a prison, okay? It’s something different.”

    Critics have described the new camps as “prison-like” and a “dystopian nightmare”.

    Behind closed doors, the systems have also come under scrutiny by some EU authorities, including its Fundamental Rights Agency (FRA), which expressed concerns following a visit to one of the camps on Samos Island in May 2022.

    In subsequent informal input on Greece’s refugee camp security measures, the FRA said it was “concerned about the necessity and proportionality of some of the measures and their possible impact on fundamental rights of residents” and recommended “less intrusive measures”.

    Asked during the control room tour in 2021 what is being done to ensure the operation of the Centaur system respects privacy laws and the EU’s General Data Protection Regulation (GDPR), Salis responded: “GDPR? I don’t see any personal data recorded.”

    ‘Spectacular #experimentation’

    While other EU countries have experimented with myriad migration management and surveillance systems, Greece’s refugee camp deployments are unique.

    “What we see in Greece is spectacular experimentation of a variety of systems that we might not find in this condensed way in other national contexts,” said Caterina Rodelli, a policy analyst at the digital rights non-profit Access Now.

    She added: “Whereas in other European countries you might find surveillance of migrant people, asylum seekers … Greece has paved the way for having more dense testing environments” within refugee camps – particularly since the creation of its EU-funded and tech-riddled refugee camps.

    The #Samos facility, arguably the EU’s flagship camp, has been advertised as a model and visited by officials from the UK, the US and Morocco. Technology deployments at Greece’s borders have already been replicated in other European countries.

    When compared with other Mediterranean states, Greece has also received disproportionate funding from the EU for its border reinforcement projects.

    In a report published in July, the research outfit Statewatch compared commission funds to Greece between 2014 and 2020 and those projected to be paid between 2021 and 2027, finding that “the funding directed specifically towards borders has skyrocketed from almost €303m to more than €1bn – an increase of 248%”.

    Greece’s Centre for Security Studies, a research and consulting institution overseen by the Greek minister of citizen protection, for example, received €12.8m in EU funds to develop border technologies – the most of any organisation analysed in the report during an eight-year period that ended in 2022.

    Surveillance and security systems at Greek refugee camps are funded through the EU’s Covid recovery fund, known formally as the European Commission’s Recovery and Resilience Facility, as well as the Internal Security Fund.
    Early warnings

    At the heart of the Greek DPA probe are questions about whether Greece has a legal basis for the type of data processing understood to be required in the programs, and whether it followed procedures required under GDPR.

    This includes the need to conduct data protection impact assessments (DPIAs), which demonstrate compliance with the regulation as well as help identify and mitigate various risks associated with personal data processing – a procedure the GDPR stipulates must be carried out far in advance of certain systems being deployed.

    The need to conduct these assessments before technology deployments take place was underscored by the Greek DPA in a letter sent to the Greek migration ministry in March 2022 at the launch of its probe, in which it wrote that “in the case of procurement of surveillance and control systems” impact studies “should be carried out not only before their operation, but also before their procurement”.

    Official warnings for Greece to tread carefully with the use of surveillance in its camps came as early as June 2021 – months before the opening of the first EU-funded camp on Samos Island – when the FRA provided input on the use of surveillance equipment in Greek refugee camps, and the Centaur project specifically.

    In a document reviewed by Computer Weekly, the FRA wrote that the system would need to undergo “a thorough impact assessment” to check its compatibility with fundamental rights, including data protection and privacy safeguards. It also wrote that “the Greek authorities need to provide details on the equipment they are planning to use, its intended purpose and the legal basis for the automated processing of personal data, which to our understanding include sensitive biometric data”.
    A botched process?

    However, according to documents obtained through public record requests, the impact assessments related to the programs were only carried out months after the systems were deployed and operational, while the first assessments were not shared with the commission until late January 2022.

    Subsequent communications between EU and Greek authorities reveal, for the first time, glaring procedural omissions and clumsy efforts by Greek authorities to backpedal into compliance.

    For example, Greece’s initial assessments of the Centaur system covered the use of the CCTV cameras, but not the potentially more sensitive aspects of the project such as the use of motion analysis algorithms and drones, a commission representative wrote to Greek authorities in May 2022. The representative further underscored the importance of assessing “the impact of the whole project on data protection principles and fundamental rights”.

    The commission also informed the Greek authorities that some areas where cameras were understood to have been placed, such as common areas inside accommodation corridors, could be deemed as “sensitive”, and that Greece would need to assess if these deployments would interfere with data protection, privacy and other rights such as non-discrimination or child rights.

    It also requested more details on the personal data categories being processed – suggesting that relevant information on the categories and modalities of processing – such as whether the categories would be inferred by a human or an algorithm-based technology – had been excluded. At the time, Greek officials had reported that only “physical characteristics” would be collected but did not expand further.

    “No explanation is provided on why less intrusive measures cannot be implemented to prevent and detect criminal activities,” the commission wrote, reminding Greece that “all asylum seekers are considered vulnerable data subjects”, according to guidelines endorsed by the European Data Protection Board (EDPB).

    The FRA, in informal input provided after its visit to the Samos camp in May 2022, recommended basic safeguards Greece could take to ensure camp surveillance systems are in full compliance with GDPR. This included placing visible signs to inform camp residents and staff “about the operation of CCTV cameras before entering a monitored area”.

    No such signs were visible in the camp’s entry when Computer Weekly visited the Samos camp in early October this year, despite the presence of several cameras at the camp’s entry.

    Computer Weekly understands that, as of early October, procedural requirements such as impact assessments had not yet been finalised, and that the migration ministry would remain in consultation with the DPA until all the programs were fully GDPR-compliant.

    Responding to Computer Weekly’s questions about the findings of this story, a Greek migration ministry spokesperson said: “[The ministry] is already in open consultation with the Greek DPA for the ‘Centaur’ and ‘Hyperion’ programs since March 2022. The consultation has not yet been completed. Both of these programs have not been fully implemented as several secondary functions are still in the implementation phase while the primary functions (video surveillance through closed circuit television and drone, entry – exit through security turnstiles) of the programs are subject to continuous parameterisation and are in pilot application.

    “The ministry has justified to the Greek DPA as to the necessity of implementing the measure of installing and operating video surveillance systems in the hospitality structures citing the damage that the structures constantly suffer due to vandalism, resulting in substantial damage to state assets … and risking the health of vulnerable groups such as children and their companions.”

    The commission wrote to Computer Weekly that it “do[es] not comment on ongoing investigations carried out by independent data protection authorities” and did not respond to questions on the deployment of the systems.

    Previous reporting by the Greek investigative outlet Solomon has similarly identified potential violations, including that the camp programs were implemented without the Greek ministry of migration and asylum hiring a data protection officer as required under the GDPR.
    Lack of accountability and transparency?

    The commission has said it applies all relevant checks and controls but that it is ultimately up to Greece to ensure refugee camps and their systems are in line with European standards.

    Vavoula, the researcher who was involved in the Greek DPA complaint, said the EU has been “funding … these initiatives without proper oversight”.

    Saskia Bricmont, a Belgian politician and a Member of the European Parliament with the Greens/European Free Alliance, described unsuccessful efforts to obtain more information on the systems deployed at Greece’s camps and borders: “Neither the commission nor the Greek authorities are willing to share information and to be transparent about it. Why? Why do they hide things – or at least give the impression they do?”

    The European Ombudsman recently conducted a probe into how the commission ensures fundamental rights are being respected at Greece’s EU-funded camps. It also asked the commission to weigh in on the surveillance systems and whether it had conducted or reviewed the data protection and fundamental rights impact assessments.

    The commission initially reported that Greece had “completed” assessments “before the full deployment of the surveillance systems”. In a later submission in August, however, the commission changed its wording – writing instead that the Greek authorities have “drawn up” the assessments “before the full deployment” of the tools.

    The commission did not directly respond to Computer Weekly’s query asking it to clarify whether the Greek authorities have “completed” or merely “drawn up” DPIAs, and whether the commission’s understanding of the status of the DPIAs changed between the initial and final submissions to the European ombudsman.

    Eleftherios Chelioudakis, co-founder of the Greek digital rights organisation Homo Digitalis, rejected the suggestion that there are different benchmarks on deployment. “There is no legal distinction between full deployment of a system or partial deployment of a system,” he said. “In both cases, there are personal data processing operations taking place.”

    Chelioudakis added that the Greek DPA holds that even the mere transmission of footage (even if no data is recorded/stored) constitutes personal data processing, and that GDPR rules apply.
    Check… check… is this camera on?

    Greek officials, initially eager to show off the camps’ surveillance apparatus, have grown increasingly tight-lipped on the precise status of the systems.

    When visiting the ministry’s centralised control room at the end of 2021, Computer Weekly’s reporter was told by officials that three camps – on Samos, Kos and Leros islands – were already fully connected to the systems and that the ministry was working “on a very tight timeframe” to connect the more than 30 remaining refugee camps in Greece. During a rare press conference in September 2022, Greece’s then-migration minister, Notis Mitarachi, said Centaur was in use at the three refugee camps on Samos, Kos and Leros.

    In October 2022, Computer Weekly’s reporter was also granted access to the local control room on Samos Island, and confirmed that monitoring systems were set up and operational but not yet in use. A drone has since been deployed and is being used in the Samos camp, according to several eyewitnesses.

    Officials appear to have exercised more caution with Hyperion, the fingerprint entry-exit system. Computer Weekly understands the system is fully set up and functioning at several of the camps – officials proudly demonstrated its functions during the inauguration of the Kos camp – but has not been in use.

    While it’s not yet clear if the more advanced and controversial features of Centaur are in use – or if they ever will be – what is certain is that footage from the cameras installed on several islands is being fed to a centralised control room in Athens.

    In early October, Computer Weekly’s reporter tried to speak with asylum seekers outside the Samos camp, after officials abruptly announced the temporary suspension of journalist access to this and other EU-funded camps. Guards behind the barbed wire fence at the camp’s gate asked the reporter to move out of the sight of cameras – installed at the gate and the camp’s periphery – afraid they would receive a scolding call from the migration ministry in Athens.

    “If they see you in the cameras they will call and ask, ‘Why is there a journalist there?’ And we will have a problem,” one of the guards said. Lawyers and others who work with asylum seekers in the camp say they’ve had similar experiences.

    On several occasions, Computer Weekly’s reporter has asked the Greek authorities to provide proof or early indications that the systems are improving safety for camp residents, staff and local communities. All requests have been denied or ignored.

    Lawyers and non-governmental organisations (NGOs) have also documented dozens of incidents that undermine Greek officials’ claims of increased safety in the tech-riddled camps.
    Unmet promises of increased security

    In September 2022, a peaceful protest by some 40 Samos camp residents who had received negative decisions on their asylum claims escalated into a riot. Staff evacuated the camp and police were called in and arrested several people.

    Lawyers representing those accused of instigating the brawl and throwing rocks at intervening police officers said they were struck by the absence of photographic or video evidence in the case, despite their clients’ request to use the footage to prove their innocence.

    “Even with all these systems, with all the surveillance, with all the cameras … there were no photographs or video, something to show that those arrested were guilty,” said Dimitris Choulis, a lawyer with the Human Rights Legal Project on Samos.

    Asked about the incident, the Samos camp director at the time explained that the system has blind spots and that the cameras do not cover all areas of the camp, a claim contrary to other official statements.

    Choulis’s organisation and the legal NGO I Have Rights have also collected testimonies from roughly a dozen individuals who claim they were victims of police brutality in the Samos CCAC beginning in July 2022.

    According to Nikos Phokas, a resident of Leros Island, which houses one of the EU-funded facilities, while the surveillance system has proven incapable of preventing harm on several occasions, the ability it gives officials in Athens to peer into the camps at any moment has shifted dynamics for camp residents, staff and the surrounding communities. “This is the worst thing about this camp – the terror the surveillance creates for people. Everyone watches their backs because of it.”

    He added the surveillance apparatus and the closed nature of the new camp on Leros has forced some camp employees to operate “under the radar” out of fear of being accused of engaging in any behaviour that may be deemed out-of-line by officials in Athens.

    For example, when clothes were needed following an influx of arrivals last summer, camp employees coordinated privately and drove their personal vehicles to retrieve items from local volunteers.

    “In the past, it was more flexible. But now there’s so much surveillance – Athens is looking directly at what’s happening here,” said Catharina Kahane, who headed the NGO ECHO100PLUS on Leros, but was forced to cut down on services because the closed nature of the camp, along with stricter regulations by the Greek migration ministry, made it nearly impossible for her NGO to provide services to asylum seekers.

    Camp staff in one of the island facilities organised a protest to denounce being subjected to the same monitoring and security checks as asylum seekers.

    Residents of the camps have mixed views on the surveillance. Heba*, a Syrian mother of three who lodged an asylum claim in Samos and was waiting out her application, in early October said the cameras and other security measures provided a sense of safety in the camp.

    “What we need more is water and food,” said Mohammed*, a Palestinian asylum seeker who got to Samos in the midst of a recent surge in arrivals that brought the camp’s population to nearly 200% capacity and has led to “inhumane and degrading conditions” for residents, according to NGOs. He was perplexed by the presence of high-tech equipment in a refugee camp that has nearly daily water cuts.

    https://www.computerweekly.com/feature/Greek-data-watchdog-to-rule-on-AI-systems-in-refugee-camps
    #camps_de_réfugiés #surveillance #AI #IA #intelligence_artificielle #Grèce #asile #migrations #réfugiés #camps_de_réfugiés #biométrie #algorithmes

    • Paris 2024 : le président polynésien envisage de déplacer les épreuves de surf du site de Teahupoo
      https://www.lemonde.fr/sport/article/2023/11/08/paris-2024-le-president-polynesien-envisage-de-deplacer-les-epreuves-de-surf

      C’est une prise de position qui risque de faire beaucoup de bruit. Mardi 7 novembre, le président de la Polynésie française, Moetai Brotherson, a affirmé à un journaliste de l’Agence-France-Presse envisager de déplacer l’épreuve de surf des Jeux olympiques 2024 sur un autre spot que l’emblématique site de Teahupoo. Quelques mois plus tôt, le nouveau président élu, indépendantiste, avait rappelé son souhait de voir les Jeux se dérouler à Tahiti, « parce que c’est ici que le surf est né, pas ailleurs », faisait-il alors valoir.
      Mais la mobilisation croissante des écologistes, des surfeurs et des habitants du village de Teahupoo contre la construction d’une tour des juges, en aluminium, édifiée dans l’eau en plein lagon spécialement pour l’épreuve des JO, a poussé M. Brotherson à modifier son opinion. L’installation pourrait dégrader, selon eux, les #fonds_marins et nuire à la #biodiversité du site.
      Le président polynésien, qui partage ces craintes, exclut l’utilisation de la tour en aluminium et envisage désormais d’organiser l’épreuve à Taharuu, un site moins renommé mais plus facile d’accès, sur la côte ouest de Tahiti.

      #JO #Polynésie #surf #corail

    • Ça doit rebuter d’avoir des chiottes sèches pour les juges avec de l’internet en 4G même si ils ne sont qu’à moins de 30mn en bateau de la terre. Faites place net, pour les #JO_du_désastre il faut plus d’espaces naturels à détruire !

  • En Andalousie, le joyau naturel de Doñana menacé par la sécheresse et la culture intensive de la fraise

    REPORTAGE Zone naturelle classée, le parc national de Doñana voit disparaître ses lagunes et ses marais. Les centaines de milliers d’oiseaux migrateurs qui ont l’habitude d’y faire halte entre l’Europe du Nord et l’Afrique sont contraints de l’abandonner. En cause, la culture intensive de fruits rouges, gourmande en irrigation, sur fond de changement climatique.

    Juan Pedro Castellano avance à vive allure sur une immense plage vierge, où courent quelques bécasseaux. A bord de son véhicule tout-terrain, le directeur du parc national de Doñana, zone humide exceptionnelle à la pointe sud de l’Espagne, inscrite au Patrimoine mondiale de l’Unesco, sillonne des dunes mobiles et des pinèdes et longe les vastes marais argileux qui forment les 60 000 hectares protégés du parc. Il croise des vaches mostrenca aux longues cornes, des daims et des chevaux sauvages, avant de s’arrêter devant la lagune de Santa Olalla. Ou plutôt ce qu’il en reste. Jaillissant de l’aquifère, elle s’est complètement asséchée cet été. Et une terre grise, craquelée, a remplacé cet écrin de biodiversité d’une valeur incalculable. Cette lagune censée être « permanente » – la plus grande du parc – abrite d’ordinaire des milliers d’oiseaux migrateurs, dont l’arrivée devrait déjà avoir commencé. En cette mi-octobre, sous un soleil éclatant et une température inhabituelle de 33 °C, elle n’est fréquentée que par les cerfs.

    ... « C’est bien simple : ici, à Lucena del Puerto, presque toutes les exploitations situées au milieu des pins devraient être démantelées… »

    Depuis que la Cour de justice de l’Union européenne a condamné l’Espagne, en juin 2021, pour ne pas avoir protégé suffisamment #Doñana, les inspecteurs de la Confédération hydrographique du Guadalquivir, rattachée au ministère de la transition écologique, ont multiplié les contrôles et scellé près d’un millier de #puits_illégaux autour de l’espace naturel protégé. La justice aussi semble prendre le #vol_d’eau plus au sérieux. En septembre, cinq frères ont été condamnés à trois ans et demi de prison et 1,9 million d’euros de remboursement pour avoir puisé illégalement 19 millions de mètres cubes d’eau dans l’aquifère de Doñana entre 2008 et 2013. Et fin octobre, un tribunal de Séville a cité à comparaître la Maison d’Albe, riche famille de la noblesse espagnole, après une plainte du parquet environnemental pour un vol d’eau au travers de huit puits illégaux destinés à la culture d’orangers.

    A rebours de cette prise de conscience, le Parti populaire (PP ; droite), au pouvoir dans la communauté autonome d’Andalousie depuis 2019, a présenté au printemps un projet de loi régional pour régulariser plus de 700 hectares de terrains irrigués illégalement dans la « couronne nord » de Doñana. « Une amnistie pour les fraudeurs », ont critiqué les écologistes.

    ... L’association d’agriculteurs Puerto de Doñana, qui regroupe de nombreuses exploitations écologiques, s’y oppose, en rappelant que cet été, beaucoup de petits producteurs n’ont déjà pas pu arroser leurs plantations, car leurs puits étaient à sec. « Nous avons renoncé à plus de 70 % de nos exploitations irriguées ces trente dernières années afin de conserver Doñana, misé sur la production bio et donné des garanties à nos acheteurs. Nous ne voulons pas que les efforts de tant d’années tombent à l’eau à cause de l’obsession de croître de quelques-uns », explique son porte-parole, Manuel Delgado.


    Les installations et serres de culture de fruits rouges, aux alentours du parc national de Donaña (Espagne), le 10 octobre 2023. CESAR DEZFULI POUR « LE MONDE »

    https://www.lemonde.fr/planete/article/2023/10/30/en-andalousie-le-joyau-naturel-de-donana-menace-par-la-secheresse-et-par-la-
    https://archive.ph/1oTdH

    #eau #sécheresse #biodiversité #lagunes #marais #zones_humides #agriculture #tourisme #agriculture_écologique #modèle_agricole #irrigation #écologie

  • Comment Benyamin Nétanyahou est devenu le leader autoproclamé du « monde civilisé »

    .... Nétanyahou propose « une alliance antiterroriste de toutes les démocraties occidentales ». De telles thèses sont reprises par Ronald Reagan et son administration, de 1981 à 1989, au nom d’une « nouvelle guerre froide » contre « l’empire du mal » de l’URSS, auquel serait affiliée, dans une telle vision binaire, l’Organisation de libération de la Palestine (OLP) de Yasser Arafat.

    .... Quatre ans plus tard [en 1993, 11 ans après l’invasion israélienne du Liban et l’évacuation de l’OLP], Arafat signe avec Yitzhak Rabin, le premier ministre israélien, les accords de paix d’Oslo, que Nétanyahou, devenu le chef de l’opposition, condamne comme une intolérable concession à la « terreur ». Peu importe que l’URSS ait disparu, il stigmatise l’OLP comme la tête d’une hydre terroriste, à combattre sans relâche. Nétanyahou s’affiche dans des meetings où sont scandés les slogans « Rabin, chien d’Arafat », voire « mort à Rabin ».

    Lorsque Rabin est assassiné, en 1995, certes par un terroriste, mais juif et Israélien, Nétanyahou croit sa carrière politique compromise. Mais il se remet vite à marteler le mantra de la « terreur », forcément arabe et anti-occidentale, parvenant à être élu de justesse en 1996 à la tête du gouvernement. Il s’attache, durant ses trois premières années au pouvoir, à méthodiquement vider de leur substance les #accords_d’Oslo.

    Redevenu simple député, il voit la rhétorique de l’Institut Jonathan triompher avec les attentats du 11 septembre #2001 et la « guerre globale contre la terreur » de George W. Bush. Nétanyahou se mobilise à Washington en 2002 pour assimiler l’OLP à Al-Qaida, tout en contribuant à la campagne de désinformation sur les armes de destruction massive en Irak. Jacques Chirac dénonce alors l’aveuglement d’une offensive de renversement de Saddam Hussein qui ne préparerait pas « le jour d’après ». La France évite ainsi que la désastreuse invasion de l’Irak ne débouche sur une confrontation mondialisée entre l’islam et l’Occident [hum, ndc]. Quant à Nétanyahou, il préfère, en 2006, célébrer, à l’hôtel King David de Jérusalem, le soixantième anniversaire de l’attentat de l’Irgoun, qui y fit 91 morts, dont 41 Arabes, 28 Britanniques et 17 Juifs. La plaque apposée à cette occasion est sans doute la seule au monde à honorer les auteurs d’un attentat plutôt que leurs victimes.

    https://www.lemonde.fr/un-si-proche-orient/article/2023/10/29/comment-benyamin-netanyahou-est-devenu-le-leader-du-monde-civilise_6197141_6

    https://archive.ph/Pi2Mj

    Bon, c’est Jean-Pierre Filiu hein.

    #Israël #Benyamin_Nétanyahou #biographie #Irgoun #Likoud