• #Frontex, Cutro è un ricordo sbiadito: sorvegliare dall’alto resta la priorità

    Un anno dopo la strage, l’Agenzia europea della guardia di frontiera investe ancora su velivoli per sorvolare il Mediterraneo. Dal 2016 a oggi la spesa supera mezzo miliardo di euro. Una strategia dagli esiti noti: più respinti e più morti

    Frontex è pronta a investire altri 158 milioni di euro per sorvegliare dall’alto il Mediterraneo. A un anno dal naufragio di Steccato di Cutro (KR), costato la vita a 94 persone, la strategia dell’Agenzia che sorveglia le frontiere esterne europee non cambia. Anzi, si affina con “occhi” sempre più efficaci per rintracciare e osservare dall’alto le imbarcazioni in difficoltà. “Si continua a pensare che Frontex sia un’innocua gregaria degli Stati, senza responsabilità -spiega Laura Salzano, docente di diritto dell’Ue presso l’Università di Barcellona-. Ma in mare, sempre di più, le sue attività hanno conseguenze dirette sulla vita delle persone”.

    Lo racconta, in parte, anche la strage di Cutro del 26 febbraio 2023. Alle 22.26 della sera prima infatti fu l’Agenzia, attraverso il velivolo “Eagle 1”, a individuare per prima la “Summer love” e a segnalarla, quand’era a circa 40 miglia delle coste crotonesi, al Frontex coordination centre. Da Varsavia le coordinate della nave furono girate alle autorità competenti: tra queste anche l’International coordination centre (ICC) di Pratica di mare (RM) in cui, allo stesso tavolo, siedono le autorità italiane e la stessa Agenzia che ha il dovere di monitorare quello che succede. “Nonostante fosse noto che c’erano persone nella ‘pancia della nave’ e il meteo stesse peggiorando, si è deciso di attivare un’operazione di polizia e non di ‘ricerca e soccorso’ -spiega Salzano-. Questa classificazione a mio avviso errata è responsabilità anche dell’Agenzia”. Un errore che potrebbe aver inciso anche sul ritardo nei soccorsi.

    Lo stabilirà la Procura di Crotone che, a metà gennaio 2024, non ha ancora chiuso le indagini sulla strage. Qualcosa di quanto successo quella sera, però, si sa già, perché il processo contro i presunti manovratori dell’imbarcazione è già in fase di dibattimento. “La prima barca della Guardia costiera -spiega Francesco Verri, avvocato di decine di familiari delle vittime- arriva sul luogo del naufragio alle 6.50, quasi tre ore dopo il naufragio: salva due persone ma recupera anche il cadavere di un bambino morto di freddo. Perché ci hanno impiegato così tanto tempo per percorrere poche miglia nautiche? Sulla spiaggia la pattuglia è arrivata un’ora e 35 minuti dopo il naufragio. Da Crotone a Cutro ci vogliono dieci minuti di macchina”. Domande a cui dovranno rispondere le autorità italiane.

    Al di là delle responsabilità penali, però, quanto successo quella notte mostra l’inadeguatezza del sistema dei soccorsi di cui la sorveglianza aerea è un tassello fondamentale su cui Frontex continua a investire. Con importi senza precedenti.

    Quando Altreconomia va in stampa, a metà gennaio, l’Agenzia sta ancora valutando le offerte arrivate per il nuovo bando da 158 milioni di euro per due servizi di monitoraggio aereo: uno a medio raggio, entro le 151 miglia nautiche dall’aeroporto di partenza (budget di 100 milioni), l’altro a lungo raggio che può superare le 401 miglia di distanza (48 milioni).

    https://pixelfed.zoo-logique.org/i/web/post/658926323750966119

    Documenti di gara alla mano, una delle novità più rilevanti riguarda i cosiddetti “Paesi ospitanti” delle attività di monitoraggio: si prevede infatti espressamente che possano essere anche Stati non appartenenti all’Unione europea. In sostanza: il velivolo potrebbe partire da una base in Tunisia o Libia; e, addirittura, si prevede che un host country liaison officer, ovvero un agente di “contatto” delle autorità di quel Paese, possa salire a bordo dell’aeromobile. “Bisogna capire se sarà fattibile operativamente -sottolinea Salzano-. Ma non escludere questa possibilità nel bando è grave: sono Paesi che non sono tenuti a rispettare gli standard europei”.

    Mentre lavora per dispiegare la sua flotta anche sull’altra sponda del Mediterraneo, Frontex investe sulla “qualità” dei servizi richiesti. Nel bando si richiede infatti che il radar installato sopra il velivolo sia in grado di individuare (per poi poter fotografare) un oggetto di piccole dimensioni a quasi dieci chilometri di distanza e uno “medio” a quasi 19. Prendendo ad esempio il caso delle coste libiche, più la “potenza di fuoco” è elevata più il velivolo potrà essere distante dalle coste del Nordafrica ma comunque individuare le imbarcazioni appena partite.

    La distanza, in miglia nautiche, che l’ultimo bando pubblicato da Frontex nel novembre 2023 prevede tra l’aeroporto di partenza del velivolo e l’area di interesse da sorvolare è di 401 miglia. Nella prima gara riguardante questi servizi, pubblicata dall’agenzia nell’agosto 2016, la distanza massima prevista era di 200 miglia

    Frontex sa che, oltre alla componente meccanica, l’efficienza “tecnica” dei suoi droni è fondamentale. Per questo il 6 e 7 settembre 2023 ha riunito a Varsavia 16 aziende del settore per discutere delle nuove frontiere tecnologiche dei “velivoli a pilotaggio remoto”. A presentare i propri prodotti c’era anche l’italiana Leonardo Spa, leader europeo nel settore aerospaziale e militare, che già nel 2018 aveva siglato un accordo da 1,6 milioni di euro per fornire droni all’Agenzia.

    L’ex Finmeccanica è tra le 15 aziende che hanno vinto i bandi pubblicati da Frontex per la sorveglianza aerea. Se si guarda al numero di commesse aggiudicate, il trio formato da DEA Aviation (Regno Unito), CAE Aviation (Stati Uniti) ed EASP Air (Spagna) primeggia con oltre otto contratti siglati. Valutando l’importo delle singole gare, a farla da padrone sono invece due colossi del settore militare: la tedesca Airbus DS e la Elbit System, principale azienda che rifornisce l’esercito israeliano, che si sono aggiudicate in cordata due gare (2020 e 2022) per 125 milioni di euro. Dal 2016 a oggi, il totale investito per questi servizi supera i cinquecento milioni di euro.

    “La sorveglianza è una delle principali voci di spesa dell’Agenzia -spiega Ana Valdivia, professoressa all’Oxford internet institute che da anni analizza i bandi di Frontex- insieme a tutte le tecnologie che trasformano gli ‘eventi reali’ in dati”. E la cosiddetta “datificazione” ha un ruolo di primo piano anche nel Mediterraneo. “La fotografia di una barca in distress ha un duplice scopo: intercettarla ma anche avere un’evidenza digitale, una prova, che una determinata persona era a bordo -aggiunge Valdivia-. Questa è la ‘sorveglianza’: non un occhio che ci guarda giorno e notte, ma una memoria digitale capace di ricostruire in futuro la nostra vita. Anche per i migranti”. E per chi è su un’imbarcazione diretta verso l’Europa è vitale a chi finiscono le informazioni.

    Nell’ultimo bando pubblicato da Frontex, si prevede che “il contraente trasferirà i dati a sistemi situati in un Paese terzo se è garantito un livello adeguato di protezione”. “Fanno finta di non sapere che non possono farlo -aggiunge Salzano- non potendo controllare che Paesi come la Tunisia e la Libia non utilizzino quei dati, per esempio, per arrestare le persone in viaggio una volta respinte”. Quello che si sa, invece, è che quei dati -nello specifico le coordinate delle navi- vengono utilizzate per far intervenire le milizie costiere libiche. Per questo motivo i droni si avvicinano sempre di più alla Libia. Se nel 2016 l’Agenzia, nella prima gara pubblicata per questa tipologia di servizi, parlava di area operativa nelle “vicinanze” con le coste italiane e greche, fino a 200 miglia nautiche dall’aeroporto di partenza, dal 2020 in avanti questa distanza ha superato le 401 miglia.

    Lorenzo Pezzani, professore associato di Geografia all’università di Bologna, ha esaminato giorno per giorno i tracciati di “Heron”, il più importante drone della flotta di Frontex: nel 2021 l’attività di volo si è concentrata tra Zuara e Tripoli, il tratto di costa libica da cui partiva la maggior parte delle barche.

    “Il numero di respingimenti delle milizie libiche -spiega Pezzani autore dello studio “Airborne complicity” pubblicato a inizio dicembre 2022- cresce all’aumentare delle ore di volo del drone e allo stesso tempo la mortalità non diminuisce, a differenza di quanto dichiarato dall’Agenzia”. Che tramite il suo direttore Hans Leijtens, entrato in carica a pochi giorni dal naufragio di Cutro, nega di avere accordi o rapporti diretti con la Libia. “Se è così, com’è possibile che un drone voli così vicino alle coste di uno Stato sovrano?”, si chiede Salzano. Chi fornirà il “nuovo” servizio per Frontex dovrà cancellare le registrazioni video entro 72 ore. Meglio non lasciare troppe tracce in giro.

    https://altreconomia.it/frontex-cutro-e-un-ricordo-sbiadito-sorvegliare-dallalto-resta-la-prior
    #migrations #réfugiés #frontières #militarisation_des_frontières #complexe_militaro-industriel #business #Méditerranée #mer_Méditerranée #Cutro #surveillance_aérienne #Leonardo #Elbit_System #Airbus #host_country_liaison_officer #radar #technologie #DEA_Aviation #CAE_Aviation #EASP_Air #Libye #gardes-côtes_libyens

  • Le #village_sous_la_forêt, de #Heidi_GRUNEBAUM et #Mark_KAPLAN

    En #1948, #Lubya a été violemment détruit et vidé de ses habitants par les forces militaires israéliennes. 343 villages palestiniens ont subi le même sort. Aujourd’hui, de #Lubya, il ne reste plus que des vestiges, à peine visibles, recouverts d’une #forêt majestueuse nommée « Afrique du Sud ». Les vestiges ne restent pas silencieux pour autant.

    La chercheuse juive sud-africaine, #Heidi_Grunebaum se souvient qu’étant enfant elle versait de l’argent destiné officiellement à planter des arbres pour « reverdir le désert ».

    Elle interroge les acteurs et les victimes de cette tragédie, et révèle une politique d’effacement délibérée du #Fonds_national_Juif.

    « Le Fonds National Juif a planté 86 parcs et forêts de pins par-dessus les décombres des villages détruits. Beaucoup de ces forêts portent le nom des pays, ou des personnalités célèbres qui les ont financés. Ainsi il y a par exemple la Forêt Suisse, le Parc Canada, le Parc britannique, la Forêt d’Afrique du Sud et la Forêt Correta King ».

    https://www.villageunderforest.com

    Trailer :

    https://www.youtube.com/watch?v=ISmj31rJkGQ

    #israel #palestine #carte #Israël #afrique_du_sud #forêt #documentaire

    #film #documentaire #film_documentaire

    (copier-coller de ce post de 2014 : https://seenthis.net/messages/317236)

    • Documentary Space, Place, and Landscape

      In documentaries of the occupied West Bank, erasure is imaged in the wall that sunders families and communities, in the spaces filled with blackened tree stumps of former olive groves, now missing to ensure “security,” and in the cactus that still grows, demarcating cultivated land whose owners have been expelled.

      This materiality of the landscape becomes figural, such that Shehadeh writes, “[w]hen you are exiled from your land … you begin, like a pornographer, to think about it in symbols. You articulate your love for your land in its absence, and in the process transform it into something else.’’[x] The symbolization reifies and, in this process, something is lost, namely, a potential for thinking differently. But in these Palestinian films we encounter a documenting of the now of everyday living that unfixes such reification. This is a storytelling of vignettes, moments, digressions, stories within stories, and postponed endings. These are stories of interaction, of something happening, in a documenting of a being and doing now, while awaiting a future yet to be known, and at the same time asserting a past history to be remembered through these images and sounds. Through this there arises the accenting of these films, to draw on Hamid Naficy’s term, namely a specific tone of a past—the Nakba or catastrophe—as a continuing present, insofar as the conflict does not allow Palestinians to imagine themselves in a determinate future of place and landscape they can call their own, namely a state.[xi]

      In Hanna Musleh’s I’m a Little Angel (2000), we follow the children of families, both Muslim and Christian, in the area of Bethlehem affected by the 2000 Israeli armed forces attacks and occupation.[xii] One small boy, Nicola, suffered the loss of an arm when he was hit by a shell when walking to church with his mother. His kite, seen flying high in the sky, brings delighted shrieks from Nicola as he plays on the family terrace from which the town and its surrounding hills are visible in the distance. But the contrast between the freedom of the kite in this unlimited vista and his reduced capacity is palpable as he struggles to control it with his remaining hand. The containment of both Nicola and his community is figured in opposition to a possible freedom. What is also required of us is to think not of freedom from the constraints of disability, but of freedom with disability, in a future to be made after. The constraints introduced upon the landscape by the occupation, however, make the future of such living indeterminate and uncertain. Here is the “cinema of the lived,”[xiii] of multiple times of past and present, of possible and imagined future time, and the actualized present, each of which is encountered in the movement in a singular space of Nicola and his kite.


      http://mediafieldsjournal.squarespace.com/documentary-space-place-and-la/2011/7/18/documentary-space-place-and-landscape.html;jsessioni
      #cactus #paysage

    • Memory of the Cactus

      A 42 minute documentary film that combines the cactus and the memories it stands for. The film addresses the story of the destruction of the Palestinian villages of Latroun in the Occupied West Bank and the forcible transfer of their civilian population in 1967. Over 40 years later, the Israeli occupation continues, and villagers remain displaced. The film follows two separate but parallel journeys. Aisha Um Najeh takes us down the painful road that Palestinians have been forcefully pushed down, separating them in time and place from the land they nurtured; while Israelis walk freely through that land, enjoying its fruits. The stems of the cactus, however, take a few of them to discover the reality of the crime committed.

      https://www.youtube.com/watch?v=DQ_LjknRHVA

    • Aujourd’hui, j’ai re-regardé le film « Le village sous la forêt », car je vais le projeter à mes étudiant·es dans le cadre du cours de #géographie_culturelle la semaine prochaine.

      Voici donc quelques citations tirées du film :

      Sur une des boîtes de récolte d’argent pour planter des arbres en Palestine, c’est noté « make wilderness bloom » :

      Voici les panneaux de quelques parcs et forêts créés grâce aux fonds de la #diaspora_juive :

      Projet : « We will make it green, like a modern European country » (ce qui est en étroit lien avec un certaine idée de #développement, liée au #progrès).

      Témoignage d’une femme palestinienne :

      « Ils ont planté des arbres partout qui cachaient tout »

      Ilan Pappé, historien israëlien, Université d’Exter :

      « ça leur a pris entre 6 et 9 mois poru s’emparer de 80% de la Palestine, expulser la plupart des personnes qui y vivaient et reconstruire sur les villes et villages de ces personnes un nouvel Etat, une nouvelle #identité »

      https://socialsciences.exeter.ac.uk/iais/staff/pappe

      Témoignage d’un palestinien qui continue à retourner régulièrement à Lubya :

      « Si je n’aimais pas cet endroit, est-ce que je continuerais à revenir ici tout le temps sur mon tracteur ? Ils l’ont transformé en forêt afin d’affirmer qu’il n’y a pas eu de village ici. Mais on peut voir les #cactus qui prouvent que des arabes vivaient ici »

      Ilan Pappé :

      « Ces villages éaient arabes, tout comme le paysage alentour. C’était un message qui ne passait pas auprès du mouvement sioniste. Des personnes du mouvement ont écrit à ce propos, ils ont dit qu’ils n’aimaient vraiment pas, comme Ben Gurion l’a dit, que le pays ait toujours l’air arabe. (...) Même si les Arabes n’y vivent plus, ça a toujours l’air arabe. En ce qui concerne les zones rurales, il a été clair : les villages devaient être dévastés pour qu’il n’y ait pas de #souvenirs possibles. Ils ont commencé à les dévaster dès le mois d’août 1948. Ils ont rasé les maisons, la terre. Plus rien ne restait. Il y avait deux moyens pour eux d’en nier l’existence : le premier était de planter des forêts de pins européens sur les villages. Dans la plupart des cas, lorsque les villages étaient étendus et les terres assez vastes, on voit que les deux stratégies ont été mises en oeuvre : il y a un nouveau quartier juif et, juste à côté, une forêt. En effet, la deuxième méthode était de créer un quartier juif qui possédait presque le même nom que l’ancien village arabe, mais dans sa version en hébreu. L’objectif était double : il s’agissait d’abord de montrer que le lieu était originellement juif et revenait ainsi à son propriétaire. Ensuite, l’idée était de faire passer un message sinistre aux Palestiniens sur ce qui avait eu lieu ici. Le principal acteur de cette politique a été le FNJ. »

      #toponymie

      Heidi Grunebaum, la réalisatrice :

      « J’ai grandi au moment où le FNJ cultivait l’idée de créer une patrie juive grâce à la plantation d’arbres. Dans les 100 dernières années, 260 millions d’arbres ont été plantés. Je me rends compte à présent que la petite carte du grand Israël sur les boîtes bleues n’était pas juste un symbole. Etait ainsi affirmé que toutes ces terres étaient juives. Les #cartes ont été redessinées. Les noms arabes des lieux ont sombré dans l’oubli à cause du #Comité_de_Dénomination créé par le FNJ. 86 forêts du FNJ ont détruit des villages. Des villages comme Lubya ont cessé d’exister. Lubya est devenu Lavie. Une nouvelle histoire a été écrite, celle que j’ai apprise. »

      Le #Canada_park :

      Canada Park (Hebrew: פארק קנדה‎, Arabic: كندا حديقة‎, also Ayalon Park,) is an Israeli national park stretching over 7,000 dunams (700 hectares), and extending from No man’s land into the West Bank.
      The park is North of Highway 1 (Tel Aviv-Jerusalem), between the Latrun Interchange and Sha’ar HaGai, and contains a Hasmonean fort, Crusader fort, other archaeological remains and the ruins of 3 Palestinian villages razed by Israel in 1967 after their inhabitants were expelled. In addition it has picnic areas, springs and panoramic hilltop views, and is a popular Israeli tourist destination, drawing some 300,000 visitors annually.


      https://en.wikipedia.org/wiki/Canada_Park

      Heidi Grunebaum :

      « Chaque pièce de monnaie est devenue un arbre dans une forêt, chaque arbre, dont les racines étaient plantées dans la terre était pour nous, la diaspora. Les pièces changées en arbres devenaient des faits ancrés dans le sol. Le nouveau paysage arrangé par le FNJ à travers la plantation de forêts et les accords politiques est celui des #parcs_de_loisirs, des routes, des barrages et des infrastructures »

      Témoignage d’un Palestinien :

      « Celui qui ne possède de #pays_natal ne possède rien »

      Heidi Grunebaum :

      « Si personne ne demeure, la mémoire est oblitérée. Cependant, de génération en génération, le souvenir qu’ont les Palestiniens d’un endroit qui un jour fut le leur, persiste. »

      Témoignage d’un Palestinien :

      "Dès qu’on mange quelque chose chez nous, on dit qu’on mangeait ce plat à Lubya. Quelles que soient nos activités, on dit que nous avions les mêmes à Lubya. Lubya est constamment mentionnées, et avec un peu d’amertume.

      Témoignage d’un Palestinien :

      Lubya est ma fille précieuse que j’abriterai toujours dans les profondeurs de mon âme. Par les histoires racontées par mon père, mon grand-père, mes oncles et ma grande-mère, j’ai le sentiment de connaître très bien Lubya.

      Avi Shlaim, Université de Oxford :

      « Le mur dans la partie Ouest ne relève pas d’une mesure de sécurité, comme il a été dit. C’est un outil de #ségrégation des deux communautés et un moyen de s’approprier de larges portions de terres palestiniennes. C’est un moyen de poursuivre la politique d’#expansion_territoriale et d’avoir le plus grand Etat juif possible avec le moins de population d’arabes à l’intérieur. »

      https://www.sant.ox.ac.uk/people/avi-shlaim

      Heidi Grunebaum :

      « Les petites pièces de la diaspora n’ont pas seulement planté des arbres juifs et déraciné des arbres palestiniens, elles ont aussi créé une forêt d’un autre type. Une vaste forêt bureaucratique où la force de la loi est une arme. La règlementation règne, les procédures, permis, actions commandées par les lois, tout régulé le moindre espace de la vie quotidienne des Palestiniens qui sont petit à petit étouffés, repoussés aux marges de leurs terres. Entassés dans des ghettos, sans autorisation de construire, les Palestiniens n’ont plus qu’à regarder leurs maisons démolies »

      #Lubya #paysage #ruines #architecture_forensique #Afrique_du_Sud #profanation #cactus #South_african_forest #Galilée #Jewish_national_fund (#fonds_national_juif) #arbres #Palestine #Organisation_des_femmes_sionistes #Keren_Kayemeth #apartheid #résistance #occupation #Armée_de_libération_arabe #Hagana #nakba #exil #réfugiés_palestiniens #expulsion #identité #present_absentees #IDPs #déplacés_internes #Caesarea #oubli #déni #historicisation #diaspora #murs #barrières_frontalières #dépossession #privatisation_des_terres #terres #mémoire #commémoration #poésie #Canada_park

    • The Carmel wildfire is burning all illusions in Israel

      “When I look out my window today and see a tree standing there, that tree gives me a greater sense of beauty and personal delight than all the vast forests I have seen in Switzerland or Scandinavia. Because every tree here was planted by us.”

      – David Ben Gurion, Memoirs

      “Why are there so many Arabs here? Why didn’t you chase them away?”

      – David Ben Gurion during a visit to Nazareth, July 1948


      https://electronicintifada.net/content/carmel-wildfire-burning-all-illusions-israel/9130

      signalé par @sinehebdo que je remercie

    • Vu dans ce rapport, signalé par @palestine___________ , que je remercie (https://seenthis.net/messages/723321) :

      A method of enforcing the eradication of unrecognized Palestinian villages is to ensure their misrepresentation on maps. As part of this policy, these villages do not appear at all on Israeli maps, with the exception of army and hiking maps. Likewise, they do not appear on first sight on Google Maps or at all on Israeli maps, with the exception of army and hiking maps. They are labelled on NGO maps designed to increase their visibility. On Google Maps, the Bedouin villages are marked – in contrast to cities and other villages – under their Bedouin tribe and clan names (Bimkom) rather than with their village names and are only visible when zooming in very closely, but otherwise appear to be non-existent. This means that when looking at Google Maps, these villages appear to be not there, only when zooming on to a very high degree, do they appear with their tribe or clan names. At first (and second and third) sight, therefore, these villages are simply not there. Despite their small size, Israeli villages are displayed even when zoomed-out, while unrecognized Palestinian Bedouin villages, regardless of their size are only visible when zooming in very closely.


      http://7amleh.org/2018/09/18/google-maps-endangering-palestinian-human-rights
      Pour télécharger le rapport :
      http://www.7amleh.org/ms/Mapping%20Segregation%20Cover_WEB.pdf

    • signalé par @kassem :
      https://seenthis.net/messages/317236#message784258

      Israel lifted its military rule over the state’s Arab community in 1966 only after ascertaining that its members could not return to the villages they had fled or been expelled from, according to newly declassified archival documents.

      The documents both reveal the considerations behind the creation of the military government 18 years earlier, and the reasons for dismantling it and revoking the severe restrictions it imposed on Arab citizens in the north, the Negev and the so-called Triangle of Locales in central Israel.

      These records were made public as a result of a campaign launched against the state archives by the Akevot Institute, which researches the Israeli-Palestinian conflict.

      After the War of Independence in 1948, the state imposed military rule over Arabs living around the country, which applied to an estimated 85 percent of that community at the time, say researchers at the NGO. The Arabs in question were subject to the authority of a military commander who could limit their freedom of movement, declare areas to be closed zones, or demand that the inhabitants leave and enter certain locales only with his written permission.

      The newly revealed documents describe the ways Israel prevented Arabs from returning to villages they had left in 1948, even after the restrictions on them had been lifted. The main method: dense planting of trees within and surrounding these towns.

      At a meeting held in November 1965 at the office of Shmuel Toledano, the prime minister’s adviser on Arab affairs, there was a discussion about villages that had been left behind and that Israel did not want to be repopulated, according to one document. To ensure that, the state had the Jewish National Fund plant trees around and in them.

      Among other things, the document states that “the lands belonging to the above-mentioned villages were given to the custodian for absentee properties” and that “most were leased for work (cultivation of field crops and olive groves) by Jewish households.” Some of the properties, it adds, were subleased.

      In the meeting in Toledano’s office, it was explained that these lands had been declared closed military zones, and that once the structures on them had been razed, and the land had been parceled out, forested and subject to proper supervision – their definition as closed military zones could be lifted.

      On April 3, 1966, another discussion was held on the same subject, this time at the office of the defense minister, Levi Eshkol, who was also the serving prime minister; the minutes of this meeting were classified as top secret. Its participants included: Toledano; Isser Harel, in his capacity as special adviser to the prime minister; the military advocate general – Meir Shamgar, who would later become president of the Supreme Court; and representatives of the Shin Bet security service and Israel Police.

      The newly publicized record of that meeting shows that the Shin Bet was already prepared at that point to lift the military rule over the Arabs and that the police and army could do so within a short time.

      Regarding northern Israel, it was agreed that “all the areas declared at the time to be closed [military] zones... other than Sha’ab [east of Acre] would be opened after the usual conditions were fulfilled – razing of the buildings in the abandoned villages, forestation, establishment of nature reserves, fencing and guarding.” The dates of the reopening these areas would be determined by Israel Defense Forces Maj. Gen. Shamir, the minutes said. Regarding Sha’ab, Harel and Toledano were to discuss that subject with Shamir.

      However, as to Arab locales in central Israel and the Negev, it was agreed that the closed military zones would remain in effect for the time being, with a few exceptions.

      Even after military rule was lifted, some top IDF officers, including Chief of Staff Tzvi Tzur and Shamgar, opposed the move. In March 1963, Shamgar, then military advocate general, wrote a pamphlet about the legal basis of the military administration; only 30 copies were printed. (He signed it using his previous, un-Hebraized name, Sternberg.) Its purpose was to explain why Israel was imposing its military might over hundreds of thousands of citizens.

      Among other things, Shamgar wrote in the pamphlet that Regulation 125, allowing certain areas to be closed off, is intended “to prevent the entry and settlement of minorities in border areas,” and that “border areas populated by minorities serve as a natural, convenient point of departure for hostile elements beyond the border.” The fact that citizens must have permits in order to travel about helps to thwart infiltration into the rest of Israel, he wrote.

      Regulation 124, he noted, states that “it is essential to enable nighttime ambushes in populated areas when necessary, against infiltrators.” Blockage of roads to traffic is explained as being crucial for the purposes of “training, tests or maneuvers.” Moreover, censorship is a “crucial means for counter-intelligence.”

      Despite Shamgar’s opinion, later that year, Prime Minister Levi Eshkol canceled the requirement for personal travel permits as a general obligation. Two weeks after that decision, in November 1963, Chief of Staff Tzur wrote a top-secret letter about implementation of the new policy to the officers heading the various IDF commands and other top brass, including the head of Military Intelligence. Tzur ordered them to carry it out in nearly all Arab villages, with a few exceptions – among them Barta’a and Muqeible, in northern Israel.

      In December 1965, Haim Israeli, an adviser to Defense Minister Eshkol, reported to Eshkol’s other aides, Isser Harel and Aviad Yaffeh, and to the head of the Shin Bet, that then-Chief of Staff Yitzhak Rabin opposed legislation that would cancel military rule over the Arab villages. Rabin explained his position in a discussion with Eshkol, at which an effort to “soften” the bill was discussed. Rabin was advised that Harel would be making his own recommendations on this matter.

      At a meeting held on February 27, 1966, Harel issued orders to the IDF, the Shin Bet and the police concerning the prime minister’s decision to cancel military rule. The minutes of the discussion were top secret, and began with: “The mechanism of the military regime will be canceled. The IDF will ensure the necessary conditions for establishment of military rule during times of national emergency and war.” However, it was decided that the regulations governing Israel’s defense in general would remain in force, and at the behest of the prime minister and with his input, the justice minister would look into amending the relevant statutes in Israeli law, or replacing them.

      The historical documents cited here have only made public after a two-year campaign by the Akevot institute against the national archives, which preferred that they remain confidential, Akevot director Lior Yavne told Haaretz. The documents contain no information of a sensitive nature vis-a-vis Israel’s security, Yavne added, and even though they are now in the public domain, the archives has yet to upload them to its website to enable widespread access.

      “Hundreds of thousands of files which are crucial to understanding the recent history of the state and society in Israel remain closed in the government archive,” he said. “Akevot continues to fight to expand public access to archival documents – documents that are property of the public.”

    • Israel is turning an ancient Palestinian village into a national park for settlers

      The unbelievable story of a village outside Jerusalem: from its destruction in 1948 to the ticket issued last week by a parks ranger to a descendent of its refugees, who had the gall to harvest the fruits of his labor on his own land.

      Thus read the ticket issued last Wednesday, during the Sukkot holiday, by ranger Dayan Somekh of the Israel Nature and Parks Authority – Investigations Division, 3 Am Ve’olamo Street, Jerusalem, to farmer Nidal Abed Rabo, a resident of the Jerusalem-area village of Walaja, who had gone to harvest olives on his private land: “In accordance with Section 228 of the criminal code, to: Nidal Abed Rabo. Description of the facts constituting the offense: ‘picking, chopping and destroying an olive tree.’ Suspect’s response: ‘I just came to pick olives. I pick them and put them in a bucket.’ Fine prescribed by law: 730 shekels [$207].” And an accompanying document that reads: “I hereby confirm that I apprehended from Nidal Abed Rabo the following things: 1. A black bucket; 2. A burlap sack. Name of the apprehending officer: Dayan Somekh.”

      Ostensibly, an amusing parody about the occupation. An inspector fines a person for harvesting the fruits of his own labor on his own private land and then fills out a report about confiscating a bucket, because order must be preserved, after all. But no one actually found this report amusing – not the inspector who apparently wrote it in utter seriousness, nor the farmer who must now pay the fine.

      Indeed, the story of Walaja, where this absurdity took place, contains everything – except humor: the flight from and evacuation of the village in 1948; refugee-hood and the establishment of a new village adjacent to the original one; the bisection of the village between annexed Jerusalem and the occupied territories in 1967; the authorities’ refusal to issue blue Israeli IDs to residents, even though their homes are in Jerusalem; the demolition of many structures built without a permit in a locale that has no master construction plan; the appropriation of much of its land to build the Gilo neighborhood and the Har Gilo settlement; the construction of the separation barrier that turned the village into an enclave enclosed on all sides; the decision to turn villagers’ remaining lands into a national park for the benefit of Gilo’s residents and others in the area; and all the way to the ridiculous fine issued by Inspector Somekh.

      This week, a number of villagers again snuck onto their lands to try to pick their olives, in what looks like it could be their final harvest. As it was a holiday, they hoped the Border Police and the parks authority inspectors would leave them alone. By next year, they probably won’t be able to reach their groves at all, as the checkpoint will have been moved even closer to their property.

      Then there was also this incident, on Monday, the Jewish holiday of Simhat Torah. Three adults, a teenager and a horse arrived at the neglected groves on the mountainside below their village of Walaja. They had to take a long and circuitous route; they say the horse walked 25 kilometers to reach the olive trees that are right under their noses, beneath their homes. A dense barbed-wire fence and the separation barrier stand between these people and their lands. When the national park is built here and the checkpoint is moved further south – so that only Jews will be able to dip undisturbed in Ein Hanya, as Nir Hasson reported (“Jerusalem reopens natural spring, but not to Palestinians,” Oct. 15) – it will mean the end of Walaja’s olive orchards, which are planted on terraced land.

      The remaining 1,200 dunams (300 acres) belonging to the village, after most of its property was lost over the years, will also be disconnected from their owners, who probably won’t be able to access them again. An ancient Palestinian village, which numbered 100 registered households in 1596, in a spectacular part of the country, will continue its slow death, until it finally expires for good.

      Steep slopes and a deep green valley lie between Jerusalem and Bethlehem, filled with oak and pine trees, along with largely abandoned olive groves. “New” Walaja overlooks this expanse from the south, the Gilo neighborhood from the northeast, and the Cremisan Monastery from the east. To the west is where the original village was situated, between the moshavim of Aminadav and Ora, both constructed after the villagers fled – frightened off by the massacre in nearby Deir Yassin and in fear of bombardment.

      Aviv Tatarsky, a longtime political activist on behalf of Walaja and a researcher for the Ir Amim nonprofit organization, says the designated national park is supposed to ensure territorial contiguity between the Etzion Bloc and Jerusalem. “Since we are in the territory of Jerusalem, and building another settler neighborhood could cause a stir, they are building a national park, which will serve the same purpose,” he says. “The national park will Judaize the area once and for all. Gilo is five minutes away. If you live there, you will have a park right next door and feel like it’s yours.”

      As Tatarsky describes the blows suffered by the village over the years, brothers Walid and Mohammed al-‘Araj stand on a ladder below in the valley, in the shade of the olive trees, engrossed in the harvest.

      Walid, 52, and Mohammed, 58, both live in Walaja. Walid may be there legally, but his brother is there illegally, on land bequeathed to them by their uncle – thanks to yet another absurdity courtesy of the occupation. In 1995, Walid married a woman from Shoafat in East Jerusalem, and thus was able to obtain a blue Israeli ID card, so perhaps he is entitled to be on his land. His brother, who lives next door, however, is an illegal resident on his land: He has an orange ID, as a resident of the territories.

      A sewage line that comes out of Beit Jala and is under the responsibility of Jerusalem’s Gihon water company overflows every winter and floods the men’s olive grove with industrial waste that has seriously damaged their crop. And that’s in addition, of course, to the fact that most of the family is unable to go work the land. The whole area looks quite derelict, overgrown with weeds and brambles that could easily catch fire. In previous years, the farmers would receive an entry permit allowing them to harvest the olives for a period of just a few days; this year, even that permit has not yet been forthcoming.

      The olives are black and small; it’s been a bad year for them and for their owners.

      “We come here like thieves to our own land,” says Mohammed, the older brother, explaining that three days beforehand, a Border Police jeep had showed up and chased them away. “I told him: It’s my land. They said okay and left. Then a few minutes later, another Border Police jeep came and the officer said: Today there’s a general closure because of the holiday. I told him: Okay, just let me take my equipment. I’m on my land. He said: Don’t take anything. I left. And today I came back.”

      You’re not afraid? “No, I’m not afraid. I’m on my land. It’s registered in my name. I can’t be afraid on my land.”

      Walid says that a month ago the Border Police arrived and told him he wasn’t allowed to drive on the road that leads to the grove, because it’s a “security road.” He was forced to turn around and go home, despite the fact that he has a blue ID and it is not a security road. Right next to it, there is a residential building where a Palestinian family still lives.

      Some of Walaja’s residents gave up on their olive orchards long ago and no longer attempt to reach their lands. When the checkpoint is moved southward, in order to block access by Palestinians to the Ein Hanya spring, the situation will be even worse: The checkpoint will be closer to the orchards, meaning that the Palestinians won’t be permitted to visit them.

      “This place will be a park for people to visit,” says Walid, up on his ladder. “That’s it; that will be the end of our land. But we won’t give up our land, no matter what.” Earlier this month, one local farmer was detained for several hours and 10 olive trees were uprooted, on the grounds that he was prohibited from being here.

      Meanwhile, Walid and Mohammed are collecting their meager crop in a plastic bucket printed with a Hebrew ad for a paint company. The olives from this area, near Beit Jala, are highly prized; during a good year the oil made from them can fetch a price of 100 shekels per liter.

      A few hundred meters to the east are a father, a son and a horse. Khaled al-‘Araj, 51, and his son, Abed, 19, a business student. They too are taking advantage of the Jewish holiday to sneak onto their land. They have another horse, an original Arabian named Fatma, but this horse is nameless. It stands in the shade of the olive tree, resting from the long trek here. If a Border Police force shows up, it could confiscate the horse, as has happened to them before.

      Father and son are both Walaja residents, but do not have blue IDs. The father works in Jerusalem with a permit, but it does not allow him to access his land.

      “On Sunday,” says Khaled, “I picked olives here with my son. A Border Police officer arrived and asked: What are you doing here? He took pictures of our IDs. He asked: Whose land is this? I said: Mine. Where are the papers? At home. I have papers from my grandfather’s time; everything is in order. But he said: No, go to DCO [the Israeli District Coordination Office] and get a permit. At first I didn’t know what he meant. I have a son and a horse and they’ll make problems for me. So I left.”

      He continues: “We used to plow the land. Now look at the state it’s in. We have apricot and almond trees here, too. But I’m an illegal person on my own land. That is our situation. Today is the last day of your holiday, that’s why I came here. Maybe there won’t be any Border Police.”

      “Kumi Ori, ki ba orekh,” says a makeshift monument in memory of Ori Ansbacher, a young woman murdered here in February by a man from Hebron. Qasem Abed Rabo, a brother of Nidal, who received the fine from the park ranger for harvesting his olives, asks activist Tatarsky if he can find out whether the house he owns is considered to be located in Jerusalem or in the territories. He still doesn’t know.

      “Welcome to Nahal Refaim National Park,” says a sign next to the current Walaja checkpoint. Its successor is already being built but work on it was stopped for unknown reasons. If and when it is completed, Ein Hanya will become a spring for Jews only and the groves on the mountainside below the village of Walaja will be cut off from their owners for good. Making this year’s harvest Walaja’s last.

      https://www.haaretz.com/israel-news/.premium-israel-is-turning-an-ancient-palestinian-village-into-a-national-p
      https://seenthis.net/messages/807722

    • Sans mémoire des lieux ni lieux de mémoire. La Palestine invisible sous les forêts israéliennes

      Depuis la création de l’État d’Israël en 1948, près de 240 millions d’arbres ont été plantés sur l’ensemble du territoire israélien. Dans l’objectif de « faire fleurir le désert », les acteurs de l’afforestation en Israël se situent au cœur de nombreux enjeux du territoire, non seulement environnementaux mais également identitaires et culturels. La forêt en Israël représente en effet un espace de concurrence mémorielle, incarnant à la fois l’enracinement de l’identité israélienne mais également le rappel de l’exil et de l’impossible retour du peuple palestinien. Tandis que 86 villages palestiniens détruits en 1948 sont aujourd’hui recouverts par une forêt, les circuits touristiques et historiques officiels proposés dans les forêts israéliennes ne font jamais mention de cette présence palestinienne passée. Comment l’afforestation en Israël a-t-elle contribué à l’effacement du paysage et de la mémoire palestiniens ? Quelles initiatives existent en Israël et en Palestine pour lutter contre cet effacement spatial et mémoriel ?

      https://journals.openedition.org/bagf/6779

    • Septembre 2021, un feu de forêt ravage Jérusalem et dévoile les terrassements agricoles que les Palestinien·nes avaient construit...
      Voici une image :

      « La nature a parlé » : un feu de forêt attise les rêves de retour des Palestiniens

      Un gigantesque incendie près de Jérusalem a détruit les #pins_européens plantés par les sionistes, exposant ainsi les anciennes terrasses palestiniennes qu’ils avaient tenté de dissimuler.

      Au cours de la deuxième semaine d’août, quelque 20 000 dounams (m²) de terre ont été engloutis par les flammes dans les #montagnes de Jérusalem.

      C’est une véritable catastrophe naturelle. Cependant, personne n’aurait pu s’attendre à la vision qui est apparue après l’extinction de ces incendies. Ou plutôt, personne n’avait imaginé que les incendies dévoileraient ce qui allait suivre.

      Une fois les flammes éteintes, le #paysage était terrible pour l’œil humain en général, et pour l’œil palestinien en particulier. Car les incendies ont révélé les #vestiges d’anciens villages et terrasses agricoles palestiniens ; des terrasses construites par leurs ancêtres, décédés il y a longtemps, pour cultiver la terre et planter des oliviers et des vignes sur les #pentes des montagnes.

      À travers ces montagnes, qui constituent l’environnement naturel à l’ouest de Jérusalem, passait la route Jaffa-Jérusalem, qui reliait le port historique à la ville sainte. Cette route ondulant à travers les montagnes était utilisée par les pèlerins d’Europe et d’Afrique du Nord pour visiter les lieux saints chrétiens. Ils n’avaient d’autre choix que d’emprunter la route Jaffa-Jérusalem, à travers les vallées et les ravins, jusqu’au sommet des montagnes. Au fil des siècles, elle sera foulée par des centaines de milliers de pèlerins, de soldats, d’envahisseurs et de touristes.

      Les terrasses agricoles – ou #plates-formes – que les agriculteurs palestiniens ont construites ont un avantage : leur durabilité. Selon les estimations des archéologues, elles auraient jusqu’à 600 ans. Je crois pour ma part qu’elles sont encore plus vieilles que cela.

      Travailler en harmonie avec la nature

      Le travail acharné du fermier palestinien est clairement visible à la surface de la terre. De nombreuses études ont prouvé que les agriculteurs palestiniens avaient toujours investi dans la terre quelle que soit sa forme ; y compris les terres montagneuses, très difficiles à cultiver.

      Des photographies prises avant la Nakba (« catastrophe ») de 1948, lorsque les Palestiniens ont été expulsés par les milices juives, et même pendant la seconde moitié du XIXe siècle montrent que les oliviers et les vignes étaient les deux types de plantation les plus courants dans ces régions.

      Ces végétaux maintiennent l’humidité du sol et assurent la subsistance des populations locales. Les #oliviers, en particulier, aident à prévenir l’érosion des sols. Les oliviers et les #vignes peuvent également créer une barrière naturelle contre le feu car ils constituent une végétation feuillue qui retient l’humidité et est peu gourmande en eau. Dans le sud de la France, certaines routes forestières sont bordées de vignes pour faire office de #coupe-feu.

      Les agriculteurs palestiniens qui les ont plantés savaient travailler en harmonie avec la nature, la traiter avec sensibilité et respect. Cette relation s’était formée au cours des siècles.

      Or qu’a fait l’occupation sioniste ? Après la Nakba et l’expulsion forcée d’une grande partie de la population – notamment le nettoyage ethnique de chaque village et ville se trouvant sur l’itinéraire de la route Jaffa-Jérusalem –, les sionistes ont commencé à planter des #pins_européens particulièrement inflammables sur de vastes portions de ces montagnes pour couvrir et effacer ce que les mains des agriculteurs palestiniens avaient créé.

      Dans la région montagneuse de Jérusalem, en particulier, tout ce qui est palestinien – riche de 10 000 ans d’histoire – a été effacé au profit de tout ce qui évoque le #sionisme et la #judéité du lieu. Conformément à la mentalité coloniale européenne, le « milieu » européen a été transféré en Palestine, afin que les colons puissent se souvenir de ce qu’ils avaient laissé derrière eux.

      Le processus de dissimulation visait à nier l’existence des villages palestiniens. Et le processus d’effacement de leurs particularités visait à éliminer leur existence de l’histoire.

      Il convient de noter que les habitants des villages qui ont façonné la vie humaine dans les montagnes de Jérusalem, et qui ont été expulsés par l’armée israélienne, vivent désormais dans des camps et communautés proches de Jérusalem, comme les camps de réfugiés de Qalandiya et Shuafat.

      On trouve de telles forêts de pins ailleurs encore, dissimulant des villages et fermes palestiniens détruits par Israël en 1948. Des institutions internationales israéliennes et sionistes ont également planté des pins européens sur les terres des villages de #Maaloul, près de Nazareth, #Sohmata, près de la frontière palestino-libanaise, #Faridiya, #Kafr_Anan et #al-Samoui sur la route Akka-Safad, entre autres. Ils sont maintenant cachés et ne peuvent être vus à l’œil nu.

      Une importance considérable

      Même les #noms des villages n’ont pas été épargnés. Par exemple, le village de Suba est devenu « #Tsuba », tandis que #Beit_Mahsir est devenu « #Beit_Meir », #Kasla est devenu « #Ksalon », #Saris est devenu « #Shoresh », etc.

      Si les Palestiniens n’ont pas encore pu résoudre leur conflit avec l’occupant, la nature, elle, s’est désormais exprimée de la manière qu’elle jugeait opportune. Les incendies ont révélé un aspect flagrant des composantes bien planifiées et exécutées du projet sioniste.

      Pour les Palestiniens, la découverte de ces terrasses confirme leur version des faits : il y avait de la vie sur cette terre, le Palestinien était le plus actif dans cette vie, et l’Israélien l’a expulsé pour prendre sa place.

      Ne serait-ce que pour cette raison, ces terrasses revêtent une importance considérable. Elles affirment que la cause palestinienne n’est pas morte, que la terre attend le retour de ses enfants ; des personnes qui sauront la traiter correctement.

      https://www.middleeasteye.net/fr/opinion-fr/israel-jerusalem-incendies-villages-palestiniens-nakba-sionistes-reto

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      An Israeli Forest to Erase the Ruins of Palestinian Agricultural Terraces

      “Our forest is growing over, well, over a ruined village,” A.B. Yehoshua wrote in his novella “Facing the Forests.” The massive wildfire in the Jerusalem Hills last week exposed the underpinning of the view through the trees. The agricultural terraces were revealed in their full glory, and also revealed a historic record that Israel has always sought to obscure and erase – traces of Palestinian life on this land.

      On my trips to the West Bank and the occupied territories, when I passed by the expansive areas of Palestinian farmland, I was always awed by the sight of the long chain of terraces, mustabat or mudrajat in Arabic. I thrilled at their grandeur and the precision of the work that attests to the connection between the Palestinian fellah and his land. I would wonder – Why doesn’t the same “phenomenon” exist in the hills of the Galilee?

      When I grew up, I learned a little in school about Israeli history. I didn’t learn that Israel erased Palestinian agriculture in the Galilee and that the Jewish National Fund buried it once and for all, but I did learn that “The Jews brought trees with them” and planted them in the Land of Israel. How sterile and green. Greta Thunberg would be proud of you.

      The Zionist movement knew that in the war for this land it was not enough to conquer the land and expel its inhabitants, you also had to build up a story and an ethos and a narrative, something that will fit with the myth of “a people without a land for a land without a people.” Therefore, after the conquest of the land and the expulsion, all trace of the people who once lived here had to be destroyed. This included trees that grew without human intervention and those that were planted by fellahin, who know this land as they do their children and as they do the terraces they built in the hills.

      This is how white foreigners who never in their lives were fellahin or worked the land for a living came up with the national forestation project on the ruins of Arab villages, which David Ben-Gurion decided to flatten, such as Ma’alul and Suhmata. The forestation project including the importation of cypress and pine trees that were alien to this land and belong to colder climes, so that the new inhabitants would feel more at home and less as if they were in somebody else’s home.

      The planting of combustible cypresses and pines, which are not suited to the weather in this land, is not just an act of national erasure of the Palestinian natives, but also an act of arrogance and patronage, characteristics typical of colonialist movements throughout the world. All because they did not understand the nature, in both senses of the word, of the countries they conquered.

      Forgive me, but a biblical-historical connection is not sufficient. Throughout the history of colonialism, the new settlers – whether they ultimately left or stayed – were unable to impose their imported identity on the new place and to completely erase the place’s native identity. It’s a little like the forests surrounding Jerusalem: When the fire comes and burns them, one small truth is revealed, after so much effort went into concealing it.

      https://www.haaretz.com/opinion/.premium-an-israeli-forest-to-erase-the-ruins-of-palestinian-agricultural-t

      et ici :
      https://seenthis.net/messages/928766

    • Planter un arbre en Israël : une forêt rédemptrice et mémorielle

      Tout au long du projet sioniste, le végétal a joué un rôle de médiateur entre la terre rêvée et la terre foulée, entre le texte biblique et la réalité. Le réinvestissement national s’est opéré à travers des plantes connues depuis la diaspora, réorganisées en scènes signifiantes pour la mémoire et l’histoire juive. Ce lien de filiation entre texte sacré et paysage débouche sur une pratique de plantation considérée comme un acte mystique de régénération du monde.

      https://journals.openedition.org/diasporas/258

  • France/Grand Est Le tram sur pneus dans les rues de Nancy, c’est terminé

    Le tram sur pneus de Nancy, lancé en 2000, cesse de fonctionner dimanche, après des années marquées par des incidents techniques. Inauguré par Bernadette Chirac en décembre 2000, le TVR (transport sur voie réservée) de Bombardier sera remplacé en septembre 2024 par un trolleybus bi-articulé. Ce véhicule électrique sur pneus sera alimenté par des lignes aériennes de contact et possédera des batteries électriques dont la recharge est assurée en roulant, « ce qui lui offrira une autonomie pour relier des secteurs non équipés de lignes aériennes », a souligné la métropole du Grand Nancy dans un dossier de presse.

    D’ici à sa mise en service, des travaux d’aménagement seront entrepris et des bus assureront la transition. Le tram sur pneus avait été choisi à Nancy comme à Caen parce qu’il était moins cher qu’un tramway classique avec son rail unique au lieu de deux et pour son mode d’opération innovant, à la fois électrique et diesel, avec des pneus permettant de rouler sans guidage sur une partie de la ligne.

    Comme à Nancy, où la décision de renoncer au tram sur pneus a été prise il y a plusieurs années, la ville de Caen a décidé d’abandonner ce moyen de transport en 2017, en raison d’une usure prématurée.

    #Nancy #Caen #Tramway #Transports_Publics #Technologisme #Bombardier (la société)

    Source : https://www.lessentiel.lu/fr/story/le-tram-sur-pneus-dans-les-rues-de-nancy-c-est-termine-978622228938

  • La guerre des chiffres ça saoule. Au doigt mouillé il y avait, à Paris, vraiment beaucoup de monde : une partie du cortège était encore au point de départ quand l’autre arrivait au point d’arrivée, signe qu’il s’agissait d’une manif de grande ampleur. Pour mettre tout le monde d’accord il faut continuer. Grève générale !


    Brassard du jour.

  • Que prévoit la #France pour les 230 migrants de l’#Ocean_Viking ?

    Les migrants arrivés vendredi à #Toulon font l’objet d’un suivi sanitaire, et de contrôles de sécurité, avant d’être entendus par l’#Ofpra dans le cadre d’une #procédure_d’asile à la frontière. Pendant tout ce temps, ils sont maintenus dans une « #zone_d'attente ». Des associations dénoncent ces conditions d’accueil.

    Si les 230 migrants sauvés par l’Ocean Viking ont bien débarqué en France, vendredi 11 novembre, dans le port de Toulon (http://www.infomigrants.net/fr/post/44677/locean-viking-et-ses-230-migrants-accostent-a-toulon-en-france), ils ne se trouvent « pas techniquement sur le sol français », comme l’a indiqué le ministre de l’Intérieur Gérald Darmanin.

    En effet, les autorités françaises ont choisi de les placer dans une « zone d’attente », définie jeudi soir dans la zone portuaire de Toulon et sur un #centre_de_vacances de la #presqu’île de #Giens à #Hyères, où les exilés sont hébergés pour l’occasion. Un « #centre_administratif » dont ils n’ont pas le droit de sortir.

    Le maintien des personnes dans ce lieu peut durer 26 jours au maximum d’après la loi française.

    « Un système d’#enfermement de #privation_de_liberté et non d’accueil »

    Un dispositif dénoncé par plusieurs associations, dont l’Anafé qui défend les étrangers aux frontières. Interrogée par InfoMigrants, sa directrice Laure Palun souligne que c’est « un système d’enfermement de privation de liberté et non d’accueil, qui pose question quant aux conséquences sur des personnes vulnérables ».

    Gérad Sadik, responsable national de l’asile à La Cimade, estime, quant à lui, que cette #zone_temporaire est « illégale » car ce dispositif est normalement réservé aux espaces situés sur une frontière, dans les aéroports par exemple.

    Une centaine de « #Zones_d'attente_pour_personnes_en_instance » (#ZAPI) existe actuellement en France. Plusieurs associations dont l’Anafé, la Cimade et la Croix-Rouge interviennent dans ces lieux où patientent les étrangers qui ne sont pas autorisés à entrer sur le territoire, pour leur porter une assistance juridique, sanitaire et sociale.

    Mais, concernant les migrants de l’Ocean Viking, la Cimade s’inquiète de ne pas avoir accès aux personnes retenues dans la zone d’attente. Gérard Sadik affirme que l’entrée leur a été refusée. Il alerte également sur le fait que les mineurs non accompagnés ne doivent pas être placés dans ces zones d’attente, or 42 jeunes dans ce cas se trouvaient à bord de l’Ocean Viking selon SOS Méditerranée.

    Dans cette zone d’attente, les migrants feront l’objet d’un suivi sanitaire, puis de contrôles de sécurité des services de renseignement, avant d’être entendus par l’Office français de protection des réfugiés (Ofpra), qui examine les demandes d’asile et décide ou non d’attribuer le statut de réfugié.

    Procédure d’asile à la frontière comme dans les #aéroports

    La France, qui veut décider « très rapidement » du sort des migrants de l’Ocean Viking, a choisi d’appliquer la procédure d’asile à la frontière.

    Habituellement une demande d’asile française est d’abord enregistrée en préfecture, déposée auprès de l’Ofpra sous forme de dossier puis s’ensuit une convocation à un entretien, et entre trois à six mois mois d’attente avant la réponse.

    Mais dans le cas des migrants de l’Ocean Viking, l’Etat a choisi d’appliquer une #procédure_exceptionnelle qui prévoit qu’un agent de la mission asile frontière de l’Ofpra mène un entretien avec ces personnes dans un délai de 48 heures ouvrées afin d’évaluer si la demande d’asile n’est pas « #manifestement_infondée ».

    Cela peut poser problème, car cette notion floue et présentée sous une forme alambiquée laisse un large champ aux autorités françaises pour refuser l’entrée d’une personne, soulèvent les associations d’aide aux migrants.

    « En théorie, l’examen du caractère manifestement infondé ou non d’une demande d’asile ne devrait consister à vérifier que de façon sommaire si les motifs invoqués par le demandeur correspondent à un besoin de protection », soulignait l’Anafé, interrogée par InfoMigrants début novembre sur cette même procédure très régulièrement appliquée sur l’île de La Réunion. « Il ne devrait s’agir que d’un examen superficiel, et non d’un examen au fond, de la demande d’asile, visant à écarter les personnes qui souhaiteraient venir en France pour un autre motif (tourisme, travail, étude, regroupement familial, etc.) en s’affranchissant de la procédure de délivrance des visas », précisait l’association.

    Difficile donc pour des migrants tout juste arrivés après plusieurs semaines d’errance en mer, et parfois la perte de leurs papiers d’identité lors des naufrages, de prouver le fondement de leur demande lors d’un entretien de quelques minutes. D’autres considérations rentrent aussi en ligne de compte lors de ce type d’entretiens, notamment la langue parlée, et la qualité de la traduction effectuée par l’interprète de l’Ofpra.

    Pour accélérer encore un peu plus la procédure, « l’Ofpra a prévu de mobiliser dès ce week-end seize agents pouvant réaliser jusqu’à 90 entretiens par jour », a insisté vendredi le directeur général des étrangers (DGEF) au ministère de l’Intérieur, Eric Jalon.

    Après avoir mené ces entretiens, l’Ofpra donne un avis au ministère de l’Intérieur qui autorise ou non les migrants interrogés à déposer leur demande d’asile. Dans la plupart des cas, les personnes soumises à ce type de procédure échouent avec un taux de refoulement de 60%, indique l’Anafé.

    « Doutes sur le fait que les autorités françaises puissent expulser rapidement »

    « Pour les personnes dont la demande d’asile serait manifestement infondée, qui présenteraient un risque sécuritaire, nous mettrons en œuvre (...) les procédures d’#éloignement pour qu’elles regagnent leur pays d’origine », a prévenu Eric Jalon. Le ministère de l’Intérieur affirme également que des contacts ont déjà été pris avec les pays d’origine de ces rescapés.

    D’après les informations dont dispose InfoMigrants, les rescapés de l’Ocean Viking sont majoritairement originaires du Bangladesh, d’Érythrée et de Syrie, mais aussi d’Égypte, du Pakistan et du Mali notamment.

    « Nous avons des doutes sur le fait que les autorités françaises puissent expulser rapidement », fait savoir Laure Palun, « car il faut que la personne soit détentrice d’un passeport et d’un laissez-passer consulaire ». Or ce document doit être délivré par le pays d’origine et cela prend du temps car certains pays tardent à l’octroyer.

    Deux-tiers des personnes ne resteront de toute façon pas en France, puisqu’elles seront relocalisées dans neuf pays, a précisé le ministère, citant l’#Allemagne qui doit en accueillir environ 80, le #Luxembourg, la #Bulgarie, la #Roumanie, la #Croatie, la #Lituanie, #Malte, le #Portugal et l’#Irlande.

    Si une personne se voit refuser l’entrée sur le territoire par le ministère de l’Intérieur, un recours juridique est possible. Il s’agit du recours contre le refus d’admission sur le territoire au titre de l’asile à déposer dans un délai de 48 heures à compter de la notification de la décision de refus prise par le ministère de l’Intérieur, explique la Cimade.

    http://www.infomigrants.net/fr/post/44696/que-prevoit-la-france-pour-les-230-migrants-de-locean-viking
    #sauvetage #asile #migrations #réfugiés #Méditerranée #Italie #ports #ports_fermés #frontières #relocalisation #renvois #expulsions

    ping @isskein @karine4 @_kg_

    –—

    ajouté à la métaliste autour de la création de zones frontalières (au lieu de lignes de frontière) en vue de refoulements :
    https://seenthis.net/messages/795053

    • À peine débarqués, les rescapés de l’« Ocean Viking » sont privés de liberté

      C’est sous #escorte_militaire que le navire de #SOS_Méditerranée a pu s’amarrer à Toulon. Les migrants, dont des enfants, ont été transférés dans une « zone d’attente », soit un lieu de privation de liberté. Un député LFI, qui a pu y entrer, a vu « des humains au bord du gouffre ».

      Deux places, deux ambiances pour l’arrivée du bateau de SOS Méditerranée, vendredi, à Toulon. Sur le quai Cronstadt, en fin de matinée, une centaine de personnes se sont rassemblées pour affirmer un message de bienvenue aux 230 exilé·es secouru·es par l’Ocean Viking. Les slogans, cependant, n’ont pas pu être entendus des concerné·es, puisque le gouvernement a organisé leur réception au port militaire, loin des regards, y compris de ceux de la presse.

      Deux heures plus tard, quelques dizaines de soutiens d’Éric Zemmour ont tenu le pavé devant l’entrée de l’arsenal, tandis que leur chef déclamait un énième discours xénophobe devant un mur de caméras. Outre #Marion_Maréchal-Le Pen, il était accompagné d’anciens de #Génération_identitaire, dont l’Aixois #Jérémie_Piano, récemment condamné à huit mois de prison avec sursis pour des faits de violence au siège de SOS Méditerranée en 2018.

      Jeudi, Gérald Darmanin, ministre de l’intérieur, avait annoncé l’autorisation donnée à l’Ocean Viking de débarquer à Toulon, après trois semaines d’errance en mer dans l’attente d’un port sûr que lui ont refusé Malte et l’Italie. Le navire et ses 230 passagers et passagères, dont 13 enfants accompagnés et 44 mineur·es sans famille, s’est amarré à 8 h 50 ce vendredi. Son entrée en rade de Toulon s’est faite sous escorte de plusieurs bateaux militaires et d’un hélicoptère. Puis les personnes ont été acheminées dans un centre de vacances de la presqu’île de Giens, transformé en « zone d’attente » provisoire. Autrement dit : aux yeux de l’administration, les rescapé·es de l’Ocean Viking ne sont pas entré·es sur le territoire français.

      Des bus sont chargés de les conduire « sous #escorte_policière jusqu’au site d’hébergement situé sur la commune d’Hyères », a précisé le préfet du Var, Evence Richard à l’occasion d’une conférence de presse. Les personnes y seront privées de leur liberté, le temps de l’évaluation de leur situation, et sous la #garde_policière de quelque 200 agents.

      Des centaines de policiers

      Le représentant de l’État annonce d’importants moyens mis en place par ses services pour répondre à un triptyque : « #dignité_humanitaire ; #sécurité ; #rigueur et #fermeté ». 600 personnes en tout, forces de l’ordre comprises, vont se consacrer à cet « accueil » prévu pour un maximum de 26 jours. La prise en charge médicale est assurée par les services des pompiers et du Samu.

      D’un point de vue administratif, le ministère veut d’abord « évaluer les #risques_sécuritaires », via des entretiens menés par la direction générale de la sécurité intérieure (DGSI), selon les mots d’Éric Jalon, directeur général des étrangers en France, présent au côté du préfet. La mise en avant de cet aspect est un gage donné par Gérald Darmanin à l’extrême droite.

      Ensuite, si les personnes demandent l’asile et rentrent dans les critères, elles pourront, pour un tiers seulement des adultes, rester en France ou bien être « relocalisées », selon le jargon administratif, dans au moins neuf autres pays européens : Allemagne, Luxembourg, Bulgarie, Roumanie, Croatie, Lituanie, Malte, Portugal et Irlande.

      Des agents de l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra), l’instance dépendant du ministère de l’intérieur chargée d’attribuer ou non le statut de réfugié, évalueront les situations « sous 48 heures », insistent les hauts fonctionnaires. Une procédure express réservée aux « zones d’attente », ces sites habituellement installés dans les aéroports, les ports ou à des postes-frontières, régulièrement dénoncés par des associations comme des lieux où les droits de certains étrangers et étrangères sont bafoués.

      Si les personnes ne demandent pas l’asile, si l’Ofpra rejette leur demande ou si elles sont considérées comme présentant un risque pour la sécurité, le ministère de l’intérieur s’efforcera de les renvoyer dans leur pays d’origine. « Des contacts ont d’ores et déjà été pris avec les pays vers lesquels les personnes ont vocation à retourner », affirme Éric Jalon.

      Les 44 mineur·es non accompagné·es déclaré·es par SOS Méditerranée, pour leur part, verront leur situation évaluée par les services de l’Aide sociale à l’enfance du Var. Si celle-ci ne met pas en cause leur minorité, ils pourront quitter la zone d’attente et être sous la protection du département, comme la loi l’impose.

      Des parlementaires interdits d’accès au quai

      Venue à Toulon pour observer, Laure Palun, de l’Anafé (Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers), organisation active pour défendre les droits des étrangers et étrangères en zones d’attente, critique la méthode. « Il n’y a pas assez d’agents de l’Ofpra formés aux demandes d’asile formulées à la frontière. Il risque d’y avoir plein d’erreurs, dit-elle. Et puis, pour des gens qui ont failli se noyer, qui sont restés autant de temps sur ce bateau, comment pourront-ils être opérationnels dès demain pour faire un récit de vie qui va être crédible aux yeux des autorités françaises ? »

      Sur le plan humain, « enfermer ces personnes, c’est rajouter une couche de #violence à ce qu’elles ont déjà vécu. La zone d’attente n’est pas un lieu qui permet d’aborder sereinement l’asile. Je ne suis pas certaine qu’il y aura une prise en charge psychologique », juge la responsable associative. Dans de nombreuses zones d’attente temporaire habituellement mises en place dans les départements d’outre-mer, l’association a observé que l’information sur la demande d’asile n’est pas toujours donnée aux individus. « C’est une obligation d’informer les étrangers de leurs droits », assure pour sa part Éric Jalon.

      Des rescapés harassés, pieds nus, sans pantalon

      L’opération du gouvernement interpelle aussi par le secret qu’elle s’évertue à organiser. En dehors des agents de l’État, personne n’a eu accès à l’arsenal vendredi, une zone militaire, donc confidentielle. Le député de Marseille Sébastien Delogu (La France insoumise – LFI) s’est vu refuser l’accès à l’Ocean Viking, alors que la loi autorise n’importe quel parlementaire à visiter une zone d’attente à l’improviste, et que celle créée dans le village vacances englobe « l’emprise de la base navale de Toulon », d’après l’arrêté publié vendredi par le préfet.

      Le gouvernement prétend faire primer, semble-t-il, le secret défense. « Moi je ne viens pas pour faire du théâtre comme l’extrême droite, je veux exercer mon droit de parlementaire, s’agace le député insoumis. J’ai aussi été élu pour ça. Sinon, qui a un droit de regard ? » Son collègue Hendrik Davi (LFI) a également été repoussé.

      Plus tard, Sébastien Delogu a pu, tout de même, se rendre au village vacances et « constater toute la souffrance et la détresse physique et mentale dans laquelle se trouvent les rescapés ». « Ces jeunes hommes et femmes sont épuisés, parfois pieds nus ou sans pantalon, harassés par ce périple durant lequel ils ont tout quitté et risqué leur vie. Je n’ai vu que des humains au bord du gouffre, a-t-il précisé, à la sortie, dans un communiqué. Nous ne céderons pas un centimètre d’espace politique aux fascistes qui instrumentalisent ces drames pour propager la haine et la xénophobie. »

      Entre soulagement et amertume, les responsables de SOS Méditerranée ont quant à eux fustigé vendredi des blocus de plus en plus longs imposés à leur navire, au détriment de la sécurité physique et psychologique des naufragé·es recueilli·es à bord. Comme elle le fait depuis sept ans, l’ONG a appelé à la (re)constitution d’une flotte européenne pour faire du sauvetage en Méditerranée centrale et à la mise en place d’un processus de solidarité entre États européens pour la répartition des personnes secourues, qui respecte le droit maritime (soit un débarquement dans le port sûr le plus proche).

      Les finances de l’association étant en baisse à cause de l’explosion des coûts due à l’inflation et à la diminution des dons reçus, elle a relancé un appel aux soutiens. « Dans l’état actuel de nos finances, on ne peut continuer encore que quelques mois, précise sa directrice Sophie Beau. Depuis le premier jour, SOS Méditerranée est essentiellement soutenu par la société civile. » Si quelques collectivités complètent le budget par des subventions, l’État français, lui, ne verse évidemment pas un centime.

      « C’est essentiel qu’on retourne en mer, déclare Xavier Lauth, directeur des opérations de SOS Méditerranée. Parce qu’il y a eu déjà au mois 1 300 morts depuis le début de l’année [en Méditerranée centrale, face à la Libye – ndlr]. » Le décompte de l’Organisation internationale pour les migrations (liée à l’ONU) a précisément dénombré 1 912 personnes disparues en Méditerranée depuis le début de l’année, que les embarcations aient visé l’Italie, la Grèce ou encore l’Espagne. Et depuis 2014, plus de 25 000.

      https://www.mediapart.fr/journal/france/111122/peine-debarques-les-rescapes-de-l-ocean-viking-sont-prives-de-liberte

    • Le jour où la France n’a pas (vraiment) accueilli l’Océan Viking…

      Après trois semaines à errer, sans qu’on lui assigne de port où débarquer les 234 rescapés secourus en mer, l’Océan Viking, de Sos-Méditerranée, a enfin accosté à Toulon. Entre soulagement et indignation, les associations dénoncent l’instrumentalisation politique de cette crise et les défaillances des États membres de l’Union Européenne.

      « Le sauvetage que nous avons débuté le 22 octobre n’est toujours pas terminé », c’est en substance ce qu’explique Louise Guillaumat, directrice adjointe des opérations de SOS-Méditerranée, lors de la conférence de presse tenue, le vendredi 11 novembre à midi. À cette heure, plus de la moitié des rescapés tirés des eaux par l’ONG, trois semaines auparavant, sont toujours à bord de l’Océan Viking, qui a accosté le matin même, sur le quai de l’artillerie de la base navale varoise.

      Au soleil levant, sur le quai Cronstadt, au pied du « cul-vers-ville », une statue évoquant le génie de la navigation, les caméras de télévision se sont frayé une place parmi les pêcheurs matinaux. Il est 7 h 00, le bateau de Sos-méditerranée est à moins de six miles marins des côtes toulonnaises. Il accoste deux heures plus tard. Pourtant, les 231 exilés à son bord ne sont pas accueillis par la France.
      44 enfants isolés

      « Les passagers ont été placés en zone d’attente. Ils n’ont pas été autorisés à entrer sur le territoire national. » explique Éric Jalon, préfet, et directeur général des étrangers en France (DGEF). Le port militaire et le centre où vont être hébergés les exilés ont été, par décret, définis, la veille, comme « zone d’attente provisoire » gérée par la Police des airs et des frontières (PAF). « Des évaluations de leur état de santé sont faites dès leur descente du navire », promet le préfet.

      Après quoi, ils sont conduits en bus dans un centre de vacances, mis à disposition par la Caisse centrale d’activités sociales (CCAS) des agents des industries électriques et gazières en France, en solidarité avec les personnes réfugiées. Une fois là-bas, ces dernières, parmi lesquelles 44 mineurs isolés, doivent pouvoir formuler une demande d’asile en procédure accélérée.

      « Des agents de l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra) ont été détachés sur place pour y mener des entretiens », poursuit le DGEF. Ceux pour qui la demande d’asile sera jugée « irrecevable et manifestement infondée » feront l’objet de reconduites dans leur pays d’origine. Ce n’est qu’après cette procédure, pouvant durer jusqu’à 26 jours, que les autres pourront alors prétendre à demander l’asile en France ou dans un des neuf pays de l’union européenne s’étant déclaré prêt à en accueillir une partie.
      Une façon de détourner le règlement de Dublin

      « Ce n’est pas ce que prévoit le droit dans l’état », pointe Laure Palun, la directrice de l’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (Anafé), présente au rassemblement organisé sur le port, en milieu de matinée, par les associations, syndicats et partis solidaires des exilés. « Les demandeurs d’asile doivent normalement être accueillis sur le territoire d’un État avant leur relocalisation. » explique-t-elle.

      Le choix fait par la France est une façon de détourner le règlement de Dublin qui prévoit qu’une demande d’asile ne puisse être étudiée que par le pays de première entrée du candidat. Et ce n’est pas la seule entorse à la loi que revêt le dispositif « exceptionnel » mise en place par Gérald Darmanin, ministre de l’intérieur. « Ce matin, on nous a refusé l’entrée dans la zone d’attente alors que nous sommes une des associations agréées pour y accéder en tant qu’observateur », dénonce ainsi la responsable associative. La loi prévoit, d’ailleurs, dans le même cadre un libre accès aux parlementaires. Le député LFI de la 7e circonscription de Marseille, Sébastien Delogu, s’est porté volontaire ce matin. Mais « le cabinet de Sébastien Lecornu, ministre des armées, nous interdit l’accès au port », confia-t-il, en début d’après-midi, au téléphone depuis le bureau du préfet maritime. Même les membres de Sos-Méditerranée n’ont pas pu venir à la rencontre de leur équipage bloqué en mer depuis 21 jours.
      L’indignité monte d’un cran

      « La France a su accueillir dignement les réfugiés venus d’Ukraine », rappelle Olivier Masini, secrétaire général de l’UD CGT du Var, alors que plusieurs centaines de militants entament une marche solidaire en direction du théâtre de la liberté où les représentants de SOS-Méditerranée tiennent leur conférence de presse. « Nous sommes ici pour affirmer les valeurs humanistes de notre syndicat et pour demander que les réfugiés débarqués aujourd’hui puissent bénéficier d’un traitement similaire. »

      C’est avec les traits tendus par la colère et la fatigue que les quatre dirigeants de l’Ong de sauvetage en mer accueillent leur auditoire. « Les États Européens négligent depuis sept ans la situation » , lance Sophie Beau, Co-fondatrice de SOS-Méditerranée. « Il est temps que soit mis en place un véritable mécanisme opérationnel et pérenne de répartition des exilés secourus en Méditerranée centrale. L’instrumentalisation politique de cette crise est indigne des démocraties européennes. »

      L’#indignité est d’ailleurs montée d’un cran en début d’après-midi, lorsque devant l’arsenal, les représentants du parti d’extrême-droite, Reconquête, sont venus s’exprimer devant une poignée de groupies haineux. Pas de quoi décourager, cependant, les sauveteurs de Sos-Méditerranée. «  Je préfère rester optimiste, reprend Sophie Beau. Les citoyens européens sont porteurs de solidarité. Nous repartirons rapidement en mer pour continuer notre mission de sauvetage. Et dans le contexte économique actuel, nous avons plus que jamais besoin du soutien de la société civile… Répondez à ce SOS. »

      https://www.humanite.fr/societe/ocean-viking/le-jour-ou-la-france-n-pas-vraiment-accueilli-l-ocean-viking-770755#xtor=RS

      #migrerrance

    • « Ocean-Viking », un désastre européen

      Editorial du « Monde » . Les trois semaines d’errance du navire humanitaire, qui a fini par accoster à Toulon sur fond de crise diplomatique entre la France et l’Italie, rappellent l’impuissance européenne à mettre en œuvre les droits humains.

      L’Union européenne (UE) n’avait pas besoin de cela. Déjà aux prises avec une guerre à ses portes, une crise énergétique, la montée de l’inflation et les tensions que ce contexte exacerbe entre ses membres, voilà que la terrible errance depuis trois semaines d’un navire humanitaire, l’Ocean-Viking, chargé de migrants secourus en Méditerranée, remet en lumière son incapacité à organiser la solidarité en son sein. Cela sur la principale question qui nourrit l’extrême droite dans chaque pays – l’immigration – et, partant, menace l’avenir de l’Union elle-même.

      Si la France a, finalement, sauvé l’honneur en acceptant que l’Ocean-Viking accoste à Toulon, vendredi 11 novembre, après le refus italien, l’impuissance européenne à mettre en œuvre les droits humains qui la fondent historiquement – en l’occurrence la sauvegarde de 234 vies, dont celles de 57 enfants – est extrêmement préoccupante.

      Que la France et l’Italie, que rapprochent mille liens historiques, géographiques et humains, en viennent à s’apostropher par ministres de l’intérieur interposés donne la mesure de la déstabilisation d’un équilibre déjà fragile, consécutif à l’arrivée à Rome de Giorgia Meloni, la présidente du conseil italien issue de l’extrême droite.

      Sept ans après la crise migratoire de 2015, au cours de laquelle l’UE avait manqué de solidarité à l’égard de l’Italie, y nourrissant la xénophobie, les ingrédients du malaise sont toujours là. Même si les migrants de l’Ocean-Viking doivent être répartis dans l’UE, le fragile système de partage des demandeurs d’asile dans une douzaine d’Etats européens, obtenu par la France en juin, qui n’a jusqu’à présent connu qu’une application homéopathique, a déjà volé en éclats avec l’Italie.

      Volte-face

      Pour l’exécutif français, enclin à présenter l’Union européenne comme un facteur de protection, le scénario de l’Ocean-Viking est également désastreux. S’il a pris en définitive la bonne décision, il semble s’être fait forcer la main par le gouvernement italien. Alors qu’Emmanuel Macron avait refusé en 2018 l’accostage de l’Aquarius, un autre bateau humanitaire, pour ne pas « faire basculer le pays vers les extrêmes », sa volte-face intervient alors que le Rassemblement national, avec ses 89 députés, a renforcé son emprise sur la vie politique.

      Si le dénouement de Toulon devrait logiquement être salué à gauche, il risque de compromettre le ralliement déjà incertain de la droite au projet de loi sur l’immigration, construit sur un équilibre entre régularisation de travailleurs étrangers et fermeté sur les mesures d’éloignement.

      Le poids des images et des symboles – le navire chargé de malheureux, le débarquement sous escorte militaire – ne saurait cependant faire perdre la véritable mesure de l’événement : l’arrivée de quelques dizaines de demandeurs d’asile est bien loin de déstabiliser un pays comme la France. Une centaine de milliers de réfugiés ukrainiens y sont d’ailleurs accueillis à bras ouverts. Comme eux, les migrants venus d’autres continents ont droit à un examen sérieux de leur demande d’asile.

      Les difficultés d’intégration, les malaises et les craintes que suscite l’immigration dans l’opinion sont évidents et doivent être sérieusement écoutés et pris en compte. Mais, alors que l’extrême droite fait des migrants le bouc émissaire de tous les dysfonctionnements de la société et tient la mise au ban des étrangers pour la panacée, il faut rappeler que des hommes, des femmes et des enfants sont là, derrière les statistiques et les joutes politiques.

      https://www.lemonde.fr/idees/article/2022/11/12/ocean-viking-un-desastre-europeen_6149574_3232.html

    • Pour le plein respect des droits et de la dignité des passager.e.s de l’Ocean Viking, pour une véritable politique d’accueil européenne [Communiqué de presse inter-associatif]

      L’accueil de l’Ocean Viking à Toulon en France a été un soulagement face au drame terrible et indigne que vivaient ses passager.e.s depuis plusieurs semaines, balloté.e.s sur les flots en attente d’une décision sur leur possibilité de débarquement.

      Maintenant se pose la question des conditions de l’accueil des passager.e.s.

      Nous demandons la mise en place des dispositions suivantes :

      – Pas de privation de liberté en zone d’attente, qui ne ferait qu’accroitre les souffrances et traumatismes vécus en mer et sur le parcours d’exil ; de nos expériences sur le terrain, le respect des droits des personnes et de leur dignité n’est pas compatible avec l’enfermement de ces dernières, quel que soit le contexte de leur arrivée, et a fortiori après un périple tel que l’on vécut les rescapés de l’Océan Viking.
      En outre, il est inadmissible que le gouvernement ait fait le choix de « fabriquer » une zone d’attente temporaire dans une base militaire, rendant impossible l’accès des associations habilitées et des élu.e.s de la République, sous prétexte de secret défense, ne permettant pas à des personnes en situation de particulière vulnérabilité d’avoir accès à l’assistance minimale que la loi leur reconnaît.

      – Mobilisation d’un centre d’accueil ouvert, permettant de mettre en place l’accompagnement sanitaire, social, et également psychologique nécessaire.

      – Protection immédiate, mise à l’abri et hébergement des passager.e.s, dépôt de demandes d’asile pour toutes les personnes le souhaitant, et examen approfondi de toutes les situations des personnes afin de garantir le respect de l’exercice effectif de leurs droits.

      Plus globalement, pour éviter demain d’autres drames avec d’autres bateaux :

      – Nous rappelons le nécessaire respect du droit international de la mer, en particulier l’obligation de porter secours aux passagers d’un bateau en difficulté, le débarquement des personnes dans un lieu sûr dans les meilleurs délais ainsi que le principe de non-refoulement vers des pays où les personnes encourent un risque d’être soumises à la torture ou à des traitements inhumains ou dégradants.

      – La solidarité en Europe ne fonctionne pas. Le « mécanisme de solidarité » proposé dans le cadre du pacte européen « migrations et asile » est non seulement non respecté par les pays mais très en-deçà d’une véritable politique d’accueil respectueuse de la dignité des personnes et de leurs droits fondamentaux. L’Italie est à la pointe des égoïsmes nationaux mais globalement les pays européens dans leur ensemble ne sont pas à la hauteur.

      – C’est donc un changement de modèle politique qui est indispensable : passer de politiques européennes fondées sur la fermeture et le repli vis-à-vis des migrant.e.s considéré.e.s comme indésirables pour prôner un autre système :

      > permettre un accès inconditionnel au territoire européen pour les personnes bloquées à ses frontières extérieures afin d’examiner avec attention et impartialité leurs situations et assurer le respect effectif des droits de tou∙te∙s
      > permettre l’accueil des réfugié.e.s non pas sur la base de quotas imposés aux pays, mais sur la base des choix des personnes concernées (selon leurs attaches familiales, leurs compétences linguistiques ou leurs projets personnels), dans le cadre d’une politique de l’asile harmonisée, fondée sur la solidarité entre Etats et le respect inconditionnel des droits fondamentaux.

      http://www.anafe.org/spip.php?article655

    • Zone d’attente de Toulon : violations des droits des personnes sauvées par l’Ocean Viking [Communiqué de presse]

      Depuis 5 jours, l’Anafé se mobilise pour venir en soutien aux personnes enfermées en zone d’attente de Toulon après le débarquement de l’Ocean Viking, le vendredi 11 novembre. Ses constats sont alarmants. Les personnes sauvées par l’Ocean Viking sont victimes de violations de leurs droits fondamentaux dans ce lieu d’enfermement qui n’a rien d’un village de vacances : violations du droit d’asile, personnes portant des bracelets avec numéro, absence d’interprétariat, absence de suivi psychologique effectif, pas de téléphones disponibles et pas de visites de proches, pas d’accès à un avocat ou à une association de défense des droits.

      Violation du droit d’asile
      Toutes les personnes enfermées dans la zone d’attente de Toulon ont demandé l’asile. L’Anafé dénonce le choix des autorités de priver de liberté ces personnes en demande de protection internationale alors que ces mêmes autorités n’ont pas nié l’état psychologique dégradé dans lequel elles se trouvent après un long parcours au cours duquel elles ont failli se noyer et après avoir été débarquées d’un bateau de sauvetage sur lequel elles avaient passé 21 jours. Or, la procédure d’asile à la frontière est une procédure d’asile « au rabais », réalisée dans l’urgence mais aussi dans un lieu d’enfermement, quelques heures seulement après le débarquement.
      Les autorités auraient pu, à l’instar de ce qui a été mis en œuvre l’année dernière à l’arrivée de personnes ressortissantes d’Afghanistan ou lors de l’arrivée de ressortissants d’Ukraine depuis le début d’année, prévoir des mesures d’hébergement et un accès à la procédure de demande d’asile sur le territoire, après un temps de repos et de prise en charge médicale sur le plan physique et psychologique.

      Les conditions d’entretien Ofpra
      Les entretiens Ofpra doivent veiller au respect de la confidentialité des échanges et de la dignité des personnes, tout en prenant en compte leur vulnérabilité. L’Ofpra aurait pu refuser de réaliser les entretiens de personnes à peine débarquées au regard de leur vulnérabilité. Cela n’a pas été le cas. Au contraire, elles ont dû expliquer leurs craintes de persécutions sitôt enfermées en zone d’attente. Surtout, des entretiens se sont déroulés dans des tentes, dont certaines laissant une visibilité depuis l’extérieur et sans respect de la confidentialité des échanges, les conversations étaient audibles depuis l’extérieur. Les autres ont été faits dans des locaux où avaient été réalisés des entretiens avec les services de police, ajoutant à la confusion des interlocuteurs et des rôles. Rien, hormis le petit badge porté par les officiers de protection, ne pouvait les distinguer des policiers en civil ou des associations présents dans le camp.

      L’absence d’interprétariat
      Les personnes ainsi enfermées n’ont pas eu accès à des interprètes. Seulement deux interprètes en arabe étaient présentes lors d’une visite organisée par des sénateurs et un député. Leur rôle : traduire les entretiens avec la police aux frontières. Hormis ces deux interprètes, l’ensemble des entretiens sont effectués via un interprétariat téléphonique assuré par un prestataire, y compris pour les entretiens Ofpra. L’Anafé a pu observer les difficultés de la police aux frontières pour contacter un interprète, faisant parfois appel à une personne maintenue en zone d’attente.
      Dès lors, les personnes ne sont pas en mesure de comprendre la procédure de maintien en zone d’attente, leurs droits, la procédure spécifique d’asile à la frontière et ses tenants et aboutissants.

      Des numéros aux poignets
      Les personnes maintenues sont identifiées par des bracelets de couleur au poignet portant un numéro. Les autorités n’ont donc pas hésité à les numéroter sans aucun respect pour leur individualité et leur identité.

      L’absence de suivi psychologique effectif
      L’Anafé a pu constater dans la zone d’attente que si la CUMP83 (cellules d’urgence médico-psychologique) était présente, les conditions d’enfermement ne permettent pas aux infirmiers d’échanger avec les personnes maintenues, les services d’interprétariat téléphonique toujours assurés par le même prestataire étant saturés. De plus, la CUMP83 ne bénéficie pas d’un local adapté pour s’entretenir de manière confidentielle avec les personnes mais d’une tente située dans le « village Croix-Rouge » au milieu de la zone d’attente. Cette disposition ne permet donc pas aux personnes maintenues de bénéficier d’un soutien psychologique confidentiel et adapté au traumatisme qu’elles ont subi lors de leur parcours migratoire et des trois semaines passées en mer.
      De plus, si un médecin, une sage-femme et une infirmière étaient présents le samedi 13 novembre 2022, nous avons pu constater le lendemain qu’aucun médecin n’était présent sur le site. Il nous a été indiqué qu’en cas de nécessité, il serait fait appel à SOS Médecin.

      Impossibilité d’avoir des contacts avec l’extérieur, contrairement à la législation régissant les zones d’attente
      Les numéros utiles ne sont pas affichés. Le wifi installé par la Croix-Rouge ne fonctionne pas correctement. Si huit téléphones portables sont disponibles toute la journée, les conversations sont limitées à 5 minutes et jusqu’à 18h environ. Il n’est pas possible d’être appelé sur ces numéros et ils ne servent que dans le cadre du rétablissement des liens familiaux. Hormis ces téléphones, aucune cabine téléphonique n’est prévue sur le site de la zone d’attente. Il n’est donc pas possible pour les personnes maintenues de s’entretenir de manière confidentielle, notamment avec un avocat, une association ou leurs proches. Il est impossible pour les personnes maintenues de se faire appeler de l’extérieur.
      Aucune visite de proche n’est possible en raison de l’absence de de mise en place d’un système de visite ou d’un local dédié.

      L’impossible accès aux avocats et aux associations
      L’Anafé a pu constater que les personnes maintenues n’avaient aucune connaissance de leur droit à contacter un avocat et qu’aucun numéro de téléphone ne leur avait été communiqué, là encore, contrairement à la législation applicable. Après la visite de la Bâtonnière de l’Ordre des avocats de Toulon et des élus, les avocats se sont vu attribuer deux chambres faisant office de bureau qui ne sont équipées ni d’ordinateur, ni de fax, ni d’internet pour transmettre les recours.
      L’Anafé n’a pas de local pour s’entretenir de manière confidentielle avec les personnes maintenues, notamment en faisant appel à un service d’interprétariat. D’après les informations fournies par la protection civile, il n’y avait pas de local disponible.
      Il est donc impossible pour les avocats et pour les associations de défense des droits d’exercer leur mission dans des conditions garantissant la confidentialité des échanges et un accompagnement digne des personnes.

      Toutes ces violations constituent des manquements graves aux droits des personnes enfermées dans la zone d’attente de Toulon. Ces atteintes inacceptables sont le résultat du choix fait par les autorités d’enfermer ces personnes au lieu de les accueillir. Comme à chaque fois que des gens sont enfermés en zone d’attente, leurs droits ne sont pas respectés. C’est ce que l’Anafé dénonce depuis la création des zones d’attente. Il est temps de mettre fin à ce régime d’enfermement.

      http://www.anafe.org/spip.php?article656

    • Comment l’affaire de l’Ocean Viking révèle l’ambiguïté des « zones d’attente »

      Vendredi 11 novembre, les 234 migrantes et migrants secourus par le navire Ocean Viking ont pu rejoindre la base navale de Toulon, après trois semaines d’errance en mer. Ultime épisode du drame de la migration qui se joue en Méditerranée et dont le déroulement puis le dénouement peuvent donner lieu à plusieurs clés de lecture. Au niveau de la politique et de l’intégration européennes, le bras de fer entre Paris et Rome, rejouant le duel ayant opposé en 2018 Emmanuel Macron avec l’alors Président du Conseil des ministres italien et actuel Vice-Président Matteo Salvini, a souligné les obstacles à l’affirmation de la solidarité européenne sur la question. Au niveau de la politique interne, ensuite, l’on a vu combien la situation de l’Ocean Viking a accusé les clivages entre « humanistes » et partisans de la fermeté.

      Rappelons d’ailleurs que les propos ayant valu l’exclusion pour deux semaines du député du Rassemblement national Grégoire de Fournas ont précisément été tenus à l’occasion de l’allocution d’un député de la France insoumise dénonçant le sort réservé aux passagers du navire humanitaire.

      Le dernier épisode en date dans l’épopée de l’Ocean Viking est également et entre autres justiciable d’une analyse juridique.
      Les limites du droit international de la mer

      Pendant son errance, les difficultés à trouver un lieu de débarquement ont de nouveau souligné les limites d’un droit de la mer peinant à imposer à un État clairement défini d’ouvrir ses ports pour accueillir les rescapés. La décision de laisser les passagers de l’Ocean Viking débarquer à Toulon est également significative. Elle signe certes leur prise en charge temporaire par la France, mais n’emporte pas, du moins dans un premier temps, leur admission sur le territoire français (au sens juridique). Ce dont le ministre de l’Intérieur ne s’est d’ailleurs fait faute de souligner).

      Cette situation permet alors de mettre en exergue l’une des singularités de la conception juridique du territoire, notamment en ce qui concerne la situation des étrangers. Les zones d’attente en sont une claire illustration.
      Les « zones d’attente »

      Les aéroports ont été les premiers espaces où sont apparues ces zones considérées comme ne relevant pas juridiquement du territoire de l’État les accueillant. Le film Le Terminal, dans lequel Tom Hanks campait un iranien ayant vécu plusieurs années à Roissy – où il s’est d’ailleurs éteint ce samedi 12 novembre –, avait en 2004 porté à la connaissance du grand public cette situation.

      En France, les « zones internationales », initialement nimbées d’un flou quant à leur fondement juridique et au sein desquelles les autorités prétendaient par conséquent n’y être pas assujetties au respect des règles protectrices des droits humains, ont cédé la place aux « zones d’attente » à la faveur de la loi du 6 juillet 1992).

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      À une situation d’exclusion – du moins, alléguée par les autorités – du droit, s’est alors substitué un régime d’exception : les personnes y étant maintenues n’étaient toujours pas considérées comme ayant pénétré juridiquement le territoire français.

      N’étant plus – prétendument – placées « hors du droit » comme l’étaient les zones internationales, les zones d’attente n’en restaient pas moins « hors sol ». L’une des conséquences en est que les demandes d’asile qui y sont le cas échéant déposées relèvent alors de l’« asile à la frontière ». Elles sont par conséquent soumises à un régime, notamment procédural, beaucoup moins favorable aux demandeurs (Code de l’entrée et du séjour des étrangers et du droit d’asile CESEDA, Titre V, article L.350-1 à L.352-9).
      La « fiction juridique »

      La « fiction juridique » que constituent les zones d’attente s’étend désormais entre autres aux gares ferroviaires ouvertes au trafic international, aux ports ou à proximité du lieu de débarquement (CESEDA, article L.341-1). Ces « enclaves » au sein du territoire, autour d’une centaine actuellement, peuvent par ailleurs inclure, y compris « à proximité de la gare, du port ou de l’aéroport ou à proximité du lieu de débarquement, un ou plusieurs lieux d’hébergement assurant aux étrangers concernés des prestations de type hôtelier » (CESEDA, article L.341-6).

      Tel est le cas de la zone d’attente créée par le préfet du Var par le biais d’un arrêté, à la suite de l’accueil de l’Ocean Viking.

      « pour la période du 11 novembre au 6 décembre 2022 inclus, une zone d’attente temporaire d’attente sur l’emprise de la base navale de Toulon et sur celle du Village Vacances CCAS EDF 1654, avenue des Arbanais 83400 Hyères (Giens) ».

      Accueillis dans ce Village Vacances dont les « prestations de type hôtelier » ne semblent aucunement correspondre à la caricature opportunément dépeinte par certains, les rescapés demeurent, juridiquement, aux frontières de la France.
      Aux portes du territoire français

      Ils ne se situent pas pour autant, de ce fait, dans une zone de non-droit : placés sous le contrôle des autorités françaises, ils doivent se voir garantir par elles le respect de leurs droits humains. Aux portes du territoire français, les migrantes et migrants secourus par l’Ocean Viking n’en relèvent pas moins de la « juridiction » française comme le rappelle la Cour européenne des droits de l’Homme. La France est ainsi tenue d’observer ses obligations, notamment au regard des conditions de leur maintien contraint au sein de la zone.

      Une partie des rescapés recouvreront leur liberté en étant admis à entrer juridiquement sur le territoire de la France. Tel est le cas des mineurs non accompagnés, dont il est annoncé qu’ils seront pris en charge par l’Aide sociale à l’enfance.

      Tel est également le cas de ceux qui auront été autorisés à déposer une demande d’asile sur le territoire français et se seront vus, à cette fin, délivrer un visa de régularisation de huit jours. Parmi eux, la plupart (175) devraient être acheminés vers des États européens qui se seraient engagés à les accueillir, vraisemblablement afin que soient examinées leurs demandes de protection internationale. Expression d’une solidarité européenne a minima dont il faudra cependant voir cependant les suites.

      À lire aussi : Podcast : « Quand la science se met au service de l’humanitaire », le Comité international de la Croix-Rouge

      Pour tous les autres enfin, ceux à qui un refus d’entrer sur le territoire français aura été notifié et qui ne seront pris en charge par aucun autre État, le ministre de l’Intérieur précise qu’ils seront contraints de quitter la zone d’attente vers une destination qui demeure cependant encore pour le moins incertaine. Ceux-là auront alors été accueillis (très) temporairement par la France mais seront considérés comme n’ayant jamais pénétré sur le territoire français.

      https://theconversation.com/comment-laffaire-de-locean-viking-revele-lambigu-te-des-zones-datte

    • « Migrants » de l’« Ocean Viking », « réfugiés » d’Ukraine : quelle différence ?

      Comme elle l’a fait après l’invasion russe, la France doit mener une véritable politique d’accueil pour les passagers de l’« Ocean Viking » : permettre l’accès inconditionnel au territoire sans présupposé lié à leur origine ni distinction entre « migrants » et « réfugiés ».

      Après trois semaines d’errance en Méditerranée, la France a accepté « à titre exceptionnel » de laisser débarquer le 11 novembre, à Toulon, les 234 rescapés du navire humanitaire Ocean Viking. Tout en précisant, par la voix du ministre de l’Intérieur, que ces « migrants ne pourront pas sortir du centre administratif de Toulon » où ils seront placés et qu’« ils ne sont donc pas légalement sur le territoire national » : à cette fin, une zone d’attente a été créée en urgence où les personnes, qui ont toutes déposé une demande d’asile, sont donc enfermées sous surveillance policière.

      Pour la suite, il est prévu que la France ne gardera sur son sol, s’ils remplissent les conditions de l’asile, qu’environ un tiers des passagers du bateau. Les autres seront autoritairement relocalisés dans neuf pays de l’Union européenne. Voilà donc « l’accueil » réservé à des femmes, des enfants et des hommes qui, après avoir fui la guerre, la misère, l’oppression, et pour beaucoup subi les sévices et la violence du parcours migratoire, ont enduré une longue attente en mer aux conséquences notoirement néfastes sur la santé mentale et physique. L’accueil réservé par la France à ceux qu’elle désigne comme « migrants ».
      Pas de répartition entre les Etats européens

      Rappelons-nous : il y a moins d’un an, au mois de février, lorsque plusieurs millions d’Ukrainiens fuyant l’invasion russe se sont précipités aux frontières des pays européens, la France a su mettre en place en quelques jours un dispositif à la hauteur de cette situation imprévue. Pas question de compter : au ministère de l’Intérieur, on expliquait que « dès lors que des besoins seront exprimés, la France y répondra », tandis que le ministre lui-même annonçait que « nous pouvons aujourd’hui accueillir jusqu’à 100 000 personnes réfugiées sur le territoire national ». Pas question non plus de répartition entre les Etats européens : « Ce sont des personnes libres, elles vont là où elles veulent », affirmait la ministre déléguée auprès du ministre de l’Intérieur. Et pour celles qui choisiraient de rester en France, un statut provisoire de protection immédiate était prévu, donnant droit au travail, à un logement et à un accompagnement social. On n’a pas manqué de se féliciter de l’élan formidable de solidarité et d’humanité dont la France avait fait preuve à l’égard des réfugiés, à l’instar de ses voisins européens.

      Une solidarité et une humanité qui semblent aujourd’hui oubliées. Parce qu’ils sont d’emblée qualifiés de « migrants », les passagers de l’Ocean Viking, sans qu’on ne connaisse rien de leurs situations individuelles, sont traités comme des suspects, qu’on enferme, qu’on trie et qu’on s’apprête, pour ceux qui ne seront pas expulsés, à « relocaliser » ailleurs, au gré d’accords entre gouvernements, sans considération de leurs aspirations et de leurs besoins.

      On entend déjà les arguments qui justifieraient cette différence de traitement : les « réfugiés » ukrainiens sont les victimes d’un conflit bien identifié, dans le contexte d’une partie de bras de fer qui oppose l’Europe occidentale aux tentations hégémoniques du voisin russe. Des « migrants » de l’Ocean Viking,on prétend ne pas savoir grand-chose ; mais on sait au moins qu’ils et elles viennent de pays que fuient, depuis des années, d’innombrables cohortes d’exilés victimes des désordres du monde – guerres, corruption, spoliations, famines, désertification et autres dérèglements environnementaux – dont les Européens feignent d’ignorer les conséquences sur les mouvements migratoires mondiaux, pour décréter que ce ne sont pas de « vrais » réfugiés.
      Une hospitalité à deux vitesses

      Mais cette hospitalité à deux vitesses est aussi la marque du racisme sous-jacent qui imprègne la politique migratoire de la France, comme celle de l’Union européenne. Exprimée sans retenue par un élu d’extrême droite sur les bancs de l’Assemblée à propos de l’Ocean Viking (« qu’il(s) retourne(nt) en Afrique ! »), elle s’est manifestée dès les premiers jours de l’exode ukrainien, quand un tri des exilés s’est opéré, sur la base de la nationalité ou de la couleur de peau, à la frontière polonaise, au point que la haut-commissaire aux droits de l’homme de l’Onu s’était dite « alarmée par les informations crédibles et vérifiées faisant état de discrimination, de violence et de xénophobie à l’encontre de ressortissants de pays tiers qui tentent de fuir le conflit en Ukraine ». Le traitement réservé depuis des années en France aux exilés privés d’abri et de nourriture, harcelés et pourchassés par la police, dans le Calaisis comme en région parisienne, à la frontière italienne ou dans le Pays basque est la traduction quotidienne de cette politique xénophobe et raciste.

      Au-delà d’une indispensable réorganisation du secours en mer afin que les passagers d’un navire en détresse puissent être débarqués sans délai dans un lieu sûr, comme le prescrit le droit international, l’épisode de l’Ocean Viking nous rappelle, une fois de plus, la nécessité d’une véritable politique d’accueil, dont l’exemple ukrainien montre qu’elle est possible. Elle doit être fondée sur l’accès inconditionnel au territoire de toutes celles et ceux qui demandent protection aux frontières de la France et de l’Europe, sans présupposé lié à leur origine ni distinction arbitraire entre « migrants » et « réfugiés », la mise à l’écart de tout dispositif coercitif au profit d’un examen attentif et de la prise en charge de leurs besoins, et le respect du choix par les personnes de leur terre d’asile, à l’exclusion de toute répartition imposée.

      https://www.liberation.fr/idees-et-debats/tribunes/migrants-de-locean-viking-refugies-dukraine-quelle-difference-20221115_WG

    • « Ocean Viking » : les fourberies de Darmanin

      Le ministre de l’intérieur a annoncé, mardi 15 novembre, que 44 des 234 rescapés de l’« Ocean Viking » seront expulsés dans leur pays d’origine, tandis que la majorité des autres seront relocalisés dans des pays de l’Union européenne. La #fable de la générosité française s’est rapidement fracassée sur l’obsession de Gérald Darmanin de ne pas donner de prises au RN, en acceptant de secourir, mais pas d’accueillir.

      « Expulsés », « relocalisés » : ces termes affreux pour désigner des personnes résument à eux seuls le vrai visage de l’« accueil » que la France réserve aux rescapés de l’Ocean Viking, bien loin d’une certaine idée que l’on pourrait se faire de l’hospitalité due à des hommes, des femmes et des enfants ayant risqué de se noyer en mer pour fuir leur pays. On avait bien compris depuis ses premières interventions que Gérald Darmanin avait agi contraint et forcé. Que les autorités françaises, par la voix blanche du ministre de l’intérieur, avaient fini, à contrecœur, par autoriser les passagers à débarquer à Toulon, dans le Var, vendredi 11 novembre, uniquement parce qu’elles estimaient ne pouvoir faire autrement : à la suite du refus de la nouvelle présidente post-fasciste du conseil italien, Giorgia Meloni, de voir le bateau affrété par SOS Méditerranée accoster sur les rives italiennes, les exilés étaient à bout de forces, et risquaient de mourir.

      Après avoir failli dans le sauvetage de 27 exilés dans la Manche en 2021 (les secours français ayant attendu leur entrée dans les eaux anglaises sans envoyer de moyen de sauvetage, selon les récentes révélations du Monde), la France cette fois-ci ne les laisserait pas périr en mer. Mais elle s’en tiendrait là, sans accueil digne de son nom, ni élan de solidarité. Et ce qui a été vécu par Paris comme un affront ne resterait pas sans conséquences. Tels étaient les messages passés après la décision à reculons d’accepter le débarquement.

      Le courroux français s’est logiquement abattu sur la dirigeante italienne, qui, contrevenant au droit international, a bloqué l’accès de ses côtes au navire humanitaire. Mais il y a fort à parier que la discorde diplomatique finisse par se dissiper. Et qu’en définitive les exilés eux-mêmes soient les principales victimes des mesures de rétorsion françaises.

      Mardi 15 novembre, lors des questions au gouvernement à l’Assemblée nationale, le ministre de l’intérieur a ainsi annoncé, telle une victoire, qu’au moins 44 des 234 rescapés seraient renvoyés dans leur pays d’origine. « Dès que leur état de santé » le permettra, bien sûr, et alors même que l’étude des dossiers est toujours en cours, selon son propre aveu devant les députés. « J’ai déjà pris […] contact dès [lundi] avec mes homologues étrangers pour que ces reconduites à la frontière puissent se faire dans les temps les plus courts possible », s’est-il réjoui, espérant que ces expulsions seront réalisées d’ici à la fermeture de la zone d’attente « dans une vingtaine de jours ». Sachant que le ministre avait d’emblée assuré que les deux tiers des rescapés acceptés sur le sol européen feraient l’objet d’une « relocalisation » vers onze autres pays de l’UE, le nombre de celles et ceux autorisés à demander l’asile en France sera réduit à la portion congrue.

      Gérald Darmanin, en vérité, avait commencé ses calculs d’apothicaire avant même le débarquement, en déclarant que la France suspendait immédiatement l’accueil pourtant prévu de longue date de 3 500 réfugiés se trouvant en Italie et qu’il renforcerait les contrôles à la frontière franco-italienne.

      Entre les « expulsés », les « relocalisés » et les « refusés », la générosité de la France s’est vite muée en démonstration de force à visée politique sur le dos de personnes qui, venues du Bangladesh, d’Érythrée, de Syrie, d’Égypte, du Pakistan, du Mali, du Soudan et de Guinée, ont enduré les dangers de l’exil dans l’espoir d’une vie meilleure. Personne, faut-il le rappeler, ne quitte ses proches, son pays, sa maison, son travail, ses habitudes, avec pour seul bagage quelques billets en poche, pour le plaisir de traverser la Méditerranée. Politiques, économiques, sociaux, climatiques, leurs motifs sont le plus souvent solides. Sauvés en mer par l’équipage de l’Ocean Viking, les 234 rescapés ont attendu trois semaines, dans des conditions indicibles, la possibilité de poser un pied sur la terre ferme. La Commission européenne avait rappelé la nécessité, la veille du feu vert français, de les laisser accoster, soulignant « l’obligation légale de sauver les vies humaines en mer, claire et sans équivoque, quelles que soient les circonstances ».
      « Secourir et reconduire »

      Guidé par sa volonté de répondre à l’extrême droite qui l’accuse de « complaisance », le ministre de l’intérieur a en réalité anticipé son attente, telle qu’exprimée par une élue RN du Var, Laure Lavalette, dans l’hémicycle mardi, l’appelant à « secourir et reconduire ».

      Le cadre répressif de cet accueil à la française a été posé au moment même où les rescapés sont arrivés en France. Leur débarquement s’est fait sous escorte militaire, à l’abri des regards des élus, des ONG et des journalistes, dans le port militaire de Toulon (lire ici et là). Ils ont aussitôt été placés dans une « zone d’attente » créée pour l’occasion, dans un ancien « village de vacances » de la presqu’île de Giens, c’est-à-dire dans un lieu d’enfermement. Ainsi l’« accueil » a commencé sous de sombres auspices.

      Placés sous la garde de deux cents policiers et gendarmes, les 234 rescapés ont été soumis, sans attendre d’être remis des épreuves physiques et psychologiques de la traversée, à un examen de leur situation administrative. Pratiquée dans l’urgence, la procédure, dans ce cadre « exceptionnel », est particulièrement expéditive : les agents de l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra), instance dépendant du ministère de l’intérieur, sont tenus de délivrer un avis « sous 48 heures » sur le « caractère manifestement fondé ou non de la demande d’asile », charge ensuite au ministère de l’intérieur de poursuivre – ou non – l’examen du dossier. Comment peut-on humainement demander à des personnes venant de passer trois semaines d’errance en mer, et qui ont pour la plupart subi des chocs de toute sorte, de retracer posément – et de manière convaincante, c’est-à-dire preuves à l’appui – les raisons qui leur permettraient d’obtenir une protection de la France ? L’urgence, l’arbitraire et le respect de la dignité des personnes font rarement bon ménage.

      Habilitée à intervenir en zone d’attente, l’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers, qui a pu se rendre sur place, estime dans un communiqué publié mardi que les rescapés de l’Ocean Viking sont « victimes de violation de leurs droits fondamentaux » dans cette zone d’attente. Ses constats sont « alarmants ». Elle regrette tout d’abord le manque de temps de repos à l’arrivée et une prise en charge médicale passablement insuffisante. Elle évoque ensuite de nombreuses violations du droit d’asile dans le déroulement des entretiens administrés par l’Ofpra, liées notamment au manque d’interprétariat, à l’absence de confidentialité des échanges et à l’absence d’accès à un avocat ou à une association de défense des droits.

      Mais discuter de la légalité des procédures n’est, à cette heure, pas la priorité du ministre de l’intérieur dont l’objectif est de montrer qu’il prend garde à ce que la France ne soit pas « submergée » par quelques dizaines d’exilés. Sa célérité à annoncer, le plus vite possible, et avant même la fin de la procédure, qu’une partie des rescapés seront expulsés, en est la preuve.

      Quand on se souvient de l’accueil réservé aux Afghans fuyant le régime des talibans ou aux Ukrainiens fuyant la guerre, on observe pourtant qu’il existe d’autres manières d’assurer que les droits des demandeurs d’asile soient respectés. Pour ne prendre que cet exemple, il y a un an, lorsque plusieurs millions d’Ukrainiens ont fui l’invasion russe, « la France a su mettre en place en quelques jours un dispositif à la hauteur de cette situation imprévue », souligne Claire Rodier, membre du Groupe d’information et de soutien des immigré·es (Gisti) et du réseau Migreurop, dans une tribune à Libération. Et de rappeler les déclarations du ministre de l’intérieur lui-même assurant alors que « nous pouvons aujourd’hui accueillir jusqu’à 100 000 personnes réfugiées sur le territoire national ».

      Précédent également notable, la France, en 2018, avait refusé d’accueillir l’Aquarius, soumis au même sort que l’Ocean Viking. À l’époque, Emmanuel Macron n’avait pas voulu céder et le navire avait fait route vers Valence, en Espagne, suscitant la honte d’une partie des soutiens du président de la République. L’accueil alors réservé aux exilés par les autorités et la société civile espagnole avait été d’une tout autre teneur. Le pays s’était largement mobilisé, dans un grand élan de solidarité, pour que les rescapés trouvent le repos et le réconfort nécessaires après les épreuves de l’exil.

      Il faut se souvenir enfin de l’émoi national légitimement suscité, il n’y a pas si longtemps, par les propos racistes du député RN Grégoire de Fournas, en réponse à une intervention de l’élu LFI Carlos Martens Bilongo concernant… l’Ocean Viking. « Qu’il(s) retourne(nt) en Afrique », avait-il déclaré (lire notre article), sans que l’on sache trop s’il s’adressait à l’élu noir ou aux exilés en perdition. Alors qu’il est désormais établi qu’au moins quarante-quatre d’entre eux seront renvoyés dans leur pays d’origine, vraisemblablement, pour certains, sur le continent africain, il sera intéressant de constater à quel niveau notre pays, et plus seulement nos gouvernants, placera son curseur d’indignation.

      https://www.mediapart.fr/journal/international/161122/ocean-viking-les-fourberies-de-darmanin

    • Ocean Viking : 123 « #refus_d'entrée » en France et une grande confusion

      Une semaine après leur débarquement à Toulon, une soixantaine de migrants de l’Ocean Viking a été autorisée à demander l’asile. En parallèle de la procédure d’asile aux frontière, des décisions judiciaires ont conduit à la libération d’une centaine de rescapés retenus dans la « zone d’attente », désormais libres d’entrer sur le sol français. Une vingtaine de mineurs, ont quant à eux, pris la fuite vers d’autres pays.

      Sur les 234 rescapés du navire humanitaire Ocean Viking débarqués à Toulon il y a une semaine, 123 migrants se sont vu opposer un refus à leur demande d’asile, soit plus de la moitié, a indiqué vendredi 18 novembre le ministère de l’Intérieur. Ils font donc « l’objet d’un refus d’entrée sur le territoire » français, soit plus de la moitié, a ajouté le ministère de l’Intérieur.

      Hormis les 44 passagers reconnus mineurs et placés dès les premiers jours sous la protection de l’Aide sociale à l’enfance, les 189 adultes restant avaient été retenus dans une « zone d’attente » fermée, qui n’est pas considérée comme appartenant au territoire français. Un espace créé dans le cadre de la procédure d’asile à la frontière, pour l’occasion, dans un centre de vacances de la presqu’île de Giens, à proximité de Toulon.

      Ils sont tous passés cette semaine entre les mains de la police et des agents de l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra), pour des contrôles de sécurité et de premiers entretiens effectués depuis cette « zone d’attente », afin d’évaluer si leur demande d’asile était fondée.

      Au terme de ces entretiens, l’Ofpra a émis « 66 avis favorables » a précisé Charles-Edouard Minet, sous-directeur du conseil juridique et du contentieux du ministère de l’Intérieur. Cette soixantaine de migrants a donc été autorisée à déposer des demandes d’asile, et autorisée à entrer sur le territoire français. Ils ont été conduits vers des centres d’hébergement du Var, dont des #Centres_d'accueil_et_d'évaluation_des_situations (#CAES).

      Parmi eux, certains seront « relocalisés » vers les onze pays européens (dont l’Allemagne, la Finlande ou le Portugal) qui s’étaient portés volontaires pour se répartir les efforts et les accueillir après leur débarquement en France.

      Des avis défavorables mais pas d’expulsions massives et immédiates

      Les « 123 avis défavorables », quant à eux, ne sont pas pour autant immédiatement expulsables. Le gouvernement français veut aller vite, le ministre de l’Intérieur Gerald Darmanina ayant affirmé dès le 15 novembre que ces personnes « seront reconduites [vers leur pays d’origine] dès que leur état de santé » le permettra. Mais les refoulements pourraient prendre un temps plus long, car ces procédures nécessitent que « la personne soit détentrice d’un passeport et d’un laissez-passer consulaire ». Or ce document doit être délivré par le pays d’origine et cela prend du temps car certains pays tardent à l’octroyer, avait expliqué l’Anafé, association de défense des étrangers aux frontières, à InfoMigrants il y a quelques jours.

      D’autre part, des décisions de justice sont venues chambouler le calendrier annoncé par l’Etat. La cour d’appel d’Aix-en-Provence a annoncé vendredi 18 novembre avoir validé la remise en liberté de la « quasi-totalité, voire la totalité » des 108 rescapés qui réclamaient de ne plus être enfermés dans la « zone d’attente ».

      En cause, des vices de procédure dans les dossiers montés dans l’urgence et de juges dépassés par la centaine de cas à traiter. Les juges des libertés et de la détention (JLD) qui doivent en France, se prononcer pour ou contre un maintien en « zone d’attente » après 4 jours d’enfermement, ont estimé dans une majorité de cas que les migrants devaient être libérés. Le parquet a fait appel de ces décisions, mais la cour d’appel a donné raison au JLD pour une non-prolongation du maintien dans la « zone d’attente » dans la plupart des cas.

      Certains des migrants libérés avaient reçu ces fameux avis défavorables de l’Ofpra, notifiés par le ministère de l’Intérieur. D’après l’Anafé, ils devraient néamoins pouvoir désormais « faire une demande d’asile une fois entrés sur le territoire ».

      Douze migrants en « zone d’attente »

      Après ces annonces de libération, le gouvernement a estimé dans l’après-midi, vendredi, que seuls douze migrants se trouvaient toujours dans ce centre fermé vendredi après-midi. A ce flou s’ajoutent « les personnes libérées mais revenues volontairement » sur le site « pour bénéficier » de l’hébergement, a reconnu, désabusé, le représentant du ministère.

      Ces complications judiciaires et administratives ont perturbé nombre des rescapés, parmi lesquels se trouvent des personnes fragiles, dont la santé nécessite des soins psychologiques après les 20 jours d’errance en mer sur l’Ocean Viking qui ont précédé cette arrivée chaotique en France. Et ce d’autant que les autorités et les associations présentes dans la « zone d’attente » ont été confrontés à une pénurie de traducteurs dès les premiers jours.

      A tel point que le préfet du Var, Evence Richard, a alerté le 16 novembre sur le manque d’interprètes, estimant qu’il s’agissait d’"un vrai handicap" pour s’occuper des migrants. « Dès lors, les personnes ne sont pas en mesure de comprendre la procédure de maintien en zone d’attente, leurs droits, la procédure spécifique d’asile à la frontière et ses tenants et aboutissants », avait aussi fait savoir l’Anafé dans un communiqué publié mardi.

      Des scènes de grande confusion

      En effet, la presse locale du Var et d’autres journaux français ont rapporté des scènes de grande confusion lors des audiences devant le tribunal de Toulon et la cour d’appel d’Aix-en-Provence, avec des « interprètes anglais pour des Pakistanais, une femme de ménage du commissariat de Toulon réquisitionnée comme interprète de langue arabe, des entretiens confidentiels tenus dans les couloirs », comme en atteste dans les colonnes du Monde, la bâtonnière du barreau varois, Sophie Caïs, présente le 15 novembre au tribunal.

      Dans une autre audience, décrite par un journaliste du quotidien français ce même jour, une mère Malienne « fond en larmes lorsque la juge lui demande ce qu’elle a à ajouter aux débats. Sa petite fille de 6 ans, qui, depuis le début de la matinée ne la quitte pas d’un pouce, ouvre de grands yeux ».

      Des mineurs en fugue

      En parallèle, parmi les 44 rescapés mineurs logés hors de la « zone d’attente », dans un hôtel où ils étaient pris en charge par l’Aide sociale à l’enfance, 26 ont quitté les lieux de leur propre chef, a-t-on appris le 17 novembre dans un communiqué du Conseil départemental du Var.

      Les mineurs qui ont fugué « ont eu un comportement exemplaire, ils sont partis en nous remerciant », a insisté Christophe Paquette, directeur général adjoint en charge des solidarités au conseil départemental du Var. D’après lui, ces jeunes, dont une majorité d’Erythréens, « ont des objectifs précis dans des pays d’Europe du nord » tels que les Pays-Bas, le Luxembourg, la Suisse ou encore l’Allemagne, où ils souhaitent rejoindre de la famille ou des proches.

      Les services sociaux ont « essayé de les en dissuader », mais « notre mission est de les protéger et pas de les retenir », a ajouté M. Paquette.

      http://www.infomigrants.net/fr/post/44849/ocean-viking--123-refus-dentree-en-france-et-une-grande-confusion

    • Ocean Viking : le #Conseil_d’État rejette l’#appel demandant qu’il soit mis fin à la zone temporaire d’attente où certains passagers ont été maintenus

      Le juge des référés du Conseil d’État rejette aujourd’hui la demande de l’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (ANAFE) de mettre fin à la zone d’attente temporaire dans laquelle ont été placés certains passagers de l’Ocean Viking. L’association requérante, avec le soutien d’autres associations, contestait les conditions de création de la zone d’attente et estimait que les personnes qui y avaient été placées n’avaient pas accès à leurs droits. Le juge relève les circonstances exceptionnelles dans lesquelles l’accueil de ces personnes a dû être organisé. Il observe également que les demandes d’asile à la frontière ont pu être examinées, 66 personnes étant finalement autorisées à entrer sur le territoire pour déposer leur demande d’asile, et que les procédures judiciaires ont suivi leur cours, la prolongation du maintien de la détention n’ayant d’ailleurs pas été autorisée pour la très grande majorité des intéressés. Enfin, il constate qu’à la date de son intervention, les associations et les avocats peuvent accéder à la zone d’attente et y exercer leurs missions dans des conditions n’appelant pas, en l’état de l’instruction, que soient prises des mesures en urgence.

      Pour des raisons humanitaires, le navire « Ocean Viking » qui transportait 234 personnes provenant de différents pays, a été autorisé par les autorités françaises à accoster au port de la base militaire navale de Toulon. Le préfet a alors créé une zone d’attente temporaire incluant cette base militaire et un village vacances à Hyères, où ont été transférées, dès le 11 novembre dernier au soir, les 189 personnes placées en zone d’attente.

      L’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (ANAFE) a saisi en urgence le juge des référés du tribunal administratif de Toulon pour demander la suspension de l’exécution de l’arrêté préfectoral créant la zone d’attente temporaire, estimant que les personnes placées en zone d’attente se trouvaient illégalement privées de liberté et n’avaient pas un accès effectif à leurs droits. Après le rejet de son recours mercredi 16 novembre, l’association a saisi le juge des référé-liberté du Conseil d’État, qui peut, en appel, ordonner toutes mesures nécessaires à la sauvegarde d’une liberté fondamentale en cas d’atteinte grave et manifestement illégale à une liberté fondamentale. Ce dernier confirme aujourd’hui la décision du tribunal administratif et rejette l’appel de l’association.

      Le juge relève les circonstances exceptionnelles dans lesquelles l’accueil de ces personnes a dû être organisé (nombre important de personnes, nécessité d’une prise en charge médicale urgente, considérations d’ordre public), ce qui a conduit à la création par le préfet d’une zone d’attente temporaire sur le fondement des dispositions issues d’une loi du 16 juin 20111, en cas d’arrivée d’un groupe de personnes en dehors d’une « zone de passage frontalier ». Il observe également que les droits de ces étrangers n’ont pas, de ce seul fait, été entravés de façon grave et manifestement illégale. L’Office français de protection des réfugiés et apatrides (OFPRA) a pu mener les entretiens légalement prévus, ce qui a conduit à ce que 66 personnes soient autorisées à entrer sur le territoire pour présenter une demande d’asile, et le juge des libertés et de la détention puis la cour d’appel d’Aix-en-Provence se sont prononcés sur la prolongation des mesures de détention, qui a d’ailleurs été refusée dans la grande majorité d’entre eux.

      S’agissant de l’exercice des droits au sein même de la zone, le juge des référés, qui se prononce en fonction de la situation de fait à la date à laquelle son ordonnance est rendue, note qu’à l’exception des quelques heures durant lesquelles les personnes étaient présentes sur la base militaire, l’association requérante a pu accéder au village vacances sans entrave. Si la persistance de difficultés a pu être signalée à l’audience, elles ne sont pas d’une gravité telle qu’elles rendraient nécessaires une intervention du juge des référés. Le ministère de l’intérieur a par ailleurs transmis à l’association, une liste actualisée des 16 personnes encore maintenues, afin de lui faciliter l’exercice de sa mission d’assistance, comme il s’y était engagé lors de l’audience au Conseil d’État qui a eu lieu hier.

      Les avocats ont également accès au village vacances. Là encore, des insuffisances ont pu être constatées dans les premiers jours de mise en place de la zone d’attente. Mais des mesures ont été progressivement mises en œuvre pour tenter d’y répondre, notamment la mise à disposition de deux locaux dédiés et un renforcement de l’accès aux réseaux téléphoniques et internet.

      A la date de l’ordonnance et en l’absence d’une atteinte grave et manifestement illégale à une liberté fondamentale, il n’y avait donc pas lieu pour le juge des référés de prononcer des mesures en urgence.

      1 Loi n° 2011-672 du 16 juin 2011 relative à l’immigration, à l’intégration et à la nationalité.

      https://www.conseil-etat.fr/actualites/ocean-viking-le-conseil-d-etat-rejette-l-appel-demandant-qu-il-soit-mis
      #justice

    • Le Conseil d’État valide l’accueil au rabais des rescapés de l’Ocean Viking

      Des associations contestaient la création de la zone d’attente dans laquelle ont été enfermés les exilés après leur débarquement dans le port militaire de Toulon. Bien qu’elle ait reconnu « des insuffisances », la plus haute juridiction administrative a donné raison au ministère de l’intérieur, invoquant des « circonstances exceptionnelles ».

      LeLe Conseil d’État a donné son blanc-seing à la manière dont le ministère de l’intérieur a géré l’arrivée en France des rescapés de l’Ocean Viking. Débarqués le 11 novembre à Toulon après vingt jours d’errance en mer, à la suite du refus de l’Italie de les faire accoster sur ses côtes, les migrants avaient immédiatement été placés dans une zone d’attente temporaire à Hyères (Var), sur la presqu’île de Giens. Gerald Darmanin avait en effet décidé de secourir, sans accueillir. 

      Ce lieu d’enfermement, créé spécialement pour y maintenir les exilés avant qu’ils ne soient autorisés à demander l’asile, est-il légal ? L’Anafé (Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers) posait cette fois la question au Conseil d’État, après avoir été déboutée une première fois par le tribunal administratif de Toulon. 

      La plus haute juridiction administrative du pays a rejeté samedi 19 novembre la demande de l’association qui souhaitait la fermeture de la zone d’attente au motif que les droits des exilés n’étaient pas respectés. Le Conseil d’État reconnaît que « des insuffisances ont pu être constatées dans les premiers jours de mise en place de la zone d’attente ». Mais il invoque « les circonstances exceptionnelles dans lesquelles l’accueil de ces personnes a dû être organisé ». 

      L’audience s’est déroulée vendredi matin, sous les moulures et lustres recouverts d’or du Conseil d’État. Si 189 personnes étaient initialement maintenues dans la zone d’attente le 11 novembre, elles étaient de moins en moins nombreuses au fil de la journée, assurait d’entrée de jeu le représentant du ministère de l’intérieur, Charles-Édouard Minet. « Vous êtes en train de me dire qu’à la fin de la journée, il peut n’y avoir plus personne en zone d’attente », s’était étonnée la magistrate qui présidait l’audience. « Absolument, oui », confirmait Charles-Édouard Minet. Rires dans la salle.

      Symbole de la grande improvisation ministérielle, la situation évoluait d’heure en heure, à mesure que la justice mettait fin au maintien prolongé des exilés en zone d’attente. Au moment de l’audience, entre 12 et 16 personnes étaient encore enfermées. Deux heures plus tard, la cour d’appel d’Aix-en-Provence décidait de remettre en liberté la « quasi-totalité voire la totalité » des personnes retenues dans la zone d’attente d’Hyères. Moins de dix personnes y seraient encore retenues. 

      Devant le Conseil d’État, s’est tenue une passe d’armes entre les avocats défendant les droits des étrangers et le ministère de l’intérieur. Son représentant a assuré que l’accès aux droits des personnes retenues était garanti. Ce qu’a fermement contesté le camp adverse : « Il existe un vrai hiatus entre ce que dit l’administration et ce qu’ont constaté les associations : les avocats ne peuvent pas accéder comme il le devrait à la zone d’attente », a affirmé Cédric Uzan-Sarano, conseil du Groupe d’information et de soutien des immigrés (GISTI). 

      En creux, les représentants des associations dénoncent les choix très politiques de Gerald Darmanin. Plutôt que de soumettre les rescapés de l’Ocean Viking à la procédure classique de demande d’asile, la décision a été prise de les priver de leurs libertés dès leur débarquement sur le port militaire de Toulon. « Tous les dysfonctionnements constatés trouvent leur source dans l’idée de l’administration de créer cette zone d’urgence, exceptionnelle et dérogatoire », tance Patrice Spinosi, avocat de l’Anafé. 

      Les associations reprochent aux autorités le choix de « s’être placées toutes seules dans une situation d’urgence » en créant la zone d’attente temporaire. La procédure étant « exceptionnelle » et « mise en œuvre dans la précipitation », « il ne peut en découler que des atteintes aux droits des étrangers », ont attaqué leurs avocats.

      Dans sa décision, le Conseil d’État considère toutefois que la création de la zone d’attente est conforme à la loi. Il met en avant « le nombre important de personnes, la nécessité d’une prise en charge médicale urgente et des considérations d’ordre public ». L’autorité administrative note par ailleurs qu’au moment où elle statue, « à l’exception des quelques heures durant lesquelles les personnes étaient présentes sur la base militaire, [l’Anafé] a pu accéder au village vacances sans entrave ».

      À écouter les arguments de l’Anafé, les dysfonctionnements sont pourtant nombreux et persistants. À peine remis d’un périple éprouvant, les exilés ont dû sitôt expliquer les persécutions qu’ils ont fuies aux agents de l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra).

      « Puisque les entretiens avec l’Ofpra sont devenus l’alpha et l’oméga des procédures d’asile, il est indispensable que les personnes soient préparées par des avocats », juge Gérard Sadik, représentant de La Cimade, une association qui vient en aide aux réfugiés. 
      Plus de la moitié des rescapés interdits d’entrée sur le territoire

      L’Anafé estime que les conditions sur la zone d’attente d’Hyères ne permettent pas aux associations et aux avocats d’accomplir leur mission d’accompagnement. Si les autorités ont mis à disposition deux locaux, ceux-ci « ne sont équipés ni d’ordinateur, ni de fax, ni d’Internet pour transmettre les recours », indique l’Anafé. Par ailleurs, ces pièces, très vite remplacées par des tentes, empêchent la confidentialité des échanges, pourtant imposée par la loi. 

      Laure Palun, directrice de l’Anafé, est la seule personne présente ce jour-là à l’audience à avoir visité la zone d’attente. « Quand on passait à côté des tentes, on pouvait entendre et voir tout ce qui se passait à l’intérieur, décrit-t-elle. Un moment, on a même vu un exilé quasiment couché sur une table pour comprendre ce que l’interprète lui disait au téléphone. »

      Le Conseil d’État a préféré relever les efforts réalisés par les autorités pour corriger les « insuffisances constatées dans les premiers jours » : « Des mesures ont été progressivement mises en œuvre [...], notamment la mise à disposition de deux locaux dédiés et un renforcement de l’accès aux réseaux téléphoniques et Internet. »

      Conséquence de cette procédure d’asile au rabais et des obstacles rencontrés par les exilés dans l’exercice de leurs droits ? Charles-Édouard Minet a annoncé que plus de la moitié des rescapés du navire de SOS Méditerranée, soit cent vingt-trois personnes, ont fait « l’objet d’un refus d’entrée sur le territoire » français, à la suite de leur entretien individuel avec l’Ofpra. Pour l’heure, le ministère de l’intérieur n’a pas précisé s’ils allaient être expulsés. 

      D’un ton solennel, Patrice Spinosi avait résumé l’enjeu de l’audience : « La décision que vous allez rendre sera la première sur les zones d’attente exceptionnelles. Il existe un risque évident que cette situation se reproduise, [...] l’ordonnance que vous rendrez définira une grille de lecture sur ce que peut faire ou pas l’administration. » L’administration n’aura donc pas à modifier ses procédures.

      https://www.mediapart.fr/journal/france/191122/le-conseil-d-etat-valide-l-accueil-au-rabais-des-rescapes-de-l-ocean-vikin

    • Ocean Viking : « On vient d’assister à un #fiasco »

      Laure Palun, directrice de l’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (Anafé) énumère les multiples entraves aux droits des personnes recueillies par l’Ocean Viking et déplore que le choix de l’enfermement l’ait emporté sur celui de l’accueil.

      La France avait annoncé vouloir faire vite. Se prononcer « très rapidement » sur le sort des passager·ères de l’Ocean Viking tout juste débarqué·es sur la base navale de Toulon (Var), après que le gouvernement italien d’extrême droite avait refusé (en toute illégalité) que le navire accoste sur son territoire. Ces personnes étaient maintenues dans une zone d’attente temporaire créée dans un centre de vacances de la presqu’île de Giens.

      Un lieu de privation de liberté qui, juridiquement, n’est pas considéré comme étant sur le sol français. Dans les quarante-huit heures, avaient estimé les autorités, l’ensemble des rescapé·es auraient vu examiner la pertinence de leur demande d’asile par l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra). Une procédure accélérée qui n’a pas vocation à attribuer une protection internationale, mais à examiner si la demande d’entrée sur le territoire au titre de l’asile est manifestement fondée ou pas.

      Rien, toutefois, ne s’est passé comme prévu puisque la quasi-totalité des rescapé·es, à l’heure où nous écrivons ces lignes, ont pu être libéré·es au terme de différentes décisions judiciaires (1). Pour Laure Palun, directrice de l’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étranger·ères (Anafé) – la principale association autorisée à intervenir en zone d’attente –, « on vient d’assister à un fiasco ». Tant pour l’administration que pour les demandeur·ses d’asile.

      En créant une zone d’attente temporaire, les autorités ont choisi d’accueillir les passager·ères de l’Ocean Viking sous le régime de la privation de liberté. Que dit la méthode ?

      Laure Palun : Que nous aurions pu faire le choix de l’accueil, plutôt que celui de l’enfermement ! La zone d’attente est un lieu privatif de liberté où la procédure d’asile « classique » ne s’applique pas. La procédure d’asile à la frontière permet de procéder à une sorte de tri en amont et de dire si, oui ou non, la personne peut entrer sur le territoire pour y demander la protection internationale. Mais l’expérience nous le montre : le tri, les opérations de filtrage et les procédures d’asile à la frontière, ça ne fonctionne pas si on veut être en conformité avec le respect des droits.

      La situation des personnes sauvées par l’Ocean Viking et enfermées dans la zone d’attente de Toulon nous a donné raison puisque la plupart d’entre elles ont été libérées et prises en charge pour entrer dans le dispositif national d’accueil (DNA). Soit parce qu’elles avaient été admises sur le territoire au titre de l’asile, soit parce qu’elles avaient fait l’objet d’une décision judiciaire allant dans le sens d’une libération.

      Lire aussi > Ocean Viking, un naufrage diplomatique

      On vient d’assister à un fiasco. Non seulement du côté des autorités – considérant l’échec de leur stratégie politique –, mais aussi pour les personnes maintenues, qui auraient pu se reposer et entrer dans le processus d’asile classique sur le territoire une semaine plus tôt si elles n’avaient pas été privées de liberté. Au lieu de ça, elles ont été fichées, fouillées et interrogées à de multiples reprises.

      Le point positif, c’est que les mineur·es non accompagné·es – qui ont bien été placé·es quelques heures en zone d’attente, contrairement à ce qu’a déclaré le ministère de l’Intérieur – ont été libéré·es le premier jour pour être pris·es en charge. Le Ceseda [code de l’entrée et du séjour des étrangers et du droit d’asile] prévoit en effet que les mineur·es non accompagné·es qui souhaitent demander l’asile ne peuvent être maintenu·es en zone d’attente « sauf exception ». Mais c’est généralement le cas.

      Le 16 novembre, devant l’Assemblée nationale, le ministre de l’Intérieur, Gérald Darmanin, avait pourtant annoncé l’expulsion de 44 personnes d’ici à la fin de la période de maintien en zone d’attente.

      Une telle déclaration pose de vraies questions sur le non-respect de la convention de Genève, de la Convention européenne de sauvegarde des droits de l’homme et des libertés fondamentales, et du droit national : il n’est pas possible de dire une chose pareille, alors même que les personnes sont en cours de procédure d’asile. Même si les demandes de ces personnes ont été rejetées, il existe des recours, et ça fait partie de la procédure !

      Le droit à un recours effectif est inscrit dans la Convention européenne des droits de l’homme et a même été consacré concernant la procédure d’asile à la frontière en 2007 (2). Mais Gérald Darmanin a aussi dit qu’il avait pris contact, la veille [le 15 novembre, NDLR], avec les autorités des pays d’origine.

      Non seulement les décisions de l’Ofpra n’avaient pas encore été notifiées aux demandeur·ses d’asile à ce moment-là – et quand bien même ça aurait été le cas, elles étaient encore susceptibles de recours –, mais il s’agit encore d’une atteinte grave et manifeste à la convention de Genève. Contacter les pays d’origine de personnes en cours de demande d’asile, a fortiori pour envisager leur expulsion, ajoute des risques de persécutions en cas de retour dans le pays.

      Dans un communiqué, vous avez dénoncé de « nombreuses violations des droits » au sein de la zone d’attente, notamment dans le cadre des procédures d’asile. Lesquelles ?

      À leur arrivée, les personnes ont été prises en charge d’un point de vue humanitaire. À ce sujet, l’Anafé n’a pas de commentaire à faire. En revanche, elles n’ont reçu quasiment aucune information sur la procédure, sur leurs droits, et elles ne comprenaient souvent pas ce qui se passait. En dehors de la procédure d’asile, il n’y avait pratiquement aucun interprétariat.

      Cela a représenté une immense difficulté sur le terrain, où les conditions n’étaient globalement pas réunies pour permettre l’exercice effectif des droits. Notamment le droit de contacter un·e avocat·e, une association de défense des droits, ou un·e médecin. Et ni les associations ni les avocat·es n’ont pu accéder à un local pour s’entretenir en toute confidentialité avec les demandeur·ses d’asile.

      Concernant les demandes d’asile, ça a été très compliqué. Déjà, à l’ordinaire, les procédures à la frontière se tiennent dans des délais très courts. Mais, ici, l’Ofpra a dû mener environ 80 entretiens par jour. Pour les officier·ères de protection, cela paraît très lourd. Et ça signifie aussi que les personnes ont dû passer à la chaîne, moins de 48 heures après leur débarquement, pour répondre à des questions portant sur les risques de persécution dans leurs pays.

      Les entretiens ont été organisés sans confidentialité, dans des bungalows ou des tentes au travers desquels on entendait ce qui se disait, avec des interprètes par téléphone – ce que nous dénonçons mais qui est classique en zone d’attente. Ces entretiens déterminants devraient être menés dans des conditions sereines et nécessitent de pouvoir se préparer. Cela n’a pas été le cas, et on le constate : 123 dossiers de demande d’entrée sur le territoire ont été rejetés.

      Le Conseil d’État a pourtant estimé que, malgré « les circonstances exceptionnelles dans lesquelles l’accueil de ces personnes a dû être organisé », les droits des personnes placées en zone d’attente n’avaient pas été « entravés de façon grave et manifestement illégale ».

      Nous avons déposé une requête devant le tribunal administratif de Toulon pour demander la suspension de l’arrêt de création de la zone d’attente, mais cela n’a pas abouti. L’Anafé a fait appel et porté l’affaire devant le Conseil d’État. Ce dernier n’a pas fait droit à notre demande, constatant que des améliorations avaient été apportées par l’administration avant la clôture de l’instruction, tout en reconnaissant que des manquements avaient été commis.

      Le Conseil d’État a néanmoins rappelé que les droits des personnes devaient être respectés, et notamment l’accès à un avocat, à une association de défense des droits et à la communication avec l’extérieur. Par exemple, ce n’est qu’après l’audience que l’administration a consenti à transmettre à l’Anafé le nom des personnes encore enfermées (16 au moment de l’audience) pour qu’elle puisse exercer sa mission de défense des droits.

      Il faut se rappeler que ce sont des hommes, des femmes et des enfants qui ont été enfermés après avoir vécu l’enfer.

      Ces entraves affectent notre liberté d’aider autrui à titre humanitaire découlant du principe de fraternité, consacré en 2018 par le Conseil constitutionnel, mais surtout les droits fondamentaux des personnes que l’Anafé accompagne.

      Il est à déplorer que les autorités ne respectent pas les droits des personnes qu’elle enferme et qu’il faille, à chaque fois, passer par la voie contentieuse pour que des petites améliorations, au cas par cas, soient apportées. Le respect des droits fondamentaux n’est pas une option, et l’Anafé continuera d’y veiller.

      Avec le projet de réforme européenne sur la migration et l’asile, qui prévoit notamment de systématiser la privation de liberté aux frontières européennes le temps de procéder aux opérations de « filtrage », faut-il s’attendre à ce que de telles situations se reproduisent et, en l’absence de condamnation du Conseil d’État, à des expulsions qui seraient, cette fois, effectives ?

      La situation vécue ces derniers jours démontre une nouvelle fois que la procédure d’asile à la frontière et la zone d’attente ne permettent pas de respecter les droits des personnes qui se présentent aux frontières européennes. C’est ce que l’Anafé dénonce depuis de nombreuses années et c’est ce qu’elle a mis en avant dans le cadre de sa campagne « Fermons les zones d’attente ».

      La perspective d’étendre cette pratique au niveau européen dans le cadre du pacte sur la migration et l’asile est un fiasco politique annoncé. Surtout, cela aura pour conséquence des violations des droits fondamentaux des personnes exilées. Au-delà du camouflet pour le gouvernement français, il faut se rappeler que ce sont des hommes, des femmes et des enfants qui ont été enfermés, et pour certains qui le sont encore, dans la zone d’attente de Toulon, après avoir vécu l’enfer – camps libyens, traversée de la Méditerranée…

      Le filtrage, le tri et l’enfermement ne peuvent pas être la réponse européenne à de telles situations de détresse, sauf à ajouter de la souffrance et de la violence pour ces personnes.

      En représailles de l’action de l’Italie, le gouvernement a annoncé le déploiement de 500 policiers et gendarmes supplémentaires à la frontière franco-italienne, où l’Anafé constate quotidiennement des atteintes aux droits. À quoi vous attendez-vous dans les prochains jours, sur le terrain ?

      Nous sommes évidemment très mobilisés. Actuellement, nous constatons toujours la même situation que celle que nous dénonçons depuis de nombreuses années. Conséquence de ces contrôles, les personnes prennent de plus en plus de risques et, pour certaines, mettent leur vie en péril… Preuve en est l’accident qui a eu lieu ce week-end à la frontière franco-italienne haute (3).

      Il me paraît surtout important de rappeler que ces effectifs sont mobilisés dans le cadre du rétablissement du contrôle aux frontières intérieures, mesure ininterrompue depuis sept ans par les autorités françaises. Or ces renouvellements [tous les six mois, NDLR] sont contraires au droit européen et au code frontières Schengen. Il est temps que ça s’arrête.

      (1) Soit parce qu’elles ont reçu une autorisation d’entrée sur le territoire au titre de l’asile, soit parce que les juges des libertés et de la détention (JLD) ont refusé la prolongation du maintien en zone d’attente, soit parce que les JLD se sont dessaisis par manque de temps pour traiter les dossiers dans le délai imparti, soit en cour d’appel.

      (2) À la suite d’une condamnation par la Cour européenne des droits de l’homme, la France a modifié sa législation (Gebremedhin contre France, req n° 25389/05, 26 avril 2007).

      (3) Un jeune Guinéen est tombé dans un ravin dans les environs de Montgenèvre (Hautes-Alpes), ce dimanche 20 novembre.

      https://www.politis.fr/articles/2022/11/ocean-viking-on-vient-dassister-a-un-fiasco-45077

    • « Ocean Viking », autopsie d’un « accueil » à la française

      La sagesse, comme la simple humanité, aurait dû conduire à offrir aux rescapés de l’Ocean Viking des conditions d’accueil propres à leur permettre de se reposer de leurs épreuves et d’envisager dans le calme leur avenir. Au contraire, outre qu’elle a prolongé les souffrances qu’ils avaient subies, la précipitation des autorités à mettre en place un dispositif exceptionnel de détention a été la source d’une multitude de dysfonctionnements, d’illégalités et de violations des droits : un résultat dont personne ne sort gagnant.
      Dix jours après le débarquement à Toulon des 234 rescapés de l’Ocean Viking – et malgré les annonces du ministre de l’Intérieur affirmant que tous ceux qui ne seraient pas admis à demander l’asile en France seraient expulsés et les deux tiers des autres « relocalisés » dans d’autres pays de l’Union européenne – 230 étaient présents et libres de circuler sur le territoire français, y compris ceux qui n’avaient pas été autorisés à y accéder. Ce bilan, qui constitue à l’évidence un camouflet pour le gouvernement, met en évidence une autre réalité : le sinistre système des « zones d’attente », consistant à enfermer toutes les personnes qui se présentent aux frontières en demandant protection à la France, est intrinsèquement porteur de violations des droits humains. Principale association pouvant accéder aux zones d’attente, l’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (Anafé) le rappelle depuis 2016 : « Il est illusoire de penser pouvoir [y] enfermer des personnes dans le respect de leurs droits et de leur dignité. » Ce qui s’est passé dans la zone d’attente créée à Toulon en est la démonstration implacable.

      Une gestion calamiteuse

      Pour évaluer a posteriori la gestion calamiteuse du débarquement de ces naufragés, il faut rembobiner le film : poussé dans ses ultimes retranchements mais y voyant aussi l’occasion de se poser en donneur de leçon à l’Italie, le gouvernement annonce le 10 novembre sa décision d’autoriser « à titre tout à fait exceptionnel » l’Ocean Viking à rejoindre un port français pour y débarquer les hommes, femmes et enfants qui, ayant échappé à l’enfer libyen, puis à une mort certaine, ont passé trois semaines d’errance à son bord. « Il fallait que nous prenions une décision. Et on l’a fait en toute humanité », a conclu le ministre de l’Intérieur.

      Preuve que les considérations humanitaires avancées n’ont rien à voir avec une décision prise à contrecœur, le ministre l’assortit aussitôt de la suspension « à effet immédiat » de la relocalisation promise en France de 3 500 exilés actuellement sur le sol italien : sous couvert de solidarité européenne, c’est bien le marchandage du non-accueil qui constitue l’unique boussole de cette politique du mistigri.

      Preuve, encore, que la situation de ces naufragé·e·s pèse de peu de poids dans « l’accueil » qui leur est réservé, une zone d’attente temporaire est créée, incluant la base navale de Toulon, où leur débarquement, le 11 novembre, est caché, militarisé, « sécurisé ». Alors même qu’ils ont tous expressément demandé l’asile, ils sont ensuite enfermés dans un « village vacances », à l’exception de 44 mineurs isolés, sous la garde de 300 policiers et gendarmes, le ministre prenant soin de préciser que, pour autant « ils ne sont pas légalement sur le territoire national ».

      La suspicion tenant lieu de compassion pour ces rescapés, débutent dès le 12 novembre, dans des conditions indignes et avec un interprétariat déficient, des auditions à la chaîne leur imposant de répéter inlassablement, aux policiers, puis aux agents de l’Office français de protection des réfugiés et apatrides (Ofpra), les récits des épreuves jalonnant leur parcours d’exil, récits sur la base desquels doivent être triés ceux dont la demande d’asile pourra d’emblée apparaître « manifestement infondée », les empêchant de fouler le sol de cette République qui prétendait, quelques heures auparavant, faire la preuve de son humanité.

      Seuls 66 de ces demandeurs d’asile échappent à ce couperet, si bien que les juges des libertés et de la détention du tribunal de Toulon sont alors chargés d’examiner la question du maintien dans la zone d’attente, au-delà du délai initial de quatre jours, de plus de 130 d’entre eux. La juridiction se révélant rapidement embolisée par cet afflux de dossiers, les juges se trouvent dans l’impossibilité de statuer dans les vingt-quatre heures de leur saisine comme l’impose la loi et ils n’ont d’autre solution que d’ordonner la mise en liberté de la plupart.

      En deux jours 124 dossiers examinés au pas de charge

      Le calvaire pourrait s’arrêter là pour ces exilé·e·s perdu·e·s dans les arcanes de procédures incompréhensibles, mais le procureur de la République de Toulon fait immédiatement appel de toutes les ordonnances de mise en liberté, sans doute soucieux que les annonces du ministre ne soient pas contredites par des libérations en masse. C’est alors la cour d’appel d’Aix-en-Provence – qui est soumise au train d’enfer imposé par la gestion de l’accueil à la française : entre le 16 et le 17 novembre 124 dossiers sont examinés au pas de charge pendant que les personnes concernées sont parquées dans un hall de la cour d’appel jusque tard dans la nuit. Mais les faits étant têtus et la loi sans ambiguïté, les juges d’appel confirment que leurs collègues de Toulon n’avaient pas d’autres choix que de prononcer les mises en liberté contestées. A l’issue de ce marathon, il ne reste, le 21 novembre, que quatre personnes en zone d’attente.

      « Tout ça pour ça » : ayant choisi la posture du gardien implacable des frontières qu’un instant de faiblesse humanitaire ne détourne pas de son cap, le gouvernement doit maintenant assumer d’avoir attenté à la dignité de ceux qu’il prétendait sauver et aggravé encore le sort qu’ils avaient subi. Il faudra bien qu’il tire les leçons de ce fiasco : la gestion policière et judiciaire de l’accueil qu’implique le placement en zone d’attente se révélant radicalement incompatible avec le respect des obligations internationales de la France, il n’y a pas d’autre solution – sauf à rejeter à la mer les prochains contingents d’hommes, de femmes et d’enfants en quête de protection – que de renoncer à toute forme d’enfermement à la frontière.

      Signataires : Avocats pour la défense des droits des étrangers (Adde) Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (Anafé) Association pour la reconnaissance des droits des personnes homosexuelles et trans à l’immigration et au séjour (Ardhis) La Cimade, groupe d’information et de soutien des immigré·e·s (Gisti) La Ligue des Droits de l’homme (LDH) Syndicat des avocats de France (SAF) Syndicat de la magistrature (SM).

      https://www.liberation.fr/idees-et-debats/tribunes/ocean-viking-autopsie-dun-accueil-a-la-francaise-20221127_B53JAB6K7BDGFKV

    • #Mineurs_non_accompagnés de l’« Ocean Viking » : « Un #hôtel, ça ne correspond pas aux besoins d’un gamin »

      Pour Violaine Husson, de la Cimade, la France, signataire de la convention des droits de l’enfant, contrevient à ses engagements en plaçant des mineurs dans des situations loin d’être adéquates.
      L’information a fuité par voie de presse jeudi : 26 des 44 mineurs arrivés en France à bord du bateau humanitaire Ocean Viking ont fugué de l’hôtel où ils étaient logés à Toulon. « Le département a vocation à mettre les mineurs en sécurité mais pas dans des geôles, on ne peut pas les maintenir de force dans un foyer. Ils peuvent fuguer et c’est ce que certains on fait. On ne peut pas les contraindre, il n’y a pas de mesures coercitives à leur égard », a assuré Jean-Louis Masson, le président du conseil départemental du Var. Parmi ces 26 mineurs se trouvaient une majorité d’Erythréens qui, selon Christophe Paquette, directeur général adjoint en charge des solidarités au conseil départemental du Var, « ne restent jamais » car « ils ont des objectifs précis dans des pays d’Europe du Nord » comme les Pays-Bas, le Luxembourg, la Suisse ou encore l’Allemagne, où ils souhaitent rejoindre de la famille ou des proches. Les associations et les ONG, elles, pointent du doigt les conditions d’accueil et de prise en charge de ces jeunes, souvent inadaptées. Violaine Husson, responsable nationale Genre et Protections à la Cimade, répond à nos questions.

      Quelles sont les conditions de vie des mineurs étrangers non accompagnés, comme ceux de l’Ocean Viking, pris en charge dans des hôtels en France ?

      Il faut d’abord préciser une chose : la loi Taquet de février 2022 interdit le placement des mineurs non accompagnés dans des établissements hôteliers. Cela dit, il y a une exception : dans leur phase de mise à l’abri, en attendant l’entretien d’évaluation de leur minorité, il y a une possibilité de les placer à l’hôtel jusqu’à deux mois. C’est le cas pour cette quarantaine d’enfants, ça l’est aussi pour des centaines d’autres chaque année.

      Un hôtel, ça ne correspond pas aux besoins d’un gamin. Ils sont placés dans des chambres à plusieurs – en fonction des établissements, ils peuvent se retrouver à une deux ou trois personnes dans une chambre, voire plus –, ils ne parlent pas la même langue, ils n’ont pas la même religion… Il n’y a rien qui les relie vraiment. Par ailleurs, il n’y a pas de suivi social, personne ne vient les voir dans la journée pour leur demander si ça va ou ce qu’ils font. Il n’y a pas de jeux prévus, ils sont indépendants. Ce sont aussi souvent des hôtels miteux, pas chers, avec des toilettes et des salles de bains communes. C’est un quotidien qui est loin de l’idée que l’on se fait des mesures de protection de l’enfance en France.

      Ça peut expliquer pourquoi certains décident de quitter ces établissements ?

      Oui, il y a des enfants qui partent parce que les conditions ne vont pas du tout, elles ne sont pas adéquates. Certains ont dû tomber des nues. Dans certains hôtels, il n’y a pas que des mineurs, parfois ils peuvent être placés avec d’autres publics, des majeurs notamment. Ça les rend particulièrement vulnérables : ils sont des enfants étrangers isolés qui viennent d’arriver d’une traversée éprouvante et des personnes peuvent leur mettre la main dessus.

      La question des mineurs non accompagnés est souvent débattue, certaines personnalités politiques estiment qu’ils coûtent énormément d’argent, qu’ils seraient des délinquants. Qu’en est-il réellement selon vous ?

      En effet, on a parlé des mineurs non accompagnés de manière très négative : il y a la délinquance mais aussi le fait qu’ils mentiraient et qu’ils frauderaient, qu’ils coûteraient beaucoup à l’Aide sociale à l’enfance… Certains politiques ont même affirmé que 80 000 mineurs non accompagnés arriveraient en France chaque année. La réalité est toute autre : il y en a eu un peu plus de 9 000 en 2021. On est quand même loin du fantasme véhiculé.

      La protection de l’enfance est problématique aujourd’hui, il y a un véritable manque de moyen et de compétences, y compris pour les enfants français. Mais c’est bien plus simple de dire que c’est la faute des étrangers, même si leur proportion dans la prise en charge est dérisoire. Il y a cette injonction des politiques politiciennes de dire : le problème de l’Aide sociale à l’enfance, c’est les étrangers. Selon eux, ils mentent, ils fraudent, ils fuguent, ils ne sont pas mineurs ou ne sont pas vraiment isolés. Alors que le système de protection ne fait pas la différence entre les enfants français et étrangers.

      La France, comme d’autres pays, a signé la convention internationale des droits de l’enfant. Les démarches doivent donc être faites en fonction de l’intérêt supérieur de l’enfant. On voit bien que quand on les place à l’hôtel ou qu’on les suspecte de mentir sur leur âge parce qu’ils sont étrangers, ce n’est pas le cas.

      https://www.liberation.fr/societe/mineurs-non-accompagnes-de-locean-viking-un-hotel-ca-ne-correspond-pas-au
      #MNA #enfants #enfance

  • L’impact des passes sanitaires sur le taux de vaccination, la Santé, et L’économie
    https://www.cae-eco.fr/limpact-des-pass-sanitaires-sur-le-taux-de-vaccination-la-sante-et-leconomie
    Avec un résumé en français !
    Le Conseil d’Analyse Économique est un organisme qui dépend du gouvernement.

    Résumé de l’arnaque intellectuelle du #CAE :

    1/2 - Ils supposent (et non pas prouvent) que la vaccination empêche de tomber malade et de mourir.
    - Ils constatent que le passe sanitaire force les gens à accepter la vaccination.
    - Ils concluent que le passe sanitaire sauve des vies.

    2/2 et préserve l’économie en empêchant de tomber malade.

    C’est donc le sophisme habituel : si je suppose que ça fonctionne, alors je conclue que ça fonctionne (mais j’ai fait des graphiques et des modèles mathématiques au milieu pour noyer le poisson)

    https://twitter.com/decoder_l/status/1484091837124169729?cxt=HHwWgsC-3bXqxpgpAAAA

    • mais c’est é-vi-dent que si on sait pas / veut pas faire de campagne vaccination publique sans faire un pass et que celui-ci entraîne des vaccinations, il sauve des vies. pas besoin du cae pour savoir ça. et moins besoin encore de le nier parce que donc c’est puisque c’est le cae. tu cavale après pas mal de leurres que tu te crée. arrête toi un moment, respire par le nez, médite, rêvasse, ça peut être - qui sait ? - l’occasion d’arriver à s’orienter.

    • Arrête toi un moment, respire par le nez, médite, rêvasse, ça peut être - qui sait ? ...

      C’est fait ! 17 km de ski fond seule sur les pistes ensoleillées ! Neige parfaite ! Super Glisse ! Le plein de vitamines D et C !
      Là je me détends en regardant la course individuelle masculine de Biathlon en savourant une tranche de Bescoing du coin tout en étant connectée à mes comptes préférés !

      J’ai pas l’impression d’être désorientée ! :)) @colporteur !

    • La vaccination n’empêche pas d’être malade, protège seulement des formes graves du Covid et de finir en réa. C’est peut-être déjà beaucoup mais ce n’est pas suffisant.
      Je suis consternée par tous les triples-dosés bientôt les quadruples injectées qui continuent de s’infecter en présentant pour la plupart certes de faibles symptômes.

      Pour évaluer l’impact du pass vaccinal dans chacun de ces pays, nous construisons des #contrefactuels c’est‐à‐dire que nous modélisons ce que la dynamique de #vaccination aurait été sans la mise en place du pass. Pour cela, nous utilisons une #estimation basée sur la théorie de diffusion des innovations qui permet de quantifier la manière dont une innovation – ici la vaccination – est graduellement adoptée par la population. En effet, une partie de l’augmentation du taux de vaccination dans les trois pays considérés aurait eu lieu même sans #pass-sanitaire.

      En utilisant les données disponibles sur l’impact de la vaccination (en distinguant entre première et seconde doses) sur les admissions à l’hôpital ainsi que sur le nombre de décès Covid, on peut aussi estimer l’impact du pass sur ces variables de santé. On estime ainsi le nombre de décès évités dans les trois pays : environ 4 000 en France, 1 100 en Allemagne et 1 300 en Italie.

      C’est surtout par rapport au procédé de faire accepter le #passe-vaccinal en utilisant la formule on suppose, on estime, ça fonctionne, que je réagis !

    • Je me demandais d’où venaient le chiffre wtf de 4000 vies épargnées par le pass sanitaire cité par Castex !
      Il vient d’une étude menée par des gens qui ont pris conseil auprès d’Arnaud Fontanet, #Philippe-Aghion, économiste,et #Patrick-Artus, économiste, directeur de la recherche et des études de Natixis et administrateur de Total, qui gravitent tous autour de Macron
      Voilà…

      https://twitter.com/realmarcel1/status/1484288645754499080?cxt=HHwWkMC9pZiqoJkpAAAA
      #Castex19


      ( Source Libé)

  • Episode 2
    Les mercenaires du ciel - Les mémos de la terreur
    Lundi 22 novembre 2021
    https://egypt-papers.disclose.ngo/fr/chapter/cae-aviation

    Une discrète société luxembourgeoise a perçu plusieurs millions d’euros d’argent public pour fournir des hommes et un avion espion à l’armée française dans le cadre de l’opération Sirli. Son nom : CAE Aviation. A sa tête, un ancien responsable de cette mission secrète en Egypte. (...)

    Episode 1 : Opération Sirli - Les mémos de la terreur
    https://seenthis.net/messages/937340
    #FranceEgypte

  • Cartes sensibles ou subjectives

    Cartographie sensible ou subjective
    Pour Quentin Lefèvre, la cartographie sensible (ou #cartographie_subjective) peut se définir comme un média de restitution de l’#expérience du territoire ou encore comme la "#spatialisation_sensible de données sensibles".
    http://quentinlefevre.com/cartographie-sensible

    Cartographie sensible, émotions et #imaginaire
    #Elise_Olmedo cerne les contours théoriques et méthodologiques de la cartographie sensible, en décrit les étapes de création et s’interroge sur ses impacts, son utilité et ses limites, à partir d’une expérimentation faite sur le terrain au Maroc, à Marrakech, au printemps 2010.
    http://visionscarto.net/cartographie-sensible

    Cartographier les #interstices de la #ville
    En faisant remonter à la surface les éléments du #paysage, l’artiste scénographe #Mathias_Poisson délivre des informations sur l’#ambiance des lieux, qui sensorialisent la carte. Élise Olmedo rend compte de cette #expérience_urbaine subjective dans ce beau billet.
    http://www.strabic.fr/Mathias-Poisson-Cartographier-les-interstices-de-la-ville

    Cartes et cartographie des ressentis et représentations d’individus
    La cartographie d’objets tels que des #ressentis (une gêne) ou des représentations de l’#espace_vécu (un risque) relatés par des individus mobilise des bagages conceptuels et techniques nombreux, nécessitant une mise au point sémantique et méthodologique. Aurélie Arnaud discute l’état de la recherche dans ce domaine dans la revue M@ppemonde.
    https://journals-openedition-org/mappemonde/4666

    Et si les cartes permettaient aussi d’explorer l’#invisible ?
    C’est ce que propose l’atelier pédagogique de la BNF "Les cartes de l’invisible".
    http://c.bnf.fr/JtG

    L’#Otletosphère
    Cette cartographie relationnelle des personnalités et institutions liées à #Paul_Otlet cherche à mettre en visibilité la forte implication de l’auteur au sein des organisations pacifistes internationales ainsi qu’au sein des institutions bibliographiques et documentaires.
    http://hyperotlet.huma-num.fr/otletosphere/117

    Pour une pratique féministe de la #visualisation de données
    #Donna_Haraway, dans son essai fondateur sur les #savoirs_situés, offre une critique brillante non seulement de la représentation visuelle mais de la préférence extrême et perverse donnée aux yeux sur le corps dans la pensée occidentale.
    http://visionscarto.net/visualisation-donnees-feministe
    #feminisme

    Nouvelles cartographies – Lettres du #Tout-Monde
    Ce projet de création expérimental et ouvert à tou.te.s a été lancé par des artistes et journalistes associés au #Labo_148. Quelle sera la cartographie du monde après la crise sanitaire ? Que redéfinit-elle ? Quelles urgences « à rêver un autre rêve, à inventer d’autres espoirs » s’imposent ? Le “Tout-Monde” selon #Edouard_Glissant, est cette inextricabilité de nos devenirs, et en cela, il invite à une poétique active de la #mondialité, de rencontres des imaginaires. Voir notamment l’expérience de Paul Wamo Taneisi : “Je porterai moi-même ma carte géographique”
    http://www.labo148.com/category/nouvelles-cartographies

    #Cartographies_traverses
    « Cartographies traverses » est un dispositif de recherche-création qui regroupe des productions visuelles et sonores traitant des expériences migratoires contemporaines.
    http://visionscarto.net/cartographies-traverses

    Re-dessiner l’expérience, art, sciences, conditions migratoires
    #Sarah_Mekdjian et #Marie_Moreau utilisent la cartographie avec des migrants "pour un autre partage du sensible". Le projet débouche sur l’élaboration d’une très belle carte sensible (à voir).
    http://www.antiatlas-journal.net

    Cartes de migrants
    L’artiste camerounais #Jean_David_Nkot réalise des portraits avec des cartes afin de "représenter les nombreux lieux qui se bousculent dans la tête des migrants" : https://wepresent.wetransfer.com/story/jean-david-nkot

    Cartes d’ici et d’ailleurs
    Favoriser l’inclusion sociale des personnes migrantes en France à travers des ateliers de #cartographie_participative et sensible (CartONG) : tel est l’objectif global du projet “Cartes d’ici et d’ailleurs”, soutenu par la Fondation de France et mis en oeuvre par #CartONG.
    http://veillecarto2-0.fr/2018/12/21/carte-sensible-un-outil-dinclusion-sociale

    #Guerilla_Cartography
    L’objectif de Guerrilla Cartography est d’utiliser l’#art pour promouvoir une #cartographie_collaborative et engagée. Le site rassemble plusieurs atlas originaux et artistiques sur l’#eau, la #nourriture, les migrants.
    http://www.guerrillacartography.org

    Plateforme Art & Géo de Cartes Sensibles
    Proposé par le polau-pôle des arts urbains et #Crévilles, ce site regroupe des cartes artistiques et géographiques qui rendent compte d’un territoire existant en assumant un regard sensible et/ou subjective. Il est conçu comme un outil de ressource et de partage pour chercheurs, artistes et curieux.
    http://polau.org/pacs

    L’art est dans la cARTe
    #Ghislaine_Escande est artiste peintre et plasticienne. Avec ses cARTes, elle redessine le Monde et nous fait voyager.
    http://neocarto.hypotheses.org/10407

    Carte sensible du festival de #Glastonbury
    Le plan du célèbre festival de musique et d’arts de Glastonbury au Royaume-Uni selon The Word Magazine.

    La carte subjective du musicien #Nick_Cave
    Il s’agit d’une affiche de 2006 pour le concert de Nick Cave à Manchester en Angleterre. Elle contient plus de 50 énigmes basées sur les paroles de ses chansons. Voir cette vidéo qui revient sur le sens de cette carte subjective.
    http://www.davidrumsey.com/luna/servlet/s/3ypdis

    Médier les récits de vie. Expérimentations de #cartographies_narratives et sensibles
    Article de Sarah Mekdjian et Élise Olmedo paru en 2016 sur le site de M@ppemonde.
    http://mappemonde.mgm.fr/118as2
    #cartographie_narrative

    Cartographier une année de sa vie
    #Nicholas_Felton est un artiste designer qui traduit les données de la vie quotidienne en objets et en expériences significatives. Il est l’auteur de plusieurs rapports annuels qui résument les événements de l’année en cartes et graphiques rendant compte de son expérience subjective.
    http://feltron.com/FAR08.html

    Cartographie du #confinement en période d’épidémie
    L’artiste britannique #Gareth_Fuller (https://fullermaps.com/artworks/quarantine-maps) raconte en 14 cartes l’expérience de survie que représente la #quarantaine. Un grand nombre de cartes décrivant différents vécus en mode confiné sur Citylab (www.citylab.com/life/2020/04/neighborhood-maps-coronavirus-lockdown-stay-at-home-art/610018/). Le confinement en croquis, vu de France : géographie politique, sociale et culturelle du monde post-Covid19 par #Jérôme_Monnet (Cybergéo : https://journals.openedition.org/cybergeo/34804). Une manière de décaler le regard sur le monde peut être d’utiliser (et d’admirer au passage) les très belles oeuvres de #street-art (https://www.francetvinfo.fr/culture/arts-expos/street-art/coronavirus-tour-du-monde-des-plus-belles-oeuvres-de-street-art-face-a-) produites dans le contexte de la pandémie. #Virginie_Estève a proposé un projet cartographique à ses élèves de 4e : cartographier leur espace vécu de confinement et aborder le paysage sensible depuis leur fenêtre. La preuve que l’on peut continuer à faire de la géographie et travailler à distance, moyennant quelques aménagements ( voir ce Genialy : https://view.genial.ly/5e80c8155ad5150d93dab237/guide-geographie-du-confinement). Julien Dupont (Kobri), professeur d’histoire-géographie en collège à Vaulx-en-Velin et auteur de fictions radiophoniques et cartographiques, a mis en ligne sur son site Kartokobri (https://kartokobri.wordpress.com) ses cartes quotidiennes du confinement. #SCOPIC (http://www.revuesurmesure.fr/issues/battre-aux-rythmes-de-la-ville/explorations-sensibles-de-notre-1km) s’est interrogée sur l’expérience du kilomètre autour de nos habitats. Pour d’autres liens, consulter le billet "Faire de la géographie en période de confinement" (https://cartonumerique.blogspot.com/2020/03/geographie-et-confinement.html).

    Maps of Home
    "Maps of Home" est une vision nostalgique faite des souvenirs de #Janesville dans le #Wisconsin, où l’auteur a grandi et où il a dû revenir à cause de la pandémie.
    http://moriartynaps.org/maps-of-home

    Suivre ses proches en temps de guerre
    Carte dessinée à la main par ma grand-mère pour suivre les mouvements de mes grands-pères pendant la Seconde Guerre mondiale (1943-1945).
    http://www.reddit.com/comments/be814f

    #Nomadways
    Le groupe Nomadways a invité 24 artistes, éducateurs et travailleurs sociaux à découvrir et explorer l’espace à partir de leurs #émotions et à créer leurs propres cartes subjectives dans un but de construction et d’inclusion communautaires.
    http://nomadways.eu/subjective-mapping-2017-france

    Cartographie autochtone, activités extractives et représentations alternatives
    Le réseau #MappingBack a pour objectif de fournir du soutien cartographique aux membres des communautés autochtones luttant contre les industries extractives sur leur territoire. MappingBack cherche à utiliser la cartographie comme un outil de #résistance.
    http://mappingback.org/home_fr
    #peuples_autochtones #extractivisme

    #Native_land, cartographier les voix autochtones
    Le site Native Land, mis sur pied en 2015 par #Victor_Temprano, propose un outil cartographique participatif permettant une conceptualisation décoloniale des Amériques, du #Groenland, de l’#Australie et de la #Nouvelle-Zélande. Lire la présentation du site.
    http://native-land.ca
    #décolonial

    Cartographie et #langues_autochtones
    #Marlena_Myles utilise son art pour célébrer sa culture et sa langue autochtones ainsi que pour aider le public (notamment les enfants) à comprendre l’importance des traditions et de l’histoire orales autochtones. Ses cartes racontent le passé, le présent et l’avenir du peuple et de la langue du #Dakota.
    http://marlenamyl.es/project/dakota-land-map
    #histoire_orale

    Counter Mapping
    #Jim_Enote, agriculteur #zuni traditionnel dans le Colorado (Etats-Unis), collabore avec des artistes pour créer des cartes qui ramènent une voix et une perspective autochtones à la terre. Ces cartes zunis s’inspirent profondément d’expériences partagées de lieux dans une volonté de #réappropriation du territoire par les #Amerindiens.
    http://emergencemagazine.org/story/counter-mapping

    Cartographie personnelle et subjective de #Mary_Jones
    Au cours de ses dérives dans la ville de #Des_Moines, Mary Jones observe les lieux et les habitant⋅e⋅s, fait des photos, remplit des carnets d’#esquisses, prend des notes, enregistre parfois aussi des sons. Une masse de matériaux bruts qu’elle assemble ensuite en images hybrides (#collages, #superpositions, #sampling_visuels) qui composent une sorte de cartographie personnelle, subjective, voire intime de la cité et de ses marges.
    http://aris.papatheodorou.net/une-flaneuse-a-la-derive

    Cartographier les espaces vécus et les émotions (#Drusec)
    La ville telles qu’elle est vécue par les usagè.re.s de drogue marginalisés de #Bordeaux.
    http://drusec.hypotheses.org/1722

    #Queering_the_Map
    Queering the Map est un projet de cartographie généré par la communauté #queer afin de géolocaliser des moments, des souvenirs et des histoires par rapport à leur espace physique. En cartographiant ces moments éphémères, Queering the Map vise à créer une archive vivante d’expériences queer.
    http://queeringthemap.com

    Cartographie subjective des Etats-Unis par #Paul_Steinberg
    Cette série de vues subjectives des Etats-Unis et du monde a été réalisée par Saul Steinberg pour des couvertures anciennes de magazines (The New Yorker ou autres)
    http://saulsteinbergfoundation.org/essay/view-of-the-world-from-9th-avenue

    La cartographie au service des théories platistes
    La théorie de la Terre Plate perdure jusqu’à aujourd’hui. La réalisation de cartes à l’image de la #terre_plate devient un objet de promotion de ces théories.
    http://veillecarto2-0.fr/2020/09/22/la-cartographie-au-service-des-theories-platistes

    Le monde vu de...
    Une série de vues du monde à partir de #New_York, #San_Francisco et différentes villes des Etats-Unis (lire notre article sur le monde vu de la Silicon Valley).
    https://imgur.com/a/XTnSn#0

    Le monde vu par les Anciens
    Cet atlas de #Karl_Müller de 1874 reproduit "les systèmes géographiques des Anciens" et d’une certaine manière la façon dont ces systèmes de représentation de l’#Antiquité étaient eux-mêmes vus au XIXe siècle.
    http://geodata.mit.edu/catalog/princeton-r207tq824

    L’Europe vue de la Russie
    L’Europe vue de Moscou et l’Asie vue d’#Irkoutsk pendant la Guerre froide (1952).
    https://www.reddit.com/r/MapPorn/comments/epdn4c/europe_from_moscowasia_from_irkutsk_time_magazine

    Cartographie et subjectivité chez #Alexander_von_Humboldt
    En scrutant minutieusement les différentes cartes réalisées par Alexander #von_Humboldt, on remarque certaines particularités, des mentions qui, à priori, n’auraient pas lieu de s’y trouver tant elles témoignent de la subjectivité de l’auteur.
    http://visionscarto.net/Humboldt-carto-subjective

    Le monde sens dessus dessous
    Un planisphère renversé montrant la Terre vue depuis l’hémisphère sud (à télécharger en haute résolution). Consulter la page des #projections cartographiques (http://cartonumerique.blogspot.com/p/projections-cartographiques.html) pour accéder à d’autres vues renversantes de la Terre.
    https://www.digitalcommonwealth.org/search/commonwealth:9s161j433

    Cartographie ultrapériphérique, et si on changeait de point de vue
    Une carte des territoires ultramarins vus depuis l’hémisphère sud.
    http://www.une-saison-en-guyane.com/extras/carte/carto-ultraperipherie-si-on-changeait-de-point-de-vue%e2%80%89

    Projections du futur
    Les projections du futur seront probablement centrées sur les océans, comme ces deux cartes du monde en projection Mercator oblique qui représentent les continents tout autour d’un océan unique.
    http://rightbasicbuilding.com/2019/09/09/the-world-maps-of-the-future

    Carte subjective de #Paris en 2050
    Cette carte imagine Paris en 2050, lorsque les effets du #réchauffement_climatique se seront durement faits ressentir... si rien n’est fait. Voir notre article de présentation : https://cartonumerique.blogspot.com/2019/02/carto-subjective-geo-prospective.html
    http://www.deuxdegres.net/projects/paris-2050
    #changement_climatique

    Utiliser des #SIG pour cartographier les #pratiques_spatiales
    Des recherches récentes montrent l’intérêt d’utiliser les données fournies par les #réseaux_sociaux pour les cartographier et mettre en évidence des comportements des individus dans l’espace.
    http://www.gislounge.com/using-gis-to-analyze-peoples-attitudes

    Cartographie collaborative
    L’objectif de ce site est de développer un ensemble d’usages pour aider à la dissémination des pratiques collaboratives en matière de cartographie, que ce soit pour le citoyen ou au sein de structures (associations, collectivités, milieu scolaire).
    http://cartographie-collaborative.eu

    #Mapquote
    Le projet collaboratif Mapquote prend la forme d’une #carte_interactive où chaque utilisateur peut déposer une #citation de #romans où il est question de cartes.
    http://neocarto.hypotheses.org/6502

    L’usage de Google Maps dans « #Netherland »
    Netherland est une belle réflexion désabusée sur les lieux et le déplacement, l’#espace et la #séparation, le fait de pouvoir être physiquement dans un lieu et mentalement dans un autre. Google Maps n’intervient que dans deux courts passages au début et à la fin du livre (source : Spacefiction)
    http://spacefiction.fr/2009/11/01/google-maps-enters-litteraturegoogle-maps-entre-dans-la-litterature

    #Hoodmaps
    Hoodmaps permet de créer des cartes participatives pour éviter les #pièges_à_touristes et fréquenter les quartiers branchés de la ville. La typologie est assez basique, voire un peu réductrice : entre les “hipsters”, les touristes, les étudiants, les “riches”, les “costards” et les “normaux”, mais permet de rapidement identifier les différents quartiers d’une ville.
    http://hoodmaps.com

    Apprendre sur le territoire en représentant son territoire
    Carte sensible élaborée par une classe de 1re ES qui montre la vision de leur lycée. A compléter par l’interview de Sophie Gaujal pour le Café pédagogique : L’approche sensible en cours de géographie, un ingrédient du bonheur ?
    http://hal.archives-ouvertes.fr

    Cartographie ton quartier
    Les cartes postales géocartographiques permettent d’articuler géographie spontanée et géographie raisonnée. Organisé par Sophie Gaujal, en partenariat avec le Café pédagogique, la Cité de l’architecture et l’IGN, le concours Cartographie ton quartier récompense les cartes postales cartographiques réalisées par des classes.
    http://blog.ac-versailles.fr/geophotographie

    Atelier de cartographie sensible (Ehess)
    La plateforme SIG de l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, met à disposition des ressources sur la cartographie sensible dans le cadre des ateliers Géomatique et humanités numériques qu’elle organise, notamment sur Gennevilliers.
    http://psig.huma-num.fr/cartes-sensibles

    #Cartes_mentales dans le nord de #Marseille
    Ce billet de #Jérémy_Garniaux relate un atelier « cartes mentales » mené à Marseille, dans les 14, 15 et 16e arrondissements, par une plate-forme culturelle hors-les-murs constituée de cinq structures culturelles du Nord de Marseille.
    http://www.mapper.fr/cartes-mentales-dans-le-nord-de-marseille

    Chicago HomeStories Project
    Le projet est né à #Chicago et commence à se diffuser dans le monde. Il s’agit d’encourager les citoyens par des #marches_civiques à en savoir plus sur leur quartier.
    http://www.nationalgeographic.org/projects/out-of-eden-walk/blogs/lab-talk/2021-04-chicago-homestories-goes-global

    Concours #cartographie_imaginaire
    Cartographier la ville de demain, son quartier dans le futur, son école ou son collège idéal...
    http://www.concourscarto.com/accueil-cci

    Concours de dessin de cartes du monde pour enfants
    Le concours #Barbara_Petchenik est un concours biennal de dessin de carte destiné aux enfants. Il a été créé par l’Association cartographique internationale en 1993 dans le but de promouvoir la représentation créative du monde sous forme graphique par les enfants.
    http://icaci.org/petchenik

    Lignes d’erre - Les cartes de #Fernand_Deligny
    Pendant des années, Deligny a dessiné et fait dessiner des cartes de ce qu’il appelle leurs #lignes_d’erre, soit les trajets « libres » des #enfants sur leur aire de séjour. Il a perçu, par l’observation, que les autistes avaient une autre façon d’être au monde, une autre manière d’incarner l’humain.
    http://culture.univ-lille1.fr/fileadmin/lna/lna60/lna60p34.pdf

    La carte sensible de #Boulogne-Billancourt
    Un projet pédagogique conduit par une équipe d’enseignants du lycée J. Prévert de Boulogne-Billancourt avec des classes de Seconde.
    http://www.cafepedagogique.net

    La "carte du Tendre" de #Nantes
    #Gwenaëlle_Imhoff et #Emilie_Arbey, professeures de français et d’histoire géographie au collège Gutenberg de Saint-Herblain ont amené leurs 4èmes à réaliser de nouvelles « Cartes du Tendre » à la manière de Madame de Scudéry pour inventer « une géographie nantaise de l’Amour ». Enjeu de ce travail créatif et collaboratif, visuel et oral : aider les élèves à s’approprier « l’espace urbain proche et pourtant trop souvent lointain ».
    http://www.cafepedagogique.net/lexpresso/Pages/2020/08/31082020Article637344555283464848.aspx
    http://www.pedagogie.ac-nantes.fr/lettres/continuite-pedgogique-et-numerique-en-lettres-carte-du-tendre-pr

    Cartographier l’#insécurité au collège
    Professeure d’histoire-géographie au collège Molière de Beaufort en Anjou, #Anaïs_Le_Thiec lance sa classe de 5ème dans une cartographie sensible du collège. Elle les invite à libérer leur parole via une #storymap.
    http://www.cafepedagogique.net/lexpresso/Pages/2019/10/18102019Article637069844590338061.aspx

    Dans ma ville on traîne
    Visite guidée et habitée par le rappeur #Orelsan, qui propose une description de la ville de #Caen. L’intérêt principal est de rappeler qu’un espace géographique, avant d’être un objet d’étude, reste surtout un lieu de vie que l’on habite. Le rappeur énumère ses souvenirs d’enfant, d’adolescent, d’étudiant. Ce faisant, il raconte SA ville. Il associe chaque action passée au lieu où elle s’est déroulée.
    http://lhistgeobox.blogspot.com/2020/10/dans-ma-ville-on-traine-visite-guidee.html

    Des lieux où l’on exprime ses sentiments
    Carte interactive des lieux où les étudiants ont déclaré avoir pleuré sur le campus de l’université de Waterloo aux Etats-Unis (avec les commentaires). Cela correspondrait-il aux bâtiments de sciences et de mathématiques ?
    http://www.reddit.com/r/dataisbeautiful/comments/l3t3xx/oc_an_interactive_map_of_where_students_have

    Psycho-géographie de la ville de #Gibellina
    Quand les artistes essaient de tromper les algorithmes de télédétection. C’est ce qu’a fait l’artiste #Burri avec une oeuvre d’art gigantesque couvrant les ruines de la vieille ville de Gibellina en Italie (à voir dans Google Maps)
    http://www.archdaily.com/958178/the-psycho-geography-of-the-cretto-di-burri

    Lyon-La Duchère 2030 : imaginer des scénarios prospectifs
    Ces #scénarios prospectifs sont proposés par des élèves de 2nde du Lycée La Martinière-Duchère concernant le projet d’aménagement urbain #Lyon-La Duchère 2030.
    http://canabae.enseigne.ac-lyon.fr/spip/spip.php?article1103

    #Cartographie_sonore du quartier de l’Union (#Lille - #Roubaix - #Tourcoing)
    Réalisé dans le cadre du projet de recherche Géographie et prospective piloté par l’IFE, cette expérimentation pédagogique a permis de découvrir par l’expérience spatiale un projet d’#aménagement_urbain d’envergure (son évolution, ses acteurs et ses enjeux) dans l’environnement proche des élèves, en privilégiant une géographie fondée sur l’expérience du terrain.
    http://ife.ens-lyon.fr/geo-et-prospective/projet/cartographie-sonore-du-quartier-de-lunion

    #Cartophonies
    Comment sonne le monde ? Le site « Cartophonies » a pour objectif d’explorer l’#expérience_sonore contemporaine et d’aider a les prendre en compte dans l’avenir et dans les projets de transformation. Il contribue à construire une connaissance des milieux habités, du vécu des espaces et des ambiances contemporaines, celles du passé proche comme celles du futur.
    http://www.cartophonies.fr
    #son

    Cartes et mise en récit des mobilités
    Dans le cadre d’une recherche doctorale, #Sylvie_Joublot-Ferré étudie les spatialités des adolescents en s’appuyant sur la cartographie de leurs déplacements quotidiens enregistrés sous forme de traces GPS et en analysant ces cartes comme des #récits_de_vie.
    http://www.researchgate.net
    http://www.radiobus.fm/episode/interview-de-sylvie-joublot-ferre-hepl

    Comment les enfants ont perdu le droit de se déplacer
    Carte montrant le territoire pratiqué pendant l’enfance sur quatre générations à #Sheffield.
    http://www.dailymail.co.uk/news/article-462091/How-children-lost-right-roam-generations.html

    Comment les jeunes géographes ressentent-ils le monde contemporain ?
    Un exercice de cartographie sensible proposé à des étudiants de master destinés à s’orienter vers le monde associatif donne un regard sur leurs représentations du monde. Environnement menacé, mobilités généralisées, et questionnements autour de la mondialisation émergent de ces cartes mentales, témoignant des inquiétudes d’une génération.
    http://geoconfluences.ens-lyon.fr/informations-scientifiques/a-la-une/carte-a-la-une/cartographie-emotions-monde-contemporain

    « Mais madame, je n’y suis jamais allé ! »
    Un #voyage_virtuel à #La_Réunion à travers la confection de #cartes_postales sensibles par des élèves de lycée professionnel. La #géographie_expérientielle ce n’est pas seulement du vécu, ce sont aussi (et surtout) des représentations (article extrait des Cahiers pédagogique, n° 559 "L’aventure de la géographie".
    http://www.cahiers-pedagogiques.com/Mais-madame-je-n-y-suis-jamais-alle

    Tour de la France par deux enfants (G. Bruno)
    Cet ouvrage constitue l’archétype du roman scolaire géographique. Réédité de nombreuses fois depuis sa sortie en 1877, l’ouvrage a connu un énorme succès (plus de 9 millions d’exemplaires), contribuant à façonner une image du territoire national.
    http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k5684551x

    Une géographie subjective à travers les romans d’aventure pour la jeunesse
    Aurélie Gille Comte-Sponville, Modernité et archaïsme des lieux dans les romans d’enquête et d’aventure pour la jeunesse pendant les Trente Glorieuses en France, thèse soutenue en 2016. L’importance des lieux correspond à la quête d’une #utopie de l’enfance éternelle, qui figerait non seulement les héros dans la perfection de leur âge, mais aussi les lieux, dans une forme d’uchronie idéalisée.
    http://www.theses.fr/2016ARTO0008

    Le #Londres des romans de #John_Le_Carré
    #Mike_Hall a été chargé de dessiner pour l’éditeur Penguin Books la carte des personnages, des lieux et des scènes de romans d’espionnage de John Le Carré.
    http://thisismikehall.com/smileyslondon

    La carte de la classe de khâgne
    Cartographie subjective de la classe khâgne par Gus (@ecsolius) : quand un khagneux dresse la carte symbolique d’une année en prépa littéraire
    http://twitter.com/ecsolius/status/1292071140047937536

    La carte des mathématiques
    La carte du "#Mathematistan" représente les rapports ambigus que l’on peut avoir les #mathématiques. Une région souvent inaccessible ?
    http://www.reddit.com/r/math/comments/2av79v/map_of_mathematistan_source_in_comments

    Cartographie de son appartement
    Géographie de mon appartement vu par Thibaut Sardier.
    http://twitter.com/tsardier/status/1326832393655816192

    Cartographie imaginaire du nourrisson
    @LittleBigData suit, en infographies et sur les réseaux sociaux, les tourments et les joies de #jeunes_parents (voir cette présentation). Le résultat est un cartographie imaginaire des premiers mois de la vie d’un enfant. Avec une magnifique carte de la première année extraite de l’ouvrage Le Bébégraphe publié par Claire Dealberto et Jules Grandin aux éditions Les Arènes en 2021.
    http://twitter.com/LittleBigData_/status/1263721598076555265

    Carte des #lieux_communs
    De "l’usine à gaz" au "terrain d’entente", @LaMineComics passe en revue tous nos lieux communs inspirés de métaphores géographiques.
    http://twitter.com/LaMineComics/status/1097068721846321152

    https://cartonumerique.blogspot.com/p/cartes-sensibles.html

    #cartographie_sensible #bibliographie #ressources_pédagogiques

    ping @visionscarto @odilon @reka

  • #Caen : #manifestation contre les politiques autoritaires et racistes de la préfecture et des mairies
    https://fr.squat.net/2020/10/29/caen-manifestation-contre-les-politiques-autoritaires-et-racistes-de-la-pr

    En l’espace de 4 mois, la préfecture de Caen a procédé à pas moins de 11 expulsions de squats. 350 personnes ont été jetées à la rue, majoritairement des familles avec enfants… Ces squats, ce sont des bâtiments vides et à l’abandon, en passe d’être démolis. Sur 8 500 logements vides en agglomération caennaise (selon […]

    #5_Cité_de_la_Sucrerie #AG_de_lutte_contre_les_expulsions #Cagny #expulsion #Ouistreham #sans-papiers

  • l’histgeobox : « Dans ma ville on traîne ». Visite guidée et habitée de l’aire urbaine de Caen par Orelsan.
    https://lhistgeobox.blogspot.com/2020/10/dans-ma-ville-on-traine-visite-guidee.html

    Aurélien Cotentin naît en août 1982 à Alençon. A 16 ans, il déménage avec sa famille à Caen. Après des études de management, le jeune homme se lance dans le rap en tant qu’Orelsan. Beaucoup de ses titres insistent sur la dépression et le sentiment de mal-être qui affectent une frange non négligeable de la jeunesse française.

    Avec "Dans ma ville on traîne », le rappeur propose une description de sa ville de Caen. L’intérêt principal du titre est de rappeler qu’un espace géographique, avant d’être un objet d’étude, reste surtout un lieu de vie, que l’on habite. Le rappeur énumère ses souvenirs d’enfant, d’adolescent, d’étudiant. Ce faisant, il raconte SA ville. Il associe chaque action passée au lieu où elle s’est déroulée. "On a traîné dans les rues, tagué sur les murs, skaté dans les parcs, dormi dans les squares / Vomi dans les bars, dansé dans les boîtes, fumé dans les squats, chanté dans les stades".

    Orelsan propose ici une immersion dans les différents espaces constitutifs de l’aire urbaine caennaise. Sa visite est incarnée, nourrie par ses expériences, ses souvenirs, bons ou mauvais. Dans ce billet, nous lui emboîtons le pas à la découverte de l’aire urbaine caennaise.

  • L’exil paisible des Black Panthers de Normandie
    https://www.lemonde.fr/m-le-mag/article/2020/10/02/l-exil-paisible-des-black-panthers-de-normandie_6054539_4500055.html

    RécitLe 31 juillet 1972, un commando de Black Panthers détourne un avion de ligne américain. La France fera un relatif bon accueil à ces militants des droits civiques en refusant leur extradition et en offrant une seconde chance à deux d’entre eux, Melvin et Jean McNair, qui se sont bâti une nouvelle vie à Caen.

    Sur les cartes postales distribuées en plein Paris figurent les « Quatre de Fleury », référence à la plus grande prison d’Europe, en banlieue parisienne. Un surnom pour quatre visages, tous afro-américains : Joyce Tillerson, 25 ans ; George Brown, 32 ans ; Jean et Melvin McNair, 30 et 28 ans, en couple. Nous sommes fin 1976, ces membres des Black Panthers, des militants radicaux des droits civiques, sont emprisonnés depuis mai, en attente de leur procès. L’« opération cartes postales » est une idée de leur comité de soutien qui vient tout juste de voir le jour. « Depuis la prison, Jean et moi avons écrit à plus d’une centaine de personnalités en vue », raconte aujourd’hui Melvin McNair, 72 ans.

    Plusieurs répondent à l’appel, comme le président d’Amnesty International, ou les leaders du Parti socialiste unifié (PSU). A leurs côtés, de nombreuses célébrités : Yves Montand, Jean-Paul Sartre, James Baldwin et même Guy Bedos. Ils activent leurs réseaux, lèvent des fonds, glissent des encouragements par médias interposés et soutiennent Melvin McNair et ses « collègues » dans l’écriture d’un livre pour les éditions du Seuil, depuis la prison. Nous, Noirs américains évadés du ghetto…, annoncera la couverture à sa sortie, en 1978.

    La France tient bon

    L’Amérique veut juger Melvin, Jean, Joyce et George, qui risquent là-bas la peine de mort. Au mieux, la prison à vie. Pour Washington, ce sont des « criminels dangereux ». Pour Paris, ce sont des Black Panthers. Loin des premiers discours pacifistes de Martin Luther King, ces activistes sont prêts à prendre les armes pour se défendre face à un Etat américain jugé raciste et violent.

    L’administration du président républicain Gerald Ford insiste auprès du ministre français de l’intérieur de l’époque, Michel Poniatowski : un an plus tôt, la France avait refusé l’extradition vers les Etats-Unis de deux autres pirates de l’air, Roger Holder et Cathy Kerkow, passés à l’acte en 1972 afin d’obtenir la libération d’Angela Davis – soupçonnée d’avoir fourni les armes d’une prise d’otages visant à libérer George Jackson, un autre membre des Black Panthers, elle fut acquittée en 1972. En l’espace de quelques années, plus d’une centaine d’avions seront détournés aux Etats-Unis pour des raisons politiques.

    « Je disais aux jeunes : “Attendez, on peut s’en sortir. Moi, j’ai fait de plus grosses conneries que vous, et ils ne me croyaient pas au début ! » Melvin McNair

    Si la gauche défend les « Quatre de Fleury » publiquement, la droite le fait plus discrètement. Des diplomates français s’immiscent dans certaines tractations à l’étranger, pour tenter d’alléger la pression exercée sur les dirigeants français. « On m’avait dit que le président Valéry Giscard d’Estaing nous soutenait », insiste Melvin.

    Lors du procès, leur avocat Jean-Jacques de Félice détaille longuement les conséquences du racisme institutionnel sur la vie quotidienne de ses clients, les brimades subies et l’absence totale de perspectives dans un pays fracturé par des siècles de discriminations. Les quatre mis en cause sont des « symboles de la répression », pointe-t-il. La salle d’audience est émue et le juge refuse l’extradition, acceptant la valeur politique de leur action. Pour Melvin McNair, c’est « une première victoire ».

    Engagés auprès de la jeunesse de Caen

    Place Jean-Letellier, centre-ville de Caen. Ce vendredi 18 septembre 2020, plusieurs dizaines de personnes sont réunies par l’association « Caen à ELLES » pour la présentation de leur nouveau projet : renommer des rues de la ville d’après des personnalités féminines qui ont marqué la région.

    Parmi les plaques – « la seule vissée », indique en souriant Pauline, la présidente du groupe – on lit « Jean McNair, Black Panther et médiatrice de quartier à Caen, 1946-2014 ». Dans l’exposition prévue par l’association, les poèmes de l’ancienne militante, décédée prématurément des suites d’un AVC, s’étalent sur un pan de mur accompagnés d’une illustration représentant son visage souriant. « Elle était incroyable », s’éclaire Melvin McNair.

    « Quand on arrive, j’embrasse la terre », se rappelle Melvin McNair. Le rêve se craquelle lorsque les autorités algériennes contraignent Melvin et ses compagnons à rendre l’argent de la rançon ainsi que l’avion aux Etats-Unis. Les alliances géopolitiques sont mouvantes et le président Houari Boumediene aimerait recoller les morceaux avec Richard Nixon. Les tensions montent entre la petite dizaine de Black Panthers encore sur place.

    Melvin est convoqué par le ministre des affaires étrangères de l’époque, Abdelaziz Bouteflika, qui le met en garde : lui et ses amis se feraient manipuler par leurs propres leaders et risqueraient d’être extradés aux Etats-Unis. Dans la foulée, Johari et Ayana, les enfants, sont renvoyés chez leurs grands-parents et, pour Melvin et Jean, le retour à la réalité est rude : « Finalement, c’était dangereux. Il fallait partir. »

    Grâce à l’organisation Solidarité, dirigée par Henri Curiel, fils d’un banquier du Caire devenu communiste et militant des luttes d’indépendance, Jean et Melvin se faufilent en France après un crochet aux Pays-Bas, à l’aide de faux passeports. Solidarité sert de soutien logistique à des « groupes victimes de discriminations », grâce à des journalistes, des médecins ou des hauts fonctionnaires qui ont rejoint ses rangs.

    Une époque où la droite elle-même avait un sens de l’État, de l’engagement ou de la fraternité qui a pleinement disparu. Même Hollande (la droite de gauche), tout à sa trouille devant l’Amerikkke n’a rien fait pour Snowden.

    En détention provisoire, les « Quatre de Fleury » sont désormais au centre de l’attention : ils reçoivent de l’argent de la part de leurs soutiens pour acheter du café et les sœurs de l’aumônerie passent les voir très régulièrement. Elles mettent même Melvin et Jean McNair en contact avec des gens qui pourraient les aider quand ils sortiront de prison. Parmi eux, le haut fonctionnaire Yves Chaigneau, bientôt un « père spirituel » pour le jeune Melvin.

    L’économiste, successivement en poste auprès de plusieurs ministres et secrétaires d’Etat comme Jacques Chaban-Delmas, Lionel Stoléru ou Jacques Delors, ne laissera jamais tomber les anciens Black Panthers. « Dès que j’avais un problème, je l’appelais, se souvient Melvin, et comme il était haut gradé tout s’arrangeait. » Plus tard, Rémy Pautrat sera un autre protecteur. Le directeur de la DST de 1985 à 1986 – surnommé le « James Bond français » par la CIA, qui l’a formé – prendra soin des McNair.

    #Black_Panther #Caen #Melvin_McNair #Jean_MacNair #Autre_époque

  • #Caen : tant qu’il y aura des gens à la rue, on squattera !
    https://fr.squat.net/2020/09/04/caen-tant-quil-y-aura-des-gens-a-la-rue-on-squattera

    Manifestation samedi 5 septembre, 14 heures. Depuis le 24 juin dernier, la préfecture du Calvados a procédé à l’expulsion de neuf squats sur l’agglomération caennaise dans lesquels vivaient environ 360 personnes, dont une majorité de familles avec enfants. Les squats de la rue Bayet à #Mondeville et la Varende à #Hérouville-Saint-Clair ont été expulsés pendant […]

    #AG_de_lutte_contre_les_expulsions #expulsion #Ifs #manifestation #sans-papiers

  • #Caen : #expulsion ce matin du #squat_de_la_Grace_de_Dieu
    https://fr.squat.net/2020/08/25/caen-expulsion-ce-matin-du-squat-de-la-grace-de-dieu

    Le squat de la Grace de dieu situé au 2, rue cardinal Lavigerie à Caen été expulsé ce matin dès 6h par la police nationale sur ordre de la préfecture du Calvados. Ouvert en juillet 2019, 160 personnes vivaient sur ce lieu, dont 17 familles avec une soixantaine d’enfants, 5 couples et une cinquantaine de […]

    #2_Rue_Cardinal_Lavigerie #AG_de_lutte_contre_les_expulsions #Grâce_de_Dieu #sans-papiers

  • #Bahia métisse

    ’il y a une terre de syncrétisme et de métissage culturel, religieux et social, c’est bien le #Brésil. Et particulièrement le #Nordeste, cette immense région du Brésil (plus de trois fois la France métropolitaine) qui résonne aux rythmes des histoires qui l’ont traversée. #Samba, #Frevo, #Forro, #Bossa_Nova, #Tropicalisme, #Candomblé, sa musique oscille entre les rythmes du golfe du Guinée arrivés avec les premiers esclaves, les mélodies des chansons ibériques, les sons venus des cultures amazoniennes, mais aussi le #jazz, le #rock, la #cumbia, et tout ce qui touche un pied sur cette terre.

    Le Brésil est un cannibale, il digère tout ce qu’il croise et le transforme pour le plus grand plaisir de nos oreilles. Au Brésil, le Nordeste et Bahia en particulier renvoient aux racines, aux temps des origines. Et la ville a donné naissance à d’immenses artistes comme #Caetano_Veloso, #Maria_Bethânia ou #Gilberto_Gil. En France la capitale du Nordeste est chantée et fantasmée en chanson par Georges Moustaki, Dalida ou Henri Salvador, pour ne citer qu’eux. Alors, comme disent les sœurs Bordeau dans cette chanson oubliée de 1962 « viens, je t’emmène à Bahia ».

    https://www.franceculture.fr/emissions/la-serie-musicale-dete/sur-les-routes-de-la-metamorphose-55-bahia-metisse

    Les titres de l’émission :

    https://www.youtube.com/watch?list=PLKpTasoeXDrqc8eAjVaPmXTurW6QdJkvA&v=9DpWYnERyfM

    #Mattéo_Caranta #musique #radio #podcast #Tropicália

  • « Luttons pour ne pas mourir » : à Caen, une grande fresque pour soutenir les travailleurs précaires | Liberté Caen
    https://actu.fr/normandie/caen_14118/luttons-pour-ne-pas-mourir-a-caen-une-grande-fresque-pour-soutenir-les-travaill

    Depuis le lundi 25 mai 2020, il est possible de venir voir une grande fresque au 65 rue des Rosiers à Caen (Calvados). Elle a été réalisée pour soutenir les travailleurs précaires.
    Publié le 26 Mai 20 à 12:06
    La Kic a réalisé une grande fresque au 65 rue des Rosiers à Caen pour faire entendre la voix des travailleurs précaires.
    La Kic a réalisé une grande fresque au 65 rue des Rosiers à Caen pour faire entendre la voix des travailleurs précaires. (©MR/Liberté le Bonhomme libre)

    « Comme nous ne pouvons plus manifester en ce moment, nous faisons entendre nos voix différemment », explique la KIC (La koordination des intermittents du Calvados). Le nouveau moyen d’expression a pris la forme d’une grande fresque sur le mur de l’association le Bazarnaom, au 65 rue des Rosiers à Caen (Calvados).

    L’association le Bazarnaom quitte ses locaux du 65 rue des Rosiers pour s’installer à la fin du mois de juin sur le cours Caffarelli juste à côté de La Boussole.

    Depuis le jeudi 21 mai 2020, les membres de la KIC collent sur le mur des témoignages de travailleurs précaires, des « intermittents de l’emploi » pour qui la crise sanitaire a accentué cette précarité. Sur le mur, les photos de 276 personnes, travailleurs dans le tourisme, la restauration ou le secteur culturel dans toute la France avec le même mot d’ordre : « luttons pour ne pas mourir » ou #LPPM sur les réseaux sociaux.
    Afficher son visage et ses revendications

    Le but de cette action est bien de rappeler au gouvernement la menace de grande précarité qui plane sur des millions de personnes, si aucune mesure correcte d’urgence sociale n’est prise dès aujourd’hui, explique les membres de la KIC.

    Ces intermittents de l’emploi ont décidé de montrer leur visage et d’afficher leurs revendications : « le renouvellement systématique de l’ensemble des droits des chômeur-se-s inscrit-e-s à Pôle Emploi ; l’ouverture de droits à une indemnisation permettant de vivre à l’ensemble des personnes en emploi discontinu ou sans emploi ; l’abrogation de l’ensemble de la réforme de l’assurance chômage ; le doublement du RSA et l’ajustement des minimas sociaux pour que, en France, personne ne vive sous le seuil de pauvreté ».

    Nous voulons le renouvellement des droits a minima au taux d’indemnisation précédent, dès maintenant, et jusqu’à un an après la reprise normale de nos activités. Une prolongation des indemnisations de quelques mois, jusqu’en août 2021, ne résoudra pas le problème d’une année avec déjà 6 mois d’activité au ralenti.

    Les "intermittents de l’emploi" ont décidé d’afficher leur visage sur un mur et d’écrire leurs revendications.
    Les « intermittents de l’emploi » ont décidé d’afficher leur visage sur un mur et d’écrire leurs revendications. (©MR/Liberté le Bonhomme libre)

    La KIC invite tous ceux qui sont en situation précaire à exposer leur photo avec leur revendication en « prenant une photo de son visage visible ou masqué en tenant une feuille A4 à l’horizontale. Il faut y inscrire son prénom, sa situation professionnelle et la phrase de son choix ».

    Pratique. Les photos sont à envoyer à luttonspournepasmourir@gmail.com ou kic.communication@kic-cip.org pour un affichage sur les murs.

    #Caen #Intermittents #Précarité

  • #Actu_Coronavirus – 25 avril
    https://www.les-crises.fr/actu-coronavirus-25-avril

    Ce fil d’actualités comprend des informations provenant de trois sources : Les Lives #Covid-19 du Figaro, de 20 minutes et le compte Twitter @Conflits_FR. 25 avril 18h00 Le « stop and go » pourrait durer jusqu’à novembre 2021 au moins, selon des chercheurs. Une virologue du #CHU de #Caen imagine un stop and go tous les 15 jours, mais « la population doit être disciplinée ». 17h59 Lire la suite

    #Revue_de_Presse #SRAS-2 #Revue_de_Presse,_Actu_Coronavirus,_Covid-19,_SRAS-2

  • Asile : bilan en #France et en Europe pour #2019

    #Eurostat a publié le 3 mars 2020 des données relatives aux demandes d’asile, aux décisions prises et aux demandes en instance pour 2019. Cela complète des données publiées par le ministère de l’intérieur, l’#OFII et la #CNDA en janvier et permet de dresser une #cartographie de la demande d’asile en France et en Europe.
    Demandes d’asile en France : trois chiffres différents

    La particularité de la France est qu’elle ne comptabilise pas les demandes de la même manière que les autres pays européens et qu’il existe trois ou quatre données différentes.

    L’OFPRA comptabilise les demandes introduites auprès de lui, cela comprend les demandes des réinstallés qui sont,en pratique sinon en droit, exemptées d’enregistrement en GUDA, les réexamens et les demandes des « Dublinés » arrivés au terme de la procédure et qui peuvent introduire une demande OFPRA (les « requalifiés »)
    A partir de ces données, le ministère de l’intérieur transmet des donnés à Eurostat en retirant les demandes des réinstallés. Les données sont alors arrondies.
    L’OFII et le ministère de l’intérieur publient le nombre de demandes enregistrées dans les guichets unique des demandes d’asile ( GUDA) ainsi que le nombre de demandes enregistrées les années précédentes comme Dublinées qui à l’issue de la procédure, peuvent saisir l’OFPRA.

    En 2019, selon ces différentes sources, 119 915 (Eurostat), 123 530 (OFPRA), 143 040 (ministère de l’intérieur et OFII) premières demandes (mineurs compris) ont été enregistrées ou introduites soit une hausse de 10 à 11% des demandes par rapport à l’année précédente. S’ajoutent pour le chiffres du ministère de l’intérieur , 16 790 « requalifications » des années précédentes soit 171 420 demandes. Ce nombre est un nouveau record.

    Si on reprend les statistiques précédemment publiées, environ 135 000 personnes adultes ont été l’objet d’une procédure Dublin depuis 2016, environ 75 000 ont finalement accédé à la procédure OFPRA, près de 13 000 ont été transférées, un peu plus de 30 000 sont toujours dans cette procédure et près de 19 000 ont un destin indéterminé (une bonne part d’entre elles sont considérées en fuite)

    Selon le ministère de l’intérieur, un peu plus de 110 000 premières demandes adultes ont été enregistrées par les GUIDA. 39 630 étaient au départ « Dublinées » mais un peu plus de 9 000 ont vu leur demande « requalifiée en cours d’année. A la fin de l’année 51 360 demandes enregistrées en 2019 étaient en procédure normale et 37 770 en procédure accélérée (soit 26%). Si on ajoute à ce nombre, celui des requalifiés des années précédentes et les réexamens adultes, le nombre de demandes adultes est de 134 380 dont 31% sont en procédure accélérée et 25% Dublinées

    Nationalités de demandeurs d’asile

    L’Afghanistan est redevenu le premier pays de provenance des demandeurs d’asile avec selon Eurostat 10 140 demandes, principalement le fait d’adultes. Viennent ensuite deux pays considérés comme sûrs avec l’Albanie ( 9 235) et la Géorgie (8 280 demandes). La Guinée, le Bangladesh et la Côte d’Ivoire complètent le quintet de tête.

    Demandes d’asile des mineurs non accompagnés

    Le nombre de demandes des mineurs non-accompagnés est de 755 en 2019 contre 690 en 2018 soit une « hausse » de 9,4%. La première nationalité est l’Afghanistan avec 207 demandes suivi de la RDC, de la Guinée et du Burundi (vraisemblablement Mayotte).

    Réinstallations

    Le Gouvernement s’était engagé à accueillir 10 000 personnes réinstallées en 2018-2019. il a presque réalisé son objectif puisque 9 684 personnes sont arrivées dont 4 652 en 2019. La première nationalité est la Syrie avec plus de 6 600 personnes (en provenance de Turquie, du Liban et de Jordanie) , suivie de loin par le Soudan (1 372 en provenance principalement du Tchad) , l’Erythrée (474 en provenance du Niger et d’Égypte), la Centrafrique (464 en provenance du Tchad) et du Nigeria (261 en provenance du Niger)

    Décisions prises par l’OFPRA

    Selon le ministère de l’intérieur, l’OFPRA a pris près de 96 000 décisions hors mineurs accompagnants, dont 14 066 reconnaissances du statut de réfugié et 8 466 protections subsidiaires, soit un taux d’accord de 23.6% qui est en baisse par rapport à 2018.

    Les statistiques fournies par Eurostat sont nettement différentes puisque le nombre de décisions adultes est de 87 445 avec 9395 statuts de réfugiés et 8085 PS soit 20% d’accord. Cela s’explique par le fait que l’OFPRA comptabilise les statuts de réfugiés reconnus à des mineurs à titre personnel parmi les décisions « adultes » et par l’inclusion des personnes réinstallées (ce qui fait une différence non négligeable de 5 500 décisions).

    Comme pour les demandes d’asile, l’Afghanistan est la première nationalité à qui est octroyée une protection avec 4 660 décisions dont 4 235 protections subsidiaires (soit 60,3% d’accords). Malgré la baisse de la demande, le Soudan est la deuxième nationalité avec 1 915 protections (soit 59%). La Syrie arrive troisième avec 1 145 protections (sans compter les personnes réinstallées au nombre de 2 435 selon le HCR). A l’inverse, les trois pays comptabilisant le plus grand nombre de rejets sont l’Albanie (7 125, soit 6,1% d’accord), la Géorgie (7 080, soit 3,2% d’accord) et la Guinée ( 5 920, soit 10,1%).

    Quant aux décisions prises pour les mineurs, le taux d’accord est de 67% variant de 100% pour le Yemen, 95% pour le Burundi, 83% pour l’Afghanistan. En comptant les annulations CNDA le taux d’accord est de 82%.

    Une année exceptionnelle pour la CNDA

    La Cour nationale du droit d’asile qui a publié un rapport d’activité a quant à elle enregistré un peu plus de 59 000 recours dont 42% devaient être jugés en cinq semaines.

    La principale nationalité qui a déposé des recours est l’Albanie suivie de la Géorgie de la Guinée,du Bangladesh et de l’ Afghanistan.

    La répartition régionale réserve quelques surprises avec un poids relatif de certaines régions plus important que celui des demandes d’asile (notamment pour la Bourgogne Franche Comté et l’Occitanie). Il s’agit de régions où les ressortissants de pays d’origine sûrs sont assez nombreux.

    Le nombre de demandes et de décisions sur l’aide juridictionnelle est assez logiquement à la hausse avec plus de 51 000 demandes. Le bureau d’aide juridictionnelle a pris un nombre équivalent de décisions, favorables pour 94% des cas (contre 96% en 2018 , ce qui montre l’impact de la disposition de la loi obligeant à formuler cette demande dans un délai de quinze jours).

    La CNDA a pris un nombre record de 66 464 décisions dont 44 171 après une audience collégiale ou de juge unique et plus de 22 000 ordonnances, soit 33.5% des décisions.

    Pour les décisions prises après une audience, le taux d’annulation est de 35% en collégiale, de 23% pour celles à juge unique.

    Le délai moyen constaté pour les premières est de 294 jours, de 120 jours pour les secondes. Le délai moyen constaté est de 218 jours donc on peut déduire que les ordonnances sont prises dans un délai de 169 jours

    Le « stock » de dossiers s’est réduit à 29 245 dossiers (soit environ 35 000 personnes, mineurs compris) contre 36 388 en 2018. En conséquence, le délai moyen prévisible est de 5 mois et 9 jours. Cette baisse contraste avec l’augmentation sensible à l’ofpra (58 000 dossiers adultes en novembre).

    En ce qui concerne les nationalités, le plus grand nombre de décisions ont été prises pour des demandes albanaises, géorgiennes, ivoiriennes, guinéennes et haïtiennes. la Guinée devient la première. nationalité pour le nombre de reconnaissances du statut devant le Soudan et la Syrie (principalement des requalifications) Mais ce sont les Afghans avec 1 729 protections dont 1 208 PS , à qui la CNDA accorde le plus de protections (75% d’annulation) . A l’inverse, le taux d’accord est de 3% pour la Géorgie et de 1% pour la Chine (vraisemblablement massivement par ordonnances)

    On peut estimer le nombre de décisions définitives. Le taux d’accord est alors de 35% contre 41% en 2019.

    A la fin de l’année 2019 environ 110 000 demandes étaient en cours d’instruction à l’OFPRA ou la CNDA avec un nombre très important de dossiers afghans et bangladais.

    Un dispositif d’accueil saturé ?

    En données brutes, selon l’OFII, le dispositif national d’accueil comptait 81 866 places stables fin 2019 . Parmi elles, 78 105 soit 95.4% étaient occupées. 73 468 personnes sont entrées dans un lieu contre 73 396 en 2018 dont 13 372 Afghans et 65 079 en sont sorties (contre 66 006 en 2018)

    Parmi les 71 805 places, 53 319 sont occupées par des demandeurs à l’OFPRA, 7 201 par des Dubliné·e·s (soit à peine 20% de cette catégorie), 12 306 par des réfugié·e·s et 5 279 par des débouté·e·s. Les personnes « en présence indue » représente 12.3% des places.

    Mais à regarder de plus près, ces chiffres semblent erronées. D’abord parce que le parc géré par l’OFII est en diminution (81 866 contre 93 000 en 2018) car il a été décidé d’exclure les places CAES et les hébergement non stables (hôtels). Mais le bât blesse encore plus lorsque l’on compare les données du ministère et celle de l’OFII : il manque ainsi plus de 2 360 places de CADA, 369 places de PRADHA et 600 places d’HUDA stables (les hôtels avoisinant 11 000 places)

    Dès lors, si on rapporte le nombre de personnes présentes à celui des places autorisées fourni par le ministère, le taux d’occupation dans les CADA est de 90% et même en deçà dans trois régions (AURA, Nouvelle Aquitaine, et Occitanie) et de 93% au total (soit 7 000 places vacantes ou non répertoriées à la fin de l’année). En clair, c’est la confirmation qu’il y a un sérieux problème d’attribution des places CADA (et des CPH) . Surtout la moitié des personnes qui demandent asile ne sont pas hébergées avec des grandes variations entre régions (71.5% en Ile-de-France et 12% en Bourgogne-Franche-Comté)

    La France au coude à coude avec l’Allemagne.

    Pour la première fois depuis 2012, la France a enregistré plus de premières demandes que l’Allemagne : 143 030 contre 142 450. C’était déjà le cas pour les premières demandes adultes depuis 2018 mais le nombre de mineurs était nettement plus important outre-Rhin. L’Espagne, qui est devenue le troisième pays d’accueil en Europe, compte plus de premières demandes adultes que l’Allemagne. En revanche, l’Allemagne reste en tête si on comptabilise les réexamens. Le nombre de demandes d’asile en Italie a diminué de moitié tandis que la Grèce connait une forte hausse avec 77 200 demandes.

    Quant aux décisions de première instance, l’Italie a « déstocké » massivement en prenant plus de 88 000 décisions adultes dépassant légèrement la France. L’Espagne a délivré des statuts humanitaires aux nombreux vénézuéliens qui ont demandé asile.

    Enfin la situation est contrastée en ce qui concerne les demandes d’asile en instance. L’Italie a diminué de moitié ce nombre, L’Allemagne l’a réduit de 40 000 tandis que l’Espagne et la Grèce ont dépassé les 100 000 demandes en instance. La France qui frôle les 80 000 dossiers en instance à l’OFPRA (donc sans compter les 50 000 Dublinés en cours d’instruction) a connu une forte hausse.

    https://www.lacimade.org/asile-bilan-de-lasile-en-france-et-en-europe2019
    #asile #statistiques #chiffres #visualisation (mais elle est tellement moche que ça fait mal aux yeux...) #Dublin #recours #demandes_d'asile #nationalité #MNA #mineurs_non_accompagnés #réinstallation #décisions #accueil #hébergement #taux_d'acceptation

    ping @reka @isskein @karine4

    • Dispositif d’#accueil des demandeurs d’asile : état des lieux 2020

      Etat des lieux des dispositifs d’accueil et d’hébergement dédiés aux personnes demanderesses d’asile et réfugiées.

      43 600 PLACES DE CADA
      Au 1er janvier 2020, le dispositif national d’accueil compte environ 43 600 places autorisées de centres d’accueil pour demandeurs d’asile (#CADA). Le parc est principalement situé en Ile- de-France, Auvergne-Rhône-Alpes et Grand Est. Cependant, ce sont les régions Pays de la Loire, Bretagne, Nouvelle Aquitaine et Occitanie qui ont connu le plus grand nombre de créations. Le principal opérateur est #ADOMA devant #COALLIA, #FTDA, #Forum_réfugiés-Cosi. A l’occasion des appels à création des dernières années , le groupe #SOS et #France_Horizon ont développé un réseau important.

      Selon le ministère de l’intérieur, le dispositif est destiné à accueillir des personnes dont la demande est en procédure normale et les plus vulnérables des personnes en procédure accélérée

      64 500 PLACES D’AUTRES LIEUX D’HÉBERGEMENT (APPELÉS GÉNÉRIQUEMENT #HUDA)
      Pour pallier le manque de places de CADA, un dispositif d’#hébergement_d’urgence_des_demandeurs_d’asile (HUDA) s’était développé au cours des décennie 2000 et 2010. Ce dispositif est géré régionalement. Il est très développé en Auvergne-Rhône-Alpes et dans le Grand Est et a intégré en 2019 les 6 000 places d’#ATSA qui naguère était géré par le ministère et l’#OFII central et la majorité des places dites CHUM qui existaient en Ile-de-France. Selon la circulaire du 31 décembre 2018, ce dispositif est destiné à accueillir des personnes en #procédure_accélérée ou Dublinées. 36% des places sont des nuitées d’hôtel notamment à Paris, à Lyon, à Marseille ou à Nice. Une information du ministère de l’intérieur du 27 décembre 2019 veut réduire cette part à 10% en ouvrant des structures stables.

      Mis en place pour orienter des personnes vivant dans le campement de la Lande à Calais et développé pour son démantèlement, le dispositif des centres d’accueil et d’orientation (#CAO) a compté selon le ministère de l’intérieur 10 000 places dont 2 000 ont été dédiés à des mineurs entre novembre 2016 et mars 2017. Ce dispositif a été rattaché budgétairement depuis 2017 aux crédits de la mission asile et immigration (BOP 303) et est géré depuis par l’OFII. Ces places sont intégrés dans le dispositif HUDA

      5 351 places ont été créées dans le cadre d’un programme d’accueil et d’hébergement des demandeurs d’asile (#PRAHDA). Lancé par appel d’offres en septembre 2016 remporté pour tous les lots par ADOMA, il consiste en grande partie en des places situées dans d’anciens #hôtels formule 1, rachetés au groupe #Accor. Ces places, gérées par l’OFII, accueillent pour moitié des personnes isolées, qui ont demandé l’asile ou qui souhaitent le faire et qui n’ont pas été enregistrées. Ce dispositif s’est spécialisé dans beaucoup de lieux dans l’hébergement avec #assignation_à_résidence des personnes Dublinées notamment ceux situés à proximité d’un #pôle_régional_Dublin. Cependant des personnes dont la demande est examinée à l’OFPRA ou à la CNDA y sont également logées.

      Dernier dispositif mis en place en 2017 mais destiné aux personnes qui souhaitent solliciter l’asile, les #centres_d’accueil_et_d’étude_de_situations (#CAES) comptent environ 3000 places. Leur particularité est un séjour très bref (en théorie un mois, deux mois en réalité) et d’avoir un accès direct aux #SPADA.

      L’ensemble des structures sont des lieux d’hébergement asile où l’accueil est conditionné à la poursuite d’une demande d’asile. Des arrêtés du ministre de l’intérieur en fixent le cahier des charges, le règlement intérieur et le contrat de séjour. L’OFII décide des entrées, des sorties et des transferts et les personnes qui y résident sont soumises à ces prescriptions, notamment à ne pas les quitter plus de sept jours sans autorisation ou peuvent y être assignées à résidence.

      Enfin, environ 1000 places de #DPAR sont destinées à l’assignation à résidence des déboutées du droit d’asile sur orientation des préfets et de l’OFII. Ces structures sont financées par une ligne budgétaire distincte des autres lieux.

      PLUS DE 8 700 PLACES DE #CPH POUR LES BÉNÉFICIAIRES DE PROTECTION INTERNATIONALE.
      Historiquement, première forme de lieu d’accueil lié à l’asile, le centre provisoires d’hébergement accueille des réfugié·e·s et des bénéficiaires de la protection subsidiaire. Limité pendant vingt ans à 1 083 places, le dispositif a connu un doublement avec la création de 1 000 places supplémentaires en 2017. 3 000 places supplémentaires ont été créées en 2018 et 2000 autres en 2019 soit 8 710 places.

      Pour accélérer les arrivées de personnes réinstallées, l’État a mis en place des centres de transit d’une capacité de 845 places au total.

      En tout le dispositif d’accueil dédié compte plus de 108 000 places. Selon l’OFII, il est occupé à 97% soit 87 000 personnes hébergées dont 75% ont une demande d’asile en cours d’examen.

      Cependant il reste en-deça des besoins d’hébergement car le nombre de demandeurs d’asile en cours d’instance bénéficiant des conditions d’accueil est de 152 923 en octobre 2019 contre 127 132 en mai 2018. Une partie des places (environ 25%) est occupée par des personnes qui ne sont pas encore ou plus demanderesses d’asile (demandes d’asile non enregistrées dans les CAES, bénéficiaires de la protection internationale ou déboutées). Malgré la création massive de places, le dispositif national d’accueil n’héberge que les deux cinquièmes des personnes. En conséquence, plus de 70 000 personnes perçoivent le montant additionnel de l’allocation pour demandeur d’asile de 7,40€ par jour pour se loger. Environ 20 000 autres sont dépourvues de ces conditions car ayant demandé l’asile plus de 90 jours après leur arrivée, ayant formulé une demande de réexamen ou sont considérés en fuite.

      https://www.lacimade.org/schemas-regionaux-daccueil-des-demandeurs-dasile-quel-etat-des-lieux

      #Dublinés

  • À propos de #Piketty et de la réforme des retraites, je retranscris ici une analyse faite par #Réseau_Salariat qui contextualise ses prises de positions.

    https://twitter.com/ReseauSalariat/status/1201132220909531136

    « Attendez on a raté un truc là, pourquoi tout le monde se met à partager la tribune nulle de Piketty dans Libé là ? Tout le monde a oublié qu’il a directement inspiré la réforme actuelle ?

    Son bouquin « pour un nouveau système de retraites » (2008) plaide pour « des comptes individuels », garantissant plus de « justice », au motif que le système actuel est trop « complexe ».

    Eh oui, c’est à 100 % l’argumentation du gouvernement actuel pour défendre sa réforme. Ben voilà, Piketty plaide depuis longtemps pour la casse de la retraite conçue comme une continuation du salaire, pour la remplacer par un système de comptes individuels…

    Lisez-le si vous aimez vous faire du mal, on croirait du Delevoye :
    http://piketty.pse.ens.fr/files/BozioPiketty2008.pdf
    Tout y est : la « crise actuelle du système de retraites », le besoin d’un système plus « simple » et plus « juste » parce que les gens n’ont plus « confiance » dans le système actuel…

    Et on retrouve le principe central de la réforme : « Les travailleurs accumulent tout au long de leur carrière professionnelle des cotisations de retraite sur un compte individuel » (p. 17)
    Garanti 100 % idéologie du « j’ai cotisé j’ai droit »

    Et même la bipartition du système de retraite, que Macron comme ses prédécesseurs veut accentuer (c’est p. 54) :
    -- une partie « solidaire » : le minimum vieillesse pour les pauvres qui n’ont pas assez cotisé ;
    -- une partie « contributive » pour les bons élèves qui ont bien cotisé

    Alors Piketty aurait changé d’avis ? Pas du tout : il critique la réforme, mais jamais la retraite à points. Comme maintenant sa part de marché c’est « économiste de gauche », il critique Macron pour la forme, dit que la réforme est inégalitaire…

    Et déplore que les riches ne paient pas plus d’impôt. Mais rien sur le principe même de la réforme : en gros, si Macron n’avait pas supprimé l’ISF, il aurait été favorable à la réforme (lol). Bizarrement tout le monde a oublié de l’interroger là-dessus…

    Il est complètement en accord avec cette vision de la retraite comme un différé de cotisation, comme le fruit de l’accumulation sur un compte individuel de la part non consommée de son revenu.

    C’est cette vision qu’il faut combattre : défendons la retraite telle que Piketty & co veulent la combattre, en revendiquant une ce principe du salaire continué : suppression des conditions de cotisation pour avoir droit à une retraite au niveau de son meilleur salaire, à 50 ans !

    Bonus : on a fouillé nos archives, et on est retombé⋅es sur pages délicieuses du journal de l’internationale sardonique, Pour lire pas lu (PLPL), qui constituent d’utile rappel sur le sujet Piketty & les retraites…

    L’ascension sociale d’Élie faisait trépigner de jalousie un autre économiste : #Thomas_Piketty.

    Les journalistes l’appellent « le petit prodige » (PP). En effet, à l’âge ou l’éditorialiste de Libération #Jean-Michel_Helvig interrompait sa croissance intellectuelle (neuf ans et demi), Piketty était déjà néolibéral. Associée à un attirail de diplômes américains, cette précocité lui vaut d’être recruté par tous ceux qu’ensorcelle le conformisme plaqué or : la #Fondation_Saint-Simon (lire #PLPL n°16) lui confie la rédaction de « notes » ; #Serge_July l’embauche comme chroniqueur économique à #Libération ; le #CAE l’intègre dans ses rangs ; l’École des hautes études en sciences sociales de Paris l’élit directeur de recherches.

    Enfin, il devient la coqueluche du #Parti_de_la_presse_et_de_l'Argent (#PPA). La célébration de la baisse des charges sociales et l’exigence d’une mise en concurrence des universités l’amènent tout naturellement à défendre la réforme des #retraites de #Raffarin et à qualifier de « combat injustifiable » la revendication de trente-sept années et demi de cotisation pour tous. Comme la plupart des éditorialistes économiques de Libération, Piketty se cabre quand on parle de taxer le capital : « Les riches sont-ils effectivement assez riches pour payer les retraites ? La réponse à cette question est malheureusement négative. » Et comme tous les économistes qui œuvrent depuis trente ans au désarmement idéologique de la gauche, Thomas s’emploie à « se construire une image progressiste et simultanément [à] maintenir l’essentiel du credo libéral. »

    En effet, l’humanité doit à Piketty une découverte inouïe : l’impôt progressif a des effets redistributifs. Cette conclusion a suscité l’ébahissement intéressé des journalistes qui cherchent à se reclasser dans le courant « altermondialiste ». Au Nouvel Observateur, Laurent Mouchard ne se vante plus comme en 1993 d’avoir été l’un des « instruments de la victoire du capitalisme dans la gauche »(France 2, 02.06.93) ; il interroge Piketty sur les bienfaits de l’impôt et le couvre de caresses (30.08.01). Puis vient le tour d’un autre opportuniste, #Sylvain_Bourmeau, qui interviewe Piketty dans Les Inrockuptibles (17.08.02). Piketty le rassure : « L’affrontement capital/travail est obsolète ». Entre-temps, #Edwy_Plenel a consacré au Petit Prodige une séance de téléachat débridée sur LCI. Le 8 septembre 2001, « Le Monde des idées » s’achève et le RTA se dandine comme un dément. Il agite le gros ouvrage de son invité : « Retenez son nom ! Thomas Piketty, je ne sais pas s’il sera prix #Nobel un jour, mais en tout cas, à trente ans, il fait le livre de la rentrée ! Le livre événement ! Le livre qui est débattu aujourd’hui par tous les politiques !! Une somme, un scoop derrière cette somme ! » À ce stade, les quelques cameramen de LCI pour qui l’effet redistributif de l’impôt progressif sur le revenu n’est plus « un scoop » depuis 1914, hésitent à requérir les services d’un infirmier. Mais le directeur des rédactions du Monde est déchaîné : « C’est un livre savant, stimulant !! Ce n’est pas un livre ardu même s’il est savant ! C’est un livre pédagogique ! Il faut absolument le lire ! Thomas Piketty j’ai fait la publicité pour votre livre mais c’est sincère [...] Pour préparer les débats à venir de la campagne électorale, achetez ce livre, lisez-le, discutez-le, travaillez-le stylo en main !! » (Notre stock de points d’exclamation est quasi épuisé).

    Léché par les simples d’esprit, #Piketty est certain de son génie. Ses travaux s’en ressentent. Le document explosif que publie PLPL montre qu’il aurait dû apprendre à lire avant de soutenir son doctorat. Le 26 novembre 2001, Thomas Le Prodige consacre sa chronique de Libération à la dénonciation de

  • Hérouville-Saint-Clair (14) : officialisation de l’occupation d’un bâtiment boulevard des Belles Portes
    https://fr.squat.net/2019/11/13/herouville-saint-clair-14-officialisation-de-loccupation-dun-batiment-boul

    Aujourd’hui, 11 novembre 2019, l’Assemblée Générale de lutte contre toutes les expulsions officialise l’occupation d’une ancienne école laissée à l’abandon et située à Hérouville Saint Clair au 201, boulevard des Belles Portes. Suite à l’expulsion du squat du Marais, une vingtaine de réfugiés avait rejoint leurs amis (une quarantaine) sur un rond point à l’entrée […]

    #201_boulevard_des_Belles_Portes #AG_de_lutte_contre_les_expulsions #Caen #ouverture #Squat_des_Belles_Portes