• La commemorazione ipocrita di #Bologna per la strage di Cutro
    https://www.meltingpot.org/2024/03/la-commemorazione-ipocrita-di-bologna-per-la-strage-di-cutro

    Ieri a Bologna il sindaco, Matteo Lepore, insieme al sindaco di Cutro, Antonio Ceraso, hanno sfilato sulle tombe di 15 delle persone afghane morte nella strage di Cutro che sono state seppellite a Borgo Panigale. Hanno parlato di memoriali, umanità e tante belle cose. Nessun riferimento alle famiglie o ai sopravvissuti che ovviamente non sono stati invitati né contattati. Dimenticati e invisibilizzati, ancora una volta. Un gesto – come hanno spiegato i familiari delle vittime e diverse organizzazioni solidali in un comunicato – considerato ipocrita, con la presenza di una persona come il sindaco di Cutro che ha insultato (...)

    #Comunicati_stampa_e_appelli #Emilia-Romagna #Italia #Naufragi_e_sparizioni #Solidarietà_e_attivismo #Strage_di_Cutro_KR_

    • Naufragio a Cutro

      https://www.youtube.com/watch?v=8DqKAVz7KSs&t=31s

      Li han visti nel buio aggrappati alle sponde,
      li hai sentiti gridare in mezzo alle onde.
      Hanno detto che c’era tempesta sul mare,
      la guardia costiera li ha guardati annegare.

      Fuggiti da guerre, violenze e da fame,
      da città sbriciolate fra bombe e pietrame
      Dove anche ai bambini è vietato sognare
      l’Europa civile non vuole aiutare.

      Addio, Mohamed, addio, Rashida,
      addio, Bashar, piccola Jalina.
      Non siete persone per chi è a governare,
      ma solo migranti annegati nel mare.

      Rischiare la pelle, i figli e i parenti,
      stipati su barche sfasciate e cadenti
      Ha detto il ministro, non è cosa da fare,
      vi respinge l’Europa, potete annegare.

      Un orsacchiotto incrostato di sabbia,
      fra assi divelte rimane la rabbia.
      Restan soltanto nei vari rottami,
      speranze spezzate di poveri umani.

      Addio, Mohamed, addio, Rashida,
      addio, Bashar, piccola Jalina.
      Non siete persone per chi è a governare,
      ma solo un carico residuale.

      Per giorni e per notti affiorano i corpi,
      li cercano in mare, li cercano in molti.
      Riemergeranno, basta avere pazienza,
      sono dell’Europa la sporca coscienza.

      Addio, Mohamed, addio, Rashida,
      addio, Bashar, piccola Jalina.
      Non siete persone per chi è a governare,
      ma solo migranti annegati nel mare.

      Addio, Mohamed, addio, Rashida,
      addio, Bashar, piccola Jalina.
      Non siete persone per chi è a governare,
      ma solo migranti annegati nel mare.

      #Marina_Corti #Bruno_Podestà #migrations #naufrage #chanson #musique #musique_et_politique #Cutro #mourir_aux_frontières #mourir_en_mer #Méditerranée #mer_Méditerranée #26_février_2023

  • Senza frontiere: La criminalizzazione dei cosiddetti #scafisti nel 2023

    1. Dati e monitoraggio della cronaca
    Numero di fermi

    Come negli anni precedenti, nel 2023 abbiamo monitorato sistematicamente la cronaca sulle notizie degli arresti dei cosiddetti scafisti. Abbiamo registrato 177 arresti negli ultimi 12 mesi (rispetto ai 171 arresti nel 2021 e ai 261 arresti nel 2022). Una dichiarazione di Piantedosi che sostiene che “550 scafisti” sono stati arrestati nel biennio 2022-23 – visto che nell’aprile il governo ha rivendicato c. 350 fermi per 2022 – ci fa stimare un totale di 200 fermi nel 2023. Dal 2013, quindi, sono state fermate ormai circa 3.200 persone.

    Il numero di arresti nel 2023 non solo è inferiore in termini assoluti rispetto agli anni precedenti, ma mostra una diminuzione ancora più significativa in termini relativi. Nel 2023, circa 157.000 persone sono arrivate in Italia via mare, il che significa che sono state arrestate circa tre persone ogni 2.000 arrivi. Nel 2021 e nel 2022, il tasso di criminalizzazione era due volte questo.

    Esistono diverse ragioni che potrebbero spiegare questa diminuzione. La più significativa sembra essere un cambiamento di politica ad Agrigento e Lampedusa nel non effettuare arresti sistematici dopo gli sbarchi, concentrandosi invece su casi specifici che coinvolgono accuse di morti durante il viaggio, torture e, per la prima volta, pirateria. Ci teniamo ad aggiungere che – appoggiando il lavoro dell’associazione Maldusa – stiamo seguendo casi in cui le persone sono accusate dei suddetti reati, che hanno suscitato in noi importanti dubbi sulla correttezza delle accuse e sulle modalità con cui vengono portati avanti questi procedimenti penali che spesso sembrano vere e proprie sperimentazioni giuridiche. È anche evidente che le autorità ad Agrigento effettuano continuamente arresti di persone, soprattutto cittadini tunisini, che, essendo rientrati in Italia dopo espulsioni precedenti, sono imputati del reato di violazione del divieto di reingresso. Questo dimostra una manipolazione molto evidente del diritto penale come mezzo per sostenere le ingiuste politiche di chiusura e respingimento.

    Luoghi di fermo e il decreto Piantedosi

    In secondo luogo, l’anno scorso è stata attuata una nuova strategia nella guerra italiana contro le navi di soccorso delle ONG, a cui sono stati assegnati porti di sbarco in tutta Italia (il decreto Piantedosi). Un effetto collaterale è che spesso i luoghi che hanno accolto le imbarcazioni non hanno visto tanti sbarchi prima di quest’anno, e sono quindi poco familiari con la criminalizzazione sistematica che si è agita negli ultimi anni. Nei porti settentrionali a volte sono stati disposti gli arresti, che spesso poi non sono stati convalidati dai Giudici locali, che non hanno ritenuto neppure di disporre una misura cautelare dato che le prove contro gli imputati erano troppo deboli. Mentre ad Agrigento e nei porti del Nord possiamo forse notare una certa resistenza alla solita politica degli arresti sistematici dei capitani, lo stesso non si può dire in altre parti d’Italia. Nella Sicilia orientale e in Calabria un alto numero di persone è stato arrestato e incarcerato. Augusta ha registrato 28 arresti, Siracusa 11; Crotone ha visto 24 arresti e Roccella 18. E come si può vedere dalla mappa, questo modello si replica in altri porti delle stesse zone.

    Nazionalità

    Nel 2023, come nel 2021 e nel 2022, le autorità hanno preso di mira in particolare i cittadini egiziani, identificandone almeno 60 come capitani. Ciò è notevolmente diverso da quanto avveniva prima del 2020, quando gli egiziani avevano smesso di essere la principale nazionalità criminalizzata. Questa inversione di tendenza ha visto circa 300 cittadini egiziani arrestati dal 2020, la maggior parte dei quali probabilmente è ancora nelle carceri italiane.

    Un cambiamento significativo delle nazionalità delle persone arrestate registrato nel 2023 è invece l’importante aumento della criminalizzazione delle persone migranti provenienti dai paesi asiatici, che ammontano a circa 40 persone fermate quest’anno.

    Con riferimento alla rotta ionica, che arriva in Calabria – la stessa utilizzata dalla barca che è tragicamente affondata vicino a Cutro – nel 2021 la maggior parte delle persone arrestate come capitani proveniva da Russia e Ucraina. Con l’inizio della guerra, sono arrivate molte meno persone con queste nazionalità, mentre abbiamo assistito ad un allarmante aumento della persecuzione dei cittadini turchi nel 2022. Nell’ultimo anno, invece, abbiamo assistito a pochi arresti di persone provenienti dall’Europa orientale o dalla Turchia, e molti di più di persone provenienti dagli stati dell’Asia centrale.

    Va detto che la diminuzione dei fermi eseguiti dalla Procura di Agrigento dovrebbe essere letta alla luce della massiccia operazione posta in essere dalla polizia tunisina, con la benedizione e il finanziamento dell’Europa, contro i cosiddetti trafficanti a Sfax. I governi si vantano di ben 750 fermi nel paese nordafricano negli ultimi tre mesi, accanto a strategie violente di intercettazione e refoulement, come denunciato sia da Amnesty che dal Forum tunisino per i diritti economici e sociali. Anche in Egitto, l’inasprimento della legge nazionale contro i ‘trafficanti’ ha portato a diffusi arresti e processi ingiusti. Ad esempio, l’11 giugno 2023, una campagna di arresti ingiustificati per “smuggling” ha portato alla morte, alla città di Marsa Matruh, di un cittadino egiziano per colpi di arma da fuoco inferti dalla polizia, come ha denunciato Refugees Platform in Egypt. A livello dell’UE, si provano invece ad affinare gli strumenti legali, accrescendo le infrastrutture di controllo e criminalizzazione della frontiera e proponendo emendamenti – come quelli presentati in occasione del lancio dell’Alleanza globale contro il traffico di migranti – al cosiddetto Facilitators Package (in italiano “pacchetto facilitatori”).

    È chiaro quindi che, mentre festeggiamo alcune limitate vittorie, non possiamo negare che il “trafficante/scafista” rimane il capro espiatorio per eccellenza in Europa e non solo.
    2. Un anno di casi e udienze

    Attualmente seguiamo la situazione di 107 persone accusate di essere ‘scafisti’, 66 delle quali sono ancora in carcere. Dei detenuti, 32 si trovano in Sicilia e 16 in Calabria; gli altri sono sparsi in tutta Italia. Come ci si aspetterebbe dagli arresti degli ultimi anni, quasi la metà delle persone detenute che seguiamo proviene dall’Africa del Nord (30 su 44), mentre la maggior parte di quelle provenienti dall’Africa occidentale con cui siamo in contatto sono ormai libere (23 su 30). Siamo anche in contatto con 24 persone provenienti da paesi asiatici (tra cui Turchia, Palestina e i paesi ex-sovietici), la maggior parte delle quali è ancora detenuta.
    Cutro

    E’ trascorso poco meno di un anno da quando quasi 100 persone hanno perso la vita nelle acque di Cutro, in Calabria. Il Governo ha reagito non solo con finta commozione e decreti razzisti, ma anche, come quasi sempre accade, con un processo contro i cosiddetti scafisti. Insieme alle realtà calabresi, seguiamo attentamente i processi contro Khalid, Hasab, Sami, Gun e Mohamed, sopravvissuti al naufragio e provenienti dalla Turchia e dal Pakistan: ora si devono difendere contro il Ministero dell’Interno, il Consiglio dei Ministri e la Regione Calabria che si sono costituiti parti civili nel processo penale. Le istituzioni governative, anche se non esiste un fondo per questo, chiedono un risarcimento superiore a un milione di euro per danni al turismo e all’immagine: come se la tragedia del massacro di Cutro fosse questa.
    Processi

    Sono diversi i procedimenti penali che siamo riusciti a seguire da vicino, offrendo il nostro supporto ad avvocatə e persone criminalizzate, e, in alcuni casi, andando personalmente alle udienze.

    - Tra le vittorie ottenute non possiamo non citare la recentissima sentenza di assoluzione emessa dalla Corte di Appello di Messina in favore di Ali Fabureh, un giovane ragazzo gambiano che era stato erroneamente condannato dal Tribunale di Messina a 10 anni di carcere senza che – come appurato dalla Corte – avesse mai preso un timone in mano. E sempre a Messina abbiamo registrato un’altra importante vittoria: si è, infatti, concluso con una sentenza di assoluzione anche il procedimento penale iniziato due anni fa contro 4 persone accusate di aver condotto un peschereccio con a bordo centinaia di persone ed essere responsabili della morte di 5 di esse. Tra le persone assolte c’è A., che attualmente è ospitato presso l’associazione Baobab, e con cui continuiamo a rimanere in contatto. Un’altra importante vittoria di quest’anno è stata raggiunta a febbraio a Palermo, quando il Tribunale ha assolto 10 persone accusate di art. 12 TUI, riconoscendo loro lo stato di necessità per le violenze subite in Libia e aprendo la strada, si spera, a un maggior riconoscimento di questa causa di giustificazione. La sentenza è ora definitiva.
    - Purtroppo non tutti i procedimenti seguiti si sono conclusi positivamente, a dimostrazione del fatto che, anche se qualche passo nella direzione giusta è stato fatto, ne restano ancora tanti da compiere. Spesso può succedere che il processo contro due imputati nello stesso procedimento, ha avuto esiti diversi. Questo è stato il caso in un processo nei confronti di due cittadini senegalesi al Tribunale di Agrigento, che ha disposto l’archiviazione per uno di loro, mentre per l’altro il processo continua.
    – Altre volte è stata emessa una sentenza di condanna senza assoluzioni o archiviazioni. Questo è il caso della riprovevole condanna di 7 anni inflitta dal Tribunale di Locri a Ahmid Jawad, magistrato afghano che ancora lotta per dimostrare che era un semplice passeggero dell’imbarcazione che dalla Turchia l’ha condotto in Italia. E’ anche la situazione di Ahmed, che si è visto rigettare l’appello proposto alla Corte di Appello di Palermo avverso la sentenza di condanna del Tribunale di Agrigento.
    - Inoltre, non possiamo non mostrare indignazione e preoccupazione per i casi, come quello di E. (egiziano) al tribunale di Locri e M. e J. (del Sierra Leone) a Reggio Calabria, con cui siamo in contatto, a cui è stata applicata la nuova fattispecie di reato di cui all’art. 12 bis TUI, introdotta con il decreto Cutro, che prevede pene ancora più elevate. Seguiamo il loro processo da lontano: a gennaio, il tribunale di Locri ha rigettato la richiesta di remissione alla Corte Costituzionale presentata dagli avvocati per contestare l’art 12 bis.

    Centri di permanenza per il rimpatrio (CPR)

    I problemi per le persone accusate di essere ‘scafisti’ non finiscono a fine pena, e anche con riferimento alla detenzione nei CPR abbiamo seguito casi che hanno avuto esiti molto diversi. Siamo felicə che gli ultimi due casi seguiti si siano conclusi in modo positivo. Nel mese di dicembre, infatti, una donna ucraina e un uomo tunisino entrambə codannatə per art. 12 TUI, sono statə scarceratə, rispettivamente dalle carceri di Palermo e di Caltagirone, senza essere deportatə presso i centri di detenzione. Sicuramente nel primo caso ha inciso la nazionalità della persona, mentre nel secondo il sovraccaricamento dei centri.

    Purtroppo non sempre è stato possibile evitare il CPR. Molte persone seguite, nonostante la richiesta asilo presentata tempestivamente, sono state trattenute nei centri di detenzione, chi per pochi giorni, chi per due mesi. Per circostanze che sembrano spesso fortuite, la maggior parte è riuscita ad uscire e, anche se con poche prospettive di regolarizzarsi, possono vivere in “libertà” in Italia.

    Purtroppo, per due persone seguite le cose sono andate diversamente. La macchina burocratica ha mostrato il suo volto più spietato e sono stati rimpatriati prima che avessero la possibilità di ricevere un aiuto più concreto; oggi si trovano in Gambia e Egitto. Nell’ultimo caso, la situazione è ancora più preoccupante perché era stato assolto dal Tribunale di Messina; nonostante ciò, all’uscita dal carcere lo aspettava la deportazione.
    Misure alternative

    Quest’anno è stato particolarmente significativo in termini del superamento del regime ostativo alle misure alterantive alla detenzione posto dall’art. 4 bis o.p., che si applica a chi subisce una condanna per art. 12 TUI. Abbiamo infatti registrato i primi casi in cui le persone incarcerate che seguiamo hanno potuto accedere a misure alternative alla detenzione. Questo è stato il caso di B., che ha ottenuto dal Tribunale di Sorveglianza di Palermo l’affidamento in prova ai servizi sociali in provincia di Sciacca. Adesso che ha raggiunto il fine pena si è stabilito lì, in poco più di un mese ha aggiunto i suoi obiettivi personali: ha un lavoro e una rete sociale. E questa è la storia anche di A., e O., che hanno fatto accesso alle misure alternative presso la comunità Palermitana Un Nuovo Giorno. Rimaniamo, invece, in attesa dell’esito della seconda istanza di accesso per M., cugino di B., con cui tentiamo dal 2022, e che speriamo possa presto vedere il cielo oltre le quattro mura.

    Abbiamo anche seguito 6 persone, tra cui i 3 accusati palestinesi che l’estate scorsa sono entrati in sciopero della fame, che sono riusciti ad accedere agli arresti domiciliari, che pur non essendo oggetto dell’art. 4 bis o.p., nel corso degli anni sono comunque rimasti difficili da ottenere. Queste vittorie sono state possibili grazie ai tentativi, a volte ripetuti, dellə loro avvocatə difensorə, e alle offerte di ospitalità di un numero crescente di realtà conosciute.

    È bello vedere che qualcuno riesce a sgusciare attraverso alcune crepe di questo meccanismo. Certamente lavoreremo per continuare ad allargarle, anche se sappiamo che questo strumento può solo alleviare la sofferenza di alcune persone, e certamente non riparare i danni subiti per la loro detenzione.
    3. Rete

    Per noi è fondamentale ribadire che è solo grazie a una rete forte, impegnata, diffusa e informata, che questo lavoro è possibile. Anche quest’anno, possiamo dire di aver avuto il grandissimo piacere di collaborare con realtà diverse, in tanti luoghi, da Torino a Napoli, da Lampedusa a Londra, da Roma a Bruxelles e New York.

    In particolare, segnaliamo la campagna recentemente avviata Free #Pylos 9, promossa della rete Captain Support, per le persone arrestate in seguito al massacro di Pylos in Grecia. Negli ultimi mesi abbiamo inoltre avuto modo di conoscere realtà solidali a Bruxelles, tra cui PICUM, che ha organizzato a fine novembre un incontro di scambio sulle pratiche di criminalizzazione attuate intorno al controllo della migrazione. Qui abbiamo avuto l’opportunità di aprire insieme una conversazione sul lancio della nuova Alleanza Globale Europea contro il Traffico di Migranti, che stava avvenendo proprio in quei giorni.

    A New York a novembre abbiamo partecipato alla conferenza dell’Università di Columbia sulla criminalizzazione della migrazione nel mondo, e abbiamo presentato il nostro lavoro al centro sociale Woodbine, insieme ad altri gruppi locali impegnati nella lotta contro le frontiere.

    Qua in Italia, se da un lato il decreto Piantedosi ha ottusamente costretto le navi ONG a sbarcare in diversi porti d’Italia (come abbiamo scritto nei paragrafi sopra), dall’altro ha contribuito a catalizzare la consapevolezza sugli arresti allo sbarco in diverse città. Grazie al lavoro di alcunə avvocatə e individui solidali a Napoli, e con il supporto della Clinica Legale Roma 3, le persone arrestate agli sbarchi in Campania hanno avuto accesso a un supporto indipendente ed esaustivo.

    L’evento Capitani Coraggiosi, organizzato da Baobab Experience alla Città dell’Altra Economia a Roma, ha visto proiezione del film Io Capitano di Matteo Garrone (ora fra i candidati agli Oscar), e un dibattito col regista e con altre persone impegnate in questa lotta. Qui è stata lanciata la campagna in vista della presentazione della richiesta di revisione del caso di Alaji Diouf, che ha subito una condanna di 7 anni per il reato di favoreggiamento. Adesso, Alaji chiede che sia fatta giustizia sul suo caso, come affermato nel suo intervento dopo la proiezione del film “Io Capitano”, quando ha detto “Tutto quello che succede dopo, da lì parte davvero il film. […] ora che sono libero voglio far conoscere al mondo la verità”.

    ‘Dal mare al carcere’
    un progetto di Arci Porco Rosso e borderline-europe
    4° report trimestrale 2023.

    Leggete il report ‘Dal mare al carcere’ (2021), e i seguenti aggiornamenti trimestrale, al www.dal-mare-al-carcere.info.

    Ringraziamo Iuventa Crew, Sea Watch Legal Aid e Safe Passage Fund che hanno supportato il nostro lavoro nel 2023. Vuoi sostenerlo anche tu? Puoi contribuire alla nostra raccolta fondi.

    https://arciporcorosso.it/senza-frontiere
    #scafista #criminalisation_de_la_migration #migrations #asile #réfugiés #frontières #Méditerranée #mer_Méditerranée #Arci_Porco_Rosso #Italie #chiffres #statistiques #2023 #justice #procès #détention_administrative #rétention #Cutro

  • #Frontex, Cutro è un ricordo sbiadito: sorvegliare dall’alto resta la priorità

    Un anno dopo la strage, l’Agenzia europea della guardia di frontiera investe ancora su velivoli per sorvolare il Mediterraneo. Dal 2016 a oggi la spesa supera mezzo miliardo di euro. Una strategia dagli esiti noti: più respinti e più morti

    Frontex è pronta a investire altri 158 milioni di euro per sorvegliare dall’alto il Mediterraneo. A un anno dal naufragio di Steccato di Cutro (KR), costato la vita a 94 persone, la strategia dell’Agenzia che sorveglia le frontiere esterne europee non cambia. Anzi, si affina con “occhi” sempre più efficaci per rintracciare e osservare dall’alto le imbarcazioni in difficoltà. “Si continua a pensare che Frontex sia un’innocua gregaria degli Stati, senza responsabilità -spiega Laura Salzano, docente di diritto dell’Ue presso l’Università di Barcellona-. Ma in mare, sempre di più, le sue attività hanno conseguenze dirette sulla vita delle persone”.

    Lo racconta, in parte, anche la strage di Cutro del 26 febbraio 2023. Alle 22.26 della sera prima infatti fu l’Agenzia, attraverso il velivolo “Eagle 1”, a individuare per prima la “Summer love” e a segnalarla, quand’era a circa 40 miglia delle coste crotonesi, al Frontex coordination centre. Da Varsavia le coordinate della nave furono girate alle autorità competenti: tra queste anche l’International coordination centre (ICC) di Pratica di mare (RM) in cui, allo stesso tavolo, siedono le autorità italiane e la stessa Agenzia che ha il dovere di monitorare quello che succede. “Nonostante fosse noto che c’erano persone nella ‘pancia della nave’ e il meteo stesse peggiorando, si è deciso di attivare un’operazione di polizia e non di ‘ricerca e soccorso’ -spiega Salzano-. Questa classificazione a mio avviso errata è responsabilità anche dell’Agenzia”. Un errore che potrebbe aver inciso anche sul ritardo nei soccorsi.

    Lo stabilirà la Procura di Crotone che, a metà gennaio 2024, non ha ancora chiuso le indagini sulla strage. Qualcosa di quanto successo quella sera, però, si sa già, perché il processo contro i presunti manovratori dell’imbarcazione è già in fase di dibattimento. “La prima barca della Guardia costiera -spiega Francesco Verri, avvocato di decine di familiari delle vittime- arriva sul luogo del naufragio alle 6.50, quasi tre ore dopo il naufragio: salva due persone ma recupera anche il cadavere di un bambino morto di freddo. Perché ci hanno impiegato così tanto tempo per percorrere poche miglia nautiche? Sulla spiaggia la pattuglia è arrivata un’ora e 35 minuti dopo il naufragio. Da Crotone a Cutro ci vogliono dieci minuti di macchina”. Domande a cui dovranno rispondere le autorità italiane.

    Al di là delle responsabilità penali, però, quanto successo quella notte mostra l’inadeguatezza del sistema dei soccorsi di cui la sorveglianza aerea è un tassello fondamentale su cui Frontex continua a investire. Con importi senza precedenti.

    Quando Altreconomia va in stampa, a metà gennaio, l’Agenzia sta ancora valutando le offerte arrivate per il nuovo bando da 158 milioni di euro per due servizi di monitoraggio aereo: uno a medio raggio, entro le 151 miglia nautiche dall’aeroporto di partenza (budget di 100 milioni), l’altro a lungo raggio che può superare le 401 miglia di distanza (48 milioni).

    https://pixelfed.zoo-logique.org/i/web/post/658926323750966119

    Documenti di gara alla mano, una delle novità più rilevanti riguarda i cosiddetti “Paesi ospitanti” delle attività di monitoraggio: si prevede infatti espressamente che possano essere anche Stati non appartenenti all’Unione europea. In sostanza: il velivolo potrebbe partire da una base in Tunisia o Libia; e, addirittura, si prevede che un host country liaison officer, ovvero un agente di “contatto” delle autorità di quel Paese, possa salire a bordo dell’aeromobile. “Bisogna capire se sarà fattibile operativamente -sottolinea Salzano-. Ma non escludere questa possibilità nel bando è grave: sono Paesi che non sono tenuti a rispettare gli standard europei”.

    Mentre lavora per dispiegare la sua flotta anche sull’altra sponda del Mediterraneo, Frontex investe sulla “qualità” dei servizi richiesti. Nel bando si richiede infatti che il radar installato sopra il velivolo sia in grado di individuare (per poi poter fotografare) un oggetto di piccole dimensioni a quasi dieci chilometri di distanza e uno “medio” a quasi 19. Prendendo ad esempio il caso delle coste libiche, più la “potenza di fuoco” è elevata più il velivolo potrà essere distante dalle coste del Nordafrica ma comunque individuare le imbarcazioni appena partite.

    La distanza, in miglia nautiche, che l’ultimo bando pubblicato da Frontex nel novembre 2023 prevede tra l’aeroporto di partenza del velivolo e l’area di interesse da sorvolare è di 401 miglia. Nella prima gara riguardante questi servizi, pubblicata dall’agenzia nell’agosto 2016, la distanza massima prevista era di 200 miglia

    Frontex sa che, oltre alla componente meccanica, l’efficienza “tecnica” dei suoi droni è fondamentale. Per questo il 6 e 7 settembre 2023 ha riunito a Varsavia 16 aziende del settore per discutere delle nuove frontiere tecnologiche dei “velivoli a pilotaggio remoto”. A presentare i propri prodotti c’era anche l’italiana Leonardo Spa, leader europeo nel settore aerospaziale e militare, che già nel 2018 aveva siglato un accordo da 1,6 milioni di euro per fornire droni all’Agenzia.

    L’ex Finmeccanica è tra le 15 aziende che hanno vinto i bandi pubblicati da Frontex per la sorveglianza aerea. Se si guarda al numero di commesse aggiudicate, il trio formato da DEA Aviation (Regno Unito), CAE Aviation (Stati Uniti) ed EASP Air (Spagna) primeggia con oltre otto contratti siglati. Valutando l’importo delle singole gare, a farla da padrone sono invece due colossi del settore militare: la tedesca Airbus DS e la Elbit System, principale azienda che rifornisce l’esercito israeliano, che si sono aggiudicate in cordata due gare (2020 e 2022) per 125 milioni di euro. Dal 2016 a oggi, il totale investito per questi servizi supera i cinquecento milioni di euro.

    “La sorveglianza è una delle principali voci di spesa dell’Agenzia -spiega Ana Valdivia, professoressa all’Oxford internet institute che da anni analizza i bandi di Frontex- insieme a tutte le tecnologie che trasformano gli ‘eventi reali’ in dati”. E la cosiddetta “datificazione” ha un ruolo di primo piano anche nel Mediterraneo. “La fotografia di una barca in distress ha un duplice scopo: intercettarla ma anche avere un’evidenza digitale, una prova, che una determinata persona era a bordo -aggiunge Valdivia-. Questa è la ‘sorveglianza’: non un occhio che ci guarda giorno e notte, ma una memoria digitale capace di ricostruire in futuro la nostra vita. Anche per i migranti”. E per chi è su un’imbarcazione diretta verso l’Europa è vitale a chi finiscono le informazioni.

    Nell’ultimo bando pubblicato da Frontex, si prevede che “il contraente trasferirà i dati a sistemi situati in un Paese terzo se è garantito un livello adeguato di protezione”. “Fanno finta di non sapere che non possono farlo -aggiunge Salzano- non potendo controllare che Paesi come la Tunisia e la Libia non utilizzino quei dati, per esempio, per arrestare le persone in viaggio una volta respinte”. Quello che si sa, invece, è che quei dati -nello specifico le coordinate delle navi- vengono utilizzate per far intervenire le milizie costiere libiche. Per questo motivo i droni si avvicinano sempre di più alla Libia. Se nel 2016 l’Agenzia, nella prima gara pubblicata per questa tipologia di servizi, parlava di area operativa nelle “vicinanze” con le coste italiane e greche, fino a 200 miglia nautiche dall’aeroporto di partenza, dal 2020 in avanti questa distanza ha superato le 401 miglia.

    Lorenzo Pezzani, professore associato di Geografia all’università di Bologna, ha esaminato giorno per giorno i tracciati di “Heron”, il più importante drone della flotta di Frontex: nel 2021 l’attività di volo si è concentrata tra Zuara e Tripoli, il tratto di costa libica da cui partiva la maggior parte delle barche.

    “Il numero di respingimenti delle milizie libiche -spiega Pezzani autore dello studio “Airborne complicity” pubblicato a inizio dicembre 2022- cresce all’aumentare delle ore di volo del drone e allo stesso tempo la mortalità non diminuisce, a differenza di quanto dichiarato dall’Agenzia”. Che tramite il suo direttore Hans Leijtens, entrato in carica a pochi giorni dal naufragio di Cutro, nega di avere accordi o rapporti diretti con la Libia. “Se è così, com’è possibile che un drone voli così vicino alle coste di uno Stato sovrano?”, si chiede Salzano. Chi fornirà il “nuovo” servizio per Frontex dovrà cancellare le registrazioni video entro 72 ore. Meglio non lasciare troppe tracce in giro.

    https://altreconomia.it/frontex-cutro-e-un-ricordo-sbiadito-sorvegliare-dallalto-resta-la-prior
    #migrations #réfugiés #frontières #militarisation_des_frontières #complexe_militaro-industriel #business #Méditerranée #mer_Méditerranée #Cutro #surveillance_aérienne #Leonardo #Elbit_System #Airbus #host_country_liaison_officer #radar #technologie #DEA_Aviation #CAE_Aviation #EASP_Air #Libye #gardes-côtes_libyens

  • Segregare e punire: il disegno politico brutale dentro il “decreto Cutro”

    Nonostante la pletora di emendamenti il quadro del provvedimento governativo appare definito: centri informali chiusi, procedure accelerate, smantellamento della protezione speciale, ostacoli alla conversione dei permessi di soggiorno in permessi per attività lavorativa. “Una strategia illegale e sconsiderata”, osserva Michele Rossi

    Per comprendere il testo del decreto legge 10 marzo 2023 (https://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=Resaula&leg=19&id=1375360&part=doc_dc-allegatoa_aa), il cosiddetto “decreto Cutro”, occorre applicare con grande concentrazione le parole d’ordine gramsciane circa il pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo della volontà (A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Einaudi, 2014). Pessimismo dell’intelligenza perché siamo certamente di fronte al più violento e invasivo tentativo di sovvertimento di alcuni fondamentali istituti costituzionali, democratici e sociali della recente storia repubblicana.

    Non deve in tal senso ingannare il fatto il decreto legge riguardi “solo” migranti e “solo” norme che disciplinano l’immigrazione. È evidente che sottesa a tale disciplina risulta ben visibile un’idea di società e pur producendo un certo accanimento su uno specifico gruppo sociale -i migranti-, l’intento, nemmeno troppo malcelato, è di intervenire sui rapporti tra gruppi sociali: un’operazione di “ortopedia sociale” (M. Focault, Sorvegliare e Punire, Einaudi, 2014) volta a separare, segmentare, disgiungere le comunità, annichilirne la tensione, individuale e collettiva all’integrazione, alla coesione, allo stesso contatto interculturale. Il decreto opera -purtroppo con conseguenze drammatiche- innanzitutto sulle persone migranti, ma colpendo loro, frammenta il corpo sociale intero, con pesanti ripercussioni su tutti. Non si tratta nemmeno più di modelli di accoglienza, addirittura il paradigma securitario credo non basti a interpretarne la ratio e la filosofia di fondo, vedremo, ma di produrre condizioni di tale aleatorietà da rendere ordinario l’arbitrio, la deterrenza sistematica sino all’avveramento della profezia: non è possibile nessuna integrazione, solo marginalità e segregazione.

    Del resto, come proveremo ad argomentare, per immaginare un tale impianto andava raccolto e finalizzato un lungo periodo di semina culturale e nei fatti, la nuova costruzione normativa non poteva che ergersi su fondamenta feroci, una de-soggettivazione del migrante e la criminalizzazione della solidarietà sociale. Nonostante la pletora di emendamenti, frutto di una ben organizzata e accurata strategia, il quadro normativo e anche simbolico e culturale appare definito e spaventoso: centri informali chiusi, procedure accelerate, smantellamento della protezione speciale, ostacoli alla conversione dei permessi di soggiorno in permessi per attività lavorativa. In poche parole: segregare e punire. Una strategia illegale e sconsiderata, che ha chiaramente una pesantissima ricaduta sociale su persone, territori e comunità.

    Impotenza e aggressività
    Il “decreto Cutro” emendato, con le sue novazioni normative, non è infatti preciso ma piuttosto confuso e lo è forse, volutamente. Vuole, questo è chiaro, rendere non più esigibili che quei diritti che non può permettersi di negare apertamente, come (forse) vorrebbe. Per questo sembra più orientato a creare caos, paura e incertezza che a prescrivere e normare un qualsivoglia governo del fenomeno. La lettura consegna abbastanza nitido il tentativo di rendere organico un sistema di deterrenza: non puoi arrivare, se arrivi non puoi stare, se stai verrai recluso, non avrai il permesso di soggiorno e non potrai muoverti, se e quando potrai muoverti non troverai accoglienza, se la troverai avrai pochi servizi e sconterai il tempo che avrai passato ad attendere, non potrai lavorare regolarmente e renderti autonomo, se anche lavori non potrai convertire il permesso in lavoro: preparati ad essere sempre marginale e per te oltre allo sfruttamento, nessuna garanzia e nessun futuro.

    In estrema sintesi, e semplificando (ma nemmeno troppo) questo è il suo contenuto: si rivolge allo straniero e -con l’aggressività dell’impotenza (i promessi blocchi navali non sono stati in effetti realizzati)- promette sofferenza, spaventa, annichilisce il diritto ma anche la speranza. In questo senso la sua banalità non deve ingannare: è tanto più pericoloso quanto studiato frutto di una meticolosa applicazione.

    Dove possiamo colpire siccome non possiamo fermare? Dove possiamo ostacolare siccome non possiamo negare? Stupisce però che il governo abbia applicato la sua logica senza nessuna remora circa le conseguenze, in termini di sofferenza, illegalità, marginalità e quindi del prezzo di un tale impianto sulle vite individuali e sulla società tutta che questa operazione comporterà. Il messaggio sociale, culturale e simbolico è tanto più nascosto nelle pieghe di mille emendamenti quanto più è forte anche in questo senso, e suona come un monito: “Attenzione, siamo disposti a tutto”. Un monito che traduce un senso del potere sulla vita delle persone incondizionato e feroce.

    La “banalità” degli emendamenti
    In tal senso non deve nemmeno ingannare che una ipotesi così invasiva e violenta avvenga attraverso decine e decine di singoli emendamenti, che con il loro aspetto tecnico e procedurale parrebbero offrire una qualche forma di rassicurazione: “Non si può operare un tale sovvertimento attraverso emendamenti”; ossia cancellazioni e aggiunte di commi, frasi, parole. Lo strumento garantisce una operazione meno organica e meno frontale -come fu nel 2018 con i “decreti sicurezza”- e rischia di attenuare l’attenzione pubblica, di distrarla, specie i non addetti ai lavori. È piuttosto da ritenersi che anche questa sia una precisa strategia, già peraltro testata nei mesi scorsi nel processo di conversione del cosiddetto “decreto sbarchi”, in cui una serie di emendamenti che reintroducevano aspetti salienti dei “decreti sicurezza” del 2018 furono presentati in commissione Affari costituzionali dal parlamentare leghista Igor Iezzi, per poi essere dichiarati inammissibili per estraneità di materia e senza i requisiti di necessità e urgenza. Calare attraverso un’azione ordinaria contenuti che ordinari non sono, prevenire una reazione nella società civile, anticiparla sul tempo, farlo senza essere (troppo) visibili, lasciare conseguenze irreparabili.

    Deterrenza e paura reali
    Infine va osservato come il decreto legge che si avvia a essere convertito in legge dello Stato e a sfidarne l’ordinamento, rechi il nome della località dove si è consumata l’ennesima tragedia del mare: Cutro. È sintomatico e paradossale al tempo. Sintomatico perché, riferendosi al luogo di una strage sulla quale il governo ha una responsabilità per l’assenza dei soccorsi, rende manifesta, plastica, l’assenza di ogni limite alla politica di deterrenza imbracciata. In questo senso il nome suona sinistro perché riporta alla mente il mancato soccorso, i morti, lo spostamento delle bare senza interloquire con i familiari, il mancato omaggio della presidente del Consiglio alle vittime, i superstiti lasciati e abbandonati nel Cara di Sant’Anna, piantonati dalle forze dell’ordine. La stessa località è stata però anche -ed in questo senso che il decreto si intitoli Cutro appare invece paradossale- di una grande, continua e spontanea manifestazione di accoglienza dei cutresi e di tante comunità, paesi, amministrazioni della Calabria: dalla veglia delle vittime alla solidarietà ai superstiti, al blocco stradale per impedire il trasferimento coatto delle bare, alla manifestazione nazionale dell’11 marzo e a uno striscione, che, rivolto ai migranti tutti, vittime e superstiti, recitava: “La vostra speranza è la nostra speranza”. Quella speranza che il decreto vuole colpire e che i cittadini di Cutro e della Calabria hanno invece scelto per riconoscere nei migranti ciò che ci unisce. Ed è questo che il decreto, in ultima istanza, vuole intaccare.

    Carichi residuali
    Molto diverse da queste parole, sulla spiaggia di Steccato di Cutro, mentre ancora erano in corso le operazioni di recupero dei corpi delle vittime, quelle del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, che non riconosce “speranza” nei migranti ma una mancanza, precisamente di responsabilità. Lui non si rivolge direttamente ai migranti come invece faranno i cutresi, parla in prima persona, ma traccia un distinguo, morale, un solco incolmabile tra chi come lui, il ministro dice,“educato alla responsabilità” non avrebbe messo in mare, nelle mani degli scafisti i figli e chi lo ha fatto. Questa affermazione ben rappresenta a mio parere, lo spirito che informa il decreto che sopra abbiamo provato a interpretare. La strage, si intende, è colpa di chi, irresponsabile e non educato alla responsabilità, ha messo i figli in mare. La frase ha provocato, per la violenza e brutalità che esprime, forti reazioni; ma non è evidentemente un’esternazione sconsiderata. Le parole del ministro “disumanizzano” i migranti, che lo faccia a fronte dei corpi delle vittime, le rende solo più odiose, ma a ben vedere che cosa vuole trasmettere il ministro? Che non c’è società comune possibile senza “educazione”, senza il rispetto dei figli, senza responsabilità, non c’è futuro possibile “con” i rifugiati, essi non sono persone ma una categoria indistinta, non “educata” alla responsabilità, una minaccia quindi che va contenuta con ogni mezzo. Pochi mesi prima si era infatti rivolto a loro definendoli “carico residuale”. Ci siamo “noi”, categoria morale, e “loro” categoria immorale, che non hanno i medesimi attributi di umanità, che hanno la colpa della strage. Altri esponenti del governo avrebbero infatti parlato in quei giorni di mancato “rispetto di sé e della vita”. E come si può costruire una comunità con chi non ha rispetto “per sé e per la vita”, “responsabilità verso i figli” che appaiono essere i presupposti necessari per una convivenza civile?

    Privare
    Forse più queste affermazioni che singoli emendamenti riescono a restituire, perché ne sono coerente espressione, il disegno complessivo del decreto. Ma appunto vi è coerenza e continuità, le esternazioni pubbliche rompono la patina burocratica e banale del lavoro tecnico di scrittura di commi, articoli e rimandi. Tuttavia quegli emendamenti non potrebbero essere stati scritti se non avendo in mente “carichi residuali”, “non-persone” cui attribuire vigliaccamente la colpa della loro stessa morte per mancanze strutturali che li rendono definitivamente e senza appello, “altro” da noi, corpi estranei, da espellere, impossibilitati a vivere in comunità. Sironi, in un importantissimo saggio sulla tortura (Sironi, Françoise, Psychopathologie des violences collectives, Odile Jacob, 2007), scrive “privare i migranti del riconoscimento dei fattori storici e politici in cui prende corpo la migrazione, significa negare ai migranti quelle dimensioni cruciali nelle negoziazioni identitarie e nelle più ampie trasformazioni sociali che li implicheranno in qualità di nuovi cittadini”. È esattamente questo il punto. Esternazioni e decreti concordano invece su questa linea: negare i fattori storici e politici in cui la migrazione prende corpo. Per prima cosa infatti dobbiamo affermare che il decreto del 10 marzo 2023 lascia invariate due premesse: non sono possibili arrivi legali e canali sicuri e il solo modo di regolarizzarsi resta, nei fatti, l’asilo politico. Però non ci sono “veri” rifugiati e le liste dei Paesi sicuri aumentano irragionevolmente. Una scelta che nega la realtà attuale: guerre, persecuzioni, regioni non più abitabili, più di 100 milioni di rifugiati globali, il trionfo delle organizzazioni del traffico che prosperano sulla chiusura dei confini europei, i sanguinosi patti con Libia e Turchia.

    Segregare: l’assalto alla libertà dei richiedenti asilo
    Costretti a una migrazione forzatamente illegale, quindi a manifestarsi come presenza indesiderata e minacciosa dell’equilibrio sociale, economico, finanche “etnico” del Paese di approdo, il migrante è anche costretto a chiedere asilo, costituendo questa l’unica via -per poi dover sottostare a una complessa procedura burocratica di legittimazione della propria presenza e a un esito assai incerto rispetto il riconoscimento di una forma di protezione-.

    Il quadro che si sta delineando appare infatti molto peggiore anche di quello tracciato nel 2018 dai famigerati “decreti sicurezza”, perché entra in gioco oggi -ancor più violentemente- il tema della limitazione della libertà personale dei richiedenti asilo. Se, ad esempio, nel 2018 la riforma sovvertiva il sistema di accoglienza affermando la centralità dei Centri di accoglienza straordinaria (Cas), ridotti a mero parcheggio, senza servizi di integrazione e senza nemmeno il rispetto degli standard minimi europei; essi oggi rischiano di essere “superflui”, perché comunque aperti, ovvero senza limitazione della libertà personale dei richiedenti. Oggi il Governo Meloni preconizza, con la nozione vaga di “punti caldi/punti di crisi” (hotspot), centri di detenzione informale in cui condurre sia le procedure di identificazione sia l’esame, accelerato, delle domande di asilo. Non più quindi luoghi di transito ma di detenzione informale. Come osserva Gianfranco Schiavone va infatti ricordato che “l’ordinamento italiano continua a non prevedere alcun intervento dell’autorità giudiziaria sul presupposto della detenzione negli hotspot e sulla condizione della stessa”. Il governo sceglie la direzione opposta, intendendo sfruttare al massimo questa mancanza di garanzia, gli hotspot divengono da luoghi di identificazione e transito, centri informali di detenzione, utili sia all’identificazione sia all’esame, accelerato, della domanda d’asilo.

    Segregare: l’estensione indebita della frontiera
    È attraverso questa risignificazione dei vaghi e opachi “punti di crisi/punti caldi” che il governo, ignorando il dettato costituzionale sul trasferimento delle funzioni amministrative ai Comuni, si appresta a estendere indebitamente la nozione di “frontiera” sin dentro città e paesi, anche molto lontano da porti e confini terrestri e, in questo spazio sospeso e indefinito, a tracciare il solco e innalzare i muri che separeranno italiani e stranieri, presenze legali e “illegali”, dentro e fuori. Gli emendamenti al “decreto Cutro” prevedono un ampiamento delle casistiche cui applicare la procedura accelerata di esame della domanda di asilo (o procedura “di frontiera”) tale da ricomprendere nei fatti ogni casistica possibile. Il decreto prevede anche la moltiplicazione degli hotspot sul territorio nazionale. Sino ad oggi le procedure di esame accelerato, in frontiere erano limitate a pochissime fattispecie. È un cambio di paradigma: negli hotspot non solo la procedura di identificazione ma anche l’esame della domanda d’asilo, con la possibilità di estenderne -evidentemente- i tempi di permanenza. È la genesi di un nuovo sistema concentrazionario. Infatti ritorna anche, dal testo dei “decreti sicurezza”, l’impossibilità per i richiedenti asilo di accedere al sistema pubblico di accoglienza integrata e diffusa (Sai, già Sprar). Tale sistema ritorna quindi in versione Siproimi, a essere esclusivo per i soli, pochi, cui verrà riconosciuta la protezione internazionale. Tramonta l’idea di costruire la protezione e l’integrazione sin da subito, attraverso la prossimità relazionale del contatto nelle comunità e attraverso la libertà di movimento dei richiedenti asilo.

    Punire: la spietata logica dei grandi centri chiusi
    Una recente e fondamentale inchiesta di Altreconomia, condotta da Luca Rondi e Lorenzo Figoni, ha squarciato il velo sulle condizioni di vita dentro i Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr). L’articolo s’intitola significativamente “Rinchiusi e sedati: l’abuso quotidiano di psicofarmaci nei Cpr italiani”. I Cpr, pur teatro di un crescente numero di gesti autolesivi, suicidi, violenze e danneggiamento delle strutture, sono stati recentemente oggetto di uno stanziamento economico imponente (quasi 46 milioni di euro) per potenziarne -sempre seguendo la logica della paura e della deterrenza percorsa dal governo- il funzionamento e anche in questo caso, la diffusione sul territorio nazionale. Si intravede un’ipotesi: segregare il migrante sin dal suo arrivo e in caso di diniego passare direttamente da hotspot a Cpr. L’inchiesta di Altreconomia, dati alla mano, mostra l’abuso di psicofarmaci dentro le strutture, utilizzati sistematicamente per disciplinare migranti costretti all’inattività forzata, senza personale cui rivolgersi e nessuna attività da svolgere.

    In un’intervista rilasciata al giornalista Franz Baraggino e pubblicata su ilfattoquotidiano.it, il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, ha commentato: “Avere più Cpr non serve a niente, se non a dare il messaggio simbolico del ‘li teniamo chiusi qui’, nient’altro”. Lo stesso Garante ha aggiunto che “in quei posti le persone cambiano e quando ritornano nelle nostre comunità, come il più delle volte accade, sono peggiorate […] i comportamenti di insofferenza acuta sono il prodotto di uno spazio dove non sei nulla, non fai nulla e nulla avviene, salvo rimuginare sul proprio destino, che è un destino di fallimento, quello del rimpatrio”. Complessivamente nei Cpr transitano circa 10mila persone all’anno, il 2% del totale degli irregolari, e contribuiscono per il solo 50% (circa 3.000) ai complessivi 6.000 rimpatri che avvengono in media ogni anno. Senza accordi bilaterali, il rimpatrio è per molti più una minaccia che una realtà. A fronte dell’inefficacia dello strumento, a fronte dei suoi costi e della sofferenza che genera, il governo invece investe su questa forma di detenzione per le persone “espulse”, per un’irregolarità appositamente creata.

    Sin dagli anni 90 del secolo scorso la letteratura scientifica è concorde sull’individuare nei centri di detenzione amministrativa, siano strutture adibite al rimpatrio come i nostri Cpr o le strutture di confinamento e segregazione dei richiedenti asilo come gli hotspot, luoghi con alta incidenza di problemi psichiatrici psicologici, di perdita della salute organica e delle risorse psico-sociali per affrontare la vita lavorativa e sociale una volta usciti dal centro (Loutan, Louis, et al. “Impact of trauma and torture on asylum-seekers.” The European Journal of Public Health 9.2 (1999): 93-96.). Allora perché farne sistema? La domanda è chiaramente retorica.

    Punire: lo smantellamento della protezione speciale
    Largamente anticipati da un sinistro rumore di fondo che ha ricordato il precedente assalto alla protezione umanitaria (2018), un rumore di fondo sorretto dalla mistificazione che affermava essere la protezione speciale una anomalia solo italiana; gli emendamenti al “decreto Cutro” hanno infine smantellato anche tale protezione. Non potendo privarla dei riferimenti a convenzioni e norme internazionali (Cedu), il governo -altro esempio di logica deliberatamente punitiva- ha scelto di confondere le competenze per il rilascio, ostacolandone l’ottenimento, che rimane sulla carta possibile ma nei fatti arduo. Se sino a oggi il percorso di ottenimento appariva ragionevole e chiaro, ora non lo è più, precipitato nel conflitto di competenze tra questure e commissioni territoriali. Preme sottolineare che questa ennesima e antieconomica previsione colpirà in special modo coloro che per varie ragioni stanno compiendo passi decisivi per un percorso di integrazione sociale e lavorativa, cui ha dato principio nonostante gli ostacoli precedenti.

    Conclusione
    Abbiamo provato a ricostruire il messaggio culturale, simbolico e -almeno per alcune misure- le conseguenze concrete, di quanto previsto dal decreto legge del 10 marzo 2023 e dei suoi numerosissimi emendamenti che ne definiranno la conversione in legge, prevista entro i primi dieci giorni di maggio. Per quanto molti dei suoi contenuti siano di difficile applicazione ed è prevedibile un’imponente mole di controversie legali, abbiamo creduto importante analizzarne gli intenti, cercando di osservarne il disegno per comprendere quale intenzioni ed obiettivi hanno mosso il legislatore in una così radicale sfida all’ordinamento giuridico, ai diritti, a istituti sociali e conquiste culturali.

    Tra queste, certamente colpisce, a 45 anni dalla “Legge Basaglia”, il ritorno a strutture concentrazionarie per segregare un determinato gruppo sociale, oggi i migranti, privati della loro libertà per la colpa di sfidare con determinazione, disperazione o -come riconosciuto dai cutresi- speranza, il divieto imposto dall’Europa e dall’Italia a poter vivere in pace e sicurezza. Per articolare in legge questo che è un discorso politico e culturale “estremo” che nega sia ai migranti il riconoscimento delle cause in cui si è prodotta la migrazione, sia alla società italiana la propria storia e le sue conquiste democratiche e sociali (tra esse ricordiamo solo la chiusura dei manicomi, delle classi speciali), il governo investe su un decisivo salto di qualità in strumenti e pratiche di segregazione, confinamento e marginalizzazione dei migranti, sino al punto di limitare la libertà personale. Un salto di qualità atto a impedire il contatto, la solidarietà e orientato a impedire l’integrazione sociale e lavorativa, la convivenza interculturale basata sui diritti.

    Vincolato da Costituzione, trattati internazionali, norme superiori, il governo propone allora un disegno “banalmente” tecnico nella forma (gli emendamenti) quanto feroce nella sostanza. Tanto più feroce quanto più impotente a fronte dei cambiamenti epocali che stiamo collettivamente attraversando, cercando nella deterrenza e nella minaccia ai gruppi sociali più fragili, la misura della propria forza e assumendo una postura punitiva, inutile se non a produrre evitabili sofferenze individuali, tensioni sociali improduttive e costi economici e sociali per le generazioni future.

    L’iniziale citazione di Antonio Gramsci è stata trattata solo per metà, quella relativa al pessimismo dell’intelligenza. In conclusione è il tempo invece della seconda parte, l’ottimismo della volontà. C’è ragione di credere che un disegno -quello tracciato dal decreto- così povero di futuro e così meschinamente abbarbicato sulla deumanizzazione dei migranti, sia rigettato dalla società, sia reso inapplicabile nella quotidianità, nelle relazioni interpersonali e sociali, prima ancora che nelle aule dei tribunali, iniziando una grande stagione dove italiani e migranti insieme affermino uniti l’inviolabilità dei diritti di tutti e tutte e la libertà di costruire insieme il futuro che ci attende.

    https://altreconomia.it/segregare-e-punire-il-disegno-politico-brutale-dentro-il-decreto-cutro
    #décret #décret_Cutro #decreto_Cutro #Italie #migrations #asile #réfugiés #loi

    • Italy: New law curtails migrants’ rights

      For migrants in Italy getting special protection status can be life-changing. But lawmakers have now approved a law severely restricting access.

      Italy’s parliament recently greenlighted a controversial decree to crack down on irregular migration. Known as the Cutro decree — in reference to the southern town in Calabria where more than 90 people died in a shipwreck last February — the legislation severely limits a special protection status Italian authorities can grant to migrants who do not qualify for asylum.

      Italy has recorded more than 42,000 irregular arrivals since the beginning of 2023, almost four times as many as in the same period last year and the Italian government claims special protection incentivizes migrants to start dangerous trips to the country.

      “Special protection creates attractive conditions for immigration and we will eliminate it,” said Nicola Molteni of the right-wing League party, whose currently serving as the undersecretary at the Interior Ministry.

      Agriculture Minister Francesco Lollobrigida, from Prime Minister Giorgia Meloni’s far-right Brothers of Italy party, recently sparked controversy, warning against the “ethnic replacement” of Italians by migrants, a notion widely regarded as racist.

      Before the decree, people offered special protection status could live in Italy for two years, renew their residence permit and convert it into a working permit. It was granted to asylum seekers who risked being persecuted in their country of origin, those fleeing war and natural disasters, as well as those with family ties or high levels of economic integration in Italy.
      What changes with the new migration rules

      Now, all that has changed. While special protection remains available for those at risk of torture, inhumane treatment or systematic rights violations in their home nation, the new law narrows access by scrapping criteria based on family links or economic integration.

      “If a person is not at terrible risk in their home country, but in the meantime has started a family or had children in Italy, the commission [assessing residence status] will not take this into account,” explains Paolo De Stefani, a professor in international law at the University of Padova.

      People fleeing natural disasters or seeking treatment for severe medical conditions will also see their access to special protection restricted. Most importantly, however, it will not be possible for them to convert it into a work permit.

      Language courses and legal advice will also be scrapped in reception centers.

      Things will change, too, for unaccompanied minors. They are still entitled to special protection permits until they turn 18; they can extend it for one more year, but cannot convert it into a work permit.

      “This means killing the prospects of integration for people arriving in Italy at a very young age,” said De Stefani. “What type of educational path will be imagined for those with such prospects?”

      In contrast with the otherwise restrictive nature of the law, the law offers a new possibility for victims of forced marriage to apply for special protection.

      Migrants fear for their future

      While those who already benefit or who have already requested special protection will not be affected by the new legislation, many agree the climate towards migrants has become more harsh.

      Sarja Kubally, a Gambian national currently under special protection, says Italy has not been the same since a new government headed by the far right came to power.

      “I am thinking of leaving, I am happy here, but now I am afraid of staying with this situation,” he told DW.

      Although Kubally is confident he himself will get a work permit, he fears others will miss out on opportunities he benefited from.

      “Special protection really changes your life. It allows you to work, to study. You can do many things and give back,” Kubally said. “If someone needs help, you need to help them, not make it even harder for them. We should put humanity first.”

      The uncertainty for Ali, who asked not to use his real name for security reasons, is far greater. The Pakistani national, who spent four years in Greece where he maintains local authorities did not accept his asylum claim, has been living in Italy since 2021. He now has a three-year work contract and is learning Italian, but his asylum request was recently rejected. He is now appealing the decision. Should his bid be turned down again, Ali will not be able to apply for special protection under the new rules.

      “I lost four years of my life in Greece, but here in Italy I am well integrated, I have a job, I want to stay here,” Ali told DW. “Well-integrated people should be allowed to stay. I haven’t thought about [what I would do if I couldn’t access special protection]. Going back to Pakistan is unthinkable.”

      Less special protection, more precariousness

      Italy has always provided special protection, except from 2018-2020 when former Interior Minister Matteo Salvini scrapped it temporarily . Though Prime Minister Giorgia Meloni claims otherwise, Italy is not the only country which offers this type of protection. Though different terminology is used, 18 other states in Europe provide similar special protections.

      Critics warn restricting access to special protection will push more migrants into an undocumented life outside the law and rob vulnerable people of fundamental rights — especially as the move follows another decree which limits the work of nonprofit rescue ships operating in the Mediterranean, and Italy last month declaring a six-month state of emergency to curb migration flows.

      Valeria Carlini, a spokesperson for the Italian Council for Refugees, says the law will not only harm people seeking protection but also local societies, where migrants have begun building a life and contributing to the socioeconomic fabric.

      Law professor De Stefani believes the legislation ultimately undermines integration — especially for irregular migrants — and aims to put an emergency band-aid on migration flows. “People will have poorer conditions in Italy and eventually seek better protection and living standards in other European countries,” he said.

      Like many of her predecessor governments, Meloni has been demanding more solidarity and better coordination among EU countries to tackle migration flows.

      “This law might be seen as the latest maneuver to pressure Europe into seriously tackling migration issues, but it is betting with someone else’s life,” said De Stefani.

      https://www.infomigrants.net/en/post/48834/italy-new-law-curtails-migrants-rights

    • La doppia morte dei naufraghi di #Cutro

      1.

      In un documento redatto dall’associazione di magistrati Area sul “#decreto_Cutro” appena prima dell’esame della Camera dei Deputati, si legge questo interrogativo: «cosa spinge il legislatore a credere che blocchi navali o i finanziamenti di regimi autoritari possano fermare persone che hanno attraversato il deserto per fuggire a guerre, violenza insopportabile, distruzione, persecuzione, ripetute discriminazioni e che cercano protezione in quei Paesi che hanno fatto della protezione internazionale e del rispetto della dignità una regola fondamentale e immutabile della loro civiltà?» (https://www.areadg.it/comunicato/non-chiamiamolo-decreto-cutro). Nel frattempo il decreto legge è stato convertito, senza alcuna modifica da parte della Camera ove il Governo ha posto la fiducia, nella legge 5 maggio 2023 n. 50.

      Dopo la tragedia di Cutro (94 morti di cui 36 bambini, ma vi sono altri dispersi) chiunque si sarebbe aspettato che il Governo, seppure dalla sua posizione di chiusura, mettesse mano alla legislazione vigente focalizzandosi su due questioni generali irrisolte: la prima questione riguarda come riformare la normativa in materia di ingressi per lavoro in modo da aprire canali di ingresso regolare, come lo stesso Governo ha più volte annunciato di voler fare; la seconda riguarda la possibilità di introdurre procedure di ingresso protette/sicure, finora non esistenti, per consentire a una parte dei rifugiati che intendono arrivare in Italia di poterlo fare attraverso canali appunto protetti. In entrambi i casi le due diverse auspicate normative, oltre a salvare vite umane, avrebbero avuto il non secondario effetto di sottrarre alla criminalità organizzata delle quote di merce umana. Eppure la legge n. 50/2023 non è intervenuta su nessuna di queste due questioni fondamentali: né sugli ingressi per lavoro, né sugli ingressi per asilo.

      Sulla materia degli ingressi per lavoro il decreto legge n. 20/2023, poi convertito in legge, è intervenuto su due aspetti: la programmazione generale degli ingressi e la formazione all’estero. Sul primo punto la nuova disciplina prevede «la predisposizione ogni tre anni – salva la necessità di un termine più breve – del documento programmatico relativo alla politica dell’immigrazione» e «la definizione con dPCM annuale delle quote di ingresso, con possibilità di adottare ulteriori decreti in corso d’anno, sulla base dei criteri generali adottati nel documento programmatico». Ciò, peraltro, era già contemplato, con minime differenze, dalla normativa e l’unica modesta innovazione riguarda la modifica all’art. 21 del TU Immigrazione secondo cui «può essere autorizzato l’ingresso e il soggiorno per lavoro subordinato, anche a carattere stagionale, di stranieri cittadini di Paesi con i quali l’Italia ha sottoscritto intese o accordi in materia di rimpatrio». Nulla viene modificato in relazione al problema di fondo che produce da oltre vent’anni l’irregolarità in Italia, ovvero l’impossibile incontro a distanza tra offerta e domanda di lavoro che costringe i lavoratori stranieri a entrare in Italia irregolarmente, o a entrarvi regolarmente – se provenienti da paesi per i quali non è richiesto il possesso di un visto – e poi rimanere a soggiornare irregolarmente e lavorare in nero in attesa che un provvedimento di emersione o un decreto flussi, come quello emanato dal Governo il 26 gennaio 2023 per 82.705 posti di lavoro (a fronte di 240.000 domande presentate) permetta loro di regolarizzare ex post la loro posizione di soggiorno. Paradossalmente la nuova norma non prevede neppure l’abrogazione della preventiva verifica dell’indisponibilità di lavoratori italiani o stranieri già presenti in Italia prevista quale condizione per il rilascio dei nulla-osta al lavoro richiesti da datori di lavoro per l’assunzione dei persone chiamate a svolgere le prestazioni indicate nel decreto sulle quote: si genera così ancora una volta una palese contraddizione in quanto la programmazione è (o meglio dovrebbe essere) fondata sull’analisi del fabbisogno del mercato del lavoro effettuata dal Ministero del Lavoro e delle politiche sociali previo confronto con le organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori. È quindi irragionevole che l’assunzione dall’estero per la medesima mansione sia condizionata da un’ulteriore verifica da parte del centro per l’impiego della indisponibilità di altri lavoratori che siano già in Italia. La mancanza di modifiche sostanziali, coperta da modificazioni solo linguistiche, è visibile in modo evidente nell’art. 23 TU immigrazione che prevede la possibilità di realizzare attività di istruzione e di formazione professionale e civico-linguistica nei Paesi di origine finalizzata all’inserimento lavorativo mirato nei settori produttivi italiani. Si tratta anche in questo caso, di una previsione che esisteva già, solo con diversa epigrafe. L’unica modifica significativa riguarda la possibilità che il Ministero del lavoro promuova «la stipula di accordi di collaborazione e intese tecniche con soggetti pubblici e privati operanti nel campo della formazione e dei servizi per il lavoro nei Paesi terzi di interesse per la promozione di percorsi di qualificazione professionale e la selezione dei lavoratori direttamente nei Paesi di origine» (art. 23 comma 4 bis); l’ingresso dei lavoratori che hanno effettuato i corsi avverrebbe in tal caso in deroga ai limiti quantitativi previsti dalla programmazione delle quote di ingresso. Si apre così la possibilità di una selezione delle braccia da parte di grandi agenzie che decideranno di organizzare corsi di formazione per reperire la propria mano d’opera all’estero, ma non la possibilità per i lavoratori stranieri che hanno effettuato con successo dei corsi di formazione all’estero (magari nell’ambito di programmi di cooperazione allo sviluppo, del tutto esclusi) di ottenere un visto di ingresso per ricerca di lavoro in presenza dei requisiti economici, posseduti dagli stessi lavoratori o forniti da terzi, necessari a mantenersi in Italia per un primo periodo. Se così fosse stato la legge avrebbe dato avvio a una pagina nuova che non si è voluto in alcun modo aprire. Il messaggio è chiaro: nessuna riforma del sistema degli ingressi doveva essere effettuata.

      Se sul versante degli ingressi per lavoro il Governo ha finto di aumentare i canali di ingresso regolari, per ciò che riguarda gli ingressi per asilo non ha neppure finto: nulla infatti è stato proposto se non dichiarazioni di elogio all’esperienza dei corridoi umanitari, realizzati però non dal Governo ma da enti umanitari. Le persone morte nella strage di Cutro, come in molte altre tragedie, erano in larga parte stranieri che fuggivano da situazioni di persecuzione e violenze in Afghanistan, Siria, Iraq e altri paesi e che cercavano asilo in Europa. La loro partenza dalla Turchia e la scelta della rotta marittima erano legate alla necessità di evitare, almeno per i soggetti più deboli (quali donne e minori), la via terrestre, ovvero la famigerata rotta balcanica segnata da continue violenze e respingimenti, dalla Grecia fino alla Slovenia. Sotto questo profilo la strage di Cutro rappresenta una tragica sintesi dell’ecatombe in atto lungo le rotte migratorie, sia via mare che via terra. Un decreto legge che nasce quale risposta a quella strage, come detto in premessa, avrebbe dovuto affrontare il nodo di come introdurre procedure e criteri in base ai quali i cittadini stranieri con bisogno di protezione internazionale possano entrare in Italia in modo regolare e protetto, autonomamente o usufruendo di programmi pubblici. Anche su questo versante erano state avanzate diverse interessanti proposte, ma sono state tutte rigettate.

      C’è una terza questione che la legge n. 50/2023 non affronta: la materia dei soccorsi in mare considerata la tardività e inefficacia dimostrata nel caso specifico e, in particolare, la non chiarita ragione per cui, pur informate dei fatti, le autorità competenti sono intervenute agendo attraverso modalità riconducibili a un’operazione di polizia e non a quelle di un operazione di ricerca e soccorso, come richiesto dalla normativa internazionale (https://www.asgi.it/notizie/naufragio-cutro-associazioni-depositano-esposto-collettivo-in-procura). A ben guardare però la materia del soccorso in mare è già regolata da precise norme di diritto internazionale recepite dall’Italia e non c’è bisogno di alcuna nuova disciplina per evitare le tragedie come quella di Cutro, che, semmai, avvengono a causa di prassi e forzature finalizzate e eludere o indebolire gli obblighi di soccorso. Di fronte a una tragedia avvenuta in un’area geografica non presidiata dall’intervento di ONG il Governo italiano non ha potuto coprire le proprie carenze gettando la colpa sulle odiate organizzazioni umanitarie. Alla caccia di qualcosa di roboante da dare in pasto all’opinione pubblica ha scelto, dunque, di introdurre nuove disposizioni penali eccezionalmente severe nel caso di morte o lesioni come conseguenza dei delitti di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. La premier Meloni ha scenograficamente annunciato ai media «la volontà di colpire gli scafisti non solo quando li troviamo sulle barche, ma andandoli a cercare lungo tutto il globo terracqueo» (la Repubblica 10 marzo 2023) dimenticando che coloro che guidano le imbarcazioni spesso hanno poco a che fare con le organizzazioni criminali e che in ogni caso, anche quando vi sono connessi, sono gli ultimi anelli della catena (Dal mare al carcere: la criminalizzazione dei cosiddetti scafisti).

      2.

      Se non interviene né sui nodi scoperti degli ingressi regolari per lavoro, né sugli ingressi protetti, quali sono dunque le materie affrontate dal decreto legge n. 20/2023 e, poi, dalla legge di conversione n. 50/2023?

      Gli aspetti essenziali, la nuova norma interviene sono tre: a) il ridimensionamento della protezione speciale; b) la destrutturazione del sistema di accoglienza dei richiedenti asilo con smembramento del SAI (sistema di accoglienza ed integrazione), a cui – analogamente a quanto era avvenuto per lo SPRAR con la legge n. 173/2020 – viene sottratta la possibilità di accogliere i richiedenti asilo; c) l’ampliamento delle ipotesi di trattenimento dei richiedenti asilo nei CPR e soprattutto negli hotspot e una parallela estensione delle procedure di frontiera o procedure accelerate, con una generale contrazione delle garanzie procedurali in sede di esame delle domande di asilo.

      Mi limito, per ragioni di spazio, a un breve approfondimento della problematica della protezione speciale. Il ridimensionamento della terza forma di protezione prevista dall’ordinamento, la cosiddetta protezione speciale, introdotta con la legge n. 132/2018 ma novellata in senso estensivo con la legge n. 173/2020, è stato il tema che maggiormente è emerso nel dibattito pubblico. Il testo del decreto legge n. 20/2023 sembrava mirare solo a restringere l’ambito di applicazione della previgente normativa cassando il paragrafo dell’art. 19 comma 1.1 secondo cui «non sono altresì ammessi il respingimento o l’espulsione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che l’allontanamento dal territorio nazionale comporti una violazione del diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, a meno che esso sia necessario per ragioni di sicurezza nazionale, di ordine e sicurezza pubblica nonché di protezione della salute nel rispetto della Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati. Ai fini della valutazione del rischio di violazione di cui al periodo precedente, si tiene conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell’interessato, del suo effettivo inserimento sociale in Italia, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale nonché dell’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d’origine». In sede di conversione in legge al Senato è emersa una volontà della maggioranza ancor più aggressiva finalizzata a cancellare pressoché in toto questo istituto e ad eliminare la possibilità di esaminare la domanda di riconoscimento della protezione speciale attraverso il canale costituito dall’istanza alla questura e dal parere vincolante della commissione senza audizione, ovvero fuori dalla procedura di esame di una domanda di asilo. Alla fine dell’iter parlamentare alcune delle proposte più estreme sono state ritirate (pur se tutto è stato incanalato nella sola procedura di asilo) ed è rimasto l’obbligo per le Commissioni territoriali che esaminano le domande di asilo di riconoscere una protezione speciale qualora «esistano fondati motivi di ritenere che [la persona interessata] rischi di essere sottoposta a tortura o a trattamenti inumani o degradanti o qualora ricorrano gli obblighi di cui all’articolo 5, comma 6 [del TU Immigrazione]». Il nuovo articolo prevede che «il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno possono essere altresì adottati sulla base di convenzioni o accordi internazionali, resi esecutivi in Italia, quando lo straniero non soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli Stati contraenti, fatto salvo il rispetto degli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano».

      In questa situazione pochi dubbi possano esserci in relazione all’obbligo per le Commissioni territoriali di valutare la sussistenza dei requisiti per il riconoscimento della protezione speciale per rispetto di uno degli obblighi costituzionali o connessi all’ordinamento internazionale cui l’Italia è vincolata. Tra tali obblighi v’è il rispetto della vita privata e familiare sancito dall’art. 8 CEDU (Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo) come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU e da una rilevante giurisprudenza interna. Si è invece diffusa una fallace informazione secondo cui la protezione speciale è stata cancellata. In particolare si è sostenuto che è stato cancellato il riconoscimento di tale protezione per riconoscimento del diritto alla vita privata e famigliare. Persino nella relazione illustrativa del decreto legge alla Camera dei Deputati si possono leggere affermazioni quali la seguente: «l’articolo 7, modificato al Senato, elimina il divieto di respingimento ed espulsione di una persona previsto nel caso vi sia fondato motivo di ritenere che l’allontanamento dal territorio nazionale comporti una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare». In tale frase si sostiene che è legittimo espellere colui che… ha il diritto a non essere espulso. Ha dell’incredibile leggere tali corbellerie in un atto parlamentare e ciò illumina il livello di tensione politica che ha avvolto l’intera vicenda e soprattutto svela l’intenzione dell’Esecutivo: il diritto in questione non può essere cancellato, ma non deve potere essere esercitato.

      È agevole prevedere, sulla base di chiare evidenze, che il Governo farà enormi pressioni affinché le Commissioni territoriali per il riconoscimento del diritto d’asilo (che non sono per nulla indipendenti e soggette solamente alla legge e su cui si esercita una pervasiva influenza politica) restringano al massimo l’ambito di applicazione della protezione speciale rigettando il maggior numero possibile di domande anche in presenza dei presupposti per il riconoscimento. Che lo straniero denegato faccia pure ricorso alla magistratura sapendo che essa deciderà sui ricorsi dopo anni a causa della lentezza dei procedimenti, che diverranno ancor più lenti a causa dell’aumento dei contenziosi. Intanto ciò che conta è portare subito a casa il risultato di una diminuzione del numero dei riconoscimenti di protezione, anche se ciò aumenterà l’irregolarità e la precarietà di vita di migliaia di persone la cui vita è ritenuta irrilevante.

      Con il decreto legge n. 20/2023 e la conseguente legge di conversione i morti del naufragio di Cutro sono morti una seconda volta.

      https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2023/05/16/la-doppia-morte-dei-naufraghi-di-cutro
      #naufrage #mourir_en_mer #décès #Gianfranco_Schiavone #migrations #asile #réfugiés #Méditerranée #Italie

    • Naufragio di Cutro, ritardi e omissioni della Guardia di finanza. Avvisi di garanzia per tre ufficiali

      Il giallo degli audio spariti e le bugie sulla vedetta di salvataggio. Perquisizioni e sequestri di tablet e cellulari. L’ipotesi di reato: omicidio colposo. Alti tre indagati coperti da omissis. Il legale delle vittime
      “Lo Stato ha responsabilità chiare”

      Alle 23.49 del 25 febbraio il capoturno della sala operativa della Guardia costiera di Reggio Calabria era relativamente tranquillo. Da Vibo Valentia, la Guardia di finanza assicurava che una loro motovedetta, la potente “5006” era già uscita alla ricerca di quel caicco, verosimilmente carico di migranti, segnalato un paio d’ore prima da un aereo di Frontex a tutti i comandi operativi europei ed italiani a cominciare da quello della Finanza a Pratica di mare.

      (#paywall)
      https://www.repubblica.it/cronaca/2023/06/01/news/naufragio_cutro_indagati_sequestro-402763465

      #justice

    • The Crotone Cover Up

      Italy lied about their role in a shipwreck that killed 94 people – including 35 children – and the EU border agency Frontex helped cover it up

      During the early hours of February 26, 2023 a wooden pleasure boat crashed close to the shore in Cutro, Italy. On board were nearly 200 people, mostly refugees from Afghanistan. At least 94 of them died, including 35 children. Yet the overloaded boat had been spotted by Europe’s border agency Frontex six hours before the wreck, struggling in bad weather. The deaths, which took place so close to the shore, shocked Italy and Europe. But Frontex and the Italian authorities deflected blame onto each other.

      Frontex said that the boat showed “no signs of distress” and that it was up to Italy to decide whether to launch a rescue operation. Italy’s prime minister claimed that they didn’t know the boat “risked sinking” and didn’t intervene because Frontex didn’t send them an ‘emergency communication’. “Do any of you think that the Italian government could have saved the lives of 60 people, including a child of about three years whose body was just found today, and it didn’t?” Prime Minister Giorgia Meloni said shortly after the tragedy.

      A joint investigation by Lighthouse Reports and its partners reveals that both the Italian authorities and the Frontex leadership were aware that the boat was showing signs of distress when the ship was first spotted six hours before the wreck, but nevertheless decided not to intervene – and later tried to conceal how much they knew.
      METHODS

      When images of boat debris on an Italian beach were broadcast around the world, it was hard to imagine that they came from a vessel carrying 200 people. The Summer Love, a wooden boat approximately 25 metres long, was crammed with women, children and men fleeing wars, hoping for a better life. With little video footage available, we decided to make a 3D model of the vessel to better understand and explain the risks people were prepared to take. Crowded below decks, they had little chance of survival when the boat sank as their only exit was one narrow staircase.

      Over time, our reporters won the trust of some of the survivors by spending time with them in the centres they’re now living in. They shared their stories from departing Turkey to the harrowing losses they suffered in the sea. Some shared videos which revealed additional details about the shipwreck, including a tablet with navigation software which confirmed the vessel’s location and direction of travel.

      Crucially, we obtained leaked confidential Frontex mission reports which revealed that a plane operated by the border agency had reported signs of distress to both the agency and Italian authorities. Hours before the flight, operators warned about “strong winds” in the Ionian Sea. Frontex then detected the vessel by tracking multiple satellite phone calls made throughout the day by people on board. A detailed account of the pilot’s calls show that Frontex knew it was a “possible migrant vessel,” with no visible safety jackets and a “significant thermal response” from below deck. According to Frontex’s press office, this is an indication of the presence of an “unusual” number of people on board.

      Bad weather, a lack of life vests and overcrowding constitute signs of distress under Frontex’s and Italy’s own maritime rules; still the maritime authorities did not launch a search and rescue operation. After the wreck, the European border agency concealed the fact that their pilot had signalled strong winds to their control room during the surveillance flight.
      STORIES

      Assad Almulqi was a child when war broke out in Syria. His family fled their city after it was attacked with poisonous gas in 2013. This year, the 22 year-old paid 8,000 euros for a place on the boat from Turkey. His six-year-old brother Sultan was allowed to travel for free.

      He recalls the moment everything went wrong. “It was dark. The ship leaned to one side and half of it went underwater. It sank in seconds.”

      “I got scared, held my brother in my arms and told my uncle that we needed to go upstairs because something not normal was happening. The waves started hitting the windows and water entered the ship.”

      He jumped out when the water reached his knees, holding his brother tightly.

      Assad tried desperately to keep Sultan above the waves as he attempted to signal to rescuers. “We were drowning ourselves to keep his head above the water, but it wasn’t enough to save him.”

      They clung to pieces of the ship, fighting to stay afloat as people around them drowned.

      Also onboard was 23-year old Nigeena who was travelling with her husband Seyar, following their wedding just four months earlier. She clutched his hand as they fought to stay above water. They were almost ashore when a huge wave swept Seyar away. Their boat broke apart 200 metres off the coast of Italy.

      “The wreck is Italy’s fault because they knew from the start that a boat had arrived,” said Nigeena. “Usually when they see an unfamiliar ship it’s their job to check it out. But they didn’t.”

      Lawyers for some of the families of the victims are planning to take a case to the European Court of Human Rights, arguing Italy should be held responsible for the “irremediable violation of migrants’ right to life.”

      https://www.lighthousereports.com/investigation/the-crotone-cover-up

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      En italien (résumé):
      L’insabbiamento sulla strage di Steccato di Cutro

      Un’inchiesta internazionale di #Lighthouse_Reports dimostra il rimpallo delle responsabilità tra Frontex, guardia di finanza e guardia costiera italiana

      https://www.meltingpot.org/2023/06/linsabbiamento-sulla-strage-di-steccato-di-cutro

    • Omissione di soccorso: la vera storia del naufragio di Cutro

      Un’inchiesta internazionale – a cui Domani ha collaborato insieme a Lighthouse Reports, Süddeutsche Zeitung, Le Monde, El Pais e Sky News – mostra attraverso documenti inediti, fonti confidenziali, immagini satellitari, modelli 3d e decine di testimonianze cosa è accaduto quella sera e il rimpallo delle responsabilità tra le tre autorità coinvolte: Frontex, guardia di finanza e guardia costiera. Intanto l’indagine giudiziaria della procura di Crotone va avanti: il primo giugno le prime perquisizioni hanno riguardato tre ufficiali della guardia di finanza. L’obiettivo è individuare le falle nella catena di comando

      (#paywall)
      https://www.editorialedomani.it/fatti/naufragio-cutro-inchiesta-internazionale-wqa2rkss

  • La strage di #Cutro, i soccorsi mancati e lo scaricabarile tra le autorità italiane e Frontex

    La trasformazione di eventi di soccorso nel Mediterraneo in “operazioni di polizia” da parte delle autorità italiane, prassi in atto dal 2019, mostra i suoi effetti più letali. E #Frontex aveva già rilevato con le termocamere la presenza di centinaia di persone sulla nave poi naufragata il 26 febbraio. Che cosa non torna nelle ricostruzioni ufficiali

    Lo strumentale e ingiustificato cambio di classificazione e gestione degli eventi di ricerca e soccorso nel Mediterraneo in “operazioni di polizia” da parte delle autorità italiane, prassi in atto dal 2019, come abbiamo raccontato fin dall’inizio su Altreconomia, mostra con la strage di Cutro del 26 febbraio 2023 i suoi effetti più letali.

    Ed è patetico lo scaricabarile in atto in queste ore tra Guardia costiera, Guardia di Finanza, ministero dell’Interno e Agenzia Frontex dopo il naufragio. Sergio Scandura, giornalista di Radio Radicale e faro nella notte del Mediterraneo grazie al suo meticoloso lavoro di monitoraggio e inchiesta su fonti aperte, usa un’immagine efficace per descrivere la pantomima: cioè la scena del film “Le iene” di Quentin Tarantino del 1992, con i sopravvissuti della storia a puntarsi le pistole l’uno contro l’altro.

    Qui però ci sono morti veri, 66 quelli dichiarati alla sera del 28 febbraio, dopo il ritrovamento del corpo di un bambino di nemmeno 10 anni. Secondo la prefettura di Crotone sarebbero 28 le salme identificate: 25 cittadini afghani, un cittadino pachistano, un palestinese e un siriano. I salvati arrivano da Afghanistan, Pakistan, Palestina, Siria, Iran, Somalia. Inclusi 14 minori, alcuni dei quali ancora ricoverati a Crotone, altri finiti al Cara di Isola di Capo Rizzuto.

    “Credo che al primo avvistamento abbia seguito un modo di procedere dell’imbarcazione che non ha segnalato il distress e quindi poi si è arenata in una secca all’arrivo: non ha chiesto aiuto da quelle che sono le prime ricostruzioni”, ha detto il 28 febbraio il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, su Rai1, ospite di Bruno Vespa, dopo aver incolpato i morti per esser partiti con il brutto tempo e non aver fatto come John Fitzgerald Kennedy (“Non chiedete cosa può fare il vostro Paese per voi, chiedete cosa potete fare voi per il vostro Paese”).

    Il primo avvistamento della barca partita il 22 febbraio da Smirne, in Turchia, sarebbe stato in teoria quello dell’Agenzia Frontex, nella tarda serata del 25 febbraio, poche ore prima del naufragio e della strage. L’aereo di pattugliamento Eagle1 dell’Agenzia impiegato nell’ambito dell’operazione Themis avrebbe infatti avvistato l’imbarcazione a 40 miglia dalle coste crotonesi. Scandura ha pubblicato su Twitter la traiettoria disegnata dal velivolo.

    “L’unità risultava navigare regolarmente, a sei nodi e in buone condizioni di galleggiabilità, con solo una persona visibile sulla coperta della nave”, sostiene la Guardia costiera in un comunicato diramato nel pomeriggio del 28 febbraio e che avrebbe dovuto far chiarezza. In realtà fa acqua da tutte le parti e omette un “particolare” che poche ore dopo la stessa Frontex ci ha tenuto a precisare (a proposito di scaricabarile).

    Su quella nave le persone a bordo erano almeno 200 e attraverso le sue “telecamere termiche” installate a bordo, il velivolo di pattugliamento dell’Agenzia europea aveva anche rilevato “una risposta termica significativa dai portelli aperti a prua e altri segni che indicavano la presenza di persone sotto il ponte”, ha risposto Frontex ad Altreconomia. Nonostante questa circostanza (altro che una persona visibile), che pure a quanto riferisce Frontex avrebbe “insospettito” i suoi “esperti”, l’Agenzia stessa si è ben guardata dall’emettere un mayday per avvisare tutte le imbarcazioni vicine del possibile pericolo, cosa che avrebbe potuto fare in base al diritto internazionale. Trincerandosi dietro alla tesi per la quale “l’imbarcazione navigava da sola e non c’erano segni di pericolo”, Frontex si è dunque limitata a “informare immediatamente dell’avvistamento il Centro di coordinamento internazionale dell’operazione Themis e le altre autorità italiane competenti, fornendo la posizione dell’imbarcazione, la rotta e la velocità”. E “per conoscenza” anche la centrale operativa della Guardia costiera di Roma. “Il nostro aereo ha continuato a monitorare l’area fino a quando è dovuto rientrare alla base per mancanza di carburante”, ha aggiunto Frontex.

    In quel momento però è successo qualcosa che si gioca a far finta di non cogliere. La Guardia costiera scrive che “a seguito di tale segnalazione, la Guardia di Finanza comunicava l’avvenuta attivazione del proprio dispositivo, già operante in mare, per intercettare l’imbarcazione”. Da chi è arrivato l’input, anche se non lo si vuole dire, pare palese, e cioè da quello che sempre la Guardia costiera chiama il “punto di contatto nazionale preposto per l’attività di law enforcement“. Si tratterebbe del Centro nazionale di coordinamento (Ncc) – Sala Eurosur, insediato presso il ministero dell’Interno, punto nevralgico della strategia che negli anni ha beneficiato tra le altre cose di ingenti finanziamenti europei per il suo ammodernamento tecnologico (Fondo sicurezza interna).

    L’operazione viene classificata perciò come “operazione di polizia” e non come evento Sar ed è attivato il dispositivo che porta due mezzi navali della Guardia di Finanza a tentare, per riprendere il primo comunicato stampa del Reparto operativo aeronavale di Vibo Valentia delle 11 di mattina circa del 26 febbraio, “l’intercetto dell’imbarcazione”. Si tratta della vedetta V.5006 e del pattugliatore veloce PV6 Barbarisi. Le due imbarcazioni tentano di “raggiungere il target“, che all’ora non ci si vergognava di associare al “traffico di migranti”, ma le condizioni del mare “proibitive” le avrebbero costrette a far “rientro agli ormeggi di base”.

    In poche ore dunque si passa dalle “buone condizioni di galleggiabilità” riferite dalla Guardia costiera e dal “non c’erano segni di pericolo” di Frontex al mare grosso. “Mare forza 4, con onde alte fino a 2,5 metri”, ci ha scritto Frontex indignata contro quei “trafficanti di persone senza scrupoli che hanno stipato le persone a bordo in condizioni meteorologiche avverse”. Condizioni meteo che mutano a seconda degli attori coinvolti. Ipocrisia forza 4.

    Il resto è tristemente noto. La Guardia costiera, fino ad allora fuori dall’operazione coordinata dall’Ncc del Viminale, avrebbe ricevuto solo alle 4.30 circa del 26 febbraio “alcune segnalazioni telefoniche da parte di soggetti presenti a terra relative ad un’imbarcazione in pericolo a pochi metri dalla costa”. “I carabinieri, precedentemente allertati dalla Guardia di Finanza, giunti in zona, riportavano alla Guardia costiera l’avvenuto naufragio”. A cose fatte.

    Sarebbe stata questa secondo la Guardia costiera “la prima informazione di emergenza pervenuta riguardante l’imbarcazione avvistata dal velivolo Frontex”. Solo dopo queste “segnalazioni ricevute” sarebbe stato allora immediatamente attivato il “dispositivo Sar, sotto il coordinamento della Guardia costiera di Reggio Calabria, con l’invio di mezzi navali e aerei, uomini e mezzi terrestri, nella zona indicata”.

    Ed è qui che la Guardia costiera si ingarbuglia fino a tradirsi. Perché quella dei carabinieri a persone ormai in mare non può essere considerata la “prima informazione di emergenza”. Perché fin dalla notte del 25 febbraio la Guardia costiera sapeva, informata per conoscenza da Frontex, che su quella nave c’erano almeno 200 persone stipate su un mezzo inadatto a trasportarle in sicurezza, diretta peraltro nella bocca di condizioni meteomarine “proibitive”, “particolarmente avverse” per citare il comunicato dello stesso Comando generale del Corpo delle Capitanerie di Porto del 26 febbraio (ore 11.41). È un tradimento perché “Ogni imbarcazione sovraffollata è un caso Sar (Ricerca e soccorso) di per sé e una possibile situazione di pericolo anche in assenza di un segnale di pericolo in base al principio di precauzione”. Sono parole della stessa Guardia costiera del 2017. Naufragate.

    Mentre resta ambiguo l’epilogo del “dispaccio generico di allerta distress, senza coordinate”, diramato alle navi transitanti in area Mare Ionio via “InmarSAT C” dal Centro di coordinamento di ricerca e soccorso di Roma nella prima mattinata del 25 febbraio, 24 ore prima della strage, recuperato e pubblicato ancora da Scandura. Al 28 febbraio non risultano sbarchi legati a eventi provenienti dal Mar Ionio.

    https://altreconomia.it/la-strage-di-cutro-i-soccorsi-mancati-e-lo-scaricabarile-tra-le-autorit
    #naufrage #décès #morts #morts_aux_frontières #Méditerranée #Calabre #26_février_2023 #mourir_en_mer #Themis #opération_Thermis #Mar_Ionio #Mer_Ionienne

    • Italie : après le naufrage de migrants, les autorités italiennes se défendent de toute responsabilité

      Alors que le bilan du naufrage de dimanche est désormais d’au moins 67 morts, le gouvernement italien continue de se défendre de toute responsabilité dans le drame. Le ministre italien de l’Intérieur, #Matteo_Piantedosi, a suscité un tollé en pointant la responsabilité des migrants embarquant leurs familles dans de périlleux voyages en mer.

      Trois jours après le naufrage qui a coûté la vie à plusieurs dizaines de migrants dimanche, au large de la Calabre dans le sud de l’Italie, le bilan continue de s’alourdir. Les autorités italiennes ont annoncé, mercredi 1er mars, qu’il grimpait désormais à 67 morts, après la découverte des cadavres de deux enfants.

      La plupart des personnes décédées dans le naufrage venaient d’Afghanistan. D’autres étaient originaires du Pakistan, d’Iran, de Somalie et de Syrie, selon les services de secours.

      Le drame se double désormais d’une controverse sur le terrain politique : les garde-côtes et la police sont accusés de n’avoir pas fait tout le nécessaire pour prévenir le naufrage, alors que la présence du navire au large de la Calabre avait bien été signalée.

      En réponse à ces critiques, les autorités ont déclaré que le mauvais temps en mer avait contraint les patrouilleurs de la garde-côtes à rebrousser chemin.

      Toutes les procédures ont été correctement appliquées, a déclaré le commandant de l’autorité portuaire de Crotone, Vittorio Aloi. « Je suis humainement éprouvé par cette tragédie mais sur un plan professionnel, je peux vous assurer que je suis serein », a-t-il déclaré à la presse avant de pénétrer dans le gymnase de Crotone dans lequel sont entreposés les corps des victimes.

      Ligne dure du gouvernement

      Le gouvernement italien, dirigé par l’extrême droite, affiche une ligne dure sur l’immigration et a adopté des décrets restreignant l’action des organisations caritatives pour secourir les migrants en Méditerranée.

      Le ministre de l’Intérieur, Matteo Piantedosi, a suscité un tollé après le naufrage, en pointant la responsabilité des migrants embarquant leurs familles dans de périlleux voyages en mer. De son côté, la cheffe du gouvernement, Giorgia Meloni, a fait part de sa « profonde douleur » mais a également jugé, dimanche, qu’il était « criminel de mettre en mer une embarcation de 20 mètres à peine avec 200 personnes à bord et une mauvaise prévision météo ».

      Plusieurs centaines de milliers de demandeurs d’asile fuyant la guerre ou la pauvreté sont arrivés en Italie par bateau au cours de la dernière décennie.

      D’après le projet « Migrants Disparus » de l’Organisation internationale pour les migrations, 20 333 personnes ont été retrouvées mortes ou ont été portées disparues depuis 2014 en Méditerranée centrale, réputée comme l’une des routes maritimes les plus dangereuses au monde, dont 1 417 en 2022.

      https://www.infomigrants.net/fr/post/47178/italie--apres-le-naufrage-de-migrants-les-autorites-italiennes-se-defe
      #Piantedosi

    • Drame de #Crotone : la réponse tardive et inadaptée des secours mise en cause

      Trois jours après le drame, le bilan du naufrage au sud de l’Italie continue de s’alourdir, alors que la question du retard des secours fait de plus en plus polémique.

      Les cercueils sont alignés dans un vieux gymnase de Crotone. Mercredi matin, on en dénombrait déjà soixante-six dont quelques-uns, plus petits, de couleur blanche, pour les corps d’enfants. Sur l’un d’eux est posé un carton indiquant KR46M0. Comprendre « Crotone, 46e cadavre, sexe : masculin, âge : zéro ». Non loin de là, sur la plage de Steccato di Cutro, les secouristes tentent encore de retrouver des corps après le naufrage qui, dimanche à l’aube, a englouti des dizaines de vies (sans doute plus de cent) à une centaine de mètres seulement de la rive. Mercredi après-midi, un soixante-septième corps, celui d’une enfant, a été rejeté par la mer sur le sable. On ne dénombre que 79 survivants.

      Entre la morgue et l’hôpital, des parents déjà installés en Europe des migrants disparus circulent en quête de nouvelles de leurs proches. L’un d’eux, Misan, un trentenaire afghan accouru depuis Amsterdam, a reconnu mardi le cadavre de son neveu Hadi, douze ans, qui selon le Corriere della Sera, avait entrepris seul le voyage : « Hadi n’avait plus personne. Ses parents sont morts depuis longtemps. C’est pour cela que j’avais décidé qu’il vienne me rejoindre ». Comme Hadi, la plupart des passagers du navire surchargé venaient d’Afghanistan mais aussi d’Irak, d’Iran, du Pakistan, des Territoires palestiniens et de Syrie. Ils étaient partis le 23 février d’Izmir, en Turquie, sur cette embarcation de bois.

      Trop tard

      Trois passeurs présumés, deux Pakistanais et un Turc, soupçonnés d’avoir fait payer leur passage entre 5 000 et 8 000 euros par personne, ont été interpellés par les forces de l’ordre italiennes. Mais la polémique enfle à propos de la responsabilité du naufrage. Les autorités transalpines sont en effet soupçonnées de ne pas avoir tout mis en œuvre pour empêcher la tragédie. « Les hommes, les femmes, les enfants de Cutro pouvaient-ils être sauvés ? La réponse est sur le bout des lèvres, imprononçable. Nous sommes pour le moins tout proche de la non-assistance à personne en danger », a attaqué mercredi matin le quotidien La Stampa. Le journal progressiste La Repubblica titrait lui « Personne n’a voulu les sauver. » La séquence du naufrage est en effet accablante.

      Dès le samedi matin à l’aube, soit vingt-quatre heures avant la tragédie, le centre de coordination des secours maritimes lance une alerte générique à propos d’une embarcation se dirigeant vers les côtes italiennes. Le soir à 22h30, un avion de patrouille de Frontex, l’agence européenne de surveillance des frontières, repère un bateau « en forte surcharge de passagers » et alerte les autorités. « Il n’y avait pas de signe de détresse », a précisé l’agence dans un communiqué, ajoutant que l’avion, à court de carburant, avait dû quitter la zone. Deux heures plus tard, soit dimanche à minuit trente, deux vedettes de la brigade financière – généralement employée pour lutter contre les trafics plus que pour le secours en mer – appareillent à la recherche de l’embarcation sur laquelle se trouvent les migrants.

      Mais la mer est agitée, le vent proche de force 4. Face à la houle, les deux navires préfèrent rentrer au bout de trente minutes dans leurs ports respectifs de Crotone et Tarente. A 4 heures du matin, le centre de brigade financière reçoit par téléphone un appel au secours, dans un anglais approximatif, sans doute d’un passager. Les carabiniers sont alors mobilisés. Mais apparemment trop tard. A 5h30, un pêcheur, Antonio Conbariati, reçoit un appel d’un de ses amis garde-côtes : « Va voir sur la plage s’il s’est passé quelque chose. Nous savons qu’un navire a subi une avarie », lui dit-il. « J’ai couru vers la plage et vu des cadavres entre les vagues. Pas le temps de les prendre que le ressac les ramenait au large », a raconté le marin aux médias italiens. « J’ai pris une enfant de six ou sept ans qui respirait encore, mais elle est morte quelques minutes plus tard sur la plage. » Rejoint par un ami pêcheur, les deux hommes tentent de sauver quelques vies. « La barque ne s’était pas encore cassée en deux, mais il y avait des corps partout, des enfants, des jeunes, des femmes et nous qui, dans la pénombre, essayions de les attraper. […] Une quinzaine de minutes plus tard, les secours sont arrivés mais le pire était déjà advenu. »

      « Pourquoi ne pas être intervenu ? »

      Frontex n’a-t-elle pas correctement lancé l’alarme ? Les autorités italiennes ont-elles sous-estimé la gravité de la situation ? Et surtout pourquoi la brigade financière est-elle intervenue, avec des embarcations ne pouvant affronter une mer houleuse, plutôt que les gardes-côtes qui disposent de navires supportant des vents de force 8 ? « Personne ne nous a alertés », a indiqué le commandant de la capitainerie du port de Crotone. La polémique rappelle celle qui avait suivi le naufrage dans la Manche d’une embarcation de migrants. A proximité de la frontière maritime entre la France et l’Angleterre, 27 personnes avaient trouvé la mort sans recevoir les secours qu’elles appelaient.

      L’opposition au gouvernement d’extrême droite de Giorgia Meloni exige désormais des réponses, alors que depuis son entrée en fonction, l’exécutif mène la guerre contre les ONG qui sauvent en mer les migrants. La cheffe du gouvernement a exprimé « sa douleur profonde », invitant à ne pas « instrumentaliser les morts » et a rejeté toute la responsabilité sur les passeurs. Quant à son ministre de l’Intérieur Matteo Piantedosi, il s’est retranché derrière les informations de Frontex qui, selon lui, « n’avait pas signalé une situation de danger ou de stress à bord, en indiquant la présence d’une seule personne visible et d’autres dans la cale et une bonne flottabilité de l’embarcation. Puis, il y a eu une détérioration de la météo ».

      Quoi qu’il en soit, pour le gouvernement Meloni, la solution reste de « bloquer les départs ». Mais la nouvelle secrétaire du Parti démocrate, Elly Schlein, demande des explications, en particulier au ministre des Transports, ayant la tutelle des gardes-côtes : le leader de la Ligue d’extrême droite Matteo Salvini. Elle demande en outre la démission du ministre de l’intérieur Piantedosi pour ses propos au lendemain du drame. Celui-ci avait en partie rejeté la faute sur les migrants eux-mêmes, déclarant : « Le désespoir ne peut jamais justifier des conditions de voyage qui mettent en danger la vie des enfants. »

      https://www.liberation.fr/international/europe/drame-de-crotone-la-reponse-tardive-et-inadaptee-des-secours-mise-en-cause-20230301_DF4N73HLKBECJJF2MYG3424CWI/?redirected=1

    • Children among 59 people killed in boat wreck off Italy’s coast

      Boat believed to be bringing refugees from Afghanistan, Iran and Pakistan struck rocks off coast of Calabria

      Fifty-nine people, including a newborn baby and other children, have died after a wooden boat believed to be carrying refugees wrecked against rocks off the coast of Italy’s Calabria region.

      Many of the bodies were reported to have washed up on a tourist beach near Steccato di Cutro, while others were found at sea.

      According to survivors, there were about 140 to 150 people onboard the boat before it crashed into the rocks. Eighty-one people survived, with 20 of them taken to hospital, Manuela Curra, a provincial government official, told Reuters.

      A Turkish national has been detained on suspicion of human trafficking, according to the Ansa news agency. The vessel is believed to have left Turkey four days ago with people from Afghanistan, Iran and Pakistan onboard.

      The bodies of the victims were being transported to a sports hall in nearby Crotone on Sunday afternoon. Ansa reported that 20 children, including twins and a newborn baby, were among those who died.

      Antonio Ceraso, the mayor of Cutro, told reporters: “It is something one would never want to see. The sea continues to return bodies. Among the victims are women and children.”

      The wreck of the boat was reportedly seen by fishers early on Sunday. “You can see the remains of the boat along 200-300 metres of coast,” Ceraso added. “In the past there have been landings but never such a tragedy.”

      Rai News reported that the boat “snapped in two”, citing sources as saying that those onboard “didn’t have time to ask for help”.

      The Italian coastguard, firefighters, police and Red Cross rescue workers attended the scene.

      As rescuers continued their search, Filippo Grandi, the UN high commissioner for refugees, called for European governments to “stop arguing” and “agree on just, effective, shared measures to avoid more tragedies”.

      “Another terrible shipwreck in the Mediterranean off the Italian coast,” he tweeted. “Dozens of people have died, many children. We mourn them and stand in solidarity with the survivors.”

      The Italian president, Sergio Mattarella, said the “umpteenth tragedy in the Mediterranean shouldn’t leave anyone indifferent”, while urging the EU to “finally take concrete responsibility for governing the phenomenon of migration in order to rescue it from human traffickers”.

      The European Commission president, Ursula von der Leyen, said that “we must redouble our efforts” on the migration pact and “plan of action” on the central Mediterranean.

      “Member states must step forward and find a solution. Now,” she wrote on Twitter. “The EU needs common and up-to-date rules that will allow us to face the challenges of migration.”

      Italy is one of the main landing points for people trying to enter Europe by sea. The so-called central Mediterranean route is known as one of the world’s most dangerous.

      More than 100,000 refugees arrived in Italy by boat in 2022. The rightwing government of the prime minister, Giorgia Meloni, which came to power in October, imposed tough measures against sea rescue charities, including fining them up to €50,000 (£44,000) if they flout a requirement to request a port and sail to it immediately after undertaking one rescue instead of remaining at sea to rescue people from other boats in difficulty.

      Rescues in recent months have resulted in ships being granted ports in central and northern Italy, forcing them to make longer journeys and therefore reducing their time at sea saving lives. Charities had warned that the measure would lead to thousands of deaths.

      In a statement, Meloni expressed her “deep sorrow” for the lives cut short by “human traffickers” while repeating her government’s commitment to “preventing departures and along with them the tragedies that unfold”.

      “It is criminal to launch a boat of just 20 metres long with as many as 200 people onboard in adverse weather forecasts,” she added.

      “It is inhumane to exchange the lives of men, women and children for the price of a ‘ticket’ paid by them on the false perspective of a safe journey.”

      Meloni said her government would demand “maximum collaboration” with the countries of departure and origin.

      Matteo Piantedosi, Italy’s interior minister, said the shipwreck in Calabria was a “huge tragedy” that “grieves me deeply”, while adding that it was “essential to continue with every possible initiative to prevent departures [of migrants]”.

      Piantedosi told Il Giornale on Thursday that the government measures, including agreements with Libya and Tunisia, had “averted the arrival” of almost 21,000 people.

      According to the International Organization for Migration’s Missing Migrants project, 20,333 people have died or gone missing in the central Mediterranean since 2014.

      https://www.theguardian.com/world/2023/feb/26/dozens-of-bodies-believed-to-be-refugees-found-on-beach-in-southern-ita

    • Naufrage de Crotone : l’Italie n’a pas jugé « urgents » les messages d’alerte de Frontex

      L’Italie n’a pas considéré comme « urgents » les messages d’alerte lancés par Frontex au sujet d’un bateau avec à son bord une centaine de migrants, selon la Première ministre italienne Giorgia Meloni.

      L’agence européenne de garde-frontières et de garde-côtes aurait signalé aux autorités italiennes qu’un bateau menaçait de couler, incapable de faire face à un vent de force 4, a confié une source de Frontex à EURACTIV.

      « Aucune communication d’urgence de Frontex n’est parvenue à nos autorités. Nous n’avons pas été avertis que ce bateau risquait de couler », a déclaré Mme Meloni, qui faisait sa première déclaration depuis la tragédie.

      Parmi les passagers du bateau, qui n’a jamais atteint les côtes, figuraient principalement des familles originaires d’Afghanistan et de Syrie. Le nombre exact de personnes à bord n’est pas encore connu. Le bateau de 20 mètres de long, qui avait à son bord 200 personnes environ, arrivait de Turquie. Environ 80 personnes ont survécu et au moins 68 sont décédées.
      Intempéries

      Selon les informations fournies par Frontex à EURACTIV, l’agence européenne a communiqué certains éléments concernant l’interception du bateau qui révèlent une possible détresse en mer.

      Certains éléments ont par exemple montré que le bateau transportait potentiellement un nombre élevé de personnes avec une mer agitée de vagues pouvant atteindre 2,50 mètres — soit un niveau d’état de la mer de 4 sur 7.

      « Nos experts ont repéré certains signes indiquant que le bateau était susceptible de transporter un grand nombre de personnes. Par exemple, la caméra thermique à bord de l’avion a détecté une réponse significative », a expliqué Frontex. L’agence a également confirmé à EURACTIV que les autorités italiennes avaient accès à ces données thermiques.

      EURACTIV a demandé à Frontex si elle avait communiqué un signal de détresse du navire, mais l’agence de l’UE a répondu que « en ce qui concerne la classification de l’événement en tant qu’opération de recherche et sauvetage (SAR), conformément au droit international, cela relève de la responsabilité des autorités nationales ».

      L’Italie a mobilisé deux patrouilleurs de la Garde des finances (Guardia di Finanza, GDF), engageant une opération de police, dite de « maintien de l’ordre ». Toutefois, en raison des conditions météorologiques et de l’état de la mer, les bateaux ont dû rentrer au port, comme indiqué par la GDF dans un communiqué de presse lundi (27 février).

      La GDF n’est pas habilitée et équipée pour procéder à des opérations SAR (recherche et sauvetage), cette compétence relevant des garde-côtes italiens.

      Aucune opération de SAR n’a été lancée au moment de la communication de Frontex.
      Le silence de l’Italie sur les images thermiques

      La GDF et les garde-côtes italiens n’ont pas mentionné les indices thermiques dans leurs communiqués de presse suivant la tragédie.

      La GDF a évoqué l’observation d’un bateau par Frontex « prétendument impliqué dans un trafic de migrants, à environ 40 miles de la côte de Crotone ».

      Les garde-côtes italiens ont déclaré mardi (28 février) que le bateau « semblait naviguer de manière régulière, à 6 nœuds et dans de bonnes conditions de flottabilité, avec une seule personne visible sur le pont du navire ».

      EURACTIV a pris contact avec les garde-côtes italiens à plusieurs reprises depuis mardi dernier (28 février) — leur demandant s’ils avaient eu accès aux images des caméras thermiques — mais n’a pas reçu de réponse.

      Aux mêmes questions, la Garde des Finances italienne a déclaré à EURACTIV qu’« à ce stade, [elle] ne ferait aucune déclaration concernant les événements qui se sont produits à Crotone ».

      https://www.euractiv.fr/section/migrations/news/naufrage-de-crotone-litalie-na-pas-juge-urgents-les-messages-dalerte-de-fro

    • Cutro. I fiori del mare contro lo Stato di decomposizione

      Da loro apprenderemo a sopravvivere e a lottare

      Le circa tre settimane che seguono il naufragio di Steccato di Cutro sono state e continuano ad essere costellate da diversi falsi allarmi e notizie fittizie e frammentarie.

      La guardia costiera italiana ha messo in moto una macchina – per quanto estremamente operativa – non sufficiente al recupero dei corpi che con molta probabilità ancora giacciono sul fondo di quei 150 metri d’acqua che separano la spiaggia dal relitto dell’imbarcazione inabissata.

      Si cerca senza sosta dal cielo e da terra ma in profondità, ancora nessun sommozzatore ha ottenuto il consenso per attivare le complesse operazioni di rimozione del barcone e degli almeno 30 corpi che potrebbe trattenere.

      Il mare li sta restituendo autonomamente, poco per volta, con estrema difficoltà, in avanzatissimo stato di decomposizione.

      L’ultimo, quello di un uomo recuperato grazie ad un’operazione estremamente complessa, le cui probabilità di riuscita si riducono drasticamente ogni giorno che passa.

      Ci aggiorna sulle operazioni la stessa equipe operativa – tra polizia scientifica, organizzazioni del terzo settore, giornalisti – che senza sosta incrocia i pochi dati in possesso per poter risalire all’identità delle salme recuperate.

      E’ soprattutto per questo motivo che come Mem.Med abbiamo enfatizzato sin da subito sull’urgenza e la necessità immediata di ottenere da parte della procura di Crotone l’autorizzazione per prelevare il campione di DNA dei familiari ancora in loco, fondamentale a restituire un nome e un volto alle persone non più identificabili.

      Non si tratta ormai solo di ricostruire generalità biografiche e dettagli fisici: segni particolari sul corpo potrebbero non bastare all’esame autoptico per cui solo il sesso, l’abbigliamento e il confronto del materiale genetico dei familiari può garantirlo.

      In queste infinite settimane, in cui il tempo si è fermato per morti e vivi, abbiamo monitorato con attenzione ogni fase di ricerca, recupero e identificazione delle vittime restituite dal mare. I familiari e gli amici accorsi a Crotone hanno sospeso la propria vita non solo per quanto accaduto ai cari, ma anche perché provati e provocati da attese indefinite sulla loro sorte, privati di risposte a domande lecite circa rimpatrio delle salme, dalle ricerche in mare e il ricongiungimento con le persone sopravvissute, tuttora reiterate tra oblio e dimenticanze.

      Le famiglie e gli amici giunti in Italia per ritrovare le persone che attendevano da questo lato del mare, stanno lasciando la Calabria ancora col dubbio che quei corpi possano essere abbandonati in mare. Qualcuna non ha avuto la possibilità di partire. Ci scrivono ininterrottamente dal Pakistan, dall’Iran, dalla Palestina, dalla Germania per avere aggiornamenti costanti, per avere risposta sui loro figli e figlie, fratelli e sorelle che lo Stato trattiene da settimane.

      Shahid ha riconosciuto suo fratello attraverso una video chiamata, proprio come la famiglia tunisina di Siwar che, partita per raggiungere l’amore, ha trovato la morte.

      Shahid non ha ancora comunicato a nessuno della famiglia che il fratello non è in vita, ma rinchiuso in un campo tra i sopravvissuti, come aveva voluto credere dai primi giorni dal naufragio.

      È suo il primo messaggio che leggo al risveglio, perché fiducioso del fatto che potremmo velocizzare le procedure ed alleggerire quel peso che porta dentro di sé per non gettarlo sulla madre.

      I giorni precedenti al rinvenimento, era stato aggirato da chi lo ricattava per soldi, minacciato di non rivedere più suo fratello “sequestrato“, se non avesse pagato la somma richiesta.

      Senza un corpo che affermi la verità sulle sorti dei propri familiari, le persone che non possono raggiungere l’Italia cercano di darsi una speranza, anche credendo alla peggiore delle ipotesi, fuorché alla sparizione.

      Ed ora che lo ha ritrovato, l’ennesima violenza lo separa dalla salma del fratello, nell’attesa senza tempo che rientri in Pakistan.

      L’ultima segnalazione è quella di un ragazzino di 17 anni. Voi ve li ricordate i vostri 17 anni, fremere di entusiasmo man mano che si avvicinavano ai 18?

      Atiqullah non potrà mai raggiungerli. Aveva modificato il suo passaporto affinché potesse partire da maggiorenne per Dubai dove la sua famiglia avrebbe voluto che lavorasse.

      Ma Atiqullah fuggiva anche da questo, da una vita sacrificata per viverla in maniera più dignitosa.

      La sorella ci ha fornito ogni particolare utile all’eventuale riconoscimento, ne descrive ogni centimetro del corpo affinché, una volta recuperato, possa essere riconosciuto dalle cicatrici sui piedi.

      Quei piedi instancabili che solo le persone migranti sanno valorizzare, perché indispensabili a proseguire il cammino, la rotta verso la libertà. Ma il mare tradisce, ed è probabilmente già tardi perchè possa essere riconosciuto dai suoi piedi.

      Nell’ininterrotta impresa per la verità e la giustizia che perseguiamo, un modello efficace è impegnato per sopperire alla gravissima negligenza di uno Stato di decomposizione politica che ancora oggi oltraggia il rispetto e la dignità delle persone disperse.

      Dall’incontro con i familiari a palazzo Chigi in cui il Presidente Meloni si è concessa il privilegio di domandare – a chi quel mare lo attraversa perchè altrove rischierebbe la sua vita – se conoscessero le avversità a cui andavano incontro, fino alle risposte belle e fatte nel question time che i ministri si sono limitati a offrire ai parlamentari sull’ennesimo, non ultimo, naufragio nel Mar mediterraneo che conta la vita di ulteriori 30 persone.

      Mentre alla Camera i ministri impegnano con imbarazzo il tempo ad eludere le responsabilità nonché la capacità di soccorrere in mare – e lo abbiamo visto a Crotone con il salvataggio delle oltre 1.000 persone scortate dalla Guardia costiera – si ribadisce l’attacco inconcludente e infondato alla “mafia degli scafisti”.

      Ma è troppo facile puntare il dito a dei giovani ribelli, a quel compagno di viaggio che nelle aule di tribunale è testimone come gli altri sopravvissuti di questo delitto.

      Forse i ministri italiani dimenticano che le zone SAR non corrispondono a una competenza sovrana ma a un’indicazione operativa. Laddove le autorità libiche, maltesi o più prossime ad un’imbarcazione non sopraggiungano per il soccorso in mare, la responsabilità è, e deve essere, delle autorità italiane e di tutte coloro che possono intervenire. La domanda, dunque, non è se pensiamo che lo stato non abbia intenzionalmente salvato le vite, come ha ribaltato ai giornalisti durante il CDM tenuto a Cutro, perché lo abbiamo già affermato. La vera questione da porre, è se davvero è stato fatto e si continua a fare tutto il possibile per salvare le vite in quel mare e in qualsiasi punto del Mediterraneo.

      E’ difficile credere alla parole di chi non molto tempo fa, affermava di voler affondare le navi delle ONG e installare blocchi navali contro le persone migranti.

      La più assidua accusa rivolta alle antropologhe fa spesso enfasi sul simbolismo utilizzato nell’interpretazione della realtà. Ebbene, malgrado gli elementi simbolici non sempre siano il grado massimo di espressione utile a restituire la lettura più vicina al contenuto semantico e concreto dell’agire umano, si predispone ancora una volta come uno degli strumenti più immediati e verosimili per la descrizione di uno stato dell’arte che anche questa volta vede nascere fiori da uno Stato in putrefazione.

      Linguaggio, immagini e suoni ribaltati di un significante insignificante, che non ha ancora capito qual’è la sua più antica etimologia: la vita.

      Abbiamo teso le braccia alla morte e ne abbiamo tirato fuori memoria. Ci siamo immerse con corpo e spirito nel fondo del dolore di chi resta e racconta chi è andatə via. Ci siamo ritrovate a raccogliere frammenti di vita – biologica e non – dalle mani dei familiari e dei sopravvissuti nelle auspicabili ipotesi che si potesse restituire l’identità alle persone ancora in mare. Perché sappiamo, come scrive Erri De Luca, che quelle acque hanno volti, i volti di Iona e della ribellione.

      Ho letto da qualche parte che non bisogna mai fidarsi dei libri, e forse è un consiglio che terrò presente più spesso quando, anziché leggere di cosa gli altri hanno da dire di terzi, sentirò questi ultimi parlare per sé, di sé, del mondo che abitiamo.

      Potrebbero chiedermi, quindi, chi parlerà per le morti: Saranno loro a parlare di sé, di noi, di tutto. “I morti sono più eloquenti dei vivi”, scrive Cristina Cattaneo in un suo libro ormai divenuto una guida sul tema dell’identificazione dei naufraghi.

      Queste morti non tacciono, parlano del proprio coraggio, della sfida, del movimento. Queste morti sono e restano persone, ci parlano in prima persona, di come sono partite, tendendo la mano ai sacrifici, alla dignità e alla dissidenza, per ribellarsi, per opporsi a ciò che non andava bene, a ciò che opprime e spinge via la vita che resiste.

      Queste morti parlano di quanto non vogliamo che parlino, di come non le si voglia vedere, sentire, pregare, piangere, riconoscere, ricordare.

      Ma la morte è potente quanto la vita, così potente da risuscitare anche i vivi che muoiono ciechi di indifferenza.

      Allande scriveva a sua figlia Paula che la separazione non è mai definitiva finché esiste il ricordo, la memoria viva che tessiamo nel cammino per la verità e la giustizia.

      Queste morti non saranno testimoni ma sono epistemi e da loro apprenderemo a sopravvivere e a lottare. La resistenza dei vivi è la giustizia per i morti e noi non dimentichiamo la rabbia!

      Chi lotta non muore. Chi lotta è fiore.

      https://www.meltingpot.org/2023/03/cutro-i-fiori-del-mare-contro-lo-stato-di-decomposizione

  • CutyCapt - A Qt WebKit Web Page Rendering Capture Utility
    http://cutycapt.sourceforge.net

    Un utilitaire en ligne de commande pour faire des captures d’écran de sites web.

    Pour l’utiliser sur un Linux sans interface graphique (= bot), utilise XVFB (X virtual framebuffer) :

    Using CutyCapt without X server
    You cannot use CutyCapt without an X server, but you can use e.g. Xvfb as light-weight server if you are not running an interactive graphical desktop environment. For example, you could use:

    % xvfb-run --server-args="-screen 0, 1024x768x24" ./CutyCapt --url=... --out=...

    Autre utilitaire similaire (python + JS) : https://github.com/maaaaz/webscreenshot
    (avec la même bidouille d’XVFB pour les OS sans GUI)

    #capture_écran #screenshot #cutycapt #xvfb

  • Elsevier cuts off UC’s access to its academic journals (https://www...
    https://diasp.eu/p/9359240

    Elsevier cuts off UC’s access to its academic journals

    HN Discussion: https://news.ycombinator.com/item?id=20427520 Posted by bookofjoe (karma: 10452) Post stats: Points: 216 - Comments: 109 - 2019-07-13T11:19:40Z

    #HackerNews #academic #access #cuts #elsevier #its #journals #off #ucs HackerNewsBot debug: Calculated post rank: 180 - Loop: 221 - Rank min: 100 - Author rank: 38

  • Musk to review all of Tesla’s expenses in new cost cutting plan (ht...
    https://diasp.eu/p/9072407

    Musk to review all of Tesla’s expenses in new cost cutting plan

    HN Discussion: https://news.ycombinator.com/item?id=19949739 Posted by hef19898 (karma: 1779) Post stats: Points: 107 - Comments: 109 - 2019-05-18T21:12:05Z

    #HackerNews #all #cost #cutting #expenses #musk #new #plan #review #teslas HackerNewsBot debug: Calculated post rank: 107 - Loop: 54 - Rank min: 100 - Author rank: 21

  • 4 core steps to cut down the app development cost
    https://hackernoon.com/4-core-steps-to-cut-down-the-app-development-cost-bc6d03e76fc5?source=rs

    Wish, getting an app for the business was as easy as buying vegetables in the market. Just ask how much does it cost, bargain and bring home.Accept it, we cannot live without mobile apps now, right? Everything and anything has a mobile app and why not it is the most convenient thing ever discovered. As per the latest stats of Statista, Google Play store has about 8 million apps, Apple App Store has 2.2 million, there are about 669K in the Windows Store, while Amazon Appstore has 600K. The numbers show their importance in our everyday life.It’s easy to advise someone to get an app developed for their business but when it comes to our own, we fear about the budget and drop the idea. Its true that developing a mobile app requires quite an investment but it will not drain your bank accounts (...)

    #cut-app-development-cost #startup #mobile-app-development #app-development-cost #app-development

  • Jackson Lears · What We Don’t Talk about When We Talk about Russian Hacking : #Russiagate · LRB 4 January 2018
    https://www.lrb.co.uk/v40/n01/jackson-lears/what-we-dont-talk-about-when-we-talk-about-russian-hacking
    La pensée unique aux États Unis de plus en plus sectaire et pesante

    Jackson Lears

    American politics have rarely presented a more disheartening spectacle. The repellent and dangerous antics of Donald Trump are troubling enough, but so is the Democratic Party leadership’s failure to take in the significance of the 2016 election campaign. Bernie Sanders’s challenge to Hillary Clinton, combined with Trump’s triumph, revealed the breadth of popular anger at politics as usual – the blend of neoliberal domestic policy and interventionist foreign policy that constitutes consensus in Washington. Neoliberals celebrate market utility as the sole criterion of worth; interventionists exalt military adventure abroad as a means of fighting evil in order to secure global progress. Both agendas have proved calamitous for most Americans. Many registered their disaffection in 2016. Sanders is a social democrat and Trump a demagogic mountebank, but their campaigns underscored a widespread repudiation of the Washington consensus. For about a week after the election, pundits discussed the possibility of a more capacious Democratic strategy. It appeared that the party might learn something from Clinton’s defeat. Then everything changed.

    A story that had circulated during the campaign without much effect resurfaced: it involved the charge that Russian operatives had hacked into the servers of the Democratic National Committee, revealing embarrassing emails that damaged Clinton’s chances. With stunning speed, a new centrist-liberal orthodoxy came into being, enveloping the major media and the bipartisan Washington establishment. This secular religion has attracted hordes of converts in the first year of the Trump presidency. In its capacity to exclude dissent, it is like no other formation of mass opinion in my adult life, though it recalls a few dim childhood memories of anti-communist hysteria during the early 1950s.

    The centrepiece of the faith, based on the hacking charge, is the belief that Vladimir Putin orchestrated an attack on American democracy by ordering his minions to interfere in the election on behalf of Trump. The story became gospel with breathtaking suddenness and completeness. Doubters are perceived as heretics and as apologists for Trump and Putin, the evil twins and co-conspirators behind this attack on American democracy. Responsibility for the absence of debate lies in large part with the major media outlets. Their uncritical embrace and endless repetition of the Russian hack story have made it seem a fait accompli in the public mind. It is hard to estimate popular belief in this new orthodoxy, but it does not seem to be merely a creed of Washington insiders. If you question the received narrative in casual conversations, you run the risk of provoking blank stares or overt hostility – even from old friends. This has all been baffling and troubling to me; there have been moments when pop-culture fantasies (body snatchers, Kool-Aid) have come to mind.

    Like any orthodoxy worth its salt, the religion of the Russian hack depends not on evidence but on ex cathedra pronouncements on the part of authoritative institutions and their overlords. Its scriptural foundation is a confused and largely fact-free ‘assessment’ produced last January by a small number of ‘hand-picked’ analysts – as James Clapper, the director of National Intelligence, described them – from the CIA, the FBI and the NSA. The claims of the last were made with only ‘moderate’ confidence. The label Intelligence Community Assessment creates a misleading impression of unanimity, given that only three of the 16 US intelligence agencies contributed to the report. And indeed the assessment itself contained this crucial admission: ‘Judgments are not intended to imply that we have proof that shows something to be a fact. Assessments are based on collected information, which is often incomplete or fragmentary, as well as logic, argumentation and precedents.’ Yet the assessment has passed into the media imagination as if it were unassailable fact, allowing journalists to assume what has yet to be proved. In doing so they serve as mouthpieces for the intelligence agencies, or at least for those ‘hand-picked’ analysts.

    It is not the first time the intelligence agencies have played this role. When I hear the Intelligence Community Assessment cited as a reliable source, I always recall the part played by the New York Times in legitimating CIA reports of the threat posed by Saddam Hussein’s putative weapons of mass destruction, not to mention the long history of disinformation (a.k.a. ‘fake news’) as a tactic for advancing one administration or another’s political agenda. Once again, the established press is legitimating pronouncements made by the Church Fathers of the national security state. Clapper is among the most vigorous of these. He perjured himself before Congress in 2013, when he denied that the NSA had ‘wittingly’ spied on Americans – a lie for which he has never been held to account. In May 2017, he told NBC’s Chuck Todd that the Russians were highly likely to have colluded with Trump’s campaign because they are ‘almost genetically driven to co-opt, penetrate, gain favour, whatever, which is a typical Russian technique’. The current orthodoxy exempts the Church Fathers from standards imposed on ordinary people, and condemns Russians – above all Putin – as uniquely, ‘almost genetically’ diabolical.

    It’s hard for me to understand how the Democratic Party, which once felt scepticism towards the intelligence agencies, can now embrace the CIA and the FBI as sources of incontrovertible truth. One possible explanation is that Trump’s election has created a permanent emergency in the liberal imagination, based on the belief that the threat he poses is unique and unprecedented. It’s true that Trump’s menace is viscerally real. But the menace posed by George W. Bush and Dick Cheney was equally real. The damage done by Bush and Cheney – who ravaged the Middle East, legitimated torture and expanded unconstitutional executive power – was truly unprecedented, and probably permanent. Trump does pose an unprecedented threat to undocumented immigrants and Muslim travellers, whose protection is urgent and necessary. But on most issues he is a standard issue Republican. He is perfectly at home with Paul Ryan’s austerity agenda, which involves enormous transfers of wealth to the most privileged Americans. He is as committed as any other Republican to repealing Obama’s Affordable Care Act. During the campaign he posed as an apostate on free trade and an opponent of overseas military intervention, but now that he is in office his free trade views are shifting unpredictably and his foreign policy team is composed of generals with impeccable interventionist credentials.

    Trump is committed to continuing his predecessors’ lavish funding of the already bloated Defence Department, and his Fortress America is a blustering, undisciplined version of Madeleine Albright’s ‘indispensable nation’. Both Trump and Albright assume that the United States should be able to do as it pleases in the international arena: Trump because it’s the greatest country in the world, Albright because it’s an exceptional force for global good. Nor is there anything unprecedented about Trump’s desire for détente with Russia, which until at least 2012 was the official position of the Democratic Party. What is unprecedented about Trump is his offensive style: contemptuous, bullying, inarticulate, and yet perfectly pitched to appeal to the anger and anxiety of his target audience. His excess has licensed overt racism and proud misogyny among some of his supporters. This is cause for denunciation, but I am less persuaded that it justifies the anti-Russian mania.

    Besides Trump’s supposed uniqueness, there are two other assumptions behind the furore in Washington: the first is that the Russian hack unquestionably occurred, and the second is that the Russians are our implacable enemies. The second provides the emotional charge for the first. Both seem to me problematic. With respect to the first, the hacking charges are unproved and may well remain so. Edward Snowden and others familiar with the NSA say that if long-distance hacking had taken place the agency would have monitored it and could detail its existence without compromising their secret sources and methods. In September, Snowden told Der Spiegel that the NSA ‘probably knows quite well who the invaders were’. And yet ‘it has not presented any evidence, although I suspect it exists. The question is: why not? … I suspect it discovered other attackers in the systems, maybe there were six or seven groups at work.’ He also said in July 2016 that ‘even if the attackers try to obfuscate origin, ‪#XKEYSCORE makes following exfiltrated data easy. I did this personally against Chinese ops.’ The NSA’s capacity to follow hacking to its source is a matter of public record. When the agency investigated pervasive and successful Chinese hacking into US military and defence industry installations, it was able to trace the hacks to the building where they originated, a People’s Liberation Army facility in Shanghai. That information was published in the New York Times, but, this time, the NSA’s failure to provide evidence has gone curiously unremarked. When The Intercept published a story about the NSA’s alleged discovery that Russian military intelligence had attempted to hack into US state and local election systems, the agency’s undocumented assertions about the Russian origins of the hack were allowed to stand as unchallenged fact and quickly became treated as such in the mainstream media.

    Meanwhile, there has been a blizzard of ancillary accusations, including much broader and vaguer charges of collusion between the Trump campaign and the Kremlin. It remains possible that Robert Mueller, a former FBI director who has been appointed to investigate these allegations, may turn up some compelling evidence of contacts between Trump’s people and various Russians. It would be surprising if an experienced prosecutor empowered to cast a dragnet came up empty-handed, and the arrests have already begun. But what is striking about them is that the charges have nothing to do with Russian interference in the election. There has been much talk about the possibility that the accused may provide damaging evidence against Trump in exchange for lighter sentences, but this is merely speculation. Paul Manafort, at one point Trump’s campaign manager, has pleaded not guilty to charges of failing to register his public relations firm as a foreign agent for the Ukrainian government and concealing his millions of dollars in fees. But all this occurred before the 2016 campaign. George Papadopolous, a foreign policy adviser, has pleaded guilty to the charge of lying to the FBI about his bungling efforts to arrange a meeting between Trump’s people and the Russian government – an opportunity the Trump campaign declined. Mueller’s most recent arrestee, Michael Flynn, the unhinged Islamophobe who was briefly Trump’s national security adviser, has pleaded guilty to charges of lying to the FBI about meeting the Russian ambassador in December – weeks after the election. This is the sort of backchannel diplomacy that routinely occurs during the interim between one administration and the next. It is not a sign of collusion.

    So far, after months of ‘bombshells’ that turn out to be duds, there is still no actual evidence for the claim that the Kremlin ordered interference in the American election. Meanwhile serious doubts have surfaced about the technical basis for the hacking claims. Independent observers have argued it is more likely that the emails were leaked from inside, not hacked from outside. On this front, the most persuasive case was made by a group called Veteran Intelligence Professionals for Sanity, former employees of the US intelligence agencies who distinguished themselves in 2003 by debunking Colin Powell’s claim that Saddam Hussein possessed weapons of mass destruction, hours after Powell had presented his pseudo-evidence at the UN. (There are members of VIPS who dissent from the VIPS report’s conclusions, but their arguments are in turn contested by the authors of the report.) The VIPS findings received no attention in major media outlets, except Fox News – which from the centre-left perspective is worse than no attention at all. Mainstream media have dismissed the VIPS report as a conspiracy theory (apparently the Russian hacking story does not count as one). The crucial issue here and elsewhere is the exclusion from public discussion of any critical perspectives on the orthodox narrative, even the perspectives of people with professional credentials and a solid track record.

    Both the DNC hacking story and the one involving the emails of John Podesta, a Clinton campaign operative, involve a shadowy bunch of putatively Russian hackers called Fancy Bear – also known among the technically inclined as APT28. The name Fancy Bear was introduced by Dimitri Alperovitch, the chief technology officer of Crowdstrike, a cybersecurity firm hired by the DNC to investigate the theft of their emails. Alperovitch is also a fellow at the Atlantic Council, an anti-Russian Washington think tank. In its report Crowdstrike puts forward close to zero evidence for its claim that those responsible were Russian, let alone for its assertion that they were affiliated with Russian military intelligence. And yet, from this point on, the assumption that this was a Russian cyber operation was unquestioned. When the FBI arrived on the scene, the Bureau either did not request or was refused access to the DNC servers; instead it depended entirely on the Crowdstrike analysis. Crowdstrike, meanwhile, was being forced to retract another claim, that the Russians had successfully hacked the guidance systems of the Ukrainian artillery. The Ukrainian military and the British International Institute for Strategic Studies both contradicted this claim, and Crowdstrike backed down. But its DNC analysis was allowed to stand and even become the basis for the January Intelligence Community Assessment.

    The chatter surrounding the hack would never have acquired such urgency were it not for the accompanying assumption: Russia is a uniquely dangerous adversary, with which we should avoid all contact. Without that belief, Attorney General Jeff Sessions’s meetings with Russians in September 2016 would become routine discussions between a senator and foreign officials. Flynn’s post-election conversations with the Russian ambassador would appear unremarkable. Trump’s cronies’ attempts to do business in Russia would become merely sleazy. Donald Trump Jr’s meeting at Trump Tower with the Russian lawyer Natalia Veselnitskaya would be transformed from a melodrama of shady intrigue to a comedy of errors – with the candidate’s son expecting to receive information to use against Clinton but discovering Veselnitskaya only wanted to talk about repealing sanctions and restarting the flow of Russian orphans to the United States. And Putin himself would become just another autocrat, with whom democracies could engage without endorsing.

    Sceptical voices, such as those of the VIPS, have been drowned out by a din of disinformation. Flagrantly false stories, like the Washington Post report that the Russians had hacked into the Vermont electrical grid, are published, then retracted 24 hours later. Sometimes – like the stories about Russian interference in the French and German elections – they are not retracted even after they have been discredited. These stories have been thoroughly debunked by French and German intelligence services but continue to hover, poisoning the atmosphere, confusing debate. The claim that the Russians hacked local and state voting systems in the US was refuted by California and Wisconsin election officials, but their comments generated a mere whisper compared with the uproar created by the original story. The rush to publish without sufficient attention to accuracy has become the new normal in journalism. Retraction or correction is almost beside the point: the false accusation has done its work.

    The consequence is a spreading confusion that envelops everything. Epistemological nihilism looms, but some people and institutions have more power than others to define what constitutes an agreed-on reality. To say this is to risk dismissal as the ultimate wing-nut in the lexicon of contemporary Washington: the conspiracy theorist. Still, the fact remains: sometimes powerful people arrange to promote ideas that benefit their common interests. Whether we call this hegemony, conspiracy or merely special privilege hardly matters. What does matter is the power to create what Gramsci called the ‘common sense’ of an entire society. Even if much of that society is indifferent to or suspicious of the official common sense, it still becomes embedded among the tacit assumptions that set the boundaries of ‘responsible opinion’. So the Democratic establishment (along with a few Republicans) and the major media outlets have made ‘Russian meddling’ the common sense of the current moment. What kind of cultural work does this common sense do? What are the consequences of the spectacle the media call (with characteristic originality) ‘Russiagate’?

    The most immediate consequence is that, by finding foreign demons who can be blamed for Trump’s ascendancy, the Democratic leadership have shifted the blame for their defeat away from their own policies without questioning any of their core assumptions. Amid the general recoil from Trump, they can even style themselves dissenters – ‘#the resistance’ was the label Clintonites appropriated within a few days of the election. Mainstream Democrats have begun to use the word ‘progressive’ to apply to a platform that amounts to little more than preserving Obamacare, gesturing towards greater income equality and protecting minorities. This agenda is timid. It has nothing to say about challenging the influence of concentrated capital on policy, reducing the inflated defence budget or withdrawing from overextended foreign commitments; yet without those initiatives, even the mildest egalitarian policies face insuperable obstacles. More genuine insurgencies are in the making, which confront corporate power and connect domestic with foreign policy, but they face an uphill battle against the entrenched money and power of the Democratic leadership – the likes of Chuck Schumer, Nancy Pelosi, the Clintons and the DNC. Russiagate offers Democratic elites a way to promote party unity against Trump-Putin, while the DNC purges Sanders’s supporters.

    For the DNC, the great value of the Russian hack story is that it focuses attention away from what was actually in their emails. The documents revealed a deeply corrupt organisation, whose pose of impartiality was a sham. Even the reliably pro-Clinton Washington Post has admitted that ‘many of the most damaging emails suggest the committee was actively trying to undermine Bernie Sanders’s presidential campaign.’ Further evidence of collusion between the Clinton machine and the DNC surfaced recently in a memoir by Donna Brazile, who became interim chair of the DNC after Debbie Wasserman Schultz resigned in the wake of the email revelations. Brazile describes discovering an agreement dated 26 August 2015, which specified (she writes)

    that in exchange for raising money and investing in the DNC, Hillary would control the party’s finances, strategy, and all the money raised. Her campaign had the right of refusal of who would be the party communications director, and it would make final decisions on all the other staff. The DNC also was required to consult with the campaign about all other staffing, budgeting, data, analytics and mailings.

    Before the primaries had even begun, the supposedly neutral DNC – which had been close to insolvency – had been bought by the Clinton campaign.

    Another recent revelation of DNC tactics concerns the origins of the inquiry into Trump’s supposed links to Putin. The story began in April 2016, when the DNC hired a Washington research firm called Fusion GPS to unearth any connections between Trump and Russia. The assignment involved the payment of ‘cash for trash’, as the Clinton campaign liked to say. Fusion GPS eventually produced the trash, a lurid account written by the former British MI6 intelligence agent Christopher Steele, based on hearsay purchased from anonymous Russian sources. Amid prostitutes and golden showers, a story emerged: the Russian government had been blackmailing and bribing Donald Trump for years, on the assumption that he would become president some day and serve the Kremlin’s interests. In this fantastic tale, Putin becomes a preternaturally prescient schemer. Like other accusations of collusion, this one has become vaguer over time, adding to the murky atmosphere without ever providing any evidence. The Clinton campaign tried to persuade established media outlets to publicise the Steele dossier, but with uncharacteristic circumspection, they declined to promote what was plainly political trash rather than reliable reporting. Yet the FBI apparently took the Steele dossier seriously enough to include a summary of it in a secret appendix to the Intelligence Community Assessment. Two weeks before the inauguration, James Comey, the director of the FBI, described the dossier to Trump. After Comey’s briefing was leaked to the press, the website Buzzfeed published the dossier in full, producing hilarity and hysteria in the Washington establishment.

    The Steele dossier inhabits a shadowy realm where ideology and intelligence, disinformation and revelation overlap. It is the antechamber to the wider system of epistemological nihilism created by various rival factions in the intelligence community: the ‘tree of smoke’ that, for the novelist Denis Johnson, symbolised CIA operations in Vietnam. I inhaled that smoke myself in 1969-70, when I was a cryptographer with a Top Secret clearance on a US navy ship that carried missiles armed with nuclear warheads – the existence of which the navy denied. I was stripped of my clearance and later honourably discharged when I refused to join the Sealed Authenticator System, which would have authorised the launch of those allegedly non-existent nuclear weapons. The tree of smoke has only grown more complex and elusive since then. Yet the Democratic Party has now embarked on a full-scale rehabilitation of the intelligence community – or at least the part of it that supports the notion of Russian hacking. (We can be sure there is disagreement behind the scenes.) And it is not only the Democratic establishment that is embracing the deep state. Some of the party’s base, believing Trump and Putin to be joined at the hip, has taken to ranting about ‘treason’ like a reconstituted John Birch Society.

    I thought of these ironies when I visited the Tate Modern exhibition Soul of a Nation: Art in the Age of Black Power, which featured the work of black American artists from the 1960s and 1970s, when intelligence agencies (and agents provocateurs) were spearheading a government crackdown on black militants, draft resisters, deserters and antiwar activists. Amid the paintings, collages and assemblages there was a single Confederate flag, accompanied by grim reminders of the Jim Crow past – a Klansman in full regalia, a black body dangling from a tree. There were also at least half a dozen US flags, juxtaposed in whole or in part with images of contemporary racial oppression that could have occurred anywhere in America: dead black men carted off on stretchers by skeletons in police uniform; a black prisoner tied to a chair, awaiting torture. The point was to contrast the pretensions of ‘the land of the free’ with the practices of the national security state and local police forces. The black artists of that era knew their enemy: black people were not being killed and imprisoned by some nebulous foreign adversary, but by the FBI, the CIA and the police.

    The Democratic Party has now developed a new outlook on the world, a more ambitious partnership between liberal humanitarian interventionists and neoconservative militarists than existed under the cautious Obama. This may be the most disastrous consequence for the Democratic Party of the new anti-Russian orthodoxy: the loss of the opportunity to formulate a more humane and coherent foreign policy. The obsession with Putin has erased any possibility of complexity from the Democratic world picture, creating a void quickly filled by the monochrome fantasies of Hillary Clinton and her exceptionalist allies. For people like Max Boot and Robert Kagan, war is a desirable state of affairs, especially when viewed from the comfort of their keyboards, and the rest of the world – apart from a few bad guys – is filled with populations who want to build societies just like ours: pluralistic, democratic and open for business. This view is difficult to challenge when it cloaks itself in humanitarian sentiment. There is horrific suffering in the world; the US has abundant resources to help relieve it; the moral imperative is clear. There are endless forms of international engagement that do not involve military intervention. But it is the path taken by US policy often enough that one may suspect humanitarian rhetoric is nothing more than window-dressing for a more mundane geopolitics – one that defines the national interest as global and virtually limitless.

    Having come of age during the Vietnam War, a calamitous consequence of that inflated definition of national interest, I have always been attracted to the realist critique of globalism. Realism is a label forever besmirched by association with Henry Kissinger, who used it as a rationale for intervening covertly and overtly in other nations’ affairs. Yet there is a more humane realist tradition, the tradition of George Kennan and William Fulbright, which emphasises the limits of military might, counselling that great power requires great restraint. This tradition challenges the doctrine of regime change under the guise of democracy promotion, which – despite its abysmal failures in Iraq and Libya – retains a baffling legitimacy in official Washington. Russiagate has extended its shelf life.

    We can gauge the corrosive impact of the Democrats’ fixation on Russia by asking what they aren’t talking about when they talk about Russian hacking. For a start, they aren’t talking about interference of other sorts in the election, such as the Republican Party’s many means of disenfranchising minority voters. Nor are they talking about the trillion dollar defence budget that pre-empts the possibility of single-payer healthcare and other urgently needed social programmes; nor about the modernisation of the American nuclear arsenal which Obama began and Trump plans to accelerate, and which raises the risk of the ultimate environmental calamity, nuclear war – a threat made more serious than it has been in decades by America’s combative stance towards Russia. The prospect of impeaching Trump and removing him from office by convicting him of collusion with Russia has created an atmosphere of almost giddy anticipation among leading Democrats, allowing them to forget that the rest of the Republican Party is composed of many politicians far more skilful in Washington’s ways than their president will ever be.

    It is not the Democratic Party that is leading the search for alternatives to the wreckage created by Republican policies: a tax plan that will soak the poor and middle class to benefit the rich; a heedless pursuit of fossil fuels that is already resulting in the contamination of the water supply of the Dakota people; and continued support for police policies of militarisation and mass incarceration. It is local populations that are threatened by oil spills and police beatings, and that is where humane populism survives. A multitude of insurgent groups have begun to use the outrage against Trump as a lever to move the party in egalitarian directions: Justice Democrats, Black Lives Matter, Democratic Socialists of America, as well as a host of local and regional organisations. They recognise that there are far more urgent – and genuine – reasons to oppose Trump than vague allegations of collusion with Russia. They are posing an overdue challenge to the long con of neoliberalism, and the technocratic arrogance that led to Clinton’s defeat in Rust Belt states. Recognising that the current leadership will not bring about significant change, they are seeking funding from outside the DNC. This is the real resistance, as opposed to ‘#theresistance’.

    On certain important issues – such as broadening support for single-payer healthcare, promoting a higher minimum wage or protecting undocumented immigrants from the most flagrant forms of exploitation – these insurgents are winning wide support. Candidates like Paula Jean Swearengin, a coal miner’s daughter from West Virginia who is running in the Democratic primary for nomination to the US Senate, are challenging establishment Democrats who stand cheek by jowl with Republicans in their service to concentrated capital. Swearengin’s opponent is Joe Manchin, whom the Los Angeles Times has compared to Doug Jones, another ‘very conservative’ Democrat who recently won election to the US Senate in Alabama, narrowly defeating a Republican disgraced by accusations of sexual misconduct with 14-year-old girls. I can feel relieved at that result without joining in the collective Democratic ecstasy, which reveals the party’s persistent commitment to politics as usual. Democrat leaders have persuaded themselves (and much of their base) that all the republic needs is a restoration of the status quo ante Trump. They remain oblivious to popular impatience with familiar formulas. Jess King – a Mennonite woman, Bard College MBA and founder of a local non-profit who is running for Congress as a Justice Democrat in Lancaster, Pennsylvania – put it this way: ‘We see a changing political landscape right now that isn’t measured by traditional left to right politics anymore, but bottom to top. In Pennsylvania and many other places around the country we see a grassroots economic populism on the rise, pushing against the political establishment and status quo that have failed so many in our country.’

    Democratic insurgents are also developing a populist critique of the imperial hubris that has sponsored multiple failed crusades, extorted disproportionate sacrifice from the working class and provoked support for Trump, who presented himself (however misleadingly) as an opponent of open-ended interventionism. On foreign policy, the insurgents face an even more entrenched opposition than on domestic policy: a bipartisan consensus aflame with outrage at the threat to democracy supposedly posed by Russian hacking. Still, they may have found a tactical way forward, by focusing on the unequal burden borne by the poor and working class in the promotion and maintenance of American empire.

    This approach animates Autopsy: The Democratic Party in Crisis, a 33-page document whose authors include Norman Solomon, founder of the web-based insurgent lobby RootsAction.org. ‘The Democratic Party’s claims of fighting for “working families” have been undermined by its refusal to directly challenge corporate power, enabling Trump to masquerade as a champion of the people,’ Autopsy announces. But what sets this apart from most progressive critiques is the cogent connection it makes between domestic class politics and foreign policy. For those in the Rust Belt, military service has often seemed the only escape from the shambles created by neoliberal policies; yet the price of escape has been high. As Autopsy notes, ‘the wisdom of continual war’ – what Clinton calls ‘global leadership’ –

    was far clearer to the party’s standard bearer [in 2016] than it was to people in the US communities bearing the brunt of combat deaths, injuries and psychological traumas. After a decade and a half of non-stop warfare, research data from voting patterns suggest that the Clinton campaign’s hawkish stance was a political detriment in working-class communities hard-hit by American casualties from deployments in Iraq and Afghanistan.

    Francis Shen of the University of Minnesota and Douglas Kriner of Boston University analysed election results in three key states – Pennsylvania, Wisconsin and Michigan – and found that ‘even controlling in a statistical model for many other alternative explanations, we find that there is a significant and meaningful relationship between a community’s rate of military sacrifice and its support for Trump.’ Clinton’s record of uncritical commitment to military intervention allowed Trump to have it both ways, playing to jingoist resentment while posing as an opponent of protracted and pointless war. Kriner and Shen conclude that Democrats may want to ‘re-examine their foreign policy posture if they hope to erase Trump’s electoral gains among constituencies exhausted and alienated by 15 years of war’. If the insurgent movements within the Democratic Party begin to formulate an intelligent foreign policy critique, a re-examination may finally occur. And the world may come into sharper focus as a place where American power, like American virtue, is limited. For this Democrat, that is an outcome devoutly to be wished. It’s a long shot, but there is something happening out there.

    #USA #cuture #politique

  • The Way to the Italian Hotspots. The Space of the Sea Between Reception and Containment

    Hotspots are punctiform manifestations of the EU border that can be better understood as components of the broader Mediterranean migration and border regime. Most of the people landing in an EU hotspot have long journeys behind them, during which they have met other, delocalized manifestations of the EU border, embodied by a variety of state and non-state actors. Here I will focus on the last leg of these journeys, the sea crossing, and, more specifically, on the sea crossing to Italy. Indeed, the sea and the hotspots have something in common which marks a difference between them and the other spaces of the delocalized EU border regime.

    http://societyandspace.org/2016/11/15/the-way-to-the-italian-hotspots-the-space-of-the-sea-between-recept
    #hotspots #asile #migrations #réfugiés #Italie #frontières #Cuttitta

    • Governing Mobility Through the European Union’s ‘Hotspot’ Centres, a Forum

      In May 2015, the European Commission issued its “Agenda on Migration” in response to what was already an urgent humanitarian situation in the Mediterranean. The Agenda was primarily concerned with the full implementation of the Dublin III Agreement in Italy and Greece, who were accused of letting migrants move on to central Europe without fingerprinting or receiving asylum claims. Italy and Greece, suffering from austerity budgets enforced by the EU, asked for “burden sharing” between southern Europe and its fellow members to the north. The solution was a relocation program prioritising relocation of Syrian, Eritrean and Somali asylum-seekers from Italy and Greece to other EU countries, but providing relocation places has been voluntary and meeting the target has been painfully slow. To shore up Italy and Greece’s enforcement of Dublin, the Agenda on Migration proposed a “hotspot approach” to registering people, processing asylum claims, and performing deportations. The hotspot approach was eerily reminiscient to past practices of detention, forced fingerprinting, and slow asylum processing times. While the idea of streamlined, expedited asylum processing has haunted European Union migration policy documents for some time, ‘hotspots’ were ill-defined FRONTEX-coordinated processing centres for arriving asylum-seekers until 2015. Approaching one year into hotspots’ implementation, researchers and journalists have provided important insights into what, where, and why the EU hotspot experiment seeks to manage migration.

      http://i0.wp.com/societyandspace.org/wp-content/uploads/2016/11/The-Hotspot-Moria-July-2016.jpg?w=1125
      http://societyandspace.org/2016/11/08/governing-mobility-through-the-european-unions-hotspot-centres-a-fo

      Plein de contributions intéressantes sur #hotspot dans ce forum/blog:
      Forum Contributions

      Flags Flying up a Trial Mast: Reflections on the Hotspot Mechanism in Mytilene
      Joe Painter, Anna Papoutsi, Evie Papada and Antonis Vradis

      Beyond Detention: Spatial Strategies of Dispersal and Channels of Forced Transfer
      Glenda Garelli and Martina Tazzioli

      The Way to the Italian Hotspots: The Space of the Sea Between Reception and Containment
      Paolo Cuttitta

      “Giving Form to Chaos”: The Futility of EU Border Management at Moria Hotspot in Lesvos
      Barak Kalir and Katerina Rozakou

      Identify, Label and Divide: The Accelerated Temporality of Control and Temporal Borders in the Hotspots
      Martina Tazzioli

      Counting Heads and Channelling Bodies: The Hotspot Centre Vial in Chios, Greece
      Melina Antonakaki, Bernd Kasparek, and Georgios Maniatis

      Migrants at the Uneasy Borderland of Greece: Routes, Transit Points, and Troubling Categories at and from the Uneven Geographies of the “Hotspot” Regime Governing Greece (forthcoming)
      Aila Spathopoulou

      Hotspots and the Politics of Humanitarian Control and Care (forthcoming)
      Polly Pallister-Wilkins
      cc @reka

  • Be the Hot-Dog Princess You Wish to See in the World — The Cut
    http://nymag.com/thecut/2016/06/the-hot-dog-princess-you-wish-to-see.html

    One child has made the brave decision to shun oppressive cultural norms attached to the Disney princess industrial complex during princess day at her dance class, choosing to dress as human-sized hot dog instead.

    #cuteness #princesses

    via @archiloque

  • Réalités de la #prostitution : la #violence des #clients | A dire d’elles
    http://sandrine70.wordpress.com/2014/07/04/realites-de-la-prostitution-la-violence-des-clients

    Ce qu’on ne dit pas, c’est qu’en France aujourd’hui, les clients-prostitueurs, sont les coupables d’une violence extrêmement fréquente sur les personnes prostituées, comme le montre l’actualité des derniers quinze jours (Ainsi, le Mouvement du nid lance une alerte (voir ci-dessous).

    Et qu’il n’y a qu’en les pénalisant et les responsabilisant, que la situation pourra changer. Il n’y a qu’en s’attaquant à la demande que la lutte contre le #proxénétisme pourra avoir de l’effet pour démanteler les réseaux. Sinon, on en démantèlera un, aussitôt un autre se constituera.

    Ce qu’on ne dit pas, c’est que tout cela n’est possible que parce que les "clients" sont des hommes qui considèrent les femmes comme des produits/objets à leur disposition, comme l’expliquent Claudine Legardinier dans leur enquête, première du genre, sur les prostitueurs, « la prostitution constitue une ouverture de droits sur le corps d’autrui, notamment féminin, en entérinant dans les esprits l’idée qu’il s’agit d’un produit disponible que tout homme peut légitimement s’approprier ».[Claudine LEGARDINIER et Saïd BOUAMAMA, Les clients de la prostitution. L’enquête, Paris, Presses de la Renaissance, 2006.]

    #réification #marchandisation

  • compotier twitter 2

    La yourte du déconditionnement
    peut en cacher une autre

    %

    arbres et papillons
    disponibles partout dès demain
    il était temps !

    %

    viens de découvrir que je n’ai pas de montagne
    en mille gouttes colorées

    %

    le poseur
    à la perle
    tourna son visage vers moi

    %

    l’express a écrasé
    le livre que je cherchais
    même pas mal

    %

    pour être irremplaçable
    il faut d’abord mettre des chaussures
    dans ta gueule

    %

    voilà les poules
    ça ne sert à rien mais c’est beau
    merci aux projectionnistes

    %

    crèche fermée :
    éblouissante photo
    pour les cosaques

    %

    ma vieille copine
    la liberté d’expression
    buffet à volonté

    %

    les bienfaits de la lecture ?
    petit mistral
    pour un retour en enfance

    %

    au sortir de la gare
    le café magique
    fait trembler les gouvernements
    (à paraître)

    %

    génie du cinéma
    prépare déplorable affaire
    pour livrer au monde
    l’haleine d’un veau vieux de 400 000 ans

    %

    portraits de civilisations
    la grosse fatigue
    à l’école du crime

    %

    le petit prince
    père de neuf enfants
    parle aujourd’hui d’une blague salace

    %

    parlons un peu de morale
    un pas de côté
    les cheveux en bataille

    %

    dans l’aube ce matin
    la chaleur, l’excitation, le plaisir
    la choucroute

    %

    Et ne pas oublier
    le doigt paresseux
    ressemble parfois à son chien

    %

    qu’est-ce qu’écrire ?
    les merveilleuses couleurs
    sur les portes des chiottes de gare

    Note : ces « compotier Twitter » (comprenant de courts ready made textuels plus ou moins assistés, réalisés à partir de la timeline Twitter) doivent tout, jusqu’au nom même de « compotier » (qui fera fortune !) au texte très stimulant de Gnoir : « Faire de sa timeline un poème » :
    http://gnoir.weebly.com/1/post/2013/11/faire-de-sa-timeline-un-pome.html
    Merci !

    #compotier #micropoésie #cutup #yourte #papillon #poule #cosaques

  • Cute cat theory of digital activism
    http://en.wikipedia.org/wiki/Cute_cat_theory_of_digital_activism

    Tiens, je ne connaissais pas... (Trouvé en faisant des recherches sur la sérendipité. Juré.)

    The cute cat theory of digital activism is a theory concerning Internet activism, Web censorship, and “cute cats” (a term used for any low-value, but popular online activity) developed by Ethan Zuckerman in 2008.[1][2] It posits that most people are not interested in activism; instead, they want to use the web for mundane activities, including surfing for pornography and lolcats ("cute cats").[3] The tools that they develop for that (such as Facebook, Flickr, Blogger, Twitter, and similar platforms) are very useful to social movement activists, who may lack resources to develop dedicated tools themselves.[3] This, in turn, makes the activists more immune to reprisals by governments than if they were using a dedicated activism platform, because shutting down a popular public platform provokes a larger public outcry than shutting down an obscure one.[3]

    #cute_cat_theory #lolcat #activisme #internet

  • La bataille du Chili est sans conteste un des plus saisissants films politique qui m’ait été donné de voir.
    Le cinéaste et son équipe arrivent à capter cet instant si fragile ou la conscience politique collective du « peuple de gauche » entend le bruit des bottes et de la cravache de la soumission. les poings levés vont être coupés, l’ordre bourgeois, patronal, et militaire va régner. Une résistance sans armes va s’opérer jusqu’à la chute finale.
    Bouleversant de voir comment une telle volonté politique d’organiser les moyens de productions, la répartition des richesses, et de la propriété va être écrasée par les forces les plus réactionnaires et conservatrices du pays.

    La bataille du Chili (1973) un film documentaire en trois parties de Patricio Guzman avec la collaboration entre autres de Chris Marker

    Ici est présenté la première partie :
    L’insurrection de la bourgeoisie

    http://www.dailymotion.com/video/x8ujr2_la-bataille-du-chili-1-sur-

    Une analyse du film par Rosa Llorens
    http://www.legrandsoir.info/la-bataille-du-chili-40-ans-apres-21028.html

    Le #film, tourné pendant la présidence d’#Allende, dans des conditions dramatiques, pourrait s’intituler #Chronique d’un Coup d’État annoncé : effectivement, dès la victoire d’Allende aux élections de septembre 1970, les #partis_politiques de #droite, les secteurs #radicaux de l’#armée et la #CIA avaient mis au point la stratégie du #chaos qui devait conduire au #coup_d_État.
    La grande difficulté, pour l’équipe de #tournage, dit P. Guzman, était le décalage entre le peu de moyens matériels (le film fut tourné grâce à la #pellicule offerte par #Chris_Marker, et monté, après le coup d’État, à #Cuba) et la masse d’#événements et l’#effervescence des années 70-73 : il fallait choisir et planifier ce qu’on allait couvrir ; les choix furent judicieux, puisqu’on suit le film dans l’angoisse, l’estomac noué, revivant les possibilités extraordinaires de cette période, tout en pensant aux #tragédies #humaines auxquelles elle a abouti ; mais on assiste aussi, au-delà du #documentaire, à de grands moments de #cinéma.
    Les #séquences font alterner trois groupes, trois centres de #pouvoir : les #ouvriers dans leurs #usines, la #droite_parlementaire appuyée sur l’#armée, et, entre les deux, Allende et le gouvernement d’#Unité #Populaire.

    http://www.dailymotion.com/video/x8ulm1_la-bataille-du-chili-2-sur-5_news

    Face à la #stratégie de tension et de #sabotage de la part de la droite, Allende ne pouvait compter que sur le #peuple : il a donc encouragé les ouvriers à s’#organiser, ce qu’ils ont fait avec une détermination et une efficacité impressionnantes ; les usines passent entre les mains du peuple, constituant les nouveaux « #cordones », où le travail est inséparable des #actions_de_défense : on voit les ouvriers dresser des #barricades et obliger la police mais aussi le #gouvernement, qui voulait revenir sur ces nationalisations sauvages, à reculer.

    Mais le moment le plus fort, c’est l’assemblée des responsables de cordones face à la direction des #syndicats, la #CUT, où les #communistes jouent un rôle (modérateur) important. Un ouvrier, visiblement exaspéré par les discours du responsable de la CUT, prend la parole : « Vous nous avez demandé de nous organiser, nous nous sommes organisés - mais pour quoi faire ? Les #camarades sont fatigués de s’entendre dire que ce n’est pas le moment, qu’il faut rendre des usines, parce qu’elles appartiennent à la reine d’Angleterre ou à des #banques suisses. Les camarades ne comprennent pas, ils veulent agir pour soutenir notre camarade #Président. »

    http://www.dailymotion.com/video/x8um4k_la-bataille-du-chili-p-guzman-3-sur_news


    (...)

    Pendant ce temps, la droite déroule son plan. L’armée suit sa propre #politique : elle encercle les usines pour vérifier qu’il ne s’y cache pas d’armes, fouillant et arrêtant les ouvriers - sans qu’elle ait jamais rien trouvé ; mais ces opérations servent à étudier les lieux possibles de #résistance et à habituer les jeunes #soldats à #affronter les ouvriers. Parallèlement, la « #société_civile », appuyée par les #médias (ou du moins 75% des médias) s’organise : en 1972, la grève des #transporteurs routiers paralyse le pays ; les « ménagères » typiques, en grosses lunettes de soleil de marque et coiffure au brushing impeccable, celles auxquelles les médias français donnaient toujours la parole pour rendre compte de la situation au Chili, collectent des fonds pour soutenir les grévistes (déjà subventionnés par la CIA) et les médias accusent le gouvernement d’atteinte à la #propriété_privée quand il essaie de #réquisitionner les camions.

    http://www.dailymotion.com/video/x8vwjm_la-bataille-du-chili-p-guzman-4-sur_news

    Entre les deux, il y a Allende, fidèlement soutenu par des #manifestations #populaires, et toujours respectueux de la #Constitution, même quand la droite fait assassiner son aide de camp, le commandant #Araya, pour le couper des secteurs #loyalistes de l’armée. La séquence des funérailles d’Araya est la plus magistrale du film : on voit, littéralement, les officiers supérieurs, filmés en plan américain, se féliciter, dans le dos d’Allende, de leur succès et se concerter pour les étapes suivantes du plan. Guzman explique comment il a obtenu cet effet de naturel : il avait juché, bien en vue, un cameraman sur une chaise, pendant qu’un autre, plus discrètement, avec un zoom, prenait les vraies images. Mais que pesait le soutien des ouvriers aux mains_nues face aux #tanks et à l’aviation ? L’issue de la #confrontation, on la connaît, et le film nous fait entendre le dernier message d’Allende, depuis la #Moneda bombardée : « Que mes paroles soient le châtiment de ceux qui ont trahi », « Je paierai avec ma vie la loyauté du peuple », « L’#histoire est à nous et elle est faite par le peuple », bientôt, de nouveau, « s’ouvriront les larges avenues par où passe l’#homme #libre pour #construire une #société #meilleure ».

    http://www.dailymotion.com/video/x8w0ls_la-bataille-du-chili-p-guzman-5-sur_news

    #Chili #Salvador_Allende #Patricio_Guzman #Commando_communal #coopérative #Nationalisation #Expropriation #Capitalisme #Socialisme #Marxisme #Fascisme #Ordre #Etudiant #Etats_unis #La-bataille_du_Chili #Vidéo

  • Addicted to #cute? | Life and style | The Observer
    http://www.guardian.co.uk/lifeandstyle/2011/jun/12/addicted-to-cute-eva-wiseman

    In Vanity Fair two years ago, professor of evolution Marina Cords explained that we can’t help feeling drawn to these creatures that are so cute you want to take their little paws in your mouth and gnaw on them (that’s not just me, OK: I’ve done research). In the 1940s, ethologist Konrad Lorenz proposed, correctly, that we instinctively want to nurture any creature that has a cute appearance.

    #kawai