• Un rapporto sulla frontiera tra Lettonia, Russia e Bielorussia

    Il monitoraggio della ONG “I want to help refugees”

    A ottobre 2023 la ONG lettone Gribu palīdzēt bēgļiem (Voglio aiutare i rifugiati) 2, ha pubblicato un report sulla monitoraggio delle frontiere curato da Anna E. Griķe e Ieva Raubiško 3.

    Questa pubblicazione segue il report sulla visita effettuata in Lettonia dal 10 al 20 maggio del 2022 dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT), un dossier a cui il governo lettone ha replicato in modo ambiguo e fuorviante. L’ONG lettone ha così deciso di redigere un proprio report che contesta le affermazione governative.

    Il Rapporto del Comitato europeo, infatti, forniva 21 raccomandazioni in merito alla situazione di detenzione nei confronti delle persone migranti, mentre la risposta del governo lettone considerava 18 di queste come risolte e/o ingiustificate, per cui non dovrebbero essere prese ulteriori misure, e 3 raccomandazioni presentate insieme a una potenziale azione.

    Tra le raccomandazioni, il CPT ha indicato alle autorità lettoni di garantire che le persone migranti che arrivano nella zona di frontiera o che sono presenti nel Paese non siano rimpatriate con la forza in Bielorussia. E’, invece, doveroso effettuare uno screening individuale al fine di identificare le persone bisognose di protezione, valutare tali necessità e prendere le misure appropriate. Inoltre, è essenziale che i cittadini stranieri abbiano accesso a una procedura di asilo, o altra procedura di soggiorno, che preveda una valutazione del rischio di maltrattamento in caso di espulsione della persona interessata verso il Paese di origine o un Paese terzo, sulla base di un’analisi obiettiva e indipendente della situazione dei diritti umani in quegli Stati.

    Per le autorità lettoni, attualmente, la situazione nei territori amministrativi al confine tra Lettonia e Bielorussia è considerata come un’emergenza e «non consente il flusso incontrollato di persone che attraversano il confine di Stato in luoghi non previsti», e allo stesso tempo non limita il diritto delle persone ad accedere alla procedura di asilo, poiché «il diritto di presentare una domanda al valico di frontiera previsto dalla legge sull’asilo non è limitato».

    Tuttavia, le testimonianze delle persone respinte con la forza dal confine lettone verso la Bielorussia indicano che al confine non viene effettuato un esame adeguato (ad esempio, non vengono verificati i documenti d’identità: nazionalità, età e altri dati identificativi sono sconosciuti), in violazione del divieto di espulsione collettiva dei rifugiati sancito dalla Convenzione di Ginevra, dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dalla CEDU (principio di non-refoulement). Ci sono stati casi in cui non solo le famiglie con bambini, ma anche i minori non accompagnati sono stati respinti. Inoltre, perfino il principio dell’unità familiare non sempre è rispettato.

    Altre testimonianze di persone che sono riuscite ad entrare in Lettonia e hanno presentato domanda di asilo per motivi umanitari, mostrano che né le autorità bielorusse né quelle lettoni permettono ai migranti di spostarsi verso i valichi di frontiera ufficiali, respingendo invece in Lettonia o in Bielorussia, nonostante la legislazione vigente preveda che le persone possano presentare domanda di asilo ai valichi di frontiera ufficiali (ce ne sono due a Pāternieki e Silene) e al Centro di detenzione per stranieri di Daugavpils.

    Per dissuadere le persone dall’attraversare la frontiera, le guardie ricorrono all’uso della forza fisica e mezzi speciali, nonché all’uso di cani da guardia. Il 29 agosto 2023, il governo ha ratificato gli emendamenti al “Regolamento sui tipi di mezzi speciali e sulla procedura per il loro utilizzo“, prevedendo oltre ai mezzi speciali già in uso – tra cui manganelli, taser, spray di gas cs, candelotti e granate fumogene, granate a gas, luminose e sonore – anche dispositivi sonori con effetti stordenti.

    L’uso eccessivo della forza da parte delle forze dell’ordine è illegale e per questo il CPT ha raccomandato che le forze dell’ordine vengano informate a riguardo e ricevano una formazione pratica sull’uso proporzionato della forza per l’arresto di cittadini stranieri alla frontiera.

    Le autorità lettoni ribattono di non aver fatto ricorso alla forza fisica e a mezzi speciali contro le persone migranti in quanto non si sono verificati casi in cui queste non hanno obbedito agli ordini considerati legittimi delle guardie di frontiera: le persone, infatti, vengono informate che l’attraversamento del confine di Stato è illegale e che è prevista una responsabilità penale per il suo attraversamento e vengono invitate a non attraversare il confine di Stato o, di conseguenza, a tornare in Bielorussia. Nonostante sia consentito l’uso dei taser ai funzionari, attualmente non sono utilizzati per la sorveglianza delle frontiere a causa della loro carenza numerica, del loro breve periodo di autonomia e della necessità di utilizzarli per le esigenze di altri servizi dell’SBG 4.

    Tuttavia, la risposta del governo è in contraddizione con diverse testimonianze di persone migranti raccolte da “Voglio aiutare i rifugiati” nel 2022-2023, che hanno subito violenze emotive e fisiche, tra cui insulti e minacce, percosse e folgorazioni, sia durante i respingimenti che durante la permanenza nelle tende/basi dell’SBG in territorio lettone.

    Secondo queste testimonianze, gli abusi sono stati commessi il più delle volte da membri di unità speciali non identificate che indossavano maschere. Nel report si legge che «almeno quattro denunce sull’uso eccessivo della violenza sono state presentate all’Ufficio per la sicurezza interna e uno dei denuncianti si è rivolto alla Corte europea dei diritti umani».

    Per quanto riguarda l’accoglienza dei minori non accompagnati, il Comitato vorrebbe fosse adibita una struttura specifica, mentre il governo lettone afferma che sarebbe impossibile in quanto il numero dei minori è esiguo. Per l’associazione questa risposta è fuorviante: nonostante il basso numero solo alcuni minori non accompagnati vengono accolti in modo adeguato. Nel maggio 2023 Anna E. Griķe ha incontrato una ragazza di 13 anni dell’isola di Comore ospitata nel “centro di accoglienza” per richiedenti asilo “Mucenieki“, che offriva le stesse condizioni di alloggio degli adulti e che quindi non può essere considerato un istituto di assistenza all’infanzia. Tra il 4 e il 7 luglio la minore è scomparsa.

    Oltre a strutture specifiche adeguate per l’età dei richiedenti asilo, il CPT vorrebbe assicurare ai richiedenti asilo trattenuti nei centri di Daugavpils e Mucenieki attività come lezioni di lingua, di computer, percorsi formativi ecc. Il massimo sforzo dovrebbe essere dedicato soprattutto per garantire ai bambini in età scolastica attività educative adeguate.

    Il governo lettone ha risposto che all’SBG non compete la pianificazione delle attività del tempo libero, tuttavia collabora con le ONG lettoni, come l’associazione “Voglio aiutare i rifugiati” e la Croce Rossa che, per quanto possibile, assicurano l’organizzazione di varie attività ricreative, di socializzazione e integrazione, misure di sostegno psicologico e di istruzione.

    Nonostante ciò, il report afferma che da quanto osservato nel 2023 l’unica attività garantita dalla CR è stata fornire indumenti scadenti a entrambi i centri di detenzione e che solo nell’estate del 2023 l’associazione ha organizzato attività settimanali in entrambi i centri di detenzione per bambini e famiglie e a volte per adulti: un’iniziativa basata sulla buona volontà, non una soluzione sistemica.

    In ultima istanza, il report si occupa delle problematiche relative alle cure psichiatriche e all’assistenza psicologica nei centri di detenzione. Il CPT insiste che siano presi provvedimenti a riguardo insieme a un necessario servizio di interpretariato professionale. Le autorità lettoni dichiarano che in base alla proposta avanzata dall’Ong “Medici senza frontiere“, nel periodo compreso tra luglio e il 31 dicembre 2022, i loro rappresentanti hanno visitato regolarmente l’IDC (centro di detenzione per immigrati) di Daugavpils e di Mucenieki, fornendo assistenza psicologica agli stranieri detenuti e ai richiedenti asilo ospitati nell’IDC dell’SBG.

    Da quando Medici Senza Frontiere ha cessato la sua attività in Lettonia, nel dicembre 2022 5, non è più disponibile alcun supporto psicologico per le persone detenute. Inoltre nel 2013, l’SBG e la Croce Rossa Lettone hanno firmato un accordo di cooperazione, in base al quale quest’ultima si è impegnata a fornire per le persone accolte misure di sostegno psicologico ed educativo. Secondo “Voglio aiutare i rifugiati” la Croce Rossa non ha offerto assistenza psicologica presso gli IDC anche a causa della difficoltà di organizzare gli interpreti. Sebbene le ONG possano offrire un valido supporto psicologico ai richiedenti asilo e agli stranieri detenuti nei centri di detenzione, i loro servizi non possono essere considerati una sostituzione del supporto psicologico che lo Stato dovrebbe fornire.

    “Voglio aiutare i rifugiati” ha ripreso lo slogan “Nessuno è illegale” (Neviena persona nav nelegāla!) per cercare di sensibilizzare sulla situazione al confine: «Il termine “migrante irregolare” non solo è indesiderabile (ad esempio, si veda il Glossario sulle migrazioni dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni), ma denigra anche i diritti umani di qualsiasi migrante e non è in linea con i principi delle buone pratiche».

    La maggior parte delle persone giunte in Lettonia dalla Bielorussia sono richiedenti asilo: fino a quando non verrà presa una decisione sul loro status, da un punto di vista giuridico dovrebbero essere chiamati richiedenti asilo, nonostante abbiano attraversato il confine “illegalmente“. Da un punto di vista legale ed etico, un processo o un atto può essere etichettato come irregolare, ma non lo può essere una persona.
    Nessuna persona, infatti, è illegale!

    https://www.meltingpot.org/2024/03/un-rapporto-sulla-frontiera-tra-lettonia-russia-e-bielorussia

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    • BORDER MONITORING REPORT, LATVIA

      Background

      On 11 July 2023 both the “Report to the Latvian Government on the periodic visit to Latvia carried out by the European Committee for the Prevention of Torture and Inhuman or Degrading Treatment or Punishment (CPT) from 10 to 20 May 2022” (here and after – Report) and the “Response of the Latvian Government to the report of the European Committee for the Prevention of Torture and Inhuman or Degrading Treatment or Punishment (CPT) on its periodic visit to Latvia from 10 to 20 May 2022” (here and after – Response) were published. The Report provides 21 recommendations in terms of Immigration detention; Response considers 18 recommendations as in progress and/or unjustified where no additional steps should be taken, and 3
      recommendations are presented along with a potential action plan.
      Ieva Raubiško has closely followed the situation of irregular migrants at the Latvian-Belarussian border since August 2021. In October 2022, she joined the NGO “I Want to Help Refugees” as an advocacy officer. In February 2023 Anna E. Griķe began to fulfil her duties as both border monitoring expert and coordinator of
      humanitarian aid for asylum seekers. Based on prior reports, observations, and individual cases, the following border monitoring report aims to highlight misleading information within the Response. It does not cover all recommendations/responses because of the insufficient data available regarding issues such as access to
      legal aid or to health care, but it is more focused on the everyday life in detention, especially, in regard to minors. The reference to both documents includes paragraphs and page numbers.

      Key Findings

      [1] Accommodation of unaccompanied minors

      Report, par. 30, p. 17: “The Committee recommends that the Latvian authorities take the necessary measures to ensure that unaccompanied minors are accommodated in an open (or semi-open) specialised establishment for juveniles (for example, a social welfare/educational institution) where they can be provided with appropriate care and activities suitable for their age; the relevant legal provisions should be amended accordingly.”

      Response, p. 12: “There is no open (or semi-open) specialised establishment in Latvia intended specifically for a minor foreigner to be extradited or unaccompanied asylum seeker and it is not planned to create such an establishment, because the number of unaccompanied minors is small and it would not be feasible to open such an establishment. An unaccompanied minor, who is not detained, is accommodated in a child care institution based on the decision of the Orphan’s and Custody Court.”

      Indeed, the number of asylum seekers – unaccompanied minors is low, and there is no specialised establishment for their accommodation. However, the Response is misleading since only some unaccompanied minors are properly taken care of. In May 2023, Anna E. Griķe came across two of them, a 13-years old girl from Comoros island and a 14-years old boy from DRC. They both were accommodated in the Accommodation centre for asylum seekers “Mucenieki” provided the same accommodation conditions as adults (free of charge accommodation and allowance of 3 euros per day). It could be considered a childcare institution in any way, as it requires individuals to have complete autonomy in taking care of themselves on a daily basis. After the girl’s disappearance of between July 4 and 7 and ‘with serious concerns about the lack of action, relevant institutions as Ombudsman or State Police were informed about the situation.

      [2] Access to education and/or leisure activities for minors in IDCs [immigration detention center]

      Response, p. 12: “Minors accompanied by their parents are accommodated in the IDC, based on the parents’ application for accommodating children together with parents, and after evaluating the best interests of a child. Thus, children are not detained, but accommodated together with their parents, who are detained. In turn, detained unaccompanied minors are accommodated in the premises of the IDC premises, in which there is personnel and equipment to take the needs of their age into account. Minors accommodated in the premises of the IDC are provided with opportunities for acquiring education, engaging in leisure time activities, including games and recreational events corresponding to their age.” Even though there is a theoretical possibility for children from IDC to access education, it does not take place due to multiple factors. For instance, it takes one month to get the response from the Ministry of Education to be assigned to an educational institution, and as the detainees do not know the length of their detention and live in hope that it will not be lasting long, there is low interest to submit an application. Apart from a room with a limited number of toys, there are no specific opportunities considered for children/youth who experience the same limited access of movement within the detention centre as adults. For instance, outdoor space is not openly available. In the premises of the IDC, there is no opportunity for acquiring education; also, online learning is not possible due to the limited access to electronic devices which is restricted to just one hour per day. None of IDC’s personnel has the task to meet the education and or/leisure activity needs.

      [3] About access to purposeful activities for detainees

      Report, par. 35, p. 19: “The CPT recommends that the Latvian authorities take steps to ensure that foreign nationals held at Daugavpils and Mucenieki Immigration Detention Centres are offered a range of purposeful activities (for example, language classes, computer courses, crafts, etc.). The longer the period for which foreign nationals are detained, the more developed should be the activities which are offered to them. Further, every effort should be made to provide children of school age with suitable educational activities.”

      Response, p. 14-15: “The SBG ensures the security guarding of persons accommodated in the IDC, but does not get involved in planning their free time activities. Nevertheless, the SBG actively cooperates with Latvian NGOs, such as the association “I want to help refugees”, which, as far as possible, ensures the organisation of various leisure activities in the IDC of the SBG for both children and adults. […] In 2013, the SBG and the association “Latvian Red Cross” (hereinafter – LRC) signed an agreement on cooperation, based on which the LRC, among other things, undertook to organise, as far as possible, for persons accommodated in the IDC, psychological support and educational measures or other measures that would improve living conditions, as well as to provide the services of social work experts and other measures promoting socialisation and integration, including, if necessary, to organise Latvian language classes. Recommendations regarding the provision of purposeful activities (including the Latvian language classes) for foreigners in accommodation centres for asylum seekers, as well as regarding measures to reduce the language barrier between health care personnel and admitted foreign nationals, by providing translation/interpreting services, are to be supported.”

      In summer 2023, “I Want to Help Refugees” organized weekly activities in both detention centres for children and families, and – when possible, for adults, both men and women. It was based on good will, and in no terms could be perceived as a systemic solution. However, these activities created an opportunity to get a better insight of the everyday life in detention and was an attempt to meet individual or collective needs. These included provision of underwear, socks, basic footwear, additional clothing, spices for food, books, toys, and games.
      Prior to summer 2023 no regular activities were provided by any institution, NGOs or Latvian Red Cross (besides two unsuccessful episodes in December 2022 and April 2023 when a team of LRC did not manage establish contact with detainees to provide leisure time activities). From what has been observed during 2023, the sole outcome of the cooperation agreement with LRC is the provision of donated clothes to both IDCs. These are of very poor quality and do not include such basic items as underwear or socks. No psychological support, educational measures or other initiatives that would improve living conditions are being implemented in any of IDCs. Services of social work experts and other measures promoting socialization and integration, including Latvian language classes, are not provided either.

      [4] About access to outdoor exercise at the IDCs

      Report. par. 36, p. 20: “The CPT recommends that the Latvian authorities take steps to increase significantly the daily outdoor exercise period for foreign nationals held at Daugavpils Immigration Detention Centre. In the Committee’s view, detained foreign nationals should, as a rule, have ready access to an outdoor area throughout the day.

      Response, p. 15: “According to Clause 21 of Cabinet of Ministers Regulation No. 254 of 16 May 2017, the daily schedule of the accommodation premises shall include daily walk time in fresh air (outdoor exercise) – for at least two hours. In turn, Clause 18 of Cabinet of Ministers Regulation No. 254 of 16 May 2017 provides that if a detained person refuses to exercise any rights (for example, outdoor exercise), an official of the accommodation premises may request to confirm it with a written submission. Given the structure of Daugavpils IDC and Mucenieki IDC, it is not possible to ensure free access of the detained persons to the outdoor area throughout the day.” “I Want to Help Refugees” has received complaints from a number detainees at both Daugavpils and Mucenieki Detention Centres about their restricted access to outdoor areas. While no clear-cut reasons for such restriction have been provided, these complaints also indicate a lack of clear procedure as to how the access to open-air areas should be requested by the detainees and why and how the time limit outdoor activities is determined (for example, why only one hour is granted for outdoor activities, not the two-hour minimum as prescribed in the Cabinet of Ministers Regulation No. 254, Internal Rules of Procedure of Accommodation Premises for Detained Foreigners and Asylum Seekers.) As a result, inhabitants of IDCs lose the possibility to be in fresh air for sufficient time each day or, on some days, are not able to spend time outdoors at all.

      [5] About the alleged ill-treatment of detained foreign nationals (irregular migrants) by Latvian special police forces between August 2021 and March 2022 in the border area.

      Report, par. 33, p. 18: “The CPT recommends that all law enforcement agencies concerned are given a clear and firm message on a regular basis that any use of excessive force is illegal and will be punished accordingly. Further, they should be provided with further practical training relating to the proportionate use of force, including control and restraint techniques, in the context of apprehending foreign nationals at the border. As regards more specifically the use of electrical discharge weapons, reference is made to the principles listed in paragraphs 65 to 84 of the 20th General Report on the CPT’s activities.23“

      Response, p. 13: “It has not been necessary to use physical force and special means against persons, because there have been no cases when they did not obey the lawful orders of the border guards. In order to prevent crossing or attempted crossing of the state border outside official border crossing points and procedures established for legal entry, persons are informed that crossing the state border is illegal and there is criminal liability prescribed for crossing it and are invited not to cross the state border or correspondingly invited to return to Belarus. Furthermore, at that moment persons also visually see armed border guards and national guards, and their preparedness for active response in preventing the possibilities of illegal crossing of the state border. Following such actions and the provision of information, persons, as a rule, do not risk approaching Latvia or, if they have already crossed the border, they return to Belarus. The enumeration of special means of the SBG contains electric shock devices, which the officials, based on Cabinet of Ministers Regulation No.55 of 18 January 2011, are entitled to use for fulfilment of the functions assigned to them. There are no electric shock devices of any kind (including TASER) currently used for border surveillance due to the numerical shortage thereof, expiry of their useful life and the necessity to use them for the needs of other SBG services (immigration control, border inspections).”

      The government’s response contradicts several testimonies of irregular border-crossers recorded by “I Want to Help Refugees” in 2022–2023 on having experienced emotional and physical violence, including cursing and threats, beatings, and electrocution both during the pushbacks and while in tents/ SBG bases in the Latvian territory. According to these testimonies, abuse was most often committed by members of unidentified special units wearing masks. At least four complaints on the excessive use of violence have been submitted to the Internal Security Bureau, and one of the complainants has turned to the European Court of Human Rights.

      [6] About the lack of psychological assistance to the detainees at the IDCs.

      Report, par. 44, p. 57: “The CPT recommends that steps be taken at Daugavpils and Mucenieki Immigration Detention Centres to ensure adequate access to psychiatric care and psychological assistance for foreign nationals, combined with the provision of professional interpretation.”

      Response, p. 18-19: “Based on the proposal made by the international non-governmental organisation “Doctors without Borders”, during the period from July to 31 December 2022, the representatives of the international non-governmental organisation “Doctors without Borders” have been regularly visiting Daugavpils IDC and Mucenieki IDC and providing psychological support to the detained foreigners and asylum seekers accommodated in the IDC of the SBG.

      By means of the funds raised via the project from the Asylum, Migration and Integration Fund, in order to reduce the everyday psychological sufferings or struggles of the target group, it is planned to attract psychologists and cover expenses for psychologist services for the foreigners accommodated in the centres.

      Additionally, as already mentioned herein above, in 2013, the SBG and the LRC signed an agreement on cooperation, based on which the LRC, among other things, undertook to organise, as far as possible, for persons accommodated in the IDC of the SBG, psychological support and educational measures or other measures that would improve living conditions of the referred to persons…”

      While NGOs might offer valuable psychological support to asylum seekers and detained foreigners at the IDCs, their services cannot be considered a viable alternative and substitution of state-provided in-house psychological support. Since December 2022 when “Doctors without Borders” ceased its operation in Latvia, no psychological support has been available to the detainees. LRC has not been able to offer any psychological assistance at the IDCs, citing the difficulty of arranging interpreters as one of the main challenges.

      [7] About the forcible return of irregular migrants from Latvia to Belarus

      Report, par. 48, p. 57: “… the CPT recommends that the Latvian authorities take the necessary measures to ensure that irregular migrants arriving at the border or present in the territory of Latvia are not forcibly returned to Belarus prior to an individualised screening with a view to identifying persons in need of protection, assessing those needs and taking appropriate action. Further, it is essential that foreign nationals have effective access to an asylum procedure (or other residence procedure) which involves an individual assessment of the risk of ill-treatment in case of expulsion of the person concerned to the country of origin or a third country, on the basis of an objective and independent analysis of the human rights situation in the countries concerned.38 The CPT considers that the relevant provisions of the Cabinet of Ministers’ Decree No. 518 on the Declaration of a State of Emergency should be revised accordingly.”

      Response, p. 19: “Currently, the emergency situation in the administrative territories at the Latvia- Belarus border does not allow the uncontrolled flow of people across the state border in places not intended for this, and at the same time does not limit the right of persons to access the asylum procedure, because the right to lodge an application at the border crossing point provided for by the Asylum Law is not restricted. The referred to regulation was based on the internationally recognised right of countries to control the border of their country and to prevent the illegal crossing thereof (see the judgment of the ECHR of 13 February 2020 in the case of ND and NT v. Spain and the judgment of the ECHR of 5 April 2022 in the case A.A. and others v. North Macedonia).”

      Testimonies of irregular migrants forcibly returned from Latvia/ Latvian border to the territory of Belarus indicate that no proper screening of persons is performed at the border. There have been cases when not only families with children, but also unaccompanied minors have been pushed back.
      Testimonies of irregular migrants allowed to enter Latvia on humanitarian grounds and submit their claims for asylum, show that neither the Belarussian nor the Latvian authorities allow the migrants to move to the official border crossing points, instead pushing them back to either Belarus or Latvia.

      Recommendations and Action Points

      Clarify the statements in the Response with authorities in question.
      Create an action plan that identifies the gaps in the treatment of detainees in detention centres and explores for possible solutions.
      Establish an obligation and a clear procedure for a prompt investigation of all claims of violence voiced by irregular migrants and detained asylum seekers.
      Ensure presence of a psychologist/psychotherapist at both IDCs to provide psychological help to the detained when necessary (also, ensure that the regular medical staff is present).
      Ensure the possibility for detainees to spend sufficient time outdoors each day.
      Ensure transparent evaluation of migrants’ individual circumstances upon their arrival at the border; share the assessment guidelines with independent monitoring bodies and NGOs.

      https://gribupalidzetbegliem.lv/en/2023/10/01/border-monitoring-report-latvia

  • L’#Europe et la fabrique de l’étranger

    Les discours sur l’ « #européanité » illustrent la prégnance d’une conception identitaire de la construction de l’Union, de ses #frontières, et de ceux qu’elle entend assimiler ou, au contraire, exclure au nom de la protection de ses #valeurs particulières.

    Longtemps absente de la vie démocratique de l’#Union_européenne (#UE), la question identitaire s’y est durablement installée depuis les années 2000. Si la volonté d’affirmer officiellement ce que « nous, Européens » sommes authentiquement n’est pas nouvelle, elle concernait jusqu’alors surtout – à l’instar de la Déclaration sur l’identité européenne de 1973 – les relations extérieures et la place de la « Communauté européenne » au sein du système international. À présent, elle renvoie à une quête d’« Européanité » (« Europeanness »), c’est-à-dire la recherche et la manifestation des #trait_identitaires (héritages, valeurs, mœurs, etc.) tenus, à tort ou à raison, pour caractéristiques de ce que signifie être « Européens ». Cette quête est largement tournée vers l’intérieur : elle concerne le rapport de « nous, Européens » à « nous-mêmes » ainsi que le rapport de « nous » aux « autres », ces étrangers et étrangères qui viennent et s’installent « chez nous ».

    C’est sous cet aspect identitaire qu’est le plus fréquemment et vivement discuté ce que l’on nomme la « #crise_des_réfugiés » et la « #crise_migratoire »

    L’enjeu qui ferait de l’#accueil des exilés et de l’#intégration des migrants une « #crise » concerne, en effet, l’attitude que les Européens devraient adopter à l’égard de celles et ceux qui leur sont « #étrangers » à double titre : en tant qu’individus ne disposant pas de la #citoyenneté de l’Union, mais également en tant que personnes vues comme les dépositaires d’une #altérité_identitaire les situant à l’extérieur du « #nous » – au moins à leur arrivée.

    D’un point de vue politique, le traitement que l’Union européenne réserve aux étrangères et étrangers se donne à voir dans le vaste ensemble de #discours, #décisions et #dispositifs régissant l’#accès_au_territoire, l’accueil et le #séjour de ces derniers, en particulier les accords communautaires et agences européennes dévolus à « une gestion efficace des flux migratoires » ainsi que les #politiques_publiques en matière d’immigration, d’intégration et de #naturalisation qui restent du ressort de ses États membres.

    Fortement guidées par des considérations identitaires dont la logique est de différencier entre « nous » et « eux », de telles politiques soulèvent une interrogation sur leurs dynamiques d’exclusion des « #autres » ; cependant, elles sont aussi à examiner au regard de l’#homogénéisation induite, en retour, sur le « nous ». C’est ce double questionnement que je propose de mener ici.

    En quête d’« Européanité » : affirmer la frontière entre « nous » et « eux »

    La question de savoir s’il est souhaitable et nécessaire que les contours de l’UE en tant que #communauté_politique soient tracés suivant des #lignes_identitaires donne lieu à une opposition philosophique très tranchée entre les partisans d’une défense sans faille de « l’#identité_européenne » et ceux qui plaident, à l’inverse, pour une « #indéfinition » résolue de l’Europe. Loin d’être purement théorique, cette opposition se rejoue sur le plan politique, sous une forme tout aussi dichotomique, dans le débat sur le traitement des étrangers.

    Les enjeux pratiques soulevés par la volonté de définir et sécuriser « notre » commune « Européanité » ont été au cœur de la controverse publique qu’a suscitée, en septembre 2019, l’annonce faite par #Ursula_von_der_Leyen de la nomination d’un commissaire à la « #Protection_du_mode_de_vie_européen », mission requalifiée – face aux critiques – en « #Promotion_de_notre_mode_de_vie_européen ». Dans ce portefeuille, on trouve plusieurs finalités d’action publique dont l’association même n’a pas manqué de soulever de vives inquiétudes, en dépit de la requalification opérée : à l’affirmation publique d’un « #mode_de_vie » spécifiquement « nôtre », lui-même corrélé à la défense de « l’#État_de_droit », « de l’#égalité, de la #tolérance et de la #justice_sociale », se trouvent conjoints la gestion de « #frontières_solides », de l’asile et la migration ainsi que la #sécurité, le tout placé sous l’objectif explicite de « protéger nos citoyens et nos valeurs ».

    Politiquement, cette « priorité » pour la période 2019-2024 s’inscrit dans la droite ligne des appels déjà anciens à doter l’Union d’un « supplément d’âme
     » ou à lui « donner sa chair » pour qu’elle advienne enfin en tant que « #communauté_de_valeurs ». De tels appels à un surcroît de substance spirituelle et morale à l’appui d’un projet européen qui se devrait d’être à la fois « politique et culturel » visaient et visent encore à répondre à certains problèmes pendants de la construction européenne, depuis le déficit de #légitimité_démocratique de l’UE, si discuté lors de la séquence constitutionnelle de 2005, jusqu’au défaut de stabilité culminant dans la crainte d’une désintégration européenne, rendue tangible en 2020 par le Brexit.

    Précisément, c’est de la #crise_existentielle de l’Europe que s’autorisent les positions intellectuelles qui, poussant la quête d’« Européanité » bien au-delà des objectifs politiques évoqués ci-dessus, la déclinent dans un registre résolument civilisationnel et défensif. Le geste philosophique consiste, en l’espèce, à appliquer à l’UE une approche « communautarienne », c’est-à-dire à faire entièrement reposer l’UE, comme ensemble de règles, de normes et d’institutions juridiques et politiques, sur une « #communauté_morale » façonnée par des visions du bien et du monde spécifiques à un groupe culturel. Une fois complétée par une rhétorique de « l’#enracinement » desdites « #valeurs_européennes » dans un patrimoine historique (et religieux) particulier, la promotion de « notre mode de vie européen » peut dès lors être orientée vers l’éloge de ce qui « nous » singularise à l’égard d’« autres », de « ces mérites qui nous distinguent » et que nous devons être fiers d’avoir diffusés au monde entier.

    À travers l’affirmation de « notre » commune « Européanité », ce n’est pas seulement la reconnaissance de « l’#exception_européenne » qui est recherchée ; à suivre celles et ceux qui portent cette entreprise, le but n’est autre que la survie. Selon #Chantal_Delsol, « il en va de l’existence même de l’Europe qui, si elle n’ose pas s’identifier ni nommer ses caractères, finit par se diluer dans le rien. » Par cette #identification européenne, des frontières sont tracées. Superposant Europe historique et Europe politique, Alain Besançon les énonce ainsi : « l’Europe s’arrête là où elle s’arrêtait au XVIIe siècle, c’est-à-dire quand elle rencontre une autre civilisation, un régime d’une autre nature et une religion qui ne veut pas d’elle. »

    Cette façon de délimiter un « #nous_européen » est à l’exact opposé de la conception de la frontière présente chez les partisans d’une « indéfinition » et d’une « désappropriation » de l’Europe. De ce côté-ci de l’échiquier philosophique, l’enjeu est au contraire de penser « un au-delà de l’identité ou de l’identification de l’Europe », étant entendu que le seul « crédit » que l’on puisse « encore accorder » à l’Europe serait « celui de désigner un espace de circulation symbolique excédant l’ordre de l’identification subjective et, plus encore, celui de la #crispation_identitaire ». Au lieu de chercher à « circonscri[re] l’identité en traçant une frontière stricte entre “ce qui est européen” et “ce qui ne l’est pas, ne peut pas l’être ou ne doit pas l’être” », il s’agit, comme le propose #Marc_Crépon, de valoriser la « #composition » avec les « #altérités » internes et externes. Animé par cette « #multiplicité_d’Europes », le principe, thématisé par #Etienne_Balibar, d’une « Europe comme #Borderland », où les frontières se superposent et se déplacent sans cesse, est d’aller vers ce qui est au-delà d’elle-même, vers ce qui l’excède toujours.

    Tout autre est néanmoins la dynamique impulsée, depuis une vingtaine d’années, par les politiques européennes d’#asile et d’immigration.

    La gouvernance européenne des étrangers : l’intégration conditionnée par les « valeurs communes »

    La question du traitement public des étrangers connaît, sur le plan des politiques publiques mises en œuvre par les États membres de l’UE, une forme d’européanisation. Celle-ci est discutée dans les recherches en sciences sociales sous le nom de « #tournant_civique ». Le terme de « tournant » renvoie au fait qu’à partir des années 2000, plusieurs pays européens, dont certains étaient considérés comme observant jusque-là une approche plus ou moins multiculturaliste (tels que le Royaume-Uni ou les Pays-Bas), ont développé des politiques de plus en plus « robustes » en ce qui concerne la sélection des personnes autorisées à séjourner durablement sur leur territoire et à intégrer la communauté nationale, notamment par voie de naturalisation. Quant au qualificatif de « civique », il marque le fait que soient ajoutés aux #conditions_matérielles (ressources, logement, etc.) des critères de sélection des « désirables » – et, donc, de détection des « indésirables » – qui étendent les exigences relatives à une « #bonne_citoyenneté » aux conduites et valeurs personnelles. Moyennant son #intervention_morale, voire disciplinaire, l’État se borne à inculquer à l’étranger les traits de caractère propices à la réussite de son intégration, charge à lui de démontrer qu’il conforme ses convictions et comportements, y compris dans sa vie privée, aux « valeurs » de la société d’accueil. Cette approche, centrée sur un critère de #compatibilité_identitaire, fait peser la responsabilité de l’#inclusion (ou de l’#exclusion) sur les personnes étrangères, et non sur les institutions publiques : si elles échouent à leur assimilation « éthique » au terme de leur « #parcours_d’intégration », et a fortiori si elles s’y refusent, alors elles sont considérées comme se plaçant elles-mêmes en situation d’être exclues.

    Les termes de « tournant » comme de « civique » sont à complexifier : le premier car, pour certains pays comme la France, les dispositifs en question manifestent peu de nouveauté, et certainement pas une rupture, par rapport aux politiques antérieures, et le second parce que le caractère « civique » de ces mesures et dispositifs d’intégration est nettement moins évident que leur orientation morale et culturelle, en un mot, identitaire.

    En l’occurrence, c’est bien plutôt la notion d’intégration « éthique », telle que la définit #Jürgen_Habermas, qui s’avère ici pertinente pour qualifier ces politiques : « éthique » est, selon lui, une conception de l’intégration fondée sur la stabilisation d’un consensus d’arrière-plan sur des « valeurs » morales et culturelles ainsi que sur le maintien, sinon la sécurisation, de l’identité et du mode de vie majoritaires qui en sont issus. Cette conception se distingue de l’intégration « politique » qui est fondée sur l’observance par toutes et tous des normes juridico-politiques et des principes constitutionnels de l’État de droit démocratique. Tandis que l’intégration « éthique » requiert des étrangers qu’ils adhèrent aux « valeurs » particulières du groupe majoritaire, l’intégration « politique » leur demande de se conformer aux lois et d’observer les règles de la participation et de la délibération démocratiques.

    Or, les politiques d’immigration, d’intégration et de naturalisation actuellement développées en Europe sont bel et bien sous-tendues par cette conception « éthique » de l’intégration. Elles conditionnent l’accès au « nous » à l’adhésion à un socle de « valeurs » officiellement déclarées comme étant déjà « communes ». Pour reprendre un exemple français, cette approche ressort de la manière dont sont conçus et mis en œuvre les « #contrats_d’intégration » (depuis le #Contrat_d’accueil_et_d’intégration rendu obligatoire en 2006 jusqu’à l’actuel #Contrat_d’intégration_républicaine) qui scellent l’engagement de l’étranger souhaitant s’installer durablement en France à faire siennes les « #valeurs_de_la_République » et à les « respecter » à travers ses agissements. On retrouve la même approche s’agissant de la naturalisation, la « #condition_d’assimilation » propre à cette politique donnant lieu à des pratiques administratives d’enquête et de vérification quant à la profondeur et la sincérité de l’adhésion des étrangers auxdites « valeurs communes », la #laïcité et l’#égalité_femmes-hommes étant les deux « valeurs » systématiquement mises en avant. L’étude de ces pratiques, notamment les « #entretiens_d’assimilation », et de la jurisprudence en la matière montre qu’elles ciblent tout particulièrement les personnes de religion et/ou de culture musulmanes – ou perçues comme telles – en tant qu’elles sont d’emblée associées à des « valeurs » non seulement différentes, mais opposées aux « nôtres ».

    Portées par un discours d’affrontement entre « systèmes de valeurs » qui n’est pas sans rappeler le « #choc_des_civilisations » thématisé par #Samuel_Huntington, ces politiques, censées « intégrer », concourent pourtant à radicaliser l’altérité « éthique » de l’étranger ou de l’étrangère : elles construisent la figure d’un « autre » appartenant – ou suspecté d’appartenir – à un système de « valeurs » qui s’écarterait à tel point du « nôtre » que son inclusion dans le « nous » réclamerait, de notre part, une vigilance spéciale pour préserver notre #identité_collective et, de sa part, une mise en conformité de son #identité_personnelle avec « nos valeurs », telles qu’elles s’incarneraient dans « notre mode de vie ».

    Exclusion des « autres » et homogénéisation du « nous » : les risques d’une « #Europe_des_valeurs »

    Le recours aux « valeurs communes », pour définir les « autres » et les conditions de leur entrée dans le « nous », n’est pas spécifique aux politiques migratoires des États nationaux. L’UE, dont on a vu qu’elle tenait à s’affirmer en tant que « communauté morale », a substitué en 2009 au terme de « #principes » celui de « valeurs ». Dès lors, le respect de la dignité humaine et des droits de l’homme, la liberté, la démocratie, l’égalité, l’État de droit sont érigés en « valeurs » sur lesquelles « l’Union est fondée » (art. 2 du Traité sur l’Union européenne) et revêtent un caractère obligatoire pour tout État souhaitant devenir et rester membre de l’UE (art. 49 sur les conditions d’adhésion et art. 7 sur les sanctions).

    Reste-t-on ici dans le périmètre d’une « intégration politique », au sens où la définit Habermas, ou franchit-on le cap d’une « intégration éthique » qui donnerait au projet de l’UE – celui d’une intégration toujours plus étroite entre les États, les peuples et les citoyens européens, selon la formule des traités – une portée résolument identitaire, en en faisant un instrument pour sauvegarder la « #civilisation_européenne » face à d’« autres » qui la menaceraient ? La seconde hypothèse n’a certes rien de problématique aux yeux des partisans de la quête d’« Européanité », pour qui le projet européen n’a de sens que s’il est tout entier tourné vers la défense de la « substance » identitaire de la « civilisation européenne ».

    En revanche, le passage à une « intégration éthique », tel que le suggère l’exhortation à s’en remettre à une « Europe des valeurs » plutôt que des droits ou de la citoyenneté, comporte des risques importants pour celles et ceux qui souhaitent maintenir l’Union dans le giron d’une « intégration politique », fondée sur le respect prioritaire des principes démocratiques, de l’État de droit et des libertés fondamentales. D’où également les craintes que concourt à attiser l’association explicite des « valeurs de l’Union » à un « mode de vie » à préserver de ses « autres éthiques ». Deux risques principaux semblent, à cet égard, devoir être mentionnés.

    En premier lieu, le risque d’exclusion des « autres » est intensifié par la généralisation de politiques imposant un critère de #compatibilité_identitaire à celles et ceux que leur altérité « éthique », réelle ou supposée, concourt à placer à l’extérieur d’une « communauté de valeurs » enracinée dans des traditions particulières, notamment religieuses. Fondé sur ces bases identitaires, le traitement des étrangers en Europe manifesterait, selon #Etienne_Tassin, l’autocontradiction d’une Union se prévalant « de la raison philosophique, de l’esprit d’universalité, de la culture humaniste, du règne des droits de l’homme, du souci pour le monde dans l’ouverture aux autres », mais échouant lamentablement à son « test cosmopolitique et démocratique ». Loin de représenter un simple « dommage collatéral » des politiques migratoires de l’UE, les processus d’exclusion touchant les étrangers constitueraient, d’après lui, « leur centre ». Même position de la part d’Étienne Balibar qui n’hésite pas à dénoncer le « statut d’#apartheid » affectant « l’immigration “extracommunautaire” », signifiant par là l’« isolement postcolonial des populations “autochtones” et des populations “allogènes” » ainsi que la construction d’une catégorie d’« étrangers plus qu’étrangers » traités comme « radicalement “autres”, dissemblables et inassimilables ».

    Le second risque que fait courir la valorisation d’un « nous » européen désireux de préserver son intégrité « éthique », touche au respect du #pluralisme. Si l’exclusion des « autres » entre assez clairement en tension avec les « valeurs » proclamées par l’Union, les tendances à l’homogénéisation résultant de l’affirmation d’un consensus fort sur des valeurs déclarées comme étant « toujours déjà » communes aux Européens ne sont pas moins susceptibles de contredire le sens – à la fois la signification et l’orientation – du projet européen. Pris au sérieux, le respect du pluralisme implique que soit tolérée et même reconnue une diversité légitime de « valeurs », de visions du bien et du monde, dans les limites fixées par l’égale liberté et les droits fondamentaux. Ce « fait du pluralisme raisonnable », avec les désaccords « éthiques » incontournables qui l’animent, est le « résultat normal » d’un exercice du pouvoir respectant les libertés individuelles. Avec son insistance sur le partage de convictions morales s’incarnant dans un mode de vie culturel, « l’Europe des valeurs » risque de produire une « substantialisation rampante » du « nous » européen, et d’entériner « la prédominance d’une culture majoritaire qui abuse d’un pouvoir de définition historiquement acquis pour définir à elle seule, selon ses propres critères, ce qui doit être considéré comme la culture politique obligatoire de la société pluraliste ».

    Soumis aux attentes de reproduction d’une identité aux frontières « éthiques », le projet européen est, en fin de compte, dévié de sa trajectoire, en ce qui concerne aussi bien l’inclusion des « autres » que la possibilité d’un « nous » qui puisse s’unir « dans la diversité ».

    https://laviedesidees.fr/L-Europe-et-la-fabrique-de-l-etranger
    #identité #altérité #intégration_éthique #intégration_politique #religion #islam

    • Politique de l’exclusion

      Notion aussi usitée que contestée, souvent réduite à sa dimension socio-économique, l’exclusion occupe pourtant une place centrale dans l’histoire de la politique moderne. Les universitaires réunis autour de cette question abordent la dimension constituante de l’exclusion en faisant dialoguer leurs disciplines (droit, histoire, science politique, sociologie). Remontant à la naissance de la citoyenneté moderne, leurs analyses retracent l’invention de l’espace civique, avec ses frontières, ses marges et ses zones d’exclusion, jusqu’à l’élaboration actuelle d’un corpus de valeurs européennes, et l’émergence de nouvelles mobilisations contre les injustices redessinant les frontières du politique.

      Tout en discutant des usages du concept d’exclusion en tenant compte des apports critiques, ce livre explore la manière dont la notion éclaire les dilemmes et les complexités contemporaines du rapport à l’autre. Il entend ainsi dévoiler l’envers de l’ordre civique, en révélant la permanence d’une gouvernementalité par l’exclusion.

      https://www.puf.com/politique-de-lexclusion

      #livre

  • Panorama des #mesures régissant l’entrée et le séjour des étrangers en #France (1972-2023)

    A l’heure de l’adoption de la révoltante « #loi_Darmanin », le #collectif_Ruptures publie une #recension de toutes les #lois régissant l’entrée et le séjour des étrangers en France. Loi après loi, #décret après décret, dispositif après #dispositif, année après année, ce panorama de la « #gestion_des_flux_migratoires » sur la période 1972-2023 vient compléter la brochure Lois répressives et autres bagatelles (France, 1974-2022) que nous avons édité au printemps.

    Ce tome 2 de Bagatelles est intégralement téléchargeable ici, et son introduction est lisible ci-dessous :
    https://collectifruptures.files.wordpress.com/2024/01/brochure_bagatelles2.pdf?force_download=true

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    Introduction

    Le 27 décembre 2023, Didier Leschi, directeur général de l’Office français de l’immigration et de l’intégration (OFII) s’exprime dans Le monde sur la dernière loi votée huit jours plus tôt.
    Selon lui, « les mesures adoptées en France demeurent plus ouvertes que dans les principaux pays de l’Union européenne », et « la prise en charge de la santé des sans-papiers bien meilleure comparée à l’Allemagne, l’Autriche, la Suède, le Danemark, aux Pays-Bas ou à l’Espagne ».
    On veut bien le croire. Et le remercier de nous confirmer que la montée de la gestion comptable de l’humain et de son traitement comme un simple rouage qu’on peut utiliser ou jeter selon les besoins économiques n’est pas propre à la France. En effet tous les pays cités par le directeur de l’OFII sont gérés depuis des décennies par de « bons pères de familles », tout à fait démocratiques, libéraux et propres sur eux. Remercions donc Didier Leschi pour cet éclaircissement.
    Mais pour mieux comprendre quelles sont ces « mesures », nous proposons ici de prendre un peu de recul historique, à l’échelle des cinquante dernières années.

    C’est pourquoi cette brochure recense l’ensemble des lois migratoires régissant l’entrée et le séjour des étrangers en France mises en place de 1972 à 2023.
    Elle constitue le deuxième volet d’un travail destiné à comprendre la montée d’une société de #surveillance_généralisée, mais sans les oripeaux du #fascisme historique, de façon libérale-autoritaire (1). La première partie, publiée en mai 2023, était consacrée aux lois, #arrêtés et décrets régissants la créations de fichiers informatiques et le travail de la police. Une troisième partie suivra, qui sera une recension de l’inflation technologique qui s’articule avec l’inflation juridique.
    Si le sort des Français et des étrangers est intimement lié, ils subissent un traitement différencié de la part de l’Etat. Nous avons décidé de consacrer une partie spécifique au traitement des étrangers en France pour une raison très pragmatique : la quantité très importante de lois visant spécifiquement l’entrée et le séjour des étrangers en France (d’où l’épaisseur de cette brochure : 128 pages !).

    Pourquoi avons-nous mené un tel travail ? Rappelez-vous l’été 2021 et la mise en place du pass sanitaire. Cette mesure, qui a motivé la création de notre collectif, nous est apparue comme la « goutte de trop ». Il nous a alors paru logique de nous livrer au travail de recension de toutes les gouttes précédentes, afin d’offrir un panorama de l’évolution de la législation et de mettre en perspective historique les mesures sanitaires de 2020-2021. En effet, toute personne qui s’intéresse à la surveillance, au contrôle, à la répression et la limitation de circulation des individus ne peut que constater qu’il est difficile – quasi-impossible – de suivre l’inflation de l’arsenal juridique qui régit les pratiques policières, les fichiers de collecte de données et les lois sur le séjour des étrangers. Dans nos sociétés prétendues « libérales » et « démocratiques », en matière de restriction de libertés et de répression, une loi s’empile sur la précédente, ce qui est annoncé comme un « simple projet » devient souvent rapidement une proposition de loi, puis une réalité juridique… et en route pour la suivante ! Cette brochure se veut donc une mise en perspective historique pour mieux comprendre les lois du présent.
    Précisons que nous ne proposons pas ici d’analyse, ou très peu, mais une simple #chronologie qui permet à chacun et chacune d’avoir accès à ces informations dispersées (2).

    Ruptures
    décembre 2023

    (1) Lire Grégoire Chamayou, La société ingouvernable, La fabrique, 2018.
    (2) Nos analyses sont quant à elles développées dans le journal La nouvelle vague, que nous publions régulièrement depuis décembre 2021. Voir en particulier « Réflexions sur l’autoritarisme et l’extrême-droite » (dans La nouvelle vague n°4).

    https://collectifruptures.wordpress.com/2024/01/01/loi-darmanin-et-avant
    #histoire #lois #dispositions #migrations #asile #réfugiés #séjour #frontières #ressources_pédagogiques #répression #liste

    via @karine4

  • Les oubliés du droit d’asile

    Plus de 500 personnes ont participé à l’enquête réalisée sur 5 structures d’accueil parisiennes. L’enquête a permis la production d’un rapport final à partir de l’analyse des données quantitatives et qualitatives recueillies.


    Le rapport « Les oubliés du droit d’asile » dresse un constat alarmant sur les conditions d’existence des #hommes_isolés fréquentant les structures sur lesquelles l’enquête a été menée. Ces résultats amènent les associations à formuler des recommandations qui supposent une adaptation réglementaire et législative, l’augmentation des moyens ou l’ajustement des pratiques. Les associations en sont convaincues, les réponses aux difficultés rencontrées par les hommes isolés visés par l’enquête ne pourront se construire qu’en concertation et collaboration entre les associations, les services et agences de l’Etat et les collectivités.

    https://www.youtube.com/watch?v=ScjteUjbWAA

    https://www.actioncontrelafaim.org/publication/les-oublies-du-droit-dasile
    #rapport #France #Paris #asile #migrations #réfugiés #accueil #recommandations #SDF #sans-abris #sans-abrisme #hébergement #conditions_d'accueil #île_de_France #conditions_matérielles_d'accueil #enquête #dispositif_d'accueil #précarisation #allocation_pour_demandeurs_d'asile (#ADA) #accès_aux_droits #faim #santé_mentale

    ping @karine4

    • 95 entretiens poussés , un peu de sérieux , 85 bénévoles combien ça coute ? transmission des résultats aux services publiques , canal habituel ? l’honorable correspondant ? etc ...

  • Nord de la France : le barrage flottant, nouveau dispositif pour freiner les traversées de la Manche

    Pour faire face au phénomène des "taxi-boats" de migrants, les autorités du #Pas-de-Calais ont décidé d’installer un barrage flottant en travers de la #Canche, un #fleuve qui se jette dans la Manche tout près du #Touquet et d’où les exilés prennent souvent la mer.

    Quelques kilomètres avant de se jeter dans la Manche, le fleuve la Canche est maintenant coupé en deux par un barrage de bouées flottantes jaunes. À quelques mètres du pont rose de la ville d’Étaples, à une soixantaine de kilomètres au sud de Calais, la navigation est désormais interdite. Ce nouveau #dispositif, mis en place par la préfecture du département, vient s’ajouter à celui déjà existant pour lutter contre l’immigration illégale et les traversées de la Manche.

    Avec cette ligne de bouées qui traversent le fleuve de part en part, fixées à deux piliers en béton, c’est plus particulièrement aux "taxi-boats" que les autorités veulent s’attaquer. Un phénomène de plus en plus utilisé par les passeurs du littoral français pour rejoindre le Royaume-Uni. Comment cela fonctionne ? "Le bateau est gonflé et mis à l’eau sur des cours d’eau qui rejoignent la mer. Les passeurs remontent ensuite la côte et chargent les passagers à un endroit bien précis, ce qui permet d’éviter l’interception sur la plage", expliquait à Infomigrants Xavier Delrieu, chef de l’Office de lutte contre le trafic illicite de migrants (OLTIM), qui traque les filières d’immigration clandestine dans toute la France.

    Une technique qui peut mettre en difficulté les autorités françaises car "à partir du moment où les migrants sont dans l’eau, ce n’est plus une opération de police mais de sauvetage en mer", ajoute-t-il. Et qui peut mettre en danger les exilés, qui attendent les embarcations dans l’eau, parfois jusqu’au torse, et risquent ainsi "la noyade, l’hypothermie ou l’enlisement dans les vasières", selon la préfecture.

    Et pour justifier ce nouveau dispositif, la préfecture explique que le phénomène des "taxi-boats", "est monté en puissance depuis quelques mois". "Depuis le début de l’année 2023, 22 évènements ont été recensés sur le fleuve de la Canche, avec une moyenne de 46 migrants sur chaque embarcation". Ainsi, avec ce barrage flottant, la préfecture espère "empêcher les ’taxi-boats’ d’atteindre le rivage et interpeller les passeurs".

    "Doubler le temps de traversée et les risques qui vont avec"

    Pour les associations sur place, le discours est le même qu’à chaque annonce d’un nouveau dispositif sécuritaire dans la région : "Cela ne résoudra rien", glissent-elles à Infomigrants.

    "Là, déjà, les gens partent de la Canche pour fuir le dispositif en place sur les côtes. Tous ces nouveaux dispositifs, ça les pousse uniquement à aller encore plus loin. Ça ne fait que doubler le temps de traversée et les risques qui vont avec", tance Pierre Roques, délégué général de l’Auberge des migrants. Et d’ajouter : "Les réseaux de passeurs vont juste se réadapter et vont devenir encore plus indispensables".

    Et les chiffres montrent que malgré l’augmentation des effectifs et des moyens de surveillance de la frontière, les traversées augmentent. “Il y a toujours autant de personnes qui passent quelles que soient les dispositions”, résume Pierre Roques qui réitère la demande tenue par les associations depuis des mois : “Un accueil digne et une voie sûre entre les deux pays”.

    Contactée par Infomigrants, une source policière confiait même récemment que "plus il y a d’effectifs, plus ça part". "Ce n’est pas parce que nous sommes là qu’ils arrêtent de partir", témoignait cette même source, partageant aussi le changement de stratégie des passeurs. Selon un rapport publié par l’association Utopia 56 le mois dernier, les tentatives de traversées dans la Manche ont augmenté de 22 % en juin malgré le renforcement des effectifs de police et grâce à une météo clémente.
    "Il y a clairement une hausse des arrivées"

    Et ces derniers mois, les traversées de la Manche se sont multipliées. Près de 8 150 migrants répartis dans 180 embarcations ont tenté de traverser le détroit entre début juin et fin juillet, contre environ 7 700 sur la même période en 2022, selon les chiffres de la préfecture. En 2022, année record, 45 000 personnes ont réussi la traversée et, depuis 2018, ce sont plus de 100 000 migrants qui sont arrivés au Royaume-Uni après avoir traversé la Manche.

    Rien que pour la journée du samedi 12 août , 509 personnes ont réussi à atteindre les côtes anglaises à bord de 10 embarcations, selon le ministère de l’Intérieur britannique. Le lendemain, 759 exilés ont traversé la Manche, un record journalier depuis le début de l’année.

    "En ce moment, la situation est très tendue dans la région", confie Francesca Morassut, coordinatrice d’Utopia 56 à Calais. "Ces derniers mois, il y a clairement une hausse des arrivées [dans la région]. Toutes les associations sont vraiment hyper sollicitées. Il y a un manque d’eau et de solution d’hébergement", explique-t-elle. Selon la responsable associative, environ 1 200 personnes, "dont beaucoup de familles", vivent dans les campements informels à Calais et 800 à Grande-Synthe. "Une situation comme on n’avait pas vu depuis des mois."

    https://www.infomigrants.net/fr/post/51077/nord-de-la-france--le-barrage-flottant-nouveau-dispositif-pour-freiner

    #barrières #barrières_frontalières #murs_flottants #barrières_flottantes #Manche #Angleterre #GB #France #Calais #frontières #migrations #asile #réfugiés #militarisation_des_frontières

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    Peu après l’installation de #grillages à #Vintimille :
    Ventimiglia, recinzioni sulle sponde del Roya per impedirne l’accesso ai migranti
    https://seenthis.net/messages/1012378
    #Roya

  • Migrations : l’Union européenne, droit dans le mur

    La Commission européenne affirme que l’UE ne finance pas de « murs » anti-migrants à ses #frontières_extérieures, malgré les demandes insistantes d’États de l’est de l’Europe. En réalité, cette « ligne rouge » de l’exécutif, qui a toujours été floue, s’efface de plus en plus.

    Le 14 juin dernier, le naufrage d’un bateau entraînait la noyade de centaines de personnes exilées. Quelques jours auparavant, le 8 juin, les États membres de l’Union européenne s’enorgueillissaient d’avoir trouvé un accord sur deux règlements essentiels du « Pacte européen pour l’asile et la migration », qui multipliera les procédures d’asile express dans des centres de détention aux frontières de l’Europe, faisant craindre aux ONG une nouvelle érosion du droit d’asile.

    Dans ce contexte délétère, un groupe d’une douzaine d’États membres, surtout d’Europe de l’Est, réclame que l’Union européenne reconnaisse leur rôle de « protecteurs » des frontières de l’Union en autorisant le financement européen de murs, #clôtures et #barbelés pour contenir le « flux migratoire ». Le premier ministre grec, Kyriákos Mitsotákis, avait même estimé que son pays était en première ligne face à « l’invasion de migrants ».

    Officiellement, la Commission européenne se refuse toujours à financer les multiples projets de clôtures anti-migrants qui s’érigent le long des frontières extérieures de l’UE. « Nous avons un principe bien établi : nous ne finançons pas de murs ni de barbelés. Et je pense que cela ne devrait pas changer », avait encore déclaré Ylva Johansson, la commissaire européenne aux affaires intérieures, le 31 janvier. Pourtant, la ligne rouge semble inexorablement s’effacer.

    Le 7 octobre 2021, les ministres de douze États, dont la #Grèce, la #Pologne, la #Hongrie, la #Bulgarie ou les #Pays_baltes, demandaient par écrit à la Commission que le financement de « #barrières_physiques » aux frontières de l’UE soit une « priorité », car cette « mesure de protection » serait un outil « efficace et légitime » dans l’intérêt de toute l’Union. Une demande qu’ils réitèrent depuis à toute occasion.

    Les États membres n’ont pas attendu un quelconque « feu vert » de la Commission pour ériger des clôtures. Les premières ont été construites par l’Espagne dans les années 1990, dans les enclaves de Ceuta et Melilla. Mais c’est en 2015, après l’exil de centaines de milliers de Syrien·nes fuyant la guerre civile, que les barrières se sont multipliées. Alors que l’Union européenne comptait 315 kilomètres de fil de fer et barbelés à ses frontières en 2014, elle en totalisait 2 048 l’an passé.

    Depuis 2021, ce groupe d’États revient sans cesse à la charge. Lors de son arrivée au sommet des dirigeants européens, le 9 février dernier, Victor Orbán (Hongrie) annonçait la couleur : « Les barrières protègent l’Europe. » Les conclusions de ce sommet, ambiguës, semblaient ouvrir une brèche dans la politique européenne de financement du contrôle aux frontières. Les États demandaient « à la Commission de mobiliser immédiatement des fonds pour aider les États membres à renforcer […] les infrastructures de protection des frontières ».

    Dans ses réponses écrites aux questions de Mediapart, la Commission ne mentionne plus aucune ligne rouge : « Les États membres ont une obligation de protéger les frontières extérieures. Ils sont les mieux placés pour définir comment le faire en pratique d’une manière qui […] respecte les droits fondamentaux. »

    Si l’on en croit le ministre de l’intérieur grec, Panagiótis Mitarákis, les dernières résistances de la Commission seraient en train de tomber. Le 24 février, il affirmait, au sujet du projet grec d’#extension et de renforcement de sa clôture avec la Turquie, le long de la rivière #Evros, que la Commission avait « accepté que certaines dépenses pour la construction de la barrière soient financées par l’Union européenne ».

    Pour Catherine Woollard, de l’ONG Ecre (Conseil européen pour les réfugiés et exilés), « c’est important que la Commission résiste à ces appels de financement des murs et clôtures, car il faut respecter le droit de demander l’asile qui implique un accès au territoire. Mais cette position risque de devenir symbolique si les barrières sont tout de même construites et qu’en plus se développent des barrières d’autres types, numériques et technologiques, surtout dans des États qui utilisent la force et des mesures illégales pour refouler les demandeurs d’asile ».

    D’une ligne rouge à une ligne floue

    Au sein de l’ONG Statewatch, Chris Jones estime que « cette “ligne rouge” de la Commission européenne, c’est du grand n’importe quoi ! Cela fait des années que l’Union européenne finance des dispositifs autour ou sur ces clôtures, des #drones, des #caméras, des #véhicules, des #officiers. Dire que l’UE ne finance pas de clôtures, c’est uniquement sémantique, quand des milliards d’euros sont dépensés pour fortifier les frontières ». Même diagnostic chez Mark Akkerman, chercheur néerlandais au Transnational Institute, pour qui la « #ligne_rouge de la Commission est plutôt une ligne floue ». Dans ses travaux, il avait déjà démontré qu’en 2010, l’UE avait financé l’achat de #caméras_de_vidéosurveillance à #Ceuta et la construction d’un #mirador à #Melilla.

    Lorsqu’il est disponible, le détail des dépenses relatives au contrôle des frontières montre que la politique de non-financement des « murs » est une ligne de crête, car si la Commission ne finance pas le béton ni les barbelés, elle finance bien des #dispositifs qui les accompagnent.

    En 2021, par exemple, la #Lituanie a reçu 14,9 millions d’euros de fonds d’aide d’urgence pour « renforcer » sa frontière extérieure avec la Biélorussie, peut-on lire dans un rapport de la Commission. Une frontière qui, selon le ministère de l’intérieur lituanien, contacté par Mediapart, est « désormais longée d’une clôture de 530 km et d’une barrière surmontée de fils barbelés sur 360 kilomètres ». Si la barrière a pesé 148 millions d’euros sur le #budget de l’État, le ministère de l’intérieur affirme que la rénovation de la route qui la longe et permet aux gardes-frontières de patrouiller a été financée à hauteur de « 10 millions d’euros par des fonds européens ».

    En Grèce, le détail des dépenses du gouvernement, dans le cadre du fonds européen de sécurité intérieur, de 2014 à 2020, est éclairant. Toujours le long de la rivière Evros, là où est érigée la barrière physique, la police grecque a pu bénéficier en 2016 d’un apport de 15 millions d’euros, dont 11,2 millions financés par le fonds européen pour la sécurité intérieure, afin de construire 10 #pylônes et d’y intégrer des #caméras_thermiques, des caméras de surveillance, des #radars et autres systèmes de communication.

    Cet apport financier fut complété la même année par 1,5 million d’euros pour l’achat d’#équipements permettant de détecter les battements de cœur dans les véhicules, coffres ou conteneurs.

    Mais l’enjeu, en Grèce, c’est avant tout la mer, là où des bateaux des gardes-côtes sont impliqués dans des cas de refoulements documentés. Dans son programme d’action national du fonds européen relatif à la gestion des frontières et des visas, écrit en 2021, le gouvernement grec envisage le renouvellement de sa flotte, dont une dizaine de bateaux de #patrouille côtière, équipés de #technologies de #surveillance dernier cri, pour environ 60 millions d’euros. Et malgré les refoulements, la Commission européenne octroie les fonds.

    Technologies et barrières font bon ménage

    Les États membres de l’UE qui font partie de l’espace Schengen ont pour mission de « protéger les frontières extérieures ». Le droit européen leur impose aussi de respecter le droit d’asile. « Les exigences du code Schengen contredisent bien souvent l’acquis européen en matière d’asile. Lorsqu’un grand nombre de personnes arrivent aux frontières de l’Union européenne et qu’il existe des pressions pour faire baisser ce nombre, il est presque impossible de le faire sans violer certaines règles relatives au droit d’asile », reconnaît Atanas Rusev, directeur du programme « sécurité » du Centre pour l’étude de la démocratie, basé en Bulgarie.

    La Bulgarie est au cœur de ces tiraillements européens. En 2022, la police a comptabilisé 164 000 passages dits « irréguliers » de sa frontière, contre 55 000 l’année précédente. Des demandeurs d’asile qui, pour la plupart, souhaitent se rendre dans d’autres pays européens.

    Les Pays-Bas ou l’Autriche ont fait pression pour que la #Bulgarie réduise ce nombre, agitant la menace d’un report de son intégration à l’espace Schengen. Dans le même temps, des ONG locales, comme le Helsinki Committee Center ou le Refugee Help Group, dénoncent la brutalité qui s’exerce sur les exilé·es et les refoulements massifs dont ils sont victimes. Le pays a construit une clôture de 234 kilomètres le long de sa frontière avec la Turquie.

    Dans son plan d’action, le gouvernement bulgare détaille son intention de dépenser l’argent européen du fonds relatif à la gestion des frontières, sur la période 2021-2027, pour renforcer son « système de surveillance intégré » ; une collecte de données en temps réel par des caméras thermiques, des #capteurs_de_mouvements, des systèmes de surveillance mobiles, des #hélicoptères.

    Philip Gounev est consultant dans le domaine de la gestion des frontières. Il fut surtout ministre adjoint des affaires intérieures en Bulgarie, chargé des fonds européens, mais aussi de l’érection de la barrière à la frontière turque. Il explique très clairement la complémentarité, à ses yeux, des différents dispositifs : « Notre barrière ne fait que ralentir les migrants de cinq minutes. Mais ces cinq minutes sont importantes. Grâce aux caméras et capteurs qui détectent des mouvements ou une brèche dans la barrière, l’intervention des gardes-frontières est rapide. »

    L’appétit pour les technologies et le numérique ne fait que croître, au point que des ONG, comme l’EDRi (European Digital Rights) dénoncent la construction par l’UE d’un « #mur_numérique ». Dans ce domaine, le programme de recherche européen #Horizon_Europe et, avant lui, #Horizon_2020, tracent les contours du futur numérisé des contrôles, par le financement de projets portés par l’industrie et des centres de #recherche, au caractère parfois dystopique.

    De 2017 à 2021, « #Roborder » a reçu une aide publique de 8 millions d’euros. L’idée est de déployer une armada de véhicules sans pilotes, sur la mer ou sur terre, ainsi que différents drones, tous munis de caméras et capteurs, et dont les informations seraient croisées et analysées pour donner une image précise des mouvements humains aux abords des frontières. Dans son programme d’action national d’utilisation du fonds européen pour la gestion des frontières, la Hongrie manifeste un intérêt appuyé pour « l’adaptation partielle des résultats » de Roborder via une série de projets pilotes à ses frontières.

    Les #projets_de_recherche dans le domaine des frontières sont nombreux. Citons « #Foldout », dont les 8 millions d’euros servent à développer des technologies de #détection de personnes, à travers des #feuillages épais « dans les zones les plus reculées de l’Union européenne ». « Le développement de technologies et de l’#intelligence_artificielle aux frontières de l’Europe est potentiellement plus puissant que des murs, décrypte Sarah Chandler, de l’EDRi. Notre inquiétude, c’est que ces technologies soient utilisées pour des #refoulements aux frontières. »

    D’autres projets, développés sous l’impulsion de #Frontex, utilisent les croisements de #données et l’intelligence artificielle pour analyser, voire prédire, les mouvements migratoires. « Le déploiement de nouvelles technologies de surveillance, avec la construction de barrières pour bloquer les routes migratoires, est intimement lié à des dangers accrus et provoque davantage de morts des personnes en mouvement », peut-on lire dans un rapport de Statewatch. Dans un contexte de droitisation de nombreux États membres de l’Union européenne, Philip Gounev pense de son côté que « le financement de barrières physiques par l’UE deviendra inévitable ».

    https://www.mediapart.fr/journal/international/170723/migrations-l-union-europeenne-droit-dans-le-mur
    #murs #barrières_frontalières #migrations #financement #UE #EU #Union_européenne #technologie #complexe_militaro-industriel

  • #Orientation des migrants en région : des retours du terrain « de plus en plus inquiétants », faute de places dans l’#hébergement_d’urgence

    Des opérateurs craignent que la politique de #désengorgement de l’#Ile-de-France, qui passe par la création de « #sas », des centres d’#accueil_temporaire, n’offre pas de #solution pérenne.

    Marie (son prénom a été modifié) est déjà repartie. Cette Angolaise est arrivée à Bordeaux aux alentours de la mi-juin, avec son garçon de 6 ans. Cela faisait trois ans qu’ils étaient logés dans un centre d’accueil pour demandeurs d’asile (#CADA) dans le 12e arrondissement de #Paris.

    Courant avril, les gestionnaires de l’établissement ont commencé, selon Marie, à expliquer à certains des occupants – ceux qui avaient été #déboutés de leur demande d’asile ou qui avaient obtenu leur statut de réfugié – qu’ils devaient quitter les lieux, laisser la place à des personnes en cours de procédure. Ils leur ont proposé d’aller en région, à Bordeaux et en banlieue rennaise, dans des #centres_d’accueil temporaires.

    Certains ont refusé. Marie, elle, a été « la dernière à [se] décider à partir », sous la « #pression ». On lui avait fait miroiter une scolarisation pour son fils – déjà en CP à Paris – et un hébergement. Elle a vite déchanté. « On a pris mes empreintes à la préfecture et donné un récépissé pour une demande de réexamen de ma demande d’asile alors que je ne souhaitais pas faire cela, explique-t-elle. Je n’ai pas d’éléments nouveaux à apporter et je risque une nouvelle OQTF [obligation de quitter le territoire français]. On m’a expliqué que sans ça, je n’aurais pas le droit à un logement et que le 115 [l’#hébergement_d’urgence] à Bordeaux, c’est pire qu’à Paris, qu’on nous trouve des hébergements pour deux jours seulement. » Marie n’a pas hésité longtemps. Revenue à Paris, elle « squatte » désormais chez une amie. La semaine, elle envoie son fils au centre de loisirs tandis qu’elle fait des ménages au noir dans un hôtel. Tous les jours, elle appelle le 115 pour obtenir un hébergement. En vain.

    Cet exemple symbolise les difficultés du gouvernement dans sa politique d’ouverture de « sas ». Ces #centres_d’accueil_temporaire, installés en province, sont censés héberger des migrants qui se trouvent à la rue, dans des #hôtels_sociaux, des #gymnases ou encore dans les centres réservés aux demandeurs d’asile qui sont en cours de procédure.

    Approche discrète

    Cette politique, commencée début avril pour désengorger l’Ile-de-France – dont les dispositifs sont exsangues et plus coûteux pour le budget de l’Etat –, se veut pourtant innovante. Dix « sas » de cinquante places chacun doivent à terme ouvrir, dans lesquels les personnes transitent trois semaines au plus, avant d’être basculées principalement vers de l’hébergement d’urgence généraliste ou, pour celles qui en relèvent, vers le #dispositif_d’accueil des demandeurs d’asile. Ces « sas » reposent sur le #volontariat et, pour susciter l’adhésion, sont censés « permettre d’accélérer le traitement des situations des personnes dont l’attente se prolonge en Ile-de-France sans perspective réelle à court et moyen termes », défend, dans un courriel adressé au Monde, le ministère du logement.

    C’est ce dernier qui pilote désormais la communication autour du dispositif. Au moment du lancement de celui-ci, c’est le ministère de l’intérieur qui en avait présenté les contours. Un changement d’affichage qui n’est pas anodin. Dans un contexte sensible, où plusieurs projets de centres d’accueil pour migrants en région ont suscité des manifestations hostiles, voire violentes de l’extrême droite, les pouvoirs publics optent pour une approche discrète.

    Dans les faits, d’après les premiers éléments remontés et portant sur plusieurs centaines de personnes orientées, « 80 % sont des réfugiés statutaires et des demandeurs d’asile », le restant étant constitué de personnes sans-papiers, rapporte Pascal Brice, président de la Fédération des acteurs de la solidarité (FAS), qui chapeaute quelque 870 structures de lutte contre l’exclusion, dont les opérateurs de ces « sas » régionaux. « C’est un travail auprès des #sans-abri, migrants ou pas, ce n’est pas le sujet », martèle-t-on néanmoins au cabinet d’Olivier Klein, le ministre délégué au logement.

    « On est en train de planter le dispositif »

    Une posture qui agace Pascal Brice. Il dresse un parallèle avec la situation qui a prévalu à Saint-Brevin (Loire-Atlantique), où le maire (divers droite), Yannick Morez, a démissionné en dénonçant l’absence de soutien de l’Etat. L’édile avait été victime de menaces de mort et son domicile incendié dans un contexte de déménagement d’un CADA. « Il faut se donner les moyens politiques de réussir ce dispositif, or l’Etat n’assume pas sa politique d’accueil organisé et maîtrisé. Il fait les choses en catimini », regrette M. Brice. Les remontées du terrain seraient, en outre, « de plus en plus inquiétantes », assure le président de la FAS.

    Adoma, l’opérateur d’un « sas » de cinquante places dans le 10e arrondissement de Marseille, considère que ce dernier « joue son rôle ». « Nous en sommes au troisième accueil de bus et ça fonctionne. Nous avons la garantie que les gens ne seront pas remis à la rue », rapporte Emilie Tapin, directrice d’hébergement pour #Adoma dans la cité phocéenne, où ont jusque-là été accueillis une majorité d’hommes afghans en demande d’asile. Mais ailleurs, le manque de places d’hébergement d’urgence vers lesquelles faire basculer les personnes après leur passage en « sas » se dresse comme un sérieux obstacle.

    « Notre 115 est saturé et on a déjà des #squats et des #campements », s’inquiète Floriane Varieras, adjointe à la maire écologiste de Strasbourg. Une commune voisine, Geispolsheim, accueille un « sas ». « Sans création de places nouvelles, la tension sur l’hébergement d’urgence est tellement forte qu’on craint que le schéma vertueux qui visait à éviter que les personnes ne reviennent en région parisienne ne craque », signale à son tour la directrice générale de France terre d’asile, Delphine Rouilleault, qui s’occupe d’un « sas » près d’Angers.

    Le ministère du logement assure que 3 600 places ont été « sanctuarisées dans le parc d’hébergement d’urgence pour faciliter la fluidité à la sortie des structures d’accueil temporaires ». Ce qui sous-entend que ces orientations se feront à moyens constants.

    « On est en train de planter le dispositif, alerte Pascal Brice. Des gens sont orientés vers le 115 depuis les “sas” et remis à la rue au bout de quarante-huit heures. C’est insoutenable. Je me suis rendu dans plusieurs régions et, partout, l’Etat ferme des places d’hébergement d’urgence. Si les conditions perduraient, la FAS devrait à son plus grand regret envisager un retrait de ce dispositif. »

    La province ? « Tu ne peux pas bosser là-bas »

    Outre la question de l’hébergement, le succès des « sas » devait s’appuyer sur la promesse faite aux personnes d’une étude bienveillante de leur situation administrative. Sans parler franchement de régularisation, le ministère de l’intérieur avait assuré au Monde, en mars, qu’il y aurait des réexamens au regard du #droit_au_séjour. « Il y a un travail de conviction qui n’est pas encore installé », considère à ce stade Mme Rouilleault.

    Le Monde a rencontré plusieurs familles ayant refusé une orientation en #province, à l’image de Hawa Diallo, une Malienne de 28 ans, mère de deux filles, dont une âgée de 10 ans et scolarisée dans le 15e arrondissement. « J’ai beaucoup de rendez-vous à Paris, à la préfecture, à la PMI [protection maternelle et infantile], à l’hôpital, justifie-t-elle. Et puis le papa n’a pas de papiers, mais il se débrouille à gauche, à droite avec des petits boulots. »

    La province ? « Pour ceux qui sont déboutés de l’asile, ça ne sert à rien. Quand tu n’as pas de papiers, tu ne peux pas bosser là-bas », croit à son tour Brahima Camara. A Paris, cet Ivoirien de 30 ans fait de la livraison à vélo pour la plate-forme #Deliveroo. « Je loue un compte à quelqu’un [qui a des papiers] pour 100 euros par semaine et j’en gagne 300 à 400. C’est chaud, mais c’est mieux que voler. » Sa compagne, Fatoumata Konaté, 28 ans, est enceinte de quatre mois. Les deux Ivoiriens n’ont jamais quitté la région parisienne depuis qu’ils sont arrivés en France, il y a respectivement quatre et deux ans. Ils ont, un temps, été hébergés par le 115 dans divers endroits de l’Essonne. Depuis un an, « on traîne à la rue », confie Fatoumata Konaté. « Parfois, on dort dans des squats, parfois on nous donne des tentes. »

    Chaque nuit, rien qu’à Paris, un millier de demandes auprès du 115 restent insatisfaites. Lasses, le 6 juillet, plus d’une centaine de personnes en famille originaires d’Afrique de l’Ouest ont investi deux accueils de jour de la capitale tenus par les associations Aurore et Emmaüs et y ont passé la nuit, faute de solution. « La situation devient intenable, prévient le directeur général d’Emmaüs Solidarité, Lotfi Ouanezar. On ne résoudra rien si on ne change pas de braquet. »

    https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/07/17/orientation-des-migrants-en-region-des-retours-du-terrain-de-plus-en-plus-in

    #migrations #asile #réfugiés #France #hébergement #SDF #dispersion

    via @karine4

  • Nouveau cri d’alarme du #Refuge_solidaire

    Mettant à l’abri depuis 2017 les migrants arrivant d’Italie, les associations briançonnaises, réunies au sein des Terrasses solidaires alertent sur la saturation du lieu depuis début mai, avec plus d’une centaine de personnes hébergées. La préfecture des hautes-Alpes reconnait qu’il n’y a « actuellement plus de places disponibles » dans le #dispositif_d'hébergement_d'urgence du département, mais n’annonce pas de création de place.

    Les associations regroupées au sein des Terrasses solidaires à Briançon affirment avoir alerté à plusieurs reprises depuis le 10 mai le préfet des hautes-Alpes, #Dominique_Dufour, sur la #saturation de ce lieu. Le bâtiment dispose de 64 places d’#hébergement_d’urgence. Depuis début mai, le nombre de personnes exilées accueillies atteint le double de cette #capacité_d’accueil, avec un pic à 136 personnes dimanche 21 mai. Jean Gaboriau, administrateur de l’association Refuges Solidaires, joint par téléphone lundi, rappelle que l’autorisation administrative du bâtiment, comme établissement recevant du public, est de 81 places.

    "Au quotidien, ça veut dire que le réfectoire sert de dortoir, que dans les petites salles de réunion, on met aussi des dortoirs. On arrive à répartir des gens aussi chez les hébergeurs solidaires, qui prennent quelques personnes soit des familles, soit des femmes et enfants, et la salle paroissiale Saint-Thérèse qui reste à notre disposition quelques nuits par semaine."
    Jean Gaboriau, administrateur de l’association Refuges solidaires

    Une saturation liée à des arrivées un peu plus importantes à la frontière franco-italienne, mais surtout à la rareté et à la cherté des #transports_publics qui empêchent les migrants de poursuivre leur route, selon ce bénévole.

    "Il y a un afflux un peu plus important d’Italie ces temps-ci. On ne sait absolument pas pourquoi, peut-être l’attitude du président tunisien voulant jeter les migrants dehors fait qu’il y a plus d’Africains qui étaient en attente qui partent plus vite. C’est possible, on ne sait pas. Par contre, ce qui est sûr c’est qu’au mois de mai, avec tous les ponts, il y a une offre de transports qui est plutôt défaillante. De surcroît avec la grève des aiguilleurs de la SNCF en Bourgogne qui affecte le #train_de_nuit. Surtout la cherté des billets pendant les ponts fait que les exilés ne peuvent pas continuer leur parcours, tant que les billets sont à des prix prohibitifs. Jean Gaboriau."

    Les associations, qui ont également écrit à plusieurs élus locaux, dont le député des hautes-Alpes Joël Giraud, demandent à l’État d’ouvrir des lieux complémentaires d’hébergement d’urgence.

    "C’est du ressort des pouvoirs publics de prendre en charge des gens qui sont à la rue, sans distinction d’origine. C’est dans la loi française. Jean Gaboriau"

    Contactée par Ram05, la préfecture des Hautes-Alpes nous a répondu par écrit que « d’importants crédits sont mobilisés pour l’hébergement d’urgence dans le département qui dispose de 175 places d’hébergement réparties entre les communes de Gap et de Briançon » mais qu’il n’y avait « actuellement plus de places disponibles dans ce dispositif ».

    La préfecture ajoute que le « dispositif » des Terrasses solidaires » ne fait « pas partie du dispositif État de l’hébergement d’urgence tel que coordonné et géré par nos services ».

    « Généralement, les personnes accueillies au Refuge Solidaire puis aux #terrasses_solidaires sont en transit sur le territoire français avant de repartir vers d’autres pays ou d’autres régions de France, en situation irrégulière, et ne sollicitent pas d’accompagnement social pour une éventuelle intégration sur le territoire haut-alpin », précise la préfecture.

    Interrogé en février 2023 dans l’émission « La Vie publique » (https://ram05.fr/podcasts/la-vie-publique/dominique-dufour-prefet-des-hautes-alpes) sur le #manque_structurel de places d’hébergements d’urgence à Briançon, le préfet des Hautes-Alpes Dominique Dufour avait confirmé que les hébergements d’urgence « ne doivent pas être mobilisés en fonction de la nationalité ou de la situation de tel ou tel ». Il avait assuré que « globalement, on ne fait pas de tri ». Avant de rejeter toute responsabilité sur les associations qui assurent seules depuis 2017, l’accueil des personnes exilées dans le Briançonnais.

    "Je comprends tout à fait qu’il y ait un certain nombre de personnes qui interviennent pour l’assistance aux migrants et d’ailleurs je les rencontre, on en discute. La réponse que j’ai à vous faire sur ce sujet c’est qu’il y a un dispositif de droit commun qui est mis en place par l’État et il est ouvert à tout le monde et puis ensuite, si pour des raisons que je comprends tout à fait les associations veulent intervenir pour l’accompagnement et l’assistance aux migrants, dont je répète mon rôle premier est de faire en sorte qu’ils ne viennent pas de manière irrégulière en France, et bien c’est leur #responsabilité. Dominique Dufour, préfet des Hautes-Alpes"

    L’intégralité de cette interview, diffusée le 24 février 2023, est à retrouver sur notre site (https://ram05.fr/podcasts/la-vie-publique/dominique-dufour-prefet-des-hautes-alpes), de même que notre magazine sur les Terrasses solidaires, diffusé le 5 décembre 2022 : « Terrasses solidaires : après un an d’accueil des exilé·e·s, le tiers-lieu briançonnais veut lancer son second volet » (https://ram05.fr/podcasts/le-mag/49053)

    https://ram05.fr/54073-2

    #Briançon #asile #migrations #réfugiés #accueil #Briançonnais #Hautes-Alpes #frontière_sud-alpine #Alpes #hébergement #mise_à_l'abri

  • Violences académiques ordinaires

    Violences et souffrances académiques : atteintes au #service_public et à la #santé_au_travail

    Ce troisième numéro de Mouvements consacré au champ académique, après ceux de 2008 (« Que faire pour l’Université ? ») et 2012 (« Qui veut la peau de la recherche publique ? »), trouve sa genèse dans un colloque consacré aux violences ordinaires dans les organisations académiques en juin 2022[1]. Lors des deux journées de discussion, les communications ont permis de mesurer à quel point, depuis ces quinze dernières années, le champ de l’enseignement supérieur et la recherche (ESR) a été profondément bouleversé par toute une série de réformes, depuis la #loi_LRU (Liberté et responsabilité des universités) en 2007 jusqu’à la #Loi_de_programmation_de_la_recherche (#LPR) votée en 2020. #Fusions, #précarisation, raréfaction des #postes – alors que les effectifs étudiants progressent –, #managérialisation, #sous-traitance, multiplication des #évaluations (des établissements, des formations, des professionnel·les comme des équipes) et de leurs instances, induisent #pression_psychique et dégradation des conditions de travail et rendent davantage visible et légitime la question de la #souffrance_au_travail.

    Qu’en est-il du #quotidien bouleversé de ces organisations en transformation et de celles et ceux qui y travaillent ? Comment cela se traduit-il sur le plan des décisions, des dispositifs, des activités, des interactions, des engagements et des subjectivités ? C’est cette attention aux « violences ordinaires » dans les #institutions_académiques qui constitue le cœur de ce numéro de Mouvements. Par #violence_ordinaire, nous entendons tout type de #contrainte verbale, morale, psychologique ou symbolique exercée sur les #corps au travail et ressentie comme telle par celles et ceux qui les vivent (et qui essaient – ou non – de s’en défendre). Comme y insiste l’article de Stéphane Le Lay et Olivia Chambard, quelle que soit la forme de ces violences, il importe d’essayer de comprendre leurs liens avec les #rapports_de_domination et d’interroger leur inscription – et la nature de cette inscription – dans des configurations organisationnelles ou des structures sociales ou culturelles propres à l’ESR.

    Ceci est d’autant plus important que se sont multipliées récemment les critiques à l’encontre d’enseignant·es-chercheur·euses supposé·es déconnecté·es du monde réel dans leurs enseignements (en inadéquation avec le marché du travail), et dans leurs recherches (insuffisamment en prise avec les « défis sociétaux » et la « demande sociale »). À celles-ci s’ajoutent désormais des #attaques, internes ou externes au champ académique, contre certaines disciplines et certains travaux suspectés d’être disculpants, politisés, voire contraires aux valeurs de la République[2]. L’université et la liberté consubstantielle à ses activités intellectuelles – l’#indépendance des chercheur·euses et enseignant·es-chercheur·euses étant inscrite dans la loi – sont mises à mal de manière plurielle par manque de moyens, mise au pas organisationnelle et #condamnation_morale. Si des travaux analysent les effets de ces réformes néolibérales sur le travail des chercheur·euses et enseignant·es-chercheur·euses, à l’image des articles de Frédérique Debout, d’Ambre Guichard-Ménard et de l’Observatoire des Conditions de Travail à l’Université de Caen Normandie, ils sont plus rares, voire inexistants, sur les conditions de travail des personnels administratifs ou techniques de l’ESR ou des salarié·es en sous-traitance exerçant dans les établissements académiques. Dans ce numéro, l’article d’Hugo Bret sur le #personnel_de_nettoyage d’une université et celui du collectif C. Noûs-Aussi consacré à l’#édition_scientifique permettent justement de jeter un regard incisif sur ces zones d’ombre.

    Les rapports de domination entre les statuts, les corps et les disciplines constituent de fait une clé d’entrée pour comprendre la spécificité des types de violence dans les organisations universitaires et académiques et leur analyse est ancienne. Plus récemment, des auteur·rices ont néanmoins renouvelé la perspective en s’emparant en particulier de la question des #violences_sexistes_et_sexuelles (#VSS) à l’université, sur lesquelles reviennent trois articles. L’un provient d’une chercheuse militante, sous la forme d’un témoignage anonyme. L’autrice prend appui sur son expérience en tant qu’étudiante, victime et témoin de violences, dans une grande école et évoque les actions collectives qui s’en sont suivies. De son côté, à partir du cas espagnol, Verónica Cala analyse finement les interrelations entre pensée féministe et action militante, expliquant en quoi l’université peut être aussi bien un terreau fertile qu’un système nuisant aux avancées pourtant nécessaires au développement de la pensée transformatrice féministe. Enfin, l’article d’Armelle Andro se penche sur les modalités de prise en charge des VSS spécifiques au monde académique, qui ont notamment fait suite à des médiatisations et des mobilisations importantes. Apportant un cadrage complémentaire, il expose les avancées et les freins au traitement institutionnel des VSS depuis vingt ans, pointant les spécificités et l’hétérogénéité des situations rencontrées dans le champ académique. Traitant aussi, mais de manière différente, la question des #rapports_sociaux (de sexe, hiérarchiques et de race), Morgane Le Guyader se penche sur le concept de #violence_épistémique. Celui-ci s’avère utile pour pointer ce qui, à l’intérieur même des critères de scientificité, vient discréditer certains points de vue indigènes ou subordonnés. Ce texte élabore une critique qui a l’intérêt de proposer d’autres manières de rendre compte de l’expérience sensible qui traverse les enquêté·es aussi bien que les enquêteurs et enquêtrices.

    Plusieurs articles de ce numéro, à l’image de celui de Marina Pietri consacré à une #animalerie_scientifique, cherchent ainsi à rendre compte de la manière dont la #division_du_travail au sein des organisations académiques est productrice de formes de violence, examinées comme étant propres à une activité et un rôle spécifiques, aussi bien que dans leur dimension transversale, lorsqu’elles affectent différentes catégories de personnels (chercheur·euses et enseignant·es-chercheur·euses, doctorant·es, personnels administratifs, techniques, etc.). Ce faisant, peut être interrogée la place des stratégies défensives liées aux cultures de métier et érigées pour lutter contre la souffrance. Plusieurs articles abordent également les manières dont les #inégalités et #discriminations s’activent et se reproduisent, dans des configurations où la hiérarchie bureaucratique peut se superposer aux formes de #domination_académique. Se donne alors à voir en quoi ces inégalités permettent de révéler des formes de #mépris plus ou moins visibles, qui peuvent aller de la délégation systématique du « sale boulot » à l’invisibilisation ou l’appropriation du travail d’autrui, en passant par l’empêchement de travailler et le #harcèlement.

    Pour faire face à l’aggravation de la situation en matière de santé physique et mentale, les établissements du supérieur ont obligation, depuis 2012, de mettre en place un Comité d’hygiène, de sécurité et de conditions de travail (#CHSCT). Très variables selon les établissements, les modalités déployées en faveur de la prise en charge des « #risques_psychosociaux » (#RPS) se font régulièrement timides… ou inexistantes. Dans certains établissements, les fonctions de référent « Égalité, RPS, Handicap » ne sont pas pourvues, tardent à l’être ou encore ne sont dotées d’aucun moyens significatifs pour leur action, qui demeure parfois lettre morte. Nombre d’actrices et d’acteurs de terrain sont pourtant en première ligne et certain·es particulièrement actif·ves pour lutter contre les violences et réguler les dérives : préventeur·rices, médecins du travail, représentant·es du personnel siégeant ou non dans les CHSCT, associations féministes et de personnels précaires, sans oublier les juristes, certain·es cadres administratif·ves et personnes en responsabilité dans les composantes et les laboratoires. L’article de Gwenaël Delaval, Emmanuelle Puissant et Samira Saïdoune, consacré à un « #dispositif_RPS » dans une université, aborde les enjeux de cette prise en charge institutionnelle.

    On le voit, les chantiers ouverts sont nombreux et délicats à mener pour rendre visibles et pour lutter efficacement contre les différentes formes de violence, en desserrant l’étau des rapports de domination. Gageons que les contributions de ce numéro de Mouvements œuvreront dans ce sens, grâce à la réflexion individuelle et aux discussions collectives qu’elles susciteront dans le champ académique, et aux pistes d’action qu’elles ouvrent ainsi.

    https://mouvements.info/edito/violences-et-souffrances-academiques-atteintes-au-service-public-et-a-l
    #ESR #université #violence #violences_ordinaires #souffrance #conditions_de_travail #travail #recherche

    ping @karine4 @_kg_

  • Nessuno vuole mettere limiti all’attività dell’Agenzia Frontex

    Le istituzioni dell’Ue, ossessionate dal controllo delle frontiere, sembrano ignorare i problemi strutturali denunciati anche dall’Ufficio europeo antifrode. E lavorano per dispiegare le “divise blu” pure nei Paesi “chiave” oltre confine

    “Questa causa fa parte di un mosaico di una più ampia campagna contro Frontex: ogni attacco verso di noi è un attacco all’Unione europea”. Con questi toni gli avvocati dell’Agenzia che sorveglia le frontiere europee si sono difesi di fronte alla Corte di giustizia dell’Unione europea. Il 9 marzo, per la prima volta in oltre 19 anni di attività (ci sono altri due casi pendenti, presentati dalla Ong Front-Lex), le “divise blu” si sono trovate di fronte a un giudice grazie alla tenacia dell’avvocata olandese Lisa-Marie Komp.

    Non è successo, invece, per le scioccanti rivelazioni del rapporto dell’Ufficio europeo antifrode (Olaf) che ha ricostruito nel dettaglio come l’Agenzia abbia insabbiato centinaia di respingimenti violenti: quell’indagine è “semplicemente” costata la leadership all’allora direttore Fabrice Leggeri, nell’aprile 2022, ma niente di più. “Tutto è rimasto nel campo delle opinioni e nessuno è andato a fondo sui problemi strutturali -spiega Laura Salzano, dottoranda in Diritto europeo dell’immigrazione presso l’Università di Barcellona-. C’erano tutti gli estremi per portare l’Agenzia di fronte alla Corte di giustizia e invece nulla è stato fatto nonostante sia un’istituzione pubblica con un budget esplosivo che lavora con i più vulnerabili”. Non solo l’impunità ma anche la cieca fiducia ribadita più volte da diverse istituzioni europee. Il 28 giugno 2022 il Consiglio europeo, a soli due mesi dalle dimissioni di Leggeri, dà il via libera all’apertura dei negoziati per portare gli agenti di Frontex in Senegal con la proposta di garantire un’immunità totale nel Paese per le loro azioni.

    A ottobre, invece, a pochi giorni dalla divulgazione del rapporto Olaf -tenuto segreto per oltre quattro mesi- la Commissione europea chiarisce che l’Agenzia “si è già assunta piena responsabilità di quanto successo”. Ancora, a febbraio 2023 il Consiglio europeo le assicura nuovamente “pieno supporto”. Un dato preoccupante soprattutto con riferimento all’espansione di Frontex che mira a diventare un attore sempre più presente nei Paesi chiave per la gestione del fenomeno migratorio, a migliaia di chilometri di distanza dal suo quartier generale di Varsavia.

    “I suoi problemi sono strutturali ma le istituzioni europee fanno finta di niente: se già è difficile controllare gli agenti sui ‘nostri’ confini, figuriamoci in Paesi al di fuori dell’Ue”, spiega Yasha Maccanico, membro del centro di ricerca indipendente Statewatch.

    A fine febbraio 2023 l’Agenzia ha festeggiato la conclusione di un progetto che prevede la consegna di attrezzature ai membri dell’Africa-Frontex intelligence community (Afic), finanziata dalla Commissione, che ha permesso dal 2010 in avanti l’apertura di “Cellule di analisi del rischio” (Rac) gestite da analisti locali formati dall’Agenzia con l’obiettivo di “raccogliere e analizzare informazioni strategiche su crimini transfrontalieri” oltre che a “sostenere le autorità nella gestione dei confini”. A partire dal 2021 una potenziata infrastruttura garantisce “comunicazioni sicure e istantanee” tra le Rac e gli agenti nella sede di Varsavia. Questo è il “primo livello” di collaborazione tra Frontex e le autorità di Paesi terzi che oggi vede, come detto, “cellule” attive in Nigeria, Gambia, Niger, Ghana, Senegal, Costa d’Avorio, Togo e Mauritania oltre a una ventina di Stati coinvolti nelle attività di formazione degli analisti, pronti ad attivare le Rac in futuro. “Lo scambio di dati sui flussi è pericoloso perché l’obiettivo delle politiche europee non è proteggere i diritti delle persone, ma fermarle nei Paesi più poveri”, continua Maccanico.

    Un gradino al di sopra delle collaborazioni più informali, come nell’Afic, ci sono i cosiddetti working arrangement (accordi di cooperazione) che permettono di collaborare con le autorità di un Paese in modo ufficiale. “Non serve il via libera del Parlamento europeo e di fatto non c’è nessun controllo né prima della sottoscrizione né ex post -riprende Salzano-. Se ci fosse uno scambio di dati e informazioni dovrebbe esserci il via libera del Garante per la protezione dei dati personali, ma a oggi, questo parere, è stato richiesto solo nel caso del Niger”. A marzo 2023 sono invece 18 i Paesi che hanno siglato accordi simili: da Stati Uniti e Canada, passando per Capo Verde fino alla Federazione Russa. “Sappiamo che i contatti con Mosca dovrebbero essere quotidiani. Dall’inizio del conflitto ho chiesto più volte all’Agenzia se queste comunicazioni sono state interrotte: nessuno mi ha mai risposto”, sottolinea Salzano.

    Obiettivo ultimo dell’Agenzia è riuscire a dispiegare agenti e mezzi anche nei Paesi terzi: una delle novità del regolamento del 2019 rispetto al precedente (2016) è proprio la possibilità di lanciare operazioni non solo nei “Paesi vicini” ma in tutto il mondo. Per farlo sono necessari gli status agreement, accordi internazionali che impegnano formalmente anche le istituzioni europee. Sono cinque quelli attivi (Serbia, Albania, Montenegro e Macedonia del Nord, Moldova) ma sono in via di sottoscrizione quelli con Senegal e Mauritania per limitare le partenze (poco più di 15mila nel 2022) verso le isole Canarie, mille chilometri più a Nord: accordi per ora “fermi”, secondo quanto ricostruito dalla parlamentare europea olandese Tineke Strik che a fine febbraio ha visitato i due Stati, ma che danno conto della linea che si vuole seguire. Un quadro noto, i cui dettagli però spesso restano nascosti.

    È quanto emerge dal report “Accesso negato”, pubblicato da Statewatch a metà marzo 2023, che ricostruisce altri due casi di scarsa trasparenza negli accordi, Niger e Marocco, due Paesi chiave nella strategia europea di esternalizzazione delle frontiere. “Con la ‘scusa’ della tutela della riservatezza nelle relazioni internazionali e mettendo la questione migratoria sotto il cappello dell’antiterrorismo l’accesso ai dettagli degli accordi non è consentito”, spiega Maccanico, uno dei curatori dello studio. Non si conoscono, per esempio, i compiti specifici degli agenti, per cui si propone addirittura l’immunità totale. “In alcuni accordi, come in Macedonia del Nord, si è poi ‘ripiegato’ su un’immunità connessa solo ai compiti che rientrano nel mandato dell’Agenzia -osserva Salzano-. Ma il problema non cambia: dove finisce la sua responsabilità e dove inizia quella del Paese membro?”. Una zona grigia funzionale a Frontex, anche quando opera sul territorio europeo.

    Lo sa bene l’avvocata tedesca Lisa-Marie Komp che, come detto, ha portato l’Agenzia di fronte alla Corte di giustizia dell’Ue. Il caso, su cui il giudice si pronuncerà nei prossimi mesi, riguarda il rimpatrio nel 2016 di una famiglia siriana con quattro bambini piccoli che, pochi giorni dopo aver presentato richiesta d’asilo in Grecia, è stata caricata su un aereo e riportata in Turchia: quel volo è stato gestito da Frontex, in collaborazione con le autorità greche. “L’Agenzia cerca di scaricare le responsabilità su di loro ma il suo mandato stabilisce chiaramente che è tenuta a monitorare il rispetto dei diritti fondamentali durante queste operazioni -spiega-. Serve chiarire che tutti devono rispettare la legge, compresa l’Agenzia le cui azioni hanno un grande impatto sulla vita di molte persone”.

    Le illegittimità nell’attività dei rimpatri sono note da tempo e il caso della famiglia siriana non è isolato. “Quando c’è una forte discrepanza nelle decisioni sulle domande d’asilo tra i diversi Paesi europei, l’attività di semplice ‘coordinamento’ e preparazione delle attività di rimpatrio può tradursi nella violazione del principio di non respingimento”, spiega Mariana Gkliati, docente di Migrazione e Asilo all’università olandese di Tilburg. Nonostante questi problemi e un sistema d’asilo sempre più fragile, negli ultimi anni i poteri e le risorse a disposizione per l’Agenzia sui rimpatri sono esplosi: nel 2022 questa specifica voce di bilancio prevedeva quasi 79 milioni di euro (+690% rispetto ai dieci milioni del 2012).

    E la crescita sembra destinata a non fermarsi. Frontex nel 2023 stima di poter rimpatriare 800 persone in Iraq, 316 in Pakistan, 200 in Gambia, 75 in Afghanistan, 57 in Siria, 60 in Russia e 36 in Ucraina come si legge in un bando pubblicato a inizio febbraio 2023 che ha come obiettivo la ricerca di partner in questi Paesi (e in altri, in totale 43) per garantire assistenza di breve e medio periodo (12 mesi) alle persone rimpatriate. Un’altra gara pubblica dà conto della centralità dell’Agenzia nella “strategia dei rimpatri” europea: 120 milioni di euro nel novembre 2022 per l’acquisto di “servizi di viaggio relativi ai rimpatri mediante voli di linea”. Migliaia di biglietti e un nuovo sistema informatico per gestire al meglio le prenotazioni, con un’enorme mole di dati personali delle persone “irregolari” che arriveranno nelle “mani” di Frontex. Mani affidabili, secondo la Commissione europea.

    Ma il 7 ottobre 2022 il Parlamento, nel “bocciare” nuovamente Frontex rispetto al via libera sul bilancio 2020, dava conto del “rammarico per l’assenza di procedimenti disciplinari” nei confronti di Leggeri e della “preoccupazione” per la mancata attivazione dell’articolo 46 (che prevede il ritiro degli agenti quando siano sistematiche le violazioni dei diritti umani) con riferimento alla Grecia, in cui l’Agenzia opera con 518 agenti, 11 navi e 30 mezzi. “I respingimenti e la violenza sui confini continuano sia alle frontiere terrestri sia a quelle marittime così come non si è interrotto il sostegno alle autorità greche”, spiega la ricercatrice indipendente Lena Karamanidou. La “scusa” ufficiale è che la presenza di agenti migliori la situazione ma non è così. “Al confine terrestre di Evros, la violenza è stata documentata per tutto il tempo in cui Frontex è stata presente, fin dal 2010. È difficile immaginare come possa farlo in futuro vista la sistematicità delle violenze su questo confine”. Su quella frontiera si giocherà anche la presunta nuova reputazione dell’Agenzia guidata dal primo marzo dall’olandese Hans Leijtens: un tentativo di “ripulire” l’immagine che è già in corso.

    Frontex nei confronti delle persone in fuga dal conflitto in Ucraina ha tenuto fin dall’inizio un altro registro: i “migranti irregolari” sono diventati “persone che scappano da zone di conflitto”; l’obiettivo di “combattere l’immigrazione irregolare” si è trasformato nella gestione “efficace dell’attraversamento dei confini”. “Gli ultimi mesi hanno mostrato il potenziale di Frontex di evolversi in un attore affidabile della gestione delle frontiere che opera con efficienza, trasparenza e pieno rispetto dei diritti umani”, sottolinea Gkliati nello studio “Frontex assisting in the ukrainian displacement. A welcoming committee at racialised passage?”, pubblicato nel marzo 2023. Una conferma ulteriore, per Salzano, dei limiti strutturali dell’Agenzia: “La legge va rispettata indipendentemente dalla cornice in cui operi: la tutela dei diritti umani prescinde dagli umori della politica”.

    https://altreconomia.it/nessuno-vuole-mettere-limiti-allattivita-dellagenzia-frontex

    #Frontex #migrations #asile #réfugiés #frontières #contrôles_frontaliers #justice #Lisa-Marie_Komp #OLAF #Sénégal #externalisation #Africa-Frontex_intelligence_community (#Afic) #Rac #Nigeria #Gambie #Niger #Ghana #Côte_d'Ivoire #Togo #Mauritanie #status_agreement #échange_de_données #working_arrangement #Serbie #Monténégro #Albanie #Moldavie #Macédoine_du_Nord #CJUE #cours_de_justice #renvois #expulsions

    • I rischi della presenza di Frontex in Africa: tanto potere, poca responsabilità

      L’eurodeputata #Tineke_Strik è stata in Senegal e Mauritania a fine febbraio 2023: in un’intervista ad Altreconomia ricostruisce lo stato dell’arte degli accordi che l’Ue vorrebbe concludere con i due Paesi ritenuti “chiave” nel contrasto ai flussi migratori. Denunciando la necessità di una riforma strutturale dell’Agenzia.

      A un anno di distanza dalle dimissioni del suo ex direttore Fabrice Leggeri, le istituzioni europee non vogliono mettere limiti all’attività di Frontex. Come abbiamo ricostruito sul numero di aprile di Altreconomia, infatti, l’Agenzia -che dal primo marzo 2023 è guidata da Hans Leijtens- continua a svolgere un ruolo centrale nelle politiche migratorie dell’Unione europea nonostante le pesanti rivelazioni dell’Ufficio europeo antifrode (Olaf), che ha ricostruito nel dettaglio il malfunzionamento nelle operazioni delle divise blu lungo i confini europei.

      Ma non solo. Un aspetto particolarmente preoccupante sono le operazioni al di fuori dei Paesi dell’Unione, che rientrano sempre di più tra le priorità di Frontex in un’ottica di esternalizzazione delle frontiere per “fermare” preventivamente i flussi di persone dirette verso l’Europa. Non a caso, a luglio 2022, nonostante i contenuti del rapporto Olaf chiuso solo pochi mesi prima, la Commissione europea ha dato il via libera ai negoziati con Senegal e Mauritania per stringere un cosiddetto working arrangement e permettere così agli “agenti europei” di operare nei due Paesi africani (segnaliamo anche la recente ricerca pubblicata dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione sul tema).

      Per monitorare lo stato dell’arte di questi accordi l’eurodeputata Tineke Strik, tra le poche a opporsi e a denunciare senza sconti gli effetti delle politiche migratorie europee e il ruolo di Frontex, a fine febbraio 2023 ha svolto una missione di monitoraggio nei due Paesi. Già professoressa di Diritto della cittadinanza e delle migrazioni dell’Università di Radboud di Nimega, in Olanda, è stata eletta al Parlamento europeo nel 2019 nelle fila di GroenLinks (Sinistra verde). L’abbiamo intervistata.

      Onorevole Strik, secondo quanto ricostruito dalla vostra visita (ha partecipato alla missione anche Cornelia Erns, di LeftEu, ndr), a che punto sono i negoziati con il Senegal?
      TS La nostra impressione è che le autorità senegalesi non siano così desiderose di concludere un accordo di status con l’Unione europea sulla presenza di Frontex nel Paese. L’approccio di Bruxelles nei confronti della migrazione come sappiamo è molto incentrato su sicurezza e gestione delle frontiere; i senegalesi, invece, sono più interessati a un intervento sostenibile e incentrato sullo sviluppo, che offra soluzioni e affronti le cause profonde che spingono le persone a partire. Sono molti i cittadini del Senegal emigrano verso l’Europa: idealmente, il governo vuole che rimangano nel Paese, ma capisce meglio di quanto non lo facciano le istituzioni Ue che si può intervenire sulla migrazione solo affrontando le cause alla radice e migliorando la situazione nel contesto di partenza. Allo stesso tempo, le navi europee continuano a pescare lungo le coste del Paese (minacciando la pesca artigianale, ndr), le aziende europee evadono le tasse e il latte sovvenzionato dall’Ue viene scaricato sul mercato senegalese, causando disoccupazione e impedendo lo sviluppo dell’economia locale. Sono soprattutto gli accordi di pesca ad aver alimentato le partenze dal Senegal, dal momento che le comunità di pescatori sono state private della loro principale fonte di reddito. Serve domandarsi se l’Unione sia veramente interessata allo sviluppo e ad affrontare le cause profonde della migrazione. E lo stesso discorso può essere fatto su molti dei Paesi d’origine delle persone che cercano poi protezione in Europa.

      Dakar vede di buon occhio l’intervento dell’Unione europea? Quale tipo di operazioni andrebbero a svolgere gli agenti di Frontex nel Paese?
      TS Abbiamo avuto la sensazione che l’Ue non ascoltasse le richieste delle autorità senegalesi -ad esempio in materia di rilascio di visti d’ingresso- e ci hanno espresso preoccupazioni relative ai diritti fondamentali in merito a qualsiasi potenziale cooperazione con Frontex, data la reputazione dell’Agenzia. È difficile dire che tipo di supporto sia previsto, ma nei negoziati l’Unione sta puntando sia alle frontiere terrestri sia a quelle marittime.

      Che cosa sta avvenendo in Mauritania?
      TS Sebbene questo Paese sembri disposto a concludere un accordo sullo status di Frontex -soprattutto nell’ottica di ottenere un maggiore riconoscimento da parte dell’Europa-, preferisce comunque mantenere l’autonomia nella gestione delle proprie frontiere e quindi non prevede una presenza permanente dei funzionari dell’Agenzia nel Paese. Considerano l’accordo sullo status più come un quadro giuridico, per consentire la presenza di Frontex in caso di aumento della pressione migratoria. Inoltre, come il Senegal, ritengono che l’Europa debba ascoltare e accogliere le loro richieste, che riguardano principalmente i visti e altre aree di cooperazione. Anche in questo caso, Bruxelles chiede il mandato più ampio possibile per gli agenti in divisa blu durante i negoziati per “mantenere aperte le opzioni [più ampie]”, come dicono loro stessi. Ma credo sia chiaro che il loro obiettivo è quello di operare sia alle frontiere marittime sia a quelle terrestri.
      Questo a livello “istituzionale”. Qual è invece la posizione della società civile?
      TS In entrambi i Paesi è molto critica. In parte a causa della cattiva reputazione di Frontex in relazione ai diritti umani, ma anche a causa dell’esperienza che i cittadini senegalesi e mauritani hanno già sperimentato con la Guardia civil spagnola, presente nei due Stati, che ritengono stia intaccando la sovranità per quanto riguarda la gestione delle frontiere. È previsto che il mandato di Frontex sia addirittura esecutivo, a differenza di quello della Guardia civil, che può impegnarsi solo in pattugliamenti congiunti in cui le autorità nazionali sono al comando. Quindi la sovranità di entrambi i Paesi sarebbe ulteriormente minata.

      Perché a suo avviso sarebbe problematica la presenza di agenti di Frontex nei due Paesi?
      TS L’immunità che l’Unione europea vorrebbe per i propri operativi dispiegati in Africa non è solo connessa allo svolgimento delle loro funzioni ma si estende al di fuori di esse, a questo si aggiunge la possibilità di essere armati. Penso sia problematico il rispetto dei diritti fondamentali dei naufraghi intercettati in mare, poiché è difficile ottenere l’accesso all’asilo sia in Senegal sia in Mauritania. In questo Paese, ad esempio, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) impiega molto tempo per determinare il loro bisogno di protezione: fanno eccezione i maliani, che riescono a ottenerla in “appena” due anni. E durante l’attesa queste persone non hanno quasi diritti.

      Ma se ottengono la protezione è comunque molto difficile registrarsi presso l’amministrazione, cosa necessaria per avere accesso al mercato del lavoro, alle scuole o all’assistenza sanitaria. E le conseguenze che ne derivano sono le continue retate, i fermi e le deportazioni alla frontiera, per impedire alle persone di partire. A causa delle attuali intercettazioni in mare, le rotte migratorie si stanno spostando sulla terra ferma e puntano verso l’Algeria: l’attraversamento del deserto può essere mortale. Il problema principale è che Frontex deve rispettare il diritto dell’Unione europea anche se opera in un Paese terzo in cui si applicano norme giuridiche diverse, ma l’Agenzia andrà a operare sotto il comando delle guardie di frontiera di un Paese che non è vincolato dalle “regole” europee. Come può Frontex garantire di non essere coinvolta in operazioni che violano le norme fondamentali del diritto comunitario, se determinate azioni non sono illegali in quel Paese? Sulla carta è possibile presentare un reclamo a Frontex, ma poi nella pratica questo strumento in quali termini sarebbe accessibile ed efficace?

      Un anno dopo le dimissioni dell’ex direttore Leggeri ritiene che Frontex si sia pienamente assunta la responsabilità di quanto accaduto? Può davvero, secondo lei, diventare un attore affidabile per l’Ue?
      TS Prima devono accadere molte cose. Non abbiamo ancora visto una riforma fondamentale: c’è ancora un forte bisogno di maggiore trasparenza, di un atteggiamento più fermo nei confronti degli Stati membri ospitanti e di un uso conseguente dell’articolo 46 che prevede la sospensione delle operazioni in caso di violazioni dei diritti umani (abbiamo già raccontato il ruolo dell’Agenzia nei respingimenti tra Grecia e Turchia, ndr). Questi problemi saranno ovviamente esacerbati nella cooperazione con i Paesi terzi, perché la responsabilità sarà ancora più difficile da raggiungere.

      https://altreconomia.it/i-rischi-della-presenza-di-frontex-in-africa-tanto-potere-poca-responsa

    • «Un laboratorio di esternalizzazione tra frontiere di terra e di mare». La missione di ASGI in Senegal e Mauritania

      Lo scorso 29 marzo è stato pubblicato il rapporto «Un laboratorio di esternalizzazione tra frontiere di terra e di mare» (https://www.asgi.it/notizie/rapporto-asgi-della-senegal-mauritania), frutto del sopralluogo giuridico effettuato tra il 7 e il 13 maggio 2022 da una delegazione di ASGI composta da Alice Fill, Lorenzo Figoni, Matteo Astuti, Diletta Agresta, Adelaide Massimi (avvocate e avvocati, operatori e operatrici legali, ricercatori e ricercatrici).

      Il sopralluogo aveva l’obiettivo di analizzare lo sviluppo delle politiche di esternalizzazione del controllo della mobilità e di blocco delle frontiere implementate dall’Unione Europea in Mauritania e in Senegal – due paesi a cui, come la Turchia o gli stati balcanici più orientali, gli stati membri hanno delegato la gestione dei flussi migratori concordando politiche sempre più ostacolanti per lo spostamento delle persone.

      Nel corso del sopralluogo sono stati intervistati, tra Mauritania e Senegal, più di 40 interlocutori afferenti a istituzioni, società civile, popolazione migrante e organizzazioni, tra cui OIM, UNHCR, delegazioni dell’UE. Intercettare questi soggetti ha consentito ad ASGI di andare oltre le informazioni vincolate all’ufficialità delle dichiarazioni pubbliche e di approfondire le pratiche illegittime portate avanti su questi territori.

      Il report parte dalle già assodate intenzioni di collaborazione tra l’Unione Europea e le autorità senegalesi e mauritane – una collaborazione che in entrambi i paesi sembra connotata nel senso del controllo e della sorveglianza; per quanto riguarda il Senegal, si fa menzione del ben noto status agreement, proposto nel febbraio 2022 a Dakar dalla Commissaria europea agli affari interni Ylva Johansson, con il quale si intende estendere il controllo di Frontex in Senegal.

      L’obiettivo di tale accordo era il controllo della cosiddetta rotta delle Canarie, che tra il 2018 e il 2022 è stata sempre più battuta. Sebbene la proposta abbia generato accese discussioni nella società civile senegalese, preoccupata all’idea di cedere parte della sovranità del paese sul controllo delle frontiere esterne, con tale accordo, elaborato con un disegno molto simile a quello che regola le modalità di intervento di Frontex nei Balcani, si legittimerebbe ufficialmente l’attività di controllo dell’agenzia UE in paesi terzi, e in particolare fuori dal continente europeo.

      Per quanto riguarda la Mauritania, si menziona l’Action Plan pubblicato da Frontex il 7 giugno 2022, con il quale si prospetta una possibilità di collaborare operativamente sul territorio mauritano, in particolare per lo sviluppo di governance in materia migratoria.

      Senegal

      Sin dai primi anni Duemila, il dialogo tra istituzioni europee e senegalesi è stato focalizzato sulle politiche di riammissione dei cittadini senegalesi presenti in UE in maniera irregolare e dei cosiddetti ritorni volontari, le politiche di gestione delle frontiere senegalesi e il controllo della costa, la promozione di una legislazione anti-trafficking e anti-smuggling. Tutto questo si è intensificato quando, a partire dal 2018, la rotta delle Canarie è tornata a essere una rotta molto percorsa. L’operatività delle agenzie europee in Senegal per la gestione delle migrazioni si declina principalmente nei seguenti obiettivi:

      1. Monitoraggio delle frontiere terrestri e marittime. Il memorandum firmato nel 2006 da Senegal e Spagna ha sancito la collaborazione ufficiale tra le forze di polizia europee e quelle senegalesi in operazioni congiunte di pattugliamento; a questo si aggiunge, sempre nello stesso anno, una presenza sempre più intensiva di Frontex al largo delle coste senegalesi.

      2. Lotta alla tratta e al traffico. Su questo fronte dell’operatività congiunta tra forze senegalesi ed europee, la normativa di riferimento è la legge n. 06 del 10 maggio 2005, che offre delle direttive per il contrasto della tratta di persone e del traffico. Tale documento, non distinguendo mai fra “tratta” e “traffico”, di fatto criminalizza la migrazione irregolare tout court, dal momento che viene utilizzato in maniera estensiva (e arbitraria) come strumento di controllo e di repressione della mobilità – fu utilizzato, ad esempio, per accusare di traffico di esseri umani un padre che aveva imbarcato suo figlio su un mezzo che poi naufragato.

      Il sistema di asilo in Senegal

      Il Senegal aderisce alla Convenzione del 1951 sullo status de rifugiati e del relativo Protocollo del 1967; la valutazione delle domande di asilo fa capo alla Commissione Nazionale di Eleggibilità (CNE), che al deposito della richiesta di asilo emette un permesso di soggiorno della durata di 3 mesi, rinnovabile fino all’esito dell’audizione di fronte alla CNE; l’esito della CNE è ricorribile in primo grado presso la Commissione stessa e, nel caso di ulteriore rifiuto, presso il Presidente della Repubblica. Quando il richiedente asilo depone la propria domanda, subentra l’UNHCR, che nel paese è molto presente e finanzia ONG locali per fornire assistenza.

      Il 5 aprile 2022 l’Assemblea Nazionale senegalese ha approvato una nuova legge sullo status dei rifugiati e degli apolidi, una legge che, stando a diverse associazioni locali, sulla carta estenderebbe i diritti cui i rifugiati hanno accesso; tuttavia, le stesse associazioni temono che a tale miglioramento possa non seguire un’applicazione effettiva della normativa.
      Mauritania

      Data la collocazione geografica del paese, a ridosso dell’Atlantico e delle isole Canarie, in prossimità di paesi ad alto indice di emigrazione (Senegal, Mali, Marocco), la Mauritania rappresenta un territorio strategico per il monitoraggio dei flussi migratori diretti in Europa. Pertanto, analogamente a quanto avvenuto in Senegal, anche in Mauritania la Spagna ha proceduto a rafforzare la cooperazione in tema di politiche migratorie e di gestione del controllo delle frontiere e a incrementare la presenta e l’impegno di attori esterni – in primis di agenzie quali Frontex – per interventi di contenimento dei flussi e di riammissione di cittadini stranieri in Mauritania.

      Relativamente alla Mauritania, l’obiettivo principale delle istituzioni europee sembra essere la prevenzione dell’immigrazione lungo la rotta delle Canarie. La normativa di riferimento è l’Accordo di riammissione bilaterale firmato con la Spagna nel luglio 2003. Con tale accordo, la Spagna può chiedere alla Mauritania di riammettere sul proprio territorio cittadini mauritani e non solo, anche altri cittadini provenienti da paesi terzi che “si presume” siano transitati per la Mauritania prima di entrare irregolarmente in Spagna. Oltre a tali interventi, il report di ASGI menziona l’Operazione Hera di Frontex e vari interventi di cooperazione allo sviluppo promossi dalla Spagna “con finalità tutt’altro che umanitarie”, bensì di gestione della mobilità.

      In tale regione, nella fase degli sbarchi risulta molto dubbio il ruolo giocato da organizzazioni come OIM e UNHCR, poiché non è codificato; interlocutori diversi hanno fornito informazioni contrastanti sulla disponibilità di UNHCR a intervenire in supporto e su segnalazione delle ONG presenti al momento dello sbarco. In ogni caso, se effettivamente UNHCR fosse assente agli sbarchi, ciò determinerebbe una sostanziale impossibilità di accesso alle procedure di protezione internazionale da parte di qualsiasi potenziale richiedente asilo che venga intercettato in mare.

      Anche in questo territorio la costruzione della figura del “trafficante” diventa un dispositivo di criminalizzazione e repressione della mobilità sulla rotta atlantica, strumentale alla soddisfazione di richieste europee.
      La detenzione dei cittadini stranieri

      Tra Nouakchott e Nouadhibou vi sono tre centri di detenzione per persone migranti; uno di questi (il Centro di Detenzione di Nouadhibou 2 (anche detto “El Guantanamito”), venne realizzato grazie a dei fondi di un’agenzia di cooperazione spagnola. Sovraffollamento, precarietà igienico-sanitaria e impossibilità di accesso a cure e assistenza legale hanno caratterizzato tali centri. Quando El Guantanamito fu chiuso, i commissariati di polizia sono diventati i principali luoghi deputati alla detenzione dei cittadini stranieri; in tali centri, vengono detenute non solo le persone intercettate in prossimità delle coste mauritane, ma anche i cittadini stranieri riammessi dalla Spagna, e anche le persone presenti irregolarmente su territorio mauritano. Risulta delicato il tema dell’accesso a tali commissariati, dal momento che il sopralluogo ha rilevato che le ONG non hanno il permesso di entrarvi, mentre le organizzazioni internazionali sì – ciò nonostante, nessuna delle persone precedentemente sottoposte a detenzione con cui la delegazione ASGI ha avuto modo di interloquire ha dichiarato di aver riscontrato la presenza di organizzazioni all’interno di questi centri.

      La detenzione amministrativa risulta essere “un tassello essenziale della politica di contenimento dei flussi di cittadini stranieri in Mauritania”. Il passaggio successivo alla detenzione delle persone migranti è l’allontanamento, che si svolge in forma di veri e propri respingimenti sommari e informali, senza che i migranti siano messi nelle condizioni né di dichiarare la propria nazionalità né di conoscere la procedura di ritorno volontario.
      Il ruolo delle organizzazioni internazionali in Mauritania

      OIM riveste un ruolo centrale nel panorama delle politiche di esternalizzazione e di blocco dei cittadini stranieri in Mauritania, tramite il supporto delle autorità di pubblica sicurezza mauritane nello sviluppo di politiche di contenimento della libertà di movimento – strategie e interventi che suggeriscono una connotazione securitaria della presenza dell’associazione nel paese, a scapito di una umanitaria.

      Nonostante anche la Mauritania sia firmataria della Convenzione di Ginevra, non esiste a oggi una legge nazionale sul diritto di asilo nel paese. UNHCR testimonia come dal 2015 esiste un progetto di legge sull’asilo, ma che questo sia tuttora “in attesa di adozione”.

      Pertanto, le procedure di asilo in Mauritania sono gestite interamente da UNHCR. Tali procedure si differenziano a seconda della pericolosità delle regioni di provenienza delle persone migranti; in particolare, i migranti maliani provenienti dalle regioni considerate più pericolose vengono registrati come rifugiati prima facie, quanto non accade invece per i richiedenti asilo provenienti dalle aree urbane, per loro, l’iter dell’asilo è ben più lungo, e prevede una sorta di “pre-pre-registrazione” presso un ente partner di UNHCR, cui segue una pre-registrazione accordata da UNHCR previo appuntamento, e solo in seguito alla registrazione viene riconosciuto un certificato di richiesta di asilo, valido per sei mesi, in attesa di audizione per la determinazione dello status di rifugiato.

      Le tempistiche per il riconoscimento di protezione, poi, sono differenti a seconda del grado di vulnerabilità del richiedente e in taluni casi potevano condurre ad anni e anni di attesa. Alla complessità della procedura si aggiunge che non tutti i potenziali richiedenti asilo possono accedervi – ad esempio, chi proviene da alcuni stati, come la Sierra Leone, considerati “paesi sicuri” secondo una categorizzazione fornita dall’Unione Africana.
      Conclusioni

      In fase conclusiva, il report si sofferma sul ruolo fondamentale giocato dall’Unione Europea nel forzare le politiche senegalesi e mauritane nel senso della sicurezza e del contenimento, a scapito della tutela delle persone migranti nei loro diritti fondamentali. Le principali preoccupazioni evidenziate sono rappresentate dalla prospettiva della conclusione dello status agreement tra Frontex e i due paesi, perché tale ratifica ufficializzerebbe non solo la presenza, ma un ruolo legittimo e attivo di un’agenzia europea nel controllo di frontiere che si dispiegano ben oltre i confini territoriali comunitari, ben oltre le acque territoriali, spingendo le maglie del controllo dei flussi fin dentro le terre di quegli stati da cui le persone fuggono puntando all’Unione Europea. La delegazione, tuttavia, sottolinea che vi sono aree in cui la società civile senegalese e mauritana risulta particolarmente politicizzata, dunque in grado di esprimere insofferenza o aperta contrarietà nei confronti delle ingerenze europee nei loro paesi. Infine, da interviste, colloqui e incontri con diretti interessati e testimoni, il ruolo di organizzazioni internazionali come le citate OIM e UNHCR appare nella maggior parte dei casi “fluido o sfuggevole”; una prospettiva, questa, che sembra confermare l’ambivalenza delle grandi organizzazioni internazionali, soggetti messi innanzitutto al servizio degli interessi delle istituzioni europee.

      Il report si conclude auspicando una prosecuzione di studio e analisi al fine di continuare a monitorare gli sviluppi politici e legislativi che legano l’Unione Europea e questi territori nella gestione operativa delle migrazioni.

      https://www.meltingpot.org/2023/05/un-laboratorio-di-esternalizzazione-tra-frontiere-di-terra-e-di-mare

    • Pubblicato il rapporto #ASGI della missione in Senegal e Mauritania

      Il Senegal e la Mauritania sono paesi fondamentali lungo la rotta che conduce dall’Africa occidentale alle isole Canarie. Nel 2020, dopo alcuni anni in cui la rotta era stata meno utilizzata, vi è stato un incremento del 900% degli arrivi rispetto all’anno precedente. Il dato ha portato la Spagna e le istituzioni europee a concentrarsi nuovamente sui due paesi. La cosiddetta Rotta Atlantica, che a partire dal 2006 era stata teatro di sperimentazioni di pratiche di contenimento e selezione della mobilità e di delega dei controlli alle frontiere e del diritto di asilo, è tornata all’attenzione internazionale: da febbraio 2022 sono in corso negoziazioni per la firma di un accordo di status con Frontex per permettere il dispiegamento dei suoi agenti in Senegal e Mauritania.

      Al fine di indagare l’attuazione delle politiche di esternalizzazione e i loro effetti, dal 7 al 13 maggio 2022 un gruppo di socз ASGI – avvocatз, operatorз legali e ricercatorз – ha effettuato un sopralluogo giuridico a Nouakchott, Mauritania e a Dakar, Senegal.

      Il report restituisce il quadro ricostruito nel corso del sopralluogo, durante il quale è stato possibile intervistare oltre 45 interlocutori tra istituzioni, organizzazioni internazionali, ONG e persone migranti.

      https://www.asgi.it/notizie/rapporto-asgi-della-senegal-mauritania
      #rapport

    • Au Sénégal, les desseins de Frontex se heurtent aux résistances locales

      Tout semblait devoir aller très vite : début 2022, l’Union européenne propose de déployer sa force anti-migration Frontex sur les côtes sénégalaises, et le président Macky Sall y semble favorable. Mais c’était compter sans l’opposition de la société civile, qui refuse de voir le Sénégal ériger des murs à la place de l’Europe.

      Agents armés, navires, drones et systèmes de sécurité sophistiqués : Frontex, l’agence européenne de gardes-frontières et de gardes-côtes créée en 2004, a sorti le grand jeu pour dissuader les Africains de prendre la direction des îles Canaries – et donc de l’Europe –, l’une des routes migratoires les plus meurtrières au monde. Cet arsenal, auquel s’ajoutent des programmes de formation de la police aux frontières, est la pierre angulaire de la proposition faite début 2022 par le Conseil de l’Europe au Sénégal. Finalement, Dakar a refusé de la signer sous la pression de la société civile, même si les négociations ne sont pas closes. Dans un climat politique incandescent à l’approche de l’élection présidentielle de 2024, le président sénégalais, Macky Sall, soupçonné de vouloir briguer un troisième mandat, a préféré prendre son temps et a fini par revenir sur sa position initiale, qui semblait ouverte à cette collaboration. Dans le même temps, la Mauritanie voisine, elle, a entamé des négociations avec Bruxelles.

      L’histoire débute le 11 février 2022 : lors d’une conférence de presse à Dakar, la commissaire aux Affaires intérieures du Conseil de l’Europe, Ylva Johansson, officialise la proposition européenne de déployer Frontex sur les côtes sénégalaises. « C’est mon offre et j’espère que le gouvernement sénégalais sera intéressé par cette opportunité unique », indique-t-elle. En cas d’accord, elle annonce que l’agence européenne sera déployée dans le pays au plus tard au cours de l’été 2022. Dans les jours qui ont suivi l’annonce de Mme Johansson, plusieurs associations de la société civile sénégalaise ont organisé des manifestations et des sit-in à Dakar contre la signature de cet accord, jugé contraire aux intérêts nationaux et régionaux.

      Une frontière déplacée vers la côte sénégalaise

      « Il s’agit d’un #dispositif_policier très coûteux qui ne permet pas de résoudre les problèmes d’immigration tant en Afrique qu’en Europe. C’est pourquoi il est impopulaire en Afrique. Frontex participe, avec des moyens militaires, à l’édification de murs chez nous, en déplaçant la frontière européenne vers la côte sénégalaise. C’est inacceptable, dénonce Seydi Gassama, le directeur exécutif d’Amnesty International au Sénégal. L’UE exerce une forte pression sur les États africains. Une grande partie de l’aide européenne au développement est désormais conditionnée à la lutte contre la migration irrégulière. Les États africains doivent pouvoir jouer un rôle actif dans ce jeu, ils ne doivent pas accepter ce qu’on leur impose, c’est-à-dire des politiques contraires aux intérêts de leurs propres communautés. » Le défenseur des droits humains rappelle que les transferts de fonds des migrants pèsent très lourd dans l’économie du pays : selon les chiffres de la Banque mondiale, ils ont atteint 2,66 milliards de dollars (2,47 milliards d’euros) au Sénégal en 2021, soit 9,6 % du PIB (presque le double du total de l’aide internationale au développement allouée au pays, de l’ordre de 1,38 milliard de dollars en 2021). « Aujourd’hui, en visitant la plupart des villages sénégalais, que ce soit dans la région de Fouta, au Sénégal oriental ou en Haute-Casamance, il est clair que tout ce qui fonctionne – hôpitaux, dispensaires, routes, écoles – a été construit grâce aux envois de fonds des émigrés », souligne M. Gassama.

      « Quitter son lieu de naissance pour aller vivre dans un autre pays est un droit humain fondamental, consacré par l’article 13 de la Convention de Genève de 1951, poursuit-il. Les sociétés capitalistes comme celles de l’Union européenne ne peuvent pas dire aux pays africains : “Vous devez accepter la libre circulation des capitaux et des services, alors que nous n’acceptons pas la libre circulation des travailleurs”. » Selon lui, « l’Europe devrait garantir des routes migratoires régulières, quasi inexistantes aujourd’hui, et s’attaquer simultanément aux racines profondes de l’exclusion, de la pauvreté, de la crise démocratique et de l’instabilité dans les pays d’Afrique de l’Ouest afin d’offrir aux jeunes des perspectives alternatives à l’émigration et au recrutement dans les rangs des groupes djihadistes ».

      Depuis le siège du Forum social sénégalais (FSS), à Dakar, Mamadou Mignane Diouf abonde : « L’UE a un comportement inhumain, intellectuellement et diplomatiquement malhonnête. » Le coordinateur du FSS cite le cas récent de l’accueil réservé aux réfugiés ukrainiens ayant fui la guerre, qui contraste avec les naufrages incessants en Méditerranée et dans l’océan Atlantique, et avec la fermeture des ports italiens aux bateaux des ONG internationales engagées dans des opérations de recherche et de sauvetage des migrants. « Quel est ce monde dans lequel les droits de l’homme ne sont accordés qu’à certaines personnes en fonction de leur origine ?, se désole-t-il. À chaque réunion internationale sur la migration, nous répétons aux dirigeants européens que s’ils investissaient un tiers de ce qu’ils allouent à Frontex dans des politiques de développement local transparentes, les jeunes Africains ne seraient plus contraints de partir. » Le budget total alloué à Frontex, en constante augmentation depuis 2016, a dépassé les 754 millions d’euros en 2022, contre 535 millions l’année précédente.
      Une des routes migratoires les plus meurtrières

      Boubacar Seye, directeur de l’ONG Horizon sans Frontières, parle de son côté d’une « gestion catastrophique et inhumaine des frontières et des phénomènes migratoires ». Selon les estimations de l’ONG espagnole Caminando Fronteras, engagée dans la surveillance quotidienne de ce qu’elle appelle la « nécro-frontière ouest-euro-africaine », entre 2018 et 2022, 7 865 personnes originaires de 31 pays différents, dont 1 273 femmes et 383 enfants, auraient trouvé la mort en tentant de rejoindre les côtes espagnoles des Canaries à bord de pirogues en bois et de canots pneumatiques cabossés – soit une moyenne de 6 victimes chaque jour. Il s’agit de l’une des routes migratoires les plus dangereuses et les plus meurtrières au monde, avec le triste record, ces cinq dernières années, d’au moins 250 bateaux qui auraient coulé avec leurs passagers à bord. Le dernier naufrage connu a eu lieu le 2 octobre 2022. Selon le récit d’un jeune Ivoirien de 27 ans, seul survivant, le bateau a coulé après neuf jours de mer, emportant avec lui 33 vies.

      Selon les chiffres fournis par le ministère espagnol de l’Intérieur, environ 15 000 personnes sont arrivées aux îles Canaries en 2022 – un chiffre en baisse par rapport à 2021 (21 000) et 2020 (23 000). Et pour cause : la Guardia Civil espagnole a déployé des navires et des hélicoptères sur les côtes du Sénégal et de la Mauritanie, dans le cadre de l’opération « Hera » mise en place dès 2006 (l’année de la « crise des pirogues ») grâce à des accords de coopération militaire avec les deux pays africains, et en coordination avec Frontex.

      « Les frontières de l’Europe sont devenues des lieux de souffrance, des cimetières, au lieu d’être des entrelacs de communication et de partage, dénonce Boubacar Seye, qui a obtenu la nationalité espagnole. L’Europe se barricade derrière des frontières juridiques, politiques et physiques. Aujourd’hui, les frontières sont équipées de moyens de surveillance très avancés. Mais, malgré tout, les naufrages et les massacres d’innocents continuent. Il y a manifestement un problème. » Une question surtout le hante : « Combien d’argent a-t-on injecté dans la lutte contre la migration irrégulière en Afrique au fil des ans ? Il n’y a jamais eu d’évaluation. Demander publiquement un audit transparent, en tant que citoyen européen et chercheur, m’a coûté la prison. » L’activiste a été détenu pendant une vingtaine de jours en janvier 2021 au Sénégal pour avoir osé demander des comptes sur l’utilisation des fonds européens. De la fenêtre de son bureau, à Dakar, il regarde l’océan et s’alarme : « L’ère post-Covid et post-guerre en Ukraine va générer encore plus de tensions géopolitiques liées aux migrations. »
      Un outil policier contesté à gauche

      Bruxelles, novembre 2022. Nous rencontrons des professeurs, des experts des questions migratoires et des militants belges qui dénoncent l’approche néocoloniale des politiques migratoires de l’Union européenne (UE). Il est en revanche plus difficile d’échanger quelques mots avec les députés européens, occupés à courir d’une aile à l’autre du Parlement européen, où l’on n’entre que sur invitation. Quelques heures avant la fin de notre mission, nous parvenons toutefois à rencontrer Amandine Bach, conseillère politique sur les questions migratoires pour le groupe parlementaire de gauche The Left. « Nous sommes le seul parti qui s’oppose systématiquement à Frontex en tant qu’outil policier pour gérer et contenir les flux migratoires vers l’UE », affirme-t-elle.

      Mme Bach souligne la différence entre « statut agreement » (accord sur le statut) et « working arrangement » (arrangement de travail) : « Il ne s’agit pas d’une simple question juridique. Le premier, c’est-à-dire celui initialement proposé au Sénégal, est un accord formel qui permet à Frontex un déploiement pleinement opérationnel. Il est négocié par le Conseil de l’Europe, puis soumis au vote du Parlement européen, qui ne peut que le ratifier ou non, sans possibilité de proposer des amendements. Le second, en revanche, est plus symbolique qu’opérationnel et offre un cadre juridique plus simple. Il n’est pas discuté par le Parlement et n’implique pas le déploiement d’agents et de moyens, mais il réglemente la coopération et l’échange d’informations entre l’agence européenne et les États tiers. » Autre différence substantielle : seul l’accord sur le statut peut donner – en fonction de ce qui a été négocié entre les parties – une immunité partielle ou totale aux agents de Frontex sur le sol non européen. L’agence dispose actuellement de tels accords dans les Balkans, avec des déploiements en Serbie et en Albanie (d’autres accords seront bientôt opérationnels en Macédoine du Nord et peut-être en Bosnie, pays avec lequel des négociations sont en cours).

      Cornelia Ernst (du groupe parlementaire The Left), la rapporteuse de l’accord entre Frontex et le Sénégal nommée en décembre 2022, va droit au but : « Je suis sceptique, j’ai beaucoup de doutes sur ce type d’accord. La Commission européenne ne discute pas seulement avec le Sénégal, mais aussi avec la Mauritanie et d’autres pays africains. Le Sénégal est un pays de transit pour les réfugiés de toute l’Afrique de l’Ouest, et l’UE lui offre donc de l’argent dans l’espoir qu’il accepte d’arrêter les réfugiés. Nous pensons que cela met en danger la liberté de circulation et d’autres droits sociaux fondamentaux des personnes, ainsi que le développement des pays concernés, comme cela s’est déjà produit au Soudan. » Et d’ajouter : « J’ai entendu dire que le Sénégal n’est pas intéressé pour le moment par un “statut agreement”, mais n’est pas fermé à un “working arrangement” avec Frontex, contrairement à la Mauritanie, qui négocie un accord substantiel qui devrait prévoir un déploiement de Frontex. »

      Selon Mme Ernst, la stratégie de Frontex consiste à envoyer des agents, des armes, des véhicules, des drones, des bateaux et des équipements de surveillance sophistiqués, tels que des caméras thermiques, et à fournir une formation aux gardes-frontières locaux. C’est ainsi qu’ils entendent « protéger » l’Europe en empêchant les réfugiés de poursuivre leur voyage. La question est de savoir ce qu’il adviendra de ces réfugiés bloqués au Sénégal ou en Mauritanie en cas d’accord.
      Des rapports accablants

      Principal outil de dissuasion développé par l’UE en réponse à la « crise migratoire » de 2015-2016, Frontex a bénéficié en 2019 d’un renforcement substantiel de son mandat, avec le déploiement de 10 000 gardes-frontières prévu d’ici à 2027 (ils sont environ 1 500 aujourd’hui) et des pouvoirs accrus en matière de coopération avec les pays non européens, y compris ceux qui ne sont pas limitrophes de l’UE. Mais les résultats son maigres. Un rapport de la Cour des comptes européenne d’août 2021 souligne « l’inefficacité de Frontex dans la lutte contre l’immigration irrégulière et la criminalité transfrontalière ». Un autre rapport de l’Office européen de lutte antifraude (Olaf), publié en mars 2022, a quant à lui révélé des responsabilités directes et indirectes dans des « actes de mauvaise conduite » à l’encontre des exilés, allant du harcèlement aux violations des droits fondamentaux en Grèce, en passant par le refoulement illégal de migrants dans le cadre d’opérations de rapatriement en Hongrie.

      Ces rapports pointent du doigt les plus hautes sphères de Frontex, tout comme le Frontex Scrutiny Working Group (FSWG), une commission d’enquête créée en février 2021 par le Parlement européen dans le but de « contrôler en permanence tous les aspects du fonctionnement de Frontex, y compris le renforcement de son rôle et de ses ressources pour la gestion intégrée des frontières et l’application correcte du droit communautaire ». Ces révélations ont conduit, en mars 2021, à la décision du Parlement européen de suspendre temporairement l’extension du budget de Frontex et, en mai 2022, à la démission de Fabrice Leggeri, qui était à la tête de l’agence depuis 2015.
      Un tabou à Dakar

      « Actuellement aucun cadre juridique n’a été défini avec un État africain », affirme Frontex. Si dans un premier temps l’agence nous a indiqué que les discussions avec le Sénégal étaient en cours – « tant que les négociations sur l’accord de statut sont en cours, nous ne pouvons pas les commenter » (19 janvier 2023) –, elle a rétropédalé quelques jours plus tard en précisant que « si les négociations de la Commission européenne avec le Sénégal sur un accord de statut n’ont pas encore commencé, Frontex est au courant des négociations en cours entre la Commission européenne et la Mauritanie » (1er février 2023).

      Interrogé sur les négociations avec le Sénégal, la chargée de communication de Frontex, Paulina Bakula, nous a envoyé par courriel la réponse suivant : « Nous entretenons une relation de coopération étroite avec les autorités sénégalaises chargées de la gestion des frontières et de la lutte contre la criminalité transfrontalière, en particulier avec la Direction générale de la police nationale, mais aussi avec la gendarmerie, l’armée de l’air et la marine. » En effet, la coopération avec le Sénégal a été renforcée avec la mise en place d’un officier de liaison Frontex à Dakar en janvier 2020. « Compte tenu de la pression continue sur la route Canaries-océan Atlantique, poursuit Paulina Bakula, le Sénégal reste l’un des pays prioritaires pour la coopération opérationnelle de Frontex en Afrique de l’Ouest. Cependant, en l’absence d’un cadre juridique pour la coopération avec le Sénégal, l’agence a actuellement des possibilités très limitées de fournir un soutien opérationnel. »

      Interpellée sur la question des droits de l’homme en cas de déploiement opérationnel en Afrique de l’Ouest, Paulina Bakula écrit : « Si l’UE conclut de tels accords avec des partenaires africains à l’avenir, il incombera à Frontex de veiller à ce qu’ils soient mis en œuvre dans le plein respect des droits fondamentaux et que des garanties efficaces soient mises en place pendant les activités opérationnelles. »

      Malgré des demandes d’entretien répétées durant huit mois, formalisées à la fois par courriel et par courrier, aucune autorité sénégalaise n’a accepté de répondre à nos questions. « Le gouvernement est conscient de la sensibilité du sujet pour l’opinion publique nationale et régionale, c’est pourquoi il ne veut pas en parler. Et il ne le fera probablement pas avant les élections présidentielles de 2024 », confie, sous le couvert de l’anonymat, un homme politique sénégalais. Il constate que la question migratoire est devenue, ces dernières années, autant un ciment pour la société civile qu’un tabou pour la classe politique ouest-africaine.

      https://afriquexxi.info/Au-Senegal-les-desseins-de-Frontex-se-heurtent-aux-resistances-locales
      #conditionnalité #conditionnalité_de_l'aide_au_développement #remittances #résistance

    • What is Frontex doing in Senegal? Secret services also participate in their network of “#Risk_Analysis_Cells

      Frontex has been allowed to conclude stationing agreements with third countries since 2016. However, the government in Dakar does not currently want to allow EU border police into the country. Nevertheless, Frontex has been active there since 2006.

      When Frontex was founded in 2004, the EU states wrote into its border agency’s charter that it could only be deployed within the Union. With developments often described as the “refugee crisis,” that changed in the new 2016 regulation, which since then has allowed the EU Commission to negotiate agreements with third countries to send Frontex there. So far, four Balkan states have decided to let the EU migration defense agency into the country – Bosnia and Herzegovina could become the fifth candidate.

      Frontex also wanted to conclude a status agreement with Senegal based on this model (https://digit.site36.net/2022/02/11/status-agreement-with-senegal-frontex-wants-to-operate-in-africa-for-t). In February 2022, the EU Commissioner for Home Affairs, Ylva Johansson, announced that such a treaty would be ready for signing by the summer (https://www.france24.com/en/live-news/20220211-eu-seeks-to-deploy-border-agency-to-senegal). However, this did not happen: Despite high-level visits from the EU (https://digit.site36.net/2022/02/11/status-agreement-with-senegal-frontex-wants-to-operate-in-africa-for-t), the government in Dakar is apparently not even prepared to sign a so-called working agreement. It would allow authorities in the country to exchange personal data with Frontex.

      Senegal is surrounded by more than 2,600 kilometers of external border; like neighboring Mali, Gambia, Guinea and Guinea-Bissau, the government has joined the Economic Community of West African States (ECOWAS). Similar to the Schengen area, the agreement also regulates the free movement of people and goods in a total of 15 countries. Senegal is considered a safe country of origin by Germany and other EU member states like Luxembourg.

      Even without new agreements, Frontex has been active on migration from Senegal practically since its founding: the border agency’s first (and, with its end in 2019, longest) mission started in 2006 under the name “#Hera” between West Africa and the Canary Islands in the Atlantic (https://www.statewatch.org/media/documents/analyses/no-307-frontex-operation-hera.pdf). Border authorities from Mauritania were also involved. The background to this was the sharp increase in crossings from the countries at the time, which were said to have declined successfully under “Hera.” For this purpose, Frontex received permission from Dakar to enter territorial waters of Senegal with vessels dispatched from member states.

      Senegal has already been a member of the “#Africa-Frontex_Intelligence_Community” (#AFIC) since 2015. This “community”, which has been in existence since 2010, aims to improve Frontex’s risk analysis and involves various security agencies to this end. The aim is to combat cross-border crimes, which include smuggling as well as terrorism. Today, 30 African countries are members of AFIC. Frontex has opened an AFIC office in five of these countries, including Senegal since 2019 (https://frontex.europa.eu/media-centre/news/news-release/frontex-opens-risk-analysis-cell-in-senegal-6nkN3B). The tasks of the Frontex liaison officer stationed there include communicating with the authorities responsible for border management and assisting with deportations from EU member states.

      The personnel of the national “Risk Analysis Cells” are trained by Frontex. Their staff are to collect strategic data on crime and analyze their modus operandi, EU satellite surveillance is also used for this purpose (https://twitter.com/matthimon/status/855425552148295680). Personal data is not processed in the process. From the information gathered, Frontex produces, in addition to various dossiers, an annual situation report, which the agency calls an “#Pre-frontier_information_picture.”

      Officially, only national law enforcement agencies participate in the AFIC network, provided they have received a “mandate for border management” from their governments. In Senegal, these are the National Police and the Air and Border Police, in addition to the “Department for Combating Trafficking in Human Beings and Similar Practices.” According to the German government, the EU civil-military missions in Niger and Libya are also involved in AFIC’s work.

      Information is not exchanged with intelligence services “within the framework of AFIC activities by definition,” explains the EU Commission in its answer to a parliamentary question. However, the word “by definition” does not exclude the possibility that they are nevertheless involved and also contribute strategic information. In addition, in many countries, police authorities also take on intelligence activities – quite differently from how this is regulated in Germany, for example, in the separation requirement for these authorities. However, according to Frontex’s response to a FOIA request, intelligence agencies are also directly involved in AFIC: Morocco and Côte d’Ivoire send their domestic secret services to AFIC meetings, and a “#Center_for_Monitoring_and_Profiling” from Senegal also participates.

      Cooperation with Senegal is paying off for the EU: Since 2021, the total number of arrivals of refugees and migrants from Senegal via the so-called Atlantic route as well as the Western Mediterranean route has decreased significantly. The recognition rate for asylum seekers from the country is currently around ten percent in the EU.

      https://digit.site36.net/2023/08/27/what-is-frontex-doing-in-senegal-secret-services-also-participate-in-t
      #services_de_renseignement #données #services_secrets

  • Sainte-Soline : empêcher l’accès à la mégabassine, quel qu’en soit le coût humain - LDH
    https://www.ldh-france.org/premiere-synthese-observations-des-24-26-mars-2023-a-sainte-soline

    Première synthèse – Observations des 24-26 mars 2023 à Sainte-Soline

    Communiqué de l’interobservatoires, dont la LDH est membre

    Ce document est publié à titre de première synthèse des faits les plus saillants relevés par les équipes d’observation. Le rapport d’observation complet fera l’objet d’une publication ultérieure.

    Du vendredi 24 mars au dimanche 26 mars, 22 membres des observatoires des libertés publiques et des pratiques policières du 93, de Gironde, de Paris, du Poitou-Charentes et de Toulouse étaient présent-e-s pour observer le maintien de l’ordre sur la zone de Sainte-Soline dans le cadre des mobilisations contre les « mégabassines ».

    Dès nos premières observations le vendredi, nous avons constaté le bouclage ultra-sécuritaire de la zone avec des barrages routiers assortis de contrôles d’identité et de fouilles de véhicules généralisés, ainsi que la présence d’un camion doté d’un dispositif de renseignement. Ces opérations se sont poursuivies jusqu’au dimanche.

    Six équipes d’observateur-ices étaient présentes sur le terrain de la manifestation le samedi 25 mars.

    Dès le départ des cortèges depuis Vanzay jusqu’à leur retour, ceux-ci ont été surveillés de manière constante par un à deux hélicoptères.

    Avant l’arrivée des manifestant-e-s sur le site de la bassine de Sainte-Soline, des binômes de gendarmes armés et coiffés de casque de moto, montés sur 20 quads, sont venus à leur contact. Les cortèges ont dès lors fait l’objet de tirs massifs et indiscriminés au gaz lacrymogène, créant une mise en tension importante.

    Dès l‘arrivée des cortèges sur le site de la bassine, les gendarmes leur ont tiré dessus avec des armes relevant des matériels de guerre : tirs de grenades lacrymogènes, grenades assourdissantes, grenades explosives de type GM2L et GENL, y compris des tirs de LBD 40. Nous avons observé des tirs au LBD 40 depuis les quads en mouvement.

    Des grenades ont été envoyées très loin et de manière indiscriminée dans les cortèges, à l’aide de lanceurs et de dispositifs de propulsion à retard. Les détonations très rapprochées de grenades explosives étaient régulièrement suivies de cris d’appel au secours pour assistance médicale. Certaines grenades lancées n’ayant pas explosé, le terrain était miné, donnant lieu à des explosions différées.

    A été également observé l’usage de deux canons à eau. Par ailleurs, nous avons observé la présence de fusils (FAMAS) ainsi qu’au moins un fusil à type produit marquant codé EMEK EMF 100, PMC.

    Le dispositif a mis gravement en danger l’ensemble des personnes présentes sur place, occasionnant de très nombreuses blessures souvent graves allant même jusqu’à plusieurs urgences absolues. (...)

    #mégabassines #Bassines #no_bassaran #méga-bassines
    #Sainte_Soline

  • #Violences, #interpellations_abusives... : le retour d’un #maintien_de_l’ordre qui sème le chaos

    Alors que le recours au 49-3 a entraîné une multiplication des rassemblements et actions spontanés partout en France, le #dispositif_policier a renoué avec ses travers : #interpellations_massives et mal fondées, violences gratuites, #mépris des libertés fondamentales.

    Les #manifestations unitaires, intersyndicales et globalement pacifiques qui ont rythmé les deux derniers mois ont fait long feu. Elles n’ont ni fait capoter la réforme des retraites, ni infléchi ses modalités. Les responsables syndicaux comme les simples manifestants ont eu beau mettre en garde l’exécutif contre les conséquences de sa sourde oreille – un risque d’exaspération populaire, de « radicalisation » du mouvement et de violences –, il n’a rien fait de cet avertissement.

    Le 49-3 dont personne ne voulait a bien eu lieu, jeudi 16 mars. Depuis, les #rassemblements_spontanés, #blocages, actions coup de poing et #cortèges_sauvages fleurissent partout en France. Comme toujours en pareil cas, des #forces_de_l’ordre sûres de leur légitimité et sujettes à une légère panique mettent un point d’honneur à endiguer tout ce qui déborde du cadre. Lundi 20 mars, le secrétaire général de la CGT, Philippe Martinez, a dénoncé « une augmentation de la #répression des manifestants qui n’est pas justifiée ».

    Depuis jeudi, la majorité des 61 compagnies de #CRS sont missionnées sur le maintien de l’ordre, en particulier à #Paris, #Nantes, #Rennes, #Bordeaux, #Marseille, #Lyon et #Dijon. « Les missions qui relevaient du plan national de sécurité renforcée notamment à Calais ou à Marseille, pour lutter contre la drogue ou l’insécurité, sont passées aux oubliettes, explique un responsable syndical chargé des CRS au niveau national. La priorité pour Darmanin, c’est de sécuriser Paris et les sites institutionnels sensibles comme l’Élysée, et le mot d’ordre est de “disperser tout mouvement non déclaré”, donc illégal. »

    Ce policier n’a pas souhaité témoigner sous son identité. « La situation est difficile. Le jeudi, je manifeste contre cette réforme que je trouve violente, confie-t-il, et je vais continuer », dit-il avant d’ajouter au sujet du 49-3 : « Était-ce vraiment utile vu le déferlement de #colère que cela a provoqué ? »

    « On est à la veille d’une insurrection. J’ai peur qu’un de mes gars tue un manifestant », confie un commandant de compagnie de CRS à Mediapart. « J’espère que la motion passera et que la dissolution de l’Assemblée sera prononcée. On reviendrait ainsi à une gestion plus démocratique du pays. » Ce haut gradé qui dirige près de 70 hommes précise que ce sont les préfets qui transmettent les ordres du ministre.

    « Pour le moment, ceux que j’ai reçus en participant au maintien de l’ordre, dans deux villes importantes, restent relativement “républicains”. Mais il n’y a aucune garantie qu’un drame ne se produise pas », rappelant qu’un CRS a sorti un fusil HK G36 à Nantes, lors de la manifestation du 18 mars.

    « C’est évidemment dangereux et inquiétant que cela ne questionne pas davantage dans nos rangs. Cela montre que des policiers ne sont absolument pas résilients. C’est pour cela que le président s’amuse à un jeu très dangereux qui peut se terminer par un drame, que je redoute : le décès d’un manifestant. »

    « On a été entraînés pour la “percussion” »

    La semaine du 49-3, Mathieu* était, avec sa compagnie de CRS, à Châteaudun, près d’Orléans, pour un « #recyclage », c’est-à-dire une remise à niveau organisée chaque semestre. Le vendredi soir, ces CRS ont été « appelés en renfort pour intervenir dès lundi à Paris ». Pour la seule journée de lundi, plus de trente unités mobiles, CRS et escadrons de #gendarmerie, sont déployées à Paris, soit près de 2 000 fonctionnaires.

    « Depuis le 49-3, le maintien de l’ordre se durcit nettement face aux rassemblements spontanés. Nous avons d’ailleurs été formés durant notre semaine de recyclage à aller davantage au contact des “#nébuleuses”, des #black_blocs », explique-t-il. « On a été entraînés pour la “#percussion”, une technique plus offensive. Dès qu’on les repère, on n’attend pas, on intervient sur eux. »

    Mathieu ne cache pas son embarras sur le contexte actuel et la difficulté de « charger de simples manifestants, dont la cause est juste ». Après les sommations, « si les manifestants restent sur notre passage, il n’y a plus de distinction. Il peut y avoir des dommages collatéraux ».

    Malgré plus de vingt ans d’expérience dans le maintien de l’ordre, Mathieu appréhende cette semaine. « Ce n’est pas tant pour moi, qui suis formé et protégé, mais pour ceux qui manifestent. Sur les rassemblements sauvages à Paris, ça arrange la préfecture de faire appel aux #Brav-M [#Brigades_de_répression_de_l’action_violente_motorisée – ndlr]. Non seulement ils sont utilisés pour intervenir très vite en moto, ce qui peut être terrorisant, mais le préfet a une mainmise directe sur eux contrairement à nous CRS, où on a un commandant ou un capitaine qui relaie les ordres du commissaire sur le terrain et qui peut les adapter. »

    Les Brigades de répression des actions violentes motorisées, Mathieu les a vues à l’œuvre pendant les manifestations des « gilets jaunes ». « Ils mettent le bordel plus qu’autre chose. Ils matraquent dans tous les sens. Après ce sont des collègues parfois mais on n’a pas le même état d’esprit. Il y a pas mal de policiers passés par la BAC dans leur rang et formés à aller au contact, peu importe qui ils ont en face. C’est cela le danger. »

    À Paris, le retour de la BRAV-M

    Les dernières semaines ont marqué un glissement progressif dans l’attitude des forces de l’ordre à Paris. Le 20 janvier dernier, le préfet de police #Laurent_Nuñez revendiquait de tenir ses troupes à distance des cortèges : « Je ne veux pas qu’on nous accuse de faire dégénérer les manifestations. De la sorte, on ne nous voit pas. Ça évite que les militants ultras qui cherchent à en découdre avec les forces de l’ordre ne viennent au contact. En contrepartie, je demande à nos effectifs d’être extrêmement réactifs. Dès la moindre dégradation, ils doivent intervenir. À chaque fois, nous intervenons puis nous nous retirons. »

    À la préfecture de police, certains contestaient ce choix. Les BRAV-M se seraient notamment plaintes de ne plus aller au contact, regrettant l’époque de Didier Lallement. Certaines manifestations ont toutefois été marquées par de violentes charges. Dès le 19 janvier, un jeune photographe grièvement blessé lors d’une charge policière a dû être amputé d’un testicule.

    Depuis deux semaines, les témoignages et vidéos de violences policières se multiplient, de Paris à Rennes en passant par Nantes (où quatre étudiantes accusent des policiers de violences sexuelles lors d’une fouille), tandis que des centaines d’interpellations ont eu lieu. Des journalistes dénoncent aussi diverses atteintes à la liberté de la presse (entrave à leur travail, coups, bris de matériel).

    Selon une source interne à la préfecture de police de Paris, le « #durcissement » du maintien de l’ordre serait lié à « la montée en gamme des violences » de certains manifestants jusqu’ici « inconnus », qui « se radicalisent depuis le début du mouvement » et surtout « depuis le #49-3 ». Le fait que ces manifestants deviennent plus mobiles justifierait un recours accru aux compagnies d’intervention et aux policiers motorisés de la BRAV-M. 

    Mises en place au début des gilets jaunes, fin 2018, et relativement discrète depuis le début du mouvement contre les retraites, la BRAV-M a réinvesti les rues de Paris. Depuis vendredi soir, les images de ces binômes de policiers à moto – souvent comparés aux « #voltigeurs » dissous après la mort de Malik Oussekine en 1986 – matraquant à tout-va, sans raison apparente et sans distinction les manifestants, circulent sur les réseaux sociaux.

    De son côté, la source préfectorale précédemment citée met en avant les six policiers blessés samedi, « dont deux ont reçu un pavé sur la tête », sans s’exprimer sur les violences imputées aux policiers.

    Des #gardes_à_vue sans suites

    À Paris, dès l’annonce du 49-3, la place de la Concorde s’est remplie de manifestants. Le préfet de police de Paris a bien tenté d’interdire ce rassemblement, déposé à l’avance par Solidaires, mais le tribunal administratif lui a donné tort.

    À l’issue de ces quelques heures sur la place, 292 personnes ont été arrêtées à Paris (sur 310 en France). Ces interpellations, mal motivées, ont cependant débouché sur un résultat judiciaire ridicule : seules neuf personnes ont été déférées devant la justice, et encore, pour « des avertissements probatoires solennels, des classements sous condition ou encore une contribution citoyenne », écrit BFMTV. Soit les sanctions les plus basses possibles.

    64 personnes ont encore été interpellées vendredi soir à Paris, dont 58 libérées sans aucune charge au bout de quelques heures. Dans certains cas, cela a duré un peu plus longtemps. Dans une séquence filmée par le correspondant de l’agence de presse turc Anadolu, une jeune femme se débat et essaie d’expliquer qu’elle « n’a rien fait ». La scène a lieu aux environs de 21 h 45, place de la Concorde.

    « Je respire pas, s’époumone une jeune femme au visage cramoisi.

    -- Laisse-toi faire, tu respires ! », lui rétorque le policier qui l’étrangle.

    Celle qui est aussi violemment interpellée, Chloé Gence, est développeuse web du Média. Mais comme le précisera dans un communiqué son employeur, elle a l’habitude de couvrir certaines manifestations et mouvements sociaux. Selon Le Média, Chloé était en train de « capter des images » avec d’autres journalistes, vendredi soir, quand elle a été « arrêtée de manière très brutale par les forces de l’ordre ».

    Chloé Gence est ensuite conduite en garde à vue. Malgré l’assistance d’un avocat et « les preuves qu’elle couvrait bien la manifestation pour Le Média », sa garde à vue est prolongée. Dimanche, #Chloé_Gence finit par sortir du commissariat, libre, sans qu’aucune charge ne soit retenue contre elle. Au bout de 40 heures…

    Un autre journaliste, #Paul_Ricaud, a subi le même sort que Chloé. Le Syndicat national des journalistes (SNJ) a dénoncé samedi, dans un communiqué, ces nouvelles atteintes à la liberté de la presse. Le syndicat regrette qu’après une période durant laquelle « les relations entre forces de l’ordre et journalistes paraissaient s’être apaisées », cela ne soit plus le cas depuis le 7 mars. « Nous voyons, à nouveau, des tensions comme sous l’ère Lallement, déplore le SNJ. Les forces de l’ordre semblent désormais vouloir réprimer durement le mouvement d’opposition à la réforme. »

    Depuis samedi, il est de nouveau interdit de manifester place de la Concorde. Ce nouvel arrêté préfectoral (qui n’a toutefois pas été publié) a entraîné une dissémination des rassemblements parisiens vers d’autres lieux. Samedi soir, 169 interpellations ont eu lieu en France, dont 122 à Paris (principalement dans le XIIIe arrondissement et place de la Concorde), donnant lieu à 118 gardes à vue (dont douze mineurs). Sollicité pour connaître les suites judiciaires détaillées des interpellations du weekend, le parquet de Paris n’a pas donné suite. Depuis, la préfecture a pris un nouvel arrêté que nous publions ici.

    Ces arrestations massives, donnant lieu à un maigre résultat judiciaire, rappellent les interpellations « préventives » assumées par le parquet de Paris lors du mouvement des gilets jaunes, en 2018-2019. À l’époque, le procureur Rémy Heitz (désormais procureur général) assumait ses objectifs dans une note interne : empêcher les gardés à vue de « retourner grossir les rangs des fauteurs de troubles », quitte à les priver illégalement de liberté plus longtemps que nécessaire.

    Dans un communiqué diffusé lundi 20 mars, le Syndicat de la magistrature (classé à gauche) rappelle que « l’autorité judiciaire n’est pas au service de la répression du mouvement social », condamne « toutes les violences policières illégales » et déplore une « utilisation dévoyée de la garde à vue qui illustre les dérives du maintien de l’ordre, qui détourne l’appareil judiciaire pour le mettre entièrement à son service ».

    « #Nasses », #charges et « #intimidation »

    De son côté, le Syndicat des avocats de France dénonce une « réaction une fois de plus démesurée et particulièrement violente » face aux mouvements spontanés, citant notamment l’utilisation de la technique de la « nasse », « jugée illégale par le Conseil d’État ».

    Cette #technique_policière, consistant à encercler et retenir un groupe de manifestants sans leur laisser d’issue, avait été largement utilisée pendant les mouvements contre la loi « travail » (2016), des gilets jaunes (2018-2019), contre la loi « sécurité globale » et la précédente réforme des retraites (2019-2020). En juin 2021, le Conseil d’État avait annulé les dispositions sur la « nasse » dans le Schéma national du maintien de l’ordre (SNMO) mis au point par Gérald Darmanin un an plus tôt. Il considérait que cette technique était « susceptible d’affecter significativement la liberté de manifester et de porter atteinte à la liberté d’aller et venir » lorsqu’elle ne laisse pas d’échappatoire.

    Le Syndicat des avocats de France s’inquiète également de #charges_sans_sommation, de #coups_de_matraques aléatoires et d’une « intimidation des manifestant·es ». Il appelle le ministère de l’intérieur à « mettre un terme immédiatement à cette escalade de la violence » et les magistrats à « faire preuve d’indépendance et de responsabilité » devant les affaires qui leur sont confiées par la police.

    De nombreuses vidéos montrent aussi des membres des forces de l’ordre sans #numéro_d’identification sur leur uniforme (numéro #RIO), malgré son caractère obligatoire régulièrement rappelé par la hiérarchie.

    À Lille, le soir du 16 mars, la police a violemment chargé le cortège des Jeunes communistes faisant deux blessés graves parmi leur service d’ordre. L’un a eu des points de suture sur le crâne, le second, l’épaule fracturée. « On s’est retrouvés complètement séparés du cortège syndical, gazés devant et derrière, et finalement seuls dans les petites rues de Lille, explique Pierre Verquin, coordinateur départemental des Jeunes communistes, à Mediapart. On avait deux cents jeunes avec nous, on s’est fait charger à ce moment-là, alors que le cortège ne présentait aucun danger. Tout le monde s’est pris des coups. Les gens à l’arrière se sont pris d’énormes coups de matraque aussi. » La Ligue des droits de l’Homme (LDH) a demandé au préfet du Nord « des explications sur les dérives brutales qui ont émaillé le maintien de l’ordre à Lille en cette soirée du 16 mars ».

    Le même jour, 14 personnes sont interpellées à Rennes pour des violences, des dégradations et des pillages dans le centre-ville. À la différence de Paris, la quasi-totalité fait l’objet de poursuites. Le lendemain, le ministre de l’intérieur annonce l’envoi à Rennes de la #CRS_8, une « #supercompagnie » créée en 2021 pour répondre en urgence à des « #violences_urbaines » sur n’importe quel point du territoire.

    https://www.mediapart.fr/journal/france/200323/violences-interpellations-abusives-le-retour-d-un-maintien-de-l-ordre-qui-

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    Les déclarations de deux policiers ont été ajoutées à cette métaliste de #témoignages de #forces_de_l'ordre, #CRS, #gardes-frontière, qui témoignent de leur métier :
    https://seenthis.net/messages/723573

  • Une mesure activée par Trump bloquant les migrants à la frontière américaine maintenue par la Cour suprême
    https://www.lemonde.fr/international/article/2022/12/20/une-mesure-de-trump-bloquant-les-migrants-a-la-frontiere-americaine-maintenu

    Une mesure activée par Trump bloquant les migrants à la frontière américaine maintenue par la Cour suprême
    Ce dispositif très controversé devait prendre fin mercredi 21 décembre. La plus haute juridiction des Etats-Unis a décidé de le maintenir, arguant d’un recours d’urgence déposé ce lundi par une vingtaine d’Etats conservateurs.
    Le Monde avec AFP
    Publié aujourd’hui à 01h02, mis à jour à 07h27

    La Cour suprême a maintenu, lundi 19 décembre, une mesure mise en œuvre en mars 2020 par les autorités américaines au nom de la lutte contre la pandémie de Covid-19, permettant d’expulser les candidats à l’immigration, même les demandeurs d’asile potentiels.
    Une ordonnance signée par le président de la Cour suprême, John Roberts, a suspendu la suppression, prévue mercredi, de cette mesure intitulée « Title 42 ». En mars 2020, le gouvernement de l’ex-président Donald Trump avait activé ce dispositif sanitaire pour pouvoir expulser sans délai les candidats à l’immigration interpellés aux frontières terrestres. Cette mesure était immédiate, ne permettait pas de recours légal et ne prévoyait pas de
    Ce dispositif devait initialement prendre fin le 23 mai, mais un juge de Louisiane avait bloqué sa levée. Le 15 novembre, un juge fédéral de Washington a au contraire exigé du président, Joe Biden, qu’il mette fin aux expulsions prévues par ce dispositif, et la levée du « Title 42 » était prévue lundi avant minuit. Mais une vingtaine d’Etats conservateurs américains ont déposé lundi un recours d’urgence devant la Cour suprême pour lui demander de bloquer la décision du juge fédéral. La plus haute juridiction américaine leur a donné satisfaction en attendant une décision sur le dossier. Cette mesure de santé publique avait été adoptée à l’origine en 1893 pour protéger les Etats-Unis des nombreuses épidémies de choléra et de fièvre jaune qui survenaient à l’époque. Elle n’a été que très rarement mise en œuvre depuis. Selon les militants des droits humains et les experts, le « Title 42 » est une violation des lois internationales. Ils estiment notamment « inhumain » d’empêcher un demandeur d’asile potentiel de formuler sa requête. Pour eux, le dispositif actuel ne fait qu’encourager les migrants à franchir clandestinement la frontière et à prendre des risques toujours croissants pour y parvenir. Au total, 557 morts ont été recensés à la frontière avec le Mexique en 2021, l’année de loin la plus meurtrière depuis le début des statistiques, en 1998.

    #Covid-19#migrant#migration#etatsunis#sante#politiquemigratoire#droitshumains#asile#immigration#dispositifsanitaire#epidemie

  • Des Africains témoignent de leurs difficultés à passer les frontières pour sortir d’Ukraine

    Depuis le début de l’opération militaire russe en Ukraine, des centaines de milliers de personnes résidant en Ukraine ont tenté de quitter le pays ces derniers jours et les témoignages d’Africains se multiplient concernant les difficultés de passer la frontière polonaise.

    « Il y a eu des informations regrettables (selon lesquelles) la police ukrainienne et le personnel de sécurité refusent de laisser les Nigérians monter dans les bus et les trains » pour la Pologne, a déclaré le porte-parole de la présidence nigériane Garba Shehu. « Il est primordial que chacun soit traité avec dignité et sans faveur », a-t-il insisté.

    M. Shehu a déclaré que selon d’autres informations, des fonctionnaires polonais ont refusé l’entrée en Pologne à des citoyens nigérians en provenance d’Ukraine. Depuis le début de l’offensive russe, la situation est compliquée à la frontière terrestre à cause de l’afflux de personnes fuyant les combats.

    Pour beaucoup d’Africains, le passage vers la Pologne a été bloqué du côté ukrainien et certains ont pu franchir la frontière en descendant un peu plus au sud, par la #Slovaquie. C’est le cas de Patrice, menuisier camerounais qui a quitté Kharkiv.

    "C’est très difficile. Très difficile au niveau de la frontière de la #Pologne. On refusait beaucoup les Noirs, on ne les acceptait pas du tout et on faisait juste passer des Blancs. Nous sommes ensuite arrivé au niveau de la frontière en Slovaquie, c’était parfait."

    De son côté, l’ambassadrice de Pologne au Nigeria, Joanna Tarnawska, a rejeté les accusations de racisme. « Tout le monde reçoit un traitement égal. Je peux vous assurer que, selon les informations dont je dispose, certains ressortissants nigérians ont déjà franchi la frontière avec la Pologne », a-t-elle réagi auprès des médias locaux.

    Selon elle, les documents d’identité invalides sont acceptés pour franchir la frontière et les restrictions liées au Covid-19 ont été levées. Les Nigérians disposent d’un délai de 15 jours pour ensuite quitter le pays, a-t-elle ajouté.

    Comme des centaines de milliers de personnes, de nombreux Africains - pour la plupart étudiants - tentent de fuir l’Ukraine pour rejoindre les pays voisins, notamment la Pologne. C’est notamment le cas de Mike, qui vit à Kharkiv.

    "Ça bombarde de partout, les transports en commun ne fonctionnent plus, les métros ont été transformé en abri anti-bombes."

    https://www.rfi.fr/fr/europe/20220228-guerre-ukraine-africains-temoignent-difficult%C3%A9s-passer-fronti%C3%A

    #racisme #réfugiés #guerre #Ukraine #Africains #étudiants #frontières #fermeture_des_frontières #catégorisation #tri #réfugiés_ukrainiens

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    Les formes de #racisme qui montrent leur visage en lien avec la #guerre en #Ukraine... en 2 fils de discussion sur seenthis :
    https://seenthis.net/messages/951232

    • Les étudiants tunisiens s’organisent pour quitter l’Ukraine en guerre

      Environ 800 étudiants tunisiens sont encore bloqués en Ukraine. Les premières évacuations ont eu lieu vendredi 25 février dans la soirée, mais beaucoup restent encore à évacuer vers les pays voisins.

      Les étudiants tunisiens sont encore présents un peu partout en Ukraine. Une partie est à Odessa, au sud du pays. C’est le cas de Myriam. Ce samedi matin, elle a pu prendre un bus en direction la Roumanie.

      « Nous sommes environs 25 dans le bus, raconte Myriam. Il y a des Algériens et des Marocains aussi. On a même des animaux avec nous, deux chiens et un chat. On ne pouvait pas les abandonner. Il a fallu se battre pour qu’ils nous laissent monter. Ils voulaient nous envoyer en Moldavie. On avait peur de rester bloqués là-bas, il n’y a pas d’avions. Ça fait quatre jours que nous ne dormons pas. Nous étions une vingtaine à être cachés dans un sous-sol. Nous avions très peu d’informations. »

      Myriam et les autres Tunisiens d’Odessa ont pu organiser leur évacuation avec l’aide d’Amine Smiti. Il travaille pour une agence privée qui se charge d’aider les étudiants tunisiens à s’installer à l’étranger. Mais depuis le début de la guerre en Ukraine, il est membre de la cellule de crise mise en place par le ministère des Affaires étrangères tunisien.

      Amine Smiti explique comment il organise le départ des étudiants et les difficultés auxquelles il fait face : « En coordination avec les services de sécurité en Ukraine, j’ai pu avoir deux chemins sûrs pour évacuer à travers la Moldavie et la Roumanie. C’est difficile de trouver des bus, car les militaires les ont réquisitionnés pour rassembler les civils qui se sont engagés. Avec mon frère, et par nos propres moyens, on a réussi à trouver des bus, des taxis et des voitures privées. Les ambassadeurs et le ministère des Affaires étrangères se chargent d’assurer aux Tunisiens de ne pas passer plus de quatre ou cinq heures aux frontières. Personnes n’y est resté bloqué. Sans leur intervention aucun tunisien n’aurait pu quitter l’Ukraine. »
      Situation compliquée pour les Tunisiens de Dnipro

      Vendredi, trente Tunisiens ont pu rejoindre la Moldavie. Aujourd’hui, Amine Smiti dit pouvoir en faire évacuer encore une centaine. Les étudiants d’Odessa devraient tous être évacués d’ici à la fin du week-end. Mais la situation est plus compliquée pour les 227 Tunisiens bloqués à Dnipro. La ville étant située à plus de 900 km des frontières voisines, il est difficile d’assurer un chemin sécurisé pour leur évacuation.

      https://www.rfi.fr/fr/afrique/20220226-les-%C3%A9tudiants-tunisiens-s-organisent-pour-quitter-l-ukraine-en-gue

    • Exode à la frontière Ukraine-Pologne : « Ils nous refoulent juste parce qu’on est Noirs ! »

      De nombreux Africains fuyant la guerre en Ukraine ont affirmé sur les réseaux sociaux avoir été recalés à la frontière polonaise en raison de leur couleur de peau. À la gare de Lviv, dans l’ouest de l’Ukraine, France 24 a rencontré plusieurs #étudiants africains ayant été refoulés sans raison au poste-frontière de Medyka. Des discriminations démenties par Kiev et Varsovie.

      Des civils sont-ils empêchés de fuir la guerre en Ukraine en raison de leur #couleur_de_peau ? Des Africains affirment en tout cas avoir été refoulés à la frontière avec la Pologne tandis que d’autres personnes, blanches, étaient autorisées à passer. Des discriminations qui pourraient venir ternir le grand élan de solidarité affiché par les pays de l’Union européenne, tandis que des centaines de milliers de réfugiés continuent à affluer vers les frontières polonaise, hongroise, slovaque et roumaine de l’Ukraine.

      Le blocage de la frontière polonaise pour les Africains n’est pas total car certains groupes ont pu passer, ce qui suggère plutôt un filtrage arbitraire des gardes-frontières locaux.

      Mais lors d’un reportage dimanche 27 février à la gare de Lviv, grande ville de l’ouest de l’Ukraine située à environ 80 kilomètres de la frontière polonaise, France 24 a rencontré plusieurs étudiants africains qui affirment avoir été empêchés de pénétrer en Pologne par les gardes-frontières ukrainiens.

      « On nous a bloqués à la frontière, on nous a dit que les Noirs ne rentrent pas. Pourtant, on voyait les Blancs rentrer... », se remémore ainsi Moustapha Bagui Sylla, un Guinéen qui étudiait la médecine en Ukraine. Le jeune homme a fui sa résidence universitaire de Kharkiv dès les premiers bombardements pour se lancer dans une folle course vers l’ouest.

      Comme des dizaines de milliers de civils ukrainiens, il a enduré des heures de marche à pied et d’attente dans le froid sur la route de Medyka en Pologne. Mais son périple s’est heurté à l’intransigeance des gardes-frontières ukrainiens, qui lui ont intimé l’ordre de rebrousser chemin.

      Un étudiant nigérian en train de faire la queue pour acheter des billets de train a décrit une scène similaire au même endroit. Son groupe, qui comprenait des femmes, est resté bloqué devant les grilles du poste-frontière tandis que les gardes ukrainiens faisaient passer des Blancs.

      « Ils ne laissent pas passer les Africains. Les Noirs qui n’ont pas de passeports européens ne passent pas... Ils nous refoulent juste parce qu’on est noirs ! », s’exclame Michael. « On est tous humains, on est nés comme ça, ils ne devraient pas nous discriminer sur la couleur de notre peau. »

      Selon Moustapha Bagui Sylla, les gardes ukrainiens ont justifié leur refoulement par des instructions de leurs homologues polonais, qui leur auraient dit « qu’il n’y avait plus de place pour les migrants » en Pologne.

      Varsovie a fermement démenti toute discrimination. « Je ne sais pas ce qui se passe du côté ukrainien, mais nous admettons tout le monde quelle que soit la nationalité. Cela fait deux jours que je démens de fausses allégations comme ça », a affirmé à France 24 Anna Michalska, porte-parole des gardes-frontières polonais. Un deuxième communiqué polonais a confirmé qu’aucun visa n’était requis, que les cartes d’identité ou passeports, même périmés, étaient acceptés.

      Un responsable des gardes-frontières ukrainiens a également démenti ces informations en insistant qu’il n’y avait aucune nationalité favorisée plus qu’une autre pour passer la frontière. La principale restriction de sortie du territoire vise actuellement les hommes de nationalité ukrainienne âgés de 18 à 60 ans, qui sont mobilisés pour défendre le pays face à l’invasion russe.

      « Je ne sais pas ce qu’il s’est passé, ces personnes ont peut-être été refoulées parce qu’elles essayaient de griller la priorité dans la file d’attente », a ajouté Andriy Demchenko, porte-parole des gardes-frontières ukrainiens.

      La situation humanitaire du côté ukrainien du poste-frontière de Medyka est extrêmement précaire pour tous les déplacés, comme l’a illustré un de nos récents reportages. Selon un document interne de la Commission européenne cité par Le Figaro, il faut désormais entre vingt et soixante-dix heures pour franchir les postes-frontières de la Pologne.

      Pour les principaux concernés, ces refoulements arbitraires ressemblent à une double peine. Être renvoyé au statut de migrant économique est une véritable douche froide pour ces jeunes Africains venus faire des études avancées, avec des papiers en règle et de brillantes perspectives d’emploi. Dimanche, la plupart des Africains coincés à la gare de Lviv cherchaient désormais à fuir par la Roumanie, la Hongrie, ou la Slovaquie.

      https://www.france24.com/fr/europe/20220228-exode-%C3%A0-la-fronti%C3%A8re-ukraine-pologne-ils-nous-refoulent
      #refoulement #Blancs #Noirs #filtrage

    • Nigerian Students Fleeing Ukraine Stranded at Poland Border

      Nigerian students in Ukraine are being subjected to a tormenting reality following the Russian invasion of Ukraine on Thursday.

      In a series of tweets, the students have detailed their painful experiences, ranging from trekking long distances to escape the situation at hand, to experiencing racism in the face of danger.

      Many Nigerians walked between 14 and 25 kilometres to seek refuge in Poland. But despite trekking for hours, Poland refused them entry.

      Kachi_Nate, a Twitter user, said his friend in Ukraine could not enter Poland because she’s black.

      “She just told me they’re not letting any Black into Poland without a visa. These are students who are legally in Ukraine. They didn’t even check their documents; just turned them back,” he said.

      “We spoke on a call. She said they turned all blacks without a visa back. As long as you don’t have a visa to Poland, you can’t enter. Also, they didn’t check any other document to confirm their status as international students. She’s walking 3-4 hours back to Lviv.”

      On Thursday, Ukraine’s interior ministry said men between the ages of 18 and 60 are banned from leaving the country. Nigerians are protesting this order by heading to Poland.

      Reacting, a Nigerian said, “Nigerians living in Ukraine shouldn’t be mandated to fight or partake in a war they do not understand. There’s a reason they left in the first place. Why are they being turned back from entering Poland?”

      Some angry parents blamed the inability of Nigerian students to enter Poland on the federal government.

      “Parents are claiming the Nigerian Embassy in Poland should have informed the government there so they could approve the arrival of Nigerians. They’re taking Ukrainians in and, I think, Indians too, because the Indian Embassy in Poland said so,” a Twitter user said.

      Others say they are still subjected to racism. Nzekiev, a Twitter user, said when the train to Poland got to where he was, he and two other Africans entered first. But a few minutes later, the police came in and dragged them down from their cabin, as only Ukrainians were allowed.




      “I don’t blame them, though. I blame African leaders,” he said. “In the train stations here in Kyiv, children first, women second, white men third, and the remaining space is occupied by Africans. This means that we have waited many hours for trains here and couldn’t enter because of this. Majority of Africans are still waiting to get to Lviv.”

      On Thursday, the Russian military launched an offensive against Ukraine with land support from Belarus.

      This came minutes after Russian President Vladimir Putin declared war on Ukraine, claiming Russia was invited by the Donbas People’s Republic.

      Following this development, the House of Representatives of the Federal Republic of Nigeria promised to help Nigerian students in Ukraine.

      In a tweet on Thursday, they offered “to shoulder the immediate evacuation of Nigerian students from Ukraine”.

      The House of Representatives said the committee on the Nigerian Ministry of Foreign Affairs would jet out to Ukraine on Friday.

      However, over 24 hours after the federal government said they would help, students are still stuck in the web of the Russian-Ukraine war.

      It is estimated that over 4,000 Nigerian students are in Ukraine, making them the second most populated group of international students in the country.

      https://fij.ng/article/nigerian-students-fleeing-ukraine-stranded-at-poland-border

    • Ukraine : 436 Marocains ont réussi à fuir le pays via les postes frontières

      Un total de 436 Marocains ont réussi à fuir l’Ukraine via les postes frontaliers vers lesquels l’ambassade du Maroc à Kiev avait précédemment annoncé qu’ils devaient se rendre.

      Selon les données exclusives obtenues par Hespress Fr, 251 Marocains ont réussi à fuir l’Ukraine vers la Roumanie, dont 97 sont arrivés hier, samedi, et 154 ce dimanche 27 février.

      Par ailleurs, 130 Marocains ont traversé via la Pologne, dont 60 sont arrivés ce dimanche et 70 samedi, tandis que 46 Marocains ont quitté le pays vers la Slovaquie, dont 29 sont arrivés ce dimanche et 17 samedi. De même, 9 Marocains ont pu quitter l’Ukraine vers la Hongrie, dont 9 sont arrivés ce dimanche et un seul arrivé samedi.

      Il convient de rappeler que des milliers de Marocains sont toujours sur les routes essayant d’atteindre les pays voisins de l’Ukraine, et se mettre à l’abri des bombardements intensifs. Le nombre d’étudiants marocains en Ukraine est estimé, à lui seul, à près de 9.000.

      https://fr.hespress.com/250799-ukraine-436-marocains-ont-reussi-a-fuir-le-pays-via-les-postes-f

    • Guerre en Ukraine : la détresse d’étudiants africains livrés à eux-mêmes

      En Ukraine, des étudiants africains vivent la guerre au rythme des Ukrainiens. Ils sont nombreux à être sans nouvelle de leurs ambassades. Isolés, sans plan d’évacuation ni numéro d’urgence à contacter, ils vivent très mal la situation et appellent leurs gouvernements à organiser leur rapatriement. Témoignages dans les villes de Kharkiv et de Loutsk.

      « Nous ne recevons aucune information, aucune directive. Tout ce que j’ai comme réconfort, c’est mon papa et ma maman qui m’appellent. »

      À 23 ans, Lilian se sent bien seul dans son appartement de la grande ville industrielle de Kharkiv. La ville n’est pas tombée aux mains des troupes russes, mais des combats intenses se poursuivent dans la zone, selon le Pentagone. Comme de nombreux étudiants africains, Lilian n’a reçu aucun signe de la part des autorités camerounaises depuis le début de l’invasion russe.

      « Je me sens isolé parce que je n’ai aucune nouvelle de mon ambassade. J’ai même envie de dire de nos ambassades, car je ne suis pas le seul Africain dans ce cas. Pourtant, je sais que l’ambassade kenyane a par exemple pris des nouvelles de ses ressortissants, leur disant que s’ils se rendent à la frontière avec la Pologne, à Lviv, ils seront pris en charge là-bas. Nous, nous n’avons rien. »

      Depuis deux jours, le quotidien de l’étudiant camerounais en master de management s’est transformé en cauchemar. Dans la nuit de mercredi à jeudi, à 4 heures du matin, le tremblement des vitres de son immeuble et les bombardements le tirent de son sommeil.

      « Avant ça, tout était calme. On ne savait pas que l’on pouvait se réveiller comme ça, du jour au lendemain, avec la boule au ventre », explique Lilian, la voix monocorde.

      Pour tromper l’angoisse de l’isolement, le jeune homme a proposé à l’un de ses amis camerounais de quitter sa chambre étudiante pour venir vivre avec lui.

      « Il est venu avec moi car c’est mieux qu’être seul », explique-t-il.

      Depuis deux jours, les deux amis ont dû s’adapter au danger imminent. Faute de pouvoir fermer l’oeil la nuit, ils profitent des moments d’accalmie, dans la journée, pour pouvoir se reposer un peu. À la moindre sirène, les jeunes hommes « courent » dans le sous-sol du bâtiment. C’est là qu’ils ont décidé de passer toutes leurs nuits.

      « Les gares et les banques sont fermées, les métros sont à l’arrêt, les bus aussi. Les bombardements se déroulent à une extrémité de la ville. Cela fait deux jours que des gens dorment dans les métros », décrit Lilian.

      À 23 ans, l’étudiant camerounais est réaliste. « Mes parents ont peur pour moi, j’ai peur aussi. On ne sait pas de quoi sera fait le lendemain. Après m’être fait réveiller par des bombardements, je m’attends à peu près à tout », argue-t-il.

      Ce qu’attend le ressortissant camerounais, c’est un plan d’évacuation de la part de son pays.

      « Je ne demande pas de l’aide gratuite. Je peux me payer un billet d’avion pour me rendre au Cameroun. Mais sans communication ni plan d’ évacuation, je suis livré à moi-même ici. »

      Amadou, un étudiant sénégalais de 32 ans, a lui reçu un mail de la part de son ambassade située en Pologne.

      « Au début, je me sentais isolé. Mais jeudi soir, dans la nuit, nous avons reçu un mail venant de l’ambassade du Sénégal en Pologne. Elle a demandé à ceux souhaitant rentrer au Sénégal, de franchir la frontière polonaise. C’est la seule alternative actuellement ».

      Sur un groupe de conversation WhatsApp, des étudiants africains de toutes les nationalités s’échangent conseils et expériences par centaines de messages. Tous souhaitent sortir du pays mais dans la plupart des villes ukrainiennes, louer une voiture ou trouver un taxi est devenu un véritable « parcours du combattant ».

      L’étudiant en master de tourisme le confirme lui-même. Il cherche aussi à quitter Loutsk. La ville n’est pas très loin de la frontière polonaise, mais il attend un ami pour entreprendre son périple. Ce dernier habitait à Kiev et a eu du mal à trouver un transport. Les prix ont explosé.

      « Trouver un transport, c’est le plus grand souci actuellement. Les prix qui ne dépassaient pas les 25 dollars atteignent maintenant les 1.000 dollars pour voyager de Kiev à Varsovie », explique l’étudiant sénégalais.

      Son ami est finalement parvenu à quitter la capitale pour Lviv, mais ce dernier ne trouve pas le moyen de se rendre à Loutsk. Il n’a plus donné de nouvelles à Amadou depuis un jour. Son portable est éteint.

      « Loutsk est un peu plus sûre que les autres villes. Il n’y a pas d’affrontements ici donc les gens viennent. Comme à Lviv, Rivne… »

      Malgré un calme apparent, les sirènes retentissent plusieurs fois par jour dans la ville.

      « C’est difficile de dormir. Les sirènes n’arrêtent pas de retentir. Quand je les entends, je me précipite, je cours pour trouver un abri. C’est la psychose. Les supermarchés, les banques, les pharmacies sont prises d’assaut. Il y a des pénuries pour tout », explique Amadou.

      Natif de Bakel, à l’est du Sénégal près de la frontière avec la Mauritanie et le Mali, Amadou n’a qu’une idée en tête, partir.

      « Tout ce que je désire, c’est rentrer chez moi. Ou au moins franchir la frontière polonaise et me rendre dans l’espace Schengen pour être un peu plus protégé », dit-il.

      "Il y a de la peur, de l’angoisse, de la fatigue. Parfois, l’information n’est pas claire, on ne comprend pas ce que l’on doit faire, la langue ukrainienne n’est pas facile à comprendre pour tout le monde. Il faut vraiment vivre en Ukraine pour comprendre ce qu’il se passe ici. Je n’ai pas vraiment les mots", confesse Amadou.

      Il lance aussi un appel aux autorités sénégalaises. Il a peut-être été contacté par son ambassade en Pologne, mais il n’est pas rassuré par le passage de la frontière polonaise. L’inconnu l’effraie. D’autant que des rumeurs circulent sur les réseaux sociaux et dans les différents groupes de conversations observés.

      « Le problème en Pologne, c’est que beaucoup de monde cherche déjà à traverser la frontière. Nous ne savons donc pas quand nous serons autorisés à la franchir une fois sur place, et quel sort nous sera réservé. Je n’ai pas été là-bas mais j’ai entendu qu’ils nous traitent différemment et qu’ils séparent les Ukrainiens des étrangers. Ça nous fait peur, on ne sait pas quel sort nous attend en Pologne. Je veux que les autorités nous récupèrent une fois la frontière passée, qu’ils organisent notre rapatriement ou qu’ils nous trouvent un abri là-bas », déclare Amadou.

      Sa peur est partagée par de nombreux expatriés africains résidant en Ukraine. Tous lancent un appel à leurs gouvernements pour organiser leur rapatriement.

      https://information.tv5monde.com/info/guerre-en-ukraine-la-detresse-d-etudiants-africains-livres-eux

    • Guerre en Ukraine : des milliers d’étudiants arabes coincés sur place cherchent désespérément à fuir

      Plus de 10 000 étudiants arabes se sont retrouvés pris au piège du conflit en Ukraine. Leur rapatriement est un casse-tête pour leurs gouvernements et une difficile traversée pour les concernés livrés à eux-mêmes

      Trois jours après le début de l’invasion russe en Ukraine, le nombre de réfugiés ou déplacés grandit rapidement. Les ressortissants étrangers sont aussi menacés par l’avancée de l’envahisseur. C’est le cas de plus de 10 000 étudiants arabes, pris au piège sur place. Les Marocains forment le principal contingent d’étudiants en Ukraine, prisée pour les études de médecine et d’ingénierie. Au moins 8 000 étudiants y résident habituellement.
      Des « scènes traumatisantes »

      Parmi ces étudiants, Rania Oukarfi, 23 ans. Elle a pris la route vers la Moldavie, peu après le début de l’invasion. Jointe par téléphone, elle raconte avoir vu des « scènes traumatisantes ». Selon elle, « l’ambassade n’aide pas, on essaie d’appeler, aucune réponse ».

      Nassima Aqtid, 20 ans, étudiante en pharmacie, est bloquée à Kharkiv où les combats font rage. « J’ai pensé quitter la ville mais c’est impossible, la frontière la plus proche est celle de la Russie », explique-t-elle. « J’ai quitté le Liban à cause de l’effondrement » économique, raconte sur place Samir, 25 ans. Pour lui, la situation est plus critique. Pour gagner la Pologne, il doit traverser toute l’Ukraine.

      Livrés à eux-mêmes

      Des jeunes Syriens et Irakiens sont dans la même situation. Ali Mohammad, un étudiant en ingénierie de 25 ans, appelle constamment son ambassade sans succès depuis Chernivtsi (à l’ouest), proche de la frontière roumaine. « On est partis d’Irak pour changer de mode de vie, la guerre, les galères. On est venus en Ukraine, et c’est la même chose », déclare-t-il par téléphone. Selon un responsable gouvernemental, l’Irak compte 5 500 ressortissants en Ukraine dont 450 étudiants.

      Faute de directives de leurs pays, les ressortissants égyptiens ne savent que faire, comme le confie Saad Abou Saada, 25 ans, étudiant en pharmacie à Kharkiv. « L’ambassade n’a encore rien fait. Je ne sais pas où aller. » Il loge dans sa résidence universitaire qui hébergeait d’autres étrangers « partis sans (lui) ». La moitié des ressortissants du pays sont des étudiants en majorité inscrits à Kharkiv.

      Les États s’organisent

      Depuis le début de la guerre, l’Irak, la Tunisie, l’Égypte et la Libye tentent de préparer la sortie de leurs ressortissants vers des pays limitrophes. Le Maroc les a invités à se rendre à des points d’accès frontaliers avec la Roumanie, la Hongrie, et la Slovaquie. La Tunisie, qui ne dispose pas d’ambassade en Ukraine, va envoyer en Pologne et en Roumanie des avions pour rapatrier ses ressortissants qui souhaitent partir parmi les 1 700 vivant en Ukraine. Tunis a pris contact avec l’ONU et la Croix-Rouge internationale pour l’aider à les évacuer par voie terrestre, ce qui reste très risqué.

      La Libye a prévu des points de ralliement en Ukraine et des évacuations vers la Slovaquie pour une diaspora estimée à près de 3 000 personnes. L’Algérie, liée à la Russie par des accords militaires, s’est distinguée en n’appelant pas à ses ressortissants à quitter le pays. Mais elle les a exhortés à « une extrême prudence ».

      https://www.sudouest.fr/international/guerre-en-ukraine-des-milliers-d-etudiants-arabes-coinces-sur-place-cherche

    • Guerre en Ukraine : le difficile exode des étudiants africains

      Après de multiples accusations de comportements racistes aux frontières, l’Union africaine s’est élevée contre tout « traitement différent inacceptable ».

      Jusqu’au déclenchement de l’invasion russe en Ukraine, Theresia Kabimyama était étudiante en ingénierie à Odessa, ville portuaire située au bord de la mer Noire. Mais du jour au lendemain, la guerre a poussé cette jeune Congolaise à fuir le pays où elle avait élu domicile. Un voyage éprouvant en bus – faute de pouvoir trouver une place à bord d’un train – l’a menée jusqu’à Lviv, la grande ville de l’ouest, à 800 kilomètres de là, puis à la frontière avec la Pologne, où elle a finalement pu entrer dimanche 27 février.« C’était un cauchemar, franchement, les policiers n’ont pas du tout été sympas avec les étrangers, surtout les Noirs ; ça nous insultait de tous les noms, ça braquait les armes sur nous, ça nous bousculait », rapporte-t-elle au téléphone.Alors que de nombreux Africains, pour la plupart étudiants, tentent comme des centaines de milliers d’Ukrainiens de rejoindre vaille que vaille les pays voisins, les accusations de comportements racistes aux frontières se sont multipliées ces derniers jours. Des vidéos partagées sur les réseaux sociaux sous le hashtag #AfricansinUkraine montrent des scènes de fortes tensions et des Africains empêchés de monter à bord de trains quittant le pays.

      Hervé Offou, un étudiant ivoirien en médecine à Dnipro, une ville de l’est de l’Ukraine, vient d’en faire l’amère expérience. A Lviv où il venait d’arriver, alors qu’il voulait prendre le train avec d’autres étrangers, un policier s’est énervé : « Enlevez les singes d’ici », s’est écrié l’agent, selon le récit de l’étudiant qui assure avoir failli en venir aux mains. Il a finalement décidé de marcher près de 40 km, lundi matin, pour rejoindre la frontière avec la Pologne, en compagnie de plusieurs compatriotes.« Choquant et raciste »« Là aussi les étrangers sont mis à l’écart. Personne ne s’approche de nous, c’est difficile », relate Davy, un ami ivoirien d’Hervé. Kader Niekiema, un étudiant burkinabé de 28 ans à l’université de Lviv, a vécu la même situation, cette fois à la frontière avec la Hongrie. « Il y avait deux files, une pour les Européens, l’autre pour les Africains, c’était la panique, les gardes-frontières ukrainiens nous ont insultés et repoussés, ça a failli dégénérer », raconte le jeune homme par téléphone.Face à la multiplication de ce type de témoignages, l’Union africaine (UA) a publié lundi un communiqué en forme de mise en garde. Appliquer un « traitement différent inacceptable » aux Africains serait « choquant et raciste » et « violerait le droit international », ont souligné le chef de l’Etat sénégalais Macky Sall, président en exercice de l’institution, et le président de la Commission de l’UA, Moussa Faki Mahamat.« Il est primordial que chacun soit traité avec dignité et sans favoritisme », avait déjà réclamé la veille Garba Shehu, un porte-parole de la présidence nigériane, rapportant qu’« un groupe d’étudiants nigérians qui se sont vus refuser à de multiples reprises l’entrée en Pologne ont fini par comprendre qu’ils n’avaient pas d’autre choix que de traverser de nouveau l’Ukraine pour essayer de sortir du pays via la Hongrie ». Avec quelque 4 000 ressortissants en Ukraine, les Nigérians constituent l’un des plus importants contingents d’étudiants africains dans le pays. Selon les dernières statistiques disponibles de l’Unesco, près de 13 000 étudiants originaires d’Afrique – y compris du Maghreb – étaient recensés en Ukraine en 2019.En Afrique du Sud également, les autorités ont haussé le ton. Le ministère des affaires étrangères affirme avoir reçu des témoignages et des vidéos montrant des Sud-Africains et plus généralement des Africains placés dans des files séparées des Ukrainiens et des Européens aux postes-frontières. « Ils ont été poussés, bousculés et parfois mis en joue pendant que les soldats ukrainiens leur disaient que la priorité était donnée aux femmes et aux enfants ukrainiens et européens », explique le porte-parole du ministère, Clayson Monyela.« Chaos » suscité par l’éclatement de la guerrePrésent sur place, l’ambassadeur sud-africain en Ukraine, Andre Groenewald, a contacté le ministère ukrainien des affaires étrangères pour s’insurger. « Si c’est ainsi que doivent être traités les Africains, nous nous en souviendrons après le conflit », dénonce M. Monyela qui ajoute que « la situation s’est légèrement améliorée »depuis les protestations sud-africaines.

      Ces accusations de racisme ont été rejetées notamment par l’ambassadrice de Pologne au Nigeria, Joanna Tarnawska. « Tout le monde reçoit un traitement égal », a-t-elle déclaré à des médias locaux, affirmant que les documents d’identité invalides sont acceptés pour franchir la frontière et que les restrictions liées au Covid-19 ont été levées.Des dispositions confirmées par l’ambassadeur du Sénégal pour la Pologne, l’Ukraine et la République tchèque, Papa Diop. Celui-ci rapporte que le ministère polonais des affaires étrangères a convié, le 15 février, un groupe d’ambassadeurs africains, en prévision du déclenchement des hostilités. « Lors de cette réunion de crise, les autorités polonaises nous ont informés qu’en cas de conflit, elles n’exigeraient pas de visa européen et de passe sanitaire aux ressortissants non européens », détaille-t-il.

      A l’en croire, les frictions des derniers jours sont le résultat d’une « mésentente entre les gardes-frontières polonais et ukrainiens » et du « chaos » suscité par l’éclatement de la guerre. « C’est dur pour tout le monde dans ce contexte. Notre groupe d’ambassadeurs africains a d’ailleurs écrit au ministère polonais des affaires étrangères pour demander si des instructions discriminatoires avaient été données. On nous a répondu que non et on nous a confirmé les dispositions prises lors de la réunion du 15 février », insiste-t-il.« Les femmes et les enfants d’abord »Du côté polonais, Le Monde a effectivement pu constater que des dizaines d’étudiants africains avaient réussi à traverser la frontière, malgré des complications pour ceux ne disposant pas d’un permis de résidence en Ukraine. Certains réfugiés ukrainiens se plaignent d’ailleurs que « les hommes étrangers comme les étudiants africains » veuillent à tout prix passer « alors que ce doit être les femmes et les enfants d’abord ».
      Alors que l’Ukraine a sonné la mobilisation générale, réquisitionnant tous les hommes de 18 à 60 ans, les Ukrainiens qui fuient vers les pays limitrophes sont essentiellement des femmes et des mineurs. « Mais les autorités ukrainiennes bloquent aussi les femmes africaines », déplore l’Ivoirien Gildas Bahi, chargé d’organiser le regroupement des étudiants de son pays en vue de leur évacuation.Cependant, tous les témoignages ne racontent pas la même histoire. Merouane, étudiant algérien en ingénierie informatique à Dnipro, s’est engagé avec trois autres Algériens et une Ukrainienne dans un périple de 900 kilomètres dès les premières heures de l’invasion russe. « Je n’ai observé aucune discrimination liée au passeport et c’est rare aux frontières », rapporte-t-il. Après vingt-quatre heures de route et plusieurs heures d’attente à la frontière, le groupe a été accueilli par une structure polonaise qui leur a offert « une chambre, de la nourriture et même un sac de vêtements de rechange pour ceux qui n’avaient rien pris », raconte-t-il, soulagé.

      https://www.lemonde.fr/afrique/article/2022/03/01/guerre-en-ukraine-le-difficile-exode-des-etudiants-africains_6115635_3212.ht

    • Nigeria condemns treatment of Africans trying to flee Ukraine

      Government says citizens are being denied entry into Poland amid growing reports of discrimination

      The Nigerian government has condemned the treatment of thousands of its students and citizens fleeing the war in Ukraine, amid growing concerns that African students are facing discrimination by security officials and being denied entry into Poland.

      A deluge of reports and footage posted on social media in the past week has shown acts of discrimination and violence against African, Asian and Caribbean citizens – many of them studying in Ukraine – while fleeing Ukrainian cities and at some of the country’s border posts.

      They are among hundreds of thousands of people trying to escape the country as civilian casualties and destruction mount.

      More than half a million people have fled Ukraine since the Russian invasion began last week, according to the UN’s refugee agency, UNHCR.

      The Nigerian president, Muhammadu Buhari, said on Monday: “All who flee a conflict situation have the same right to safe passage under UN convention and the colour of their passport or their skin should make no difference,” citing reports that Ukrainian police had obstructed Nigerians.

      “From video evidence, first-hand reports, and from those in contact with ... Nigerian consular officials, there have been unfortunate reports of Ukrainian police and security personnel refusing to allow Nigerians to board buses and trains heading towards Ukraine-Poland border,” he said.

      “One group of Nigerian students having been repeatedly refused entry into Poland have concluded they have no choice but to travel again across Ukraine and attempt to exit the country via the border with Hungary.”

      Nigeria’s special adviser to the president on diaspora affairs, Abike Dabiri-Erewa, said: “Africans are being denied entry through the Ukrainian borders. The minister of foreign affairs, Geoffrey Onyeama, has taken this up with the Ukrainian ambassador. Our people who want to leave must be allowed to.”

      Amid chaotic and emotional scenes at Ukraine’s borders with Poland, as well as Romania and Belarus, where a number of African governments have advised citizens to head to, the treatment of African and Asian people has caused outrage.

      Many African students have condemned the difficulties they have faced trying to escape the conflict.

      Samuel George, a 22-year-old Nigerian software engineering student, drove from Kyiv, along with four of his friends, fellow students from Nigeria and South Africa, to the Polish border. Queues of cars full of people trying to leave spanned 31 miles (50km) to the border. Yet when some men who were in the queue noticed they were Africans, he said, they stopped their vehicle.

      “They immediately saw that the Ukrainians could pass but when they realised we weren’t Ukrainians they stopped it. They told us we couldn’t move forward and wouldn’t let us join the queue,” George said.

      When they tried to defy them, he said the men attacked and vandalised their windscreen. “They demanded $500 – we begged and negotiated to pay $100. We had to leave the car and trek. We were walking for almost five hours to the border with Poland. One of us was sick. The temperature was freezing, it was so tough.”

      At the border, Ukrainian officials “showed racist acts”, attempting to force them to the back of the queue, George said. “So many of us are still stuck there facing challenges. Some of them went to the borders but they were sent back and are still trying to leave.”

      Emily*, a 24-year-old medical student from Kenya, said she spent hours waiting for Ukrainian border guards to let her enter Poland because they were prioritising Ukrainian nationals.

      “We had to wait five hours but we were lucky: we met some people there who had spent days waiting in the foreign national queue,” she said.

      After eventually entering Poland, she boarded a free bus, organised by an NGO, to a hotel near Warsaw that was offering free board to Ukrainian refugees. However, the hotel refused to take her and her Kenyan friends in after examining their documents.

      “The staff said, ‘Sorry, we can’t admit you because this was meant only for Ukrainians,’” she said. The hotel also refused to give Emily a room after she offered to pay for one.

      Instead, Emily’s family in Kenya got in touch with a Polish acquaintance, who was able to find accommodation for Emily and other students with friends in Warsaw.

      In footage posted on social media, men identified by students as Ukrainians were seen abusing and assaulting them near borders, preventing them from leaving.

      In response to calls for information and advice for students worried about leaving Ukraine, several support groups have been set up on WhatsApp, Telegram and Facebook by people advocating for more assistance and by students who have been trying to leave.

      Government officials from Ukraine and Poland have said all refugees are welcome, adding that border officials were working through hundreds of thousands of cases.

      Yet even after passing into Poland, many have reported continuing challenges. Both George and Emily were given entry into Poland for just 15 days.

      In the weeks leading up to the war it was clear that increased support was needed but the government did not act, George said, condemning what he described as a lack of quick and concise assistance from Nigerian authorities.

      Days after Ukraine closed its airspace to civilian flights, Nigerian lawmakers and ministers attempted to organise evacuation flights before changing plans.

      One student said they tried to contact the consulate but failed to reach an official.

      “I don’t see how in a situation like this, where the citizens are in a country where there is war, that a country won’t do everything to rescue their citizens, but that is where we are,” they said.

      “The whole situation is tragic, the war is so tragic. So many men were staying behind to fight with the army. I was seeing so many greeting their wives and families farewell. It felt like the world was coming to an end.”

      https://www.theguardian.com/world/2022/feb/28/nigeria-condemns-treatment-africans-trying-to-flee-ukraine-government-p

    • La acogida a desplazados ucranios contrasta con denuncias de discriminación a otros migrantes

      Las cifras récord de acogida de desplazados de los países fronterizos con Ucrania coinciden con las denuncias de ciudadanos de África, Medio Oriente y Asia sobre discriminación a la hora de abandonar el país. La Unión Africana lo califica de «racista», mientras que periodistas internacionales han sido señalados en redes por hacer distinciones entre los refugiados de Ucrania y los de otras guerras anteriores.

      Este martes 1 de marzo, el máximo responsable para los refugiados de las Naciones Unidas, Filippo Grandi, reportaba la salida de 677.000 personas desde Ucrania hacia los países vecinos.

      Mientras que Karolina Lindholm Billing, la responsable de Acnur para Ucrania, cifró en un millón el número de desplazados internos. De la frontera del Donbass, epicentro de la guerra, se estiman 116.000 desplazados ucranianos al lado ruso.

      Son cifras récord, producidas en menos de una semana de conflicto. Lo que supone un reto humanitario mayúsculo, tanto para los países fronterizos, como para las potencias europeas a las que muchos ucranianos quieren llegar.

      Los primeros gestos de los países colindantes con Ucrania han respondido a los llamados históricos de las agencias internacionales para refugiados. Además de suspender sus cuarentenas anticovid, los países fronterizos (Polonia, Hungría, Rumanía, Moldavia y Eslovaquia) han abierto sus puertas para todos aquellos que acrediten su procedencia de Ucrania.

      E incluso más: Polonia ha elaborado programas de alojamiento para los recién llegados en viviendas particulares, mientras que Eslovaquia ofrece transporte gratuito y la posibilidad de trabajar en el país. Este martes también se supo que la Unión Europea está debatiendo garantizar a los refugiados ucranianos el estatuto de protección temporal, permitiéndoles vivir y trabajar hasta 3 años en algunos de los 27 Estados miembros.

      Acciones aplaudidas por el propio Filippo Grandi en un comunicado en el portal de ACNUR: «Polacos, húngaros, moldavos, rumanos, eslovacos y ciudadanos comunes de otros países europeos han llevado a cabo actos extraordinarios de humanidad y bondad. Este es el instinto humanitario que tanto se necesita en tiempos de crisis».

      Sin embargo, paralelamente al recibimiento, también crecen las denuncias de que la acogida y el refugio está contando con privilegios. Entre los primeros denunciantes, la investigadora sobre migración y asilo en Grecia, Lena Karamanidou, que había avisado después del inicio del conflicto.

      “No hay forma de evitar las preguntas sobre el racismo profundamente arraigado en las políticas migratorias europeas cuando vemos cuán diferentes son las reacciones de los gobiernos nacionales y las élites de la UE ante las personas que intentan llegar a Europa”.

      But there is no way to avoid questions around the deeply embedded racism of European migration policies, when we see how different the reactions of national governments and EU elites are to the people trying to reach Europe. This can’t just be brushed under the carpet.
      — Lena K. (@lk2015r) February 25, 2022

      La Unión Africana califica de «racista» el trato diferencial a africanos

      En los últimos días, periodistas han estado denunciado las dificultades de escapar de Ucrania para ciudadanos africanos, de Medio Oriente y asiáticos.

      Otros reporteros argumentaron que se tratan de las dos colas habituales administrativas: la de ciudadanos ucranianos y la de extranjeros. Sin embargo, las denuncias hacen énfasis que la de los locales avanza a una mayor velocidad que la de los foráneos.

      Ucrania tiene 470.000 ciudadanos extranjeros, que la Organización Internacional para las Migraciones (OIM) está tratando de atender. A diferencia de los ucranianos, muchos no europeos necesitan visas para ingresar a los países vecinos.

      En Internet, se ha viralizado el hashtag #AfricansinUkraine, donde estudiantes racializados mostraban la imposibilidad de abordar trenes para salir del país. Así lo recogieron los corresponsales de France 24 en la ciudad fronteriza de Leópolis.

      “Nos pararon en la frontera y nos dijeron que los negros no estaban permitidos. Pero pudimos ver gente blanca pasando”, dijo Moustapha Bagui Sylla, un estudiante de Guinea. Añadió que había huido de su residencia universitaria en Járkov, la segunda ciudad más grande de Ucrania, tan pronto como comenzó el bombardeo.

      “No dejan entrar a los africanos. Los negros sin pasaporte europeo no pueden cruzar la frontera (...). ¡Nos están haciendo retroceder solo porque somos negros!”. dijo otro estudiante nigeriano, quien solo dio su primer nombre, Michael. “Todos somos humanos”, agregó. “No deberían discriminarnos por el color de nuestra piel”, afirmó.

      Estas denuncias han provocado el enfado de la Unión Africana. El lunes, en un comunicado, el actual presidente, Macky Sall, y el presidente de la Comisión de la Unión Africana, Moussa Faki Mahamat, se hicieron eco y realizaron un llamado internacional.

      «Los informes de que los africanos reciben un trato diferente inaceptable serían escandalosamente racistas y violarían el derecho internacional. En este sentido, los presidentes instan a todos los países a respetar el derecho internacional y mostrar la misma empatía y apoyo a todas las personas que huyen de la guerra, independientemente de su identidad racial».

      Sobre esta discriminación también habló para la agencia estadounidense Associated Press, Jeff Crisp, exjefe de política, desarrollo y evaluación de ACNUR: “Los países que habían sido realmente negativos en el tema de los refugiados y que han hecho que sea muy difícil para la UE desarrollar una política de refugiados coherente durante la última década, de repente presentan una respuesta mucho más positiva”, cuestión que achaca a las similitudes culturales y raciales: "no es completamente antinatural que las personas se sientan más cómodas con personas que vienen de cerca, que hablan un idioma (similar) o tienen una cultura (similar)”.

      Los Gobiernos «ultra» europeos han cambiado el tono

      Países de Europa del Este y Centroeuropa han sido de los más duros a la hora de hablar y legislar sobre migración en los últimos años. De hecho, el primer ministro búlgaro, Kiril Petkov, hizo referencia al cambio de criterio de los últimos días: «estos no son los refugiados a los que estamos acostumbrados, estas personas son europeas (...) son inteligentes, educadas».

      Associated Press también recogía el cambio de tono del ultraderechista primer ministro húngaro, Viktor Orban, quien pasó en diciembre de decir «no vamos a dejar entrar a nadie», a asegurar esta semana que «dejaremos entrar a todos», en referencia a los ucranianos.

      Otro ejemplo clarificador fue el de 2021, cuando miles de migrantes se acercaron a la frontera entre Belarús y Polonia, con el objetivo de acceder a países de la Unión Europea, y en plena crisis entre el organismo y el Gobierno de Alexander Lukashenko. Polonia cerró completamente sus fronteras y como consecuencia, 15 personas murieron por el frío.

      Sin embargo, el lunes, el embajador de Polonia en la ONU, Krzysztof Szczerski, dijo que no estaban discriminando a nadie en esa crisis y que 125 nacionalidades habían sido admitidas en el país.

      Algunos periodistas distinguen entre refugiados ucranianos y de otras partes

      Pero además de las acciones, también se están señalando como racistas discursos de algunos medios de comunicación internacionales, en los que se han encontrado distinciones entre guerras de primera y de segunda, según el color de piel o la cercanía cultural.

      [Thread] The most racist Ukraine coverage on TV News.

      1. The BBC - “It’s very emotional for me because I see European people with blue eyes and blonde hair being killed” - Ukraine’s Deputy Chief Prosecutor, David Sakvarelidze pic.twitter.com/m0LB0m00Wg
      — Alan MacLeod (@AlanRMacLeod) February 27, 2022

      El corresponsal del medio CBS News, Charlie D’Agata, dijo que «esto no es Irak o Afganistán, esto es en una ciudad relativamente civilizada y europea».

      En el medio catarí Al-Jazeera, otro periodista afirmó que no son refugiados tratando de escapar de Medio Oriente o el Norte de África «son como cualquier familia europea que vive a tu lado».

      También en Francia, en el medio privado BFM TV, un tertuliano dijo que lo que está sucediendo es como si estuviéramos «en Irak o Afganistán», mientras que una reportera de la cadena británica ITV dijo que «esto no es una nación del tercer mundo, esto es Europa».

      https://www.france24.com/es/europa/20220301-refugiados-ucrania-guerra-racismo-europa?ref=wa

    • Ucraina, africani invisibili in tempo guerra

      A Kiev è stato impedito agli studenti africani di prendere i treni diretti alla frontiera con la Polonia. E quelli che vi sono giunti sono stati respinti dalle guardie polacche. L’Unione africana ha protestato contro questo «trattamento differenziato». Ma anche l’Europa, che accoglie gli ucraini, non usa lo stesso criterio con chi fugge dalle guerre africane

      Mentre tutta l’Europa, Italia compresa, si mobilita per soccorrere e accogliere quanti dall’Ucraina fuggono per salvarsi dai bombardamenti russi, nel silenzio quasi generale dell’opinione pubblica e dei governi occidentali, sta consumandosi la tragedia nella tragedia dei respingimenti di migliaia di africani, giovani studenti soprattutto, residenti in Ucraina. Costoro cercano di fuggire di fronte all’assedio russo, ma si ritrovano intrappolati in quanto respinti, in particolare alla frontiera polacca.

      Secondo diverse testimonianze, a Kiev le forze di sicurezza ucraine avrebbero impedito a degli studenti africani di salire sui treni e sui bus diretti alla frontiera polacca: ciò per dare priorità agli ucraini. E altri africani, giunti alla stessa frontiera, sarebbero stati respinti dalle guardie di confine per le stesse ragioni.

      Le immagini, a migliaia, veicolate dai social, di cittadini africani bloccati alla frontiera tra Ucraina e Polonia e che subiscono trattamenti differenziati se non abusi (il personale di frontiera che dice: «Non ci occupiamo degli africani»), non potevano non suscitare l’indignazione e la condanna dell’intero continente africano.

      A gran voce, l’Unione africana (Ua) è scesa in campo per denunciare il razzismo antiafricano, a suo parere evidente nelle operazioni di rimpatrio dei propri concittadini, in maggioranza studenti. Alcuni di loro hanno dichiarato: «Siamo stati cacciati indietro, siamo stati colpiti dai poliziotti armati di bastone quando abbiamo tentato di fare pressione e spingere in avanti».

      L’Ua si è detta «particolarmente preoccupata» da quanto sta accadendo. Il presidente senegalese Macky Sall, presidente in esercizio dell’Ua, e il presidente della Commissione, Moussa Faki Mahamat, ricordano che «ogni persona ha il diritto di attraversare le frontiere internazionali durante un conflitto (…) qualunque sia la sua nazionalità o la sua identità razziale». Applicare un «trattamento differente» per gli africani sarebbe «inaccettabile, scioccante e razzista» e «violerebbe il diritto internazionale».

      Denuncia

      L’evacuazione dei cittadini africani si rivela più complessa di quanto non possa apparire, anche perché soltanto una decina di paesi hanno una rappresentanza diplomatica, ambasciata o consolato, in Ucraina.

      Nel cercare, comunque, di portare soccorso ai propri cittadini, le reazioni dei paesi africani sono state a dir poco “vivaci”. Un solo esempio, la Nigeria. Da subito ha esortato le autorità di frontiera con l’Ucraina e dei paesi vicini a trattare «con dignità» i suoi concittadini.

      «Informazioni spiacevoli» indicano che «la polizia ucraina e il personale di sicurezza rifiutano di permettere ai nigeriani di salire sui bus e i treni verso la Polonia», ha dichiarato il portavoce della presidenza nigeriana, Garba Shehu. «Un video molto diffuso sui social mostra una madre nigeriana con il suo bimbo in treno fisicamente forzata a cedere il proprio posto», ha proseguito, aggiungendo che secondo altre informazioni, funzionari polacchi hanno rifiutato l’entrata in Polonia a dei nigeriani provenienti dall’Ucraina.

      Ha ricordato infine che «tutti coloro che fuggono da un conflitto hanno lo stesso diritto a passare in tutta sicurezza in virtù della Convenzione dell’Onu, e il colore del loro passaporto o della loro pelle non dovrebbe fare alcuna differenza». Una denuncia per maltrattamenti e abusi è venuta anche dall’ambasciatore sudafricano e altri che si sono recati personalmente alla frontiera per aiutare gruppi di propri concittadini a entrare in Polonia o a rimpatriare.

      Queste accuse di “razzismo” sono naturalmente respinte dalle autorità polacche così come dalle guardie di frontiera che assicurano di garantire a tutti il passaggio. Le difficoltà sarebbero legate all’enorme afflusso di profughi che crea lunghe file di attesa il cui controllo, anche sanitario, legato alla pandemia di coronavirus, richiede tempi lunghi, anche giorni.

      L’ambasciatrice polacca ad Abuja (Nigeria) ha dichiarato da parte sua che «tutti ricevono lo stesso trattamento», confermando che dei cittadini nigeriani avevano già raggiunto la Polonia. Che a loro volta però hanno riaffermato che «i funzionari alla frontiera davano la priorità alle donne e ai bambini ucraini».

      Secondo cifre ufficiali ucraine, più di 76mila sarebbero gli studenti stranieri presenti in Ucraina, di cui il 20% africani. Le università ucraine, in particolare le facoltà di medicina e ingegneria, sono particolarmente ricercate dagli studenti originari del mondo arabo. I marocchini con gli egiziani formano il gruppo arabo più numeroso.

      Migliaia sono anche i giovani subsahariani partiti per l’Ucraina, attirati dalla qualità degli studi e dalle tasse scolastiche relativamente basse. Importanti i gruppi di studenti e studentesse di paesi come la Nigeria, il Ghana, il Kenya, il Sudafrica, l’Etiopia o la Somalia.

      Amnesty International, quella belga in particolare, è scesa in campo per richiamare i paesi europei al loro dovere di «accogliere chiunque, indipendentemente da ogni criterio, razziale o altro. Ogni paese deve accogliere tutti i rifugiati e garantire una accoglienza degna».

      Razzismo «endemico» in Europa?

      Anche i militanti antirazzisti in Europa si sono fatti sentire per denunciare che in Europa, in tempo di crisi, il razzismo endemico risolleva la testa. Lo si era già visto con il trattamento riservato ai rifugiati siriani alle porte della Polonia, alcuni anni fa. Non andrebbe mai dimenticato che in Europa ci sono comunque cittadini provenienti dal mondo intero, eredità di un passato coloniale. Non mancano in Europa gli afrodiscendenti che in questi giorni si stanno chiedendo: «Se mai un giorno dovessimo fuggire, i bianchi avrebbero un trattamento speciale?».

      Siamo tutti felici della rapidità con cui i paesi europei si sono impegnati ad accogliere gli ucraini in fuga. I paesi occidentali mostrano solidarietà con i rifugiati ucraini perché la nostra cultura sarebbe tanto simile alla loro. Il che però non toglie lo stupore di quanti, africani in primis, hanno dovuto ricorrere addirittura allo sciopero della fame per ottenere i documenti dopo essere fuggiti da situazioni di guerra.

      Doveroso riconoscere che in parallelo alle testimonianze sulle difficoltà a lasciare l’Ucraina, si sta organizzando sui social una forma di solidarietà con decine di persone che propongono il proprio aiuto concreto per il passaggio della frontiera o per offrire un alloggio.

      https://www.nigrizia.it/notizia/ucraina-africani-invisibili-in-tempo-guerra

    • Les résidents étrangers non européens, grands oubliés de l’exode hors d’Ukraine

      Les 280 000 personnes entrées en Pologne depuis la guerre en Ukraine le 24 février sont majoritairement ukrainiennes. Les autres, qu’elles viennent d’Afrique ou d’Asie, se plaignent de ne pas être logées exactement à la même enseigne.

      Pouja, George, Vikram et six de leurs amis attendent sur le bord de la route à Medyka, en Pologne. Ce groupe de ressortissants indiens dans la vingtaine ont franchi la frontière polonaise depuis l’Ukraine au matin par le passage frontalier le plus emprunté pour quitter l’Ukraine.

      Mais, à la nuit tombante, ces neuf amis n’avaient toujours pas réussi à quitter le rond-point où ils grelottaient à une dizaine de kilomètres de la ville de Przemyśl. « Cela fait plus de six heures qu’on attend ici. Il n’y a jamais de places dans les bus. Ils laissent d’abord passer les femmes et les enfants ukrainiens et les rares bus se remplissent mais sans nous », se lamente Pouja, qui est pourtant une femme mais qui ne veut pas se séparer de ses compagnons d’aventure, tous de jeunes hommes.

      Une couverture sur les épaules, Gurwinder tente de justifier : « C’est un problème de management : les Polonais font ce qu’ils peuvent, mais ils n’ont que deux ou trois bus. Or, il y a vraiment beaucoup de gens qui fuient l’Ukraine : c’est sûr qu’ils devraient augmenter la cadence. »

      Gurwinder a bien vu un bus supplémentaire affrété par l’ambassade d’Inde à Medyka, mais renseignement pris, « il ne concerne que les gens qui utilisent le centre d’accueil réservé aux ressortissants indiens. Tout ça pour remplir les statistiques de l’ambassade… », déplore cet homme de 27 ans.

      Il souhaite se rendre à Varsovie par ses propres moyens, où un temple sikh lui offrira l’hospitalité à lui et ses amis, le temps que la situation se calme en Ukraine, espère-t-il. « D’abord, comme tout le monde, nous avons dû faire 40 kilomètres à pied de l’ouest de Lviv à Medyka. Ensuite, les Ukrainiens nous ont fait patienter des heures dehors avant de passer à l’immigration. À chaque fois, ils disaient : d’abord les femmes et les enfants. Pendant ce temps, il n’y avait ni ambulance, ni nourriture, ni eau… En deux ans et demi en Ukraine, je n’avais jamais été aussi mal traité », témoigne Gurwinder, déçu.

      « J’ai vu des Nigérians se faire battre par les militaires ukrainiens car ils avaient escaladé un mur. Quant à moi, je me suis fait traiter de Poutine. Est-ce parce que je ne suis pas resté défendre l’Ukraine ? », s’interroge Gurwinder, qui était chauffeur pour Bolt – application de taxi – en Ukraine, à Kiev, et qui a dû laisser sa voiture à Lviv (ouest de l’Ukraine) sur le bord de la route alors qu’un embouteillage monstre obstruait celle-ci, qui menait au passage frontalier de Medyka – Shehyni.

      Lundi 28 février, ils étaient des dizaines d’étudiant·es ou de jeunes travailleurs et travailleuses issues de divers pays d’Afrique, du sous-continent indien, du Moyen-Orient ou encore d’Afrique du Nord à attendre désespérément par des températures négatives un bus qui n’était toujours pas venu la nuit tombée.

      À vrai dire, à Medyka, on ne trouvait plus beaucoup d’Ukrainiennes et d’Ukrainiens, alors encore majoritaires il y a deux jours à franchir la frontière à pied à la même heure. De quoi alimenter des soupçons de discrimination voire de racisme, relayés par les réseaux sociaux.

      « Ce que l’on a entendu de la part de ressortissants palestiniens, c’est que les autorités ukrainiennes ne les ont pas bien traités à la frontière. Alors que côté polonais, les procédures ont lieu rapidement et sans encombre, témoigne un Palestinien venu en voiture chercher plusieurs de ses compatriotes. Il existe une ligne de soutien pour les Palestiniens coincés en Ukraine sur la base de laquelle une liste de personnes s’apprêtant à franchir la frontière a été établie. »

      Toutes les personnes étrangères non européennes fuyant l’Ukraine n’ont pas pu bénéficier de services consulaires de la sorte, ne pouvant pas non plus compter sur l’aide de la famille ou d’ami·es, dont les Ukrainiennes et les Ukrainiens sont nombreux à bénéficier en Pologne ou ailleurs en Europe. C’est le cas de Christabel Elenya, une Nigériane de 19 ans, qui n’avait jamais mis les pieds en Pologne auparavant et ne sait pas s’il y aura une place dans un avion pour la rapatrier, si tel était son choix.

      Arrivée fin janvier à Kiev pour y suivre des cours d’aéronautique en anglais, elle a dû quitter la ville deux mois plus tard, au début de la guerre, pour se réfugier à Lviv. Puis en Pologne. Elle confirme que l’attente était plus longue au passage frontalier côté ukrainien pour les personnes étrangères non européennes. « J’ai fini par me prétendre enceinte car je n’en pouvais plus d’attendre », sourit la jeune fille assise sur son lit de fortune installé dans la salle de sport d’une école de Przemyśl.
      Pas de billets gratuits

      « Ce n’était facile pour personne au poste frontière. Les tensions ont monté, j’ai vu des hommes étrangers qui étaient à deux doigts de se battre. Cela dit, je comprends que les Ukrainiens soient débordés… », avance l’étudiante, qui assure avoir trouvé toute l’aide dont elle pouvait rêver en Pologne, y compris un logement chez un particulier, qu’elle a refusé de peur de déranger. « Je n’aurais jamais cru que des gens pouvaient être aussi gentils », finit-elle par conclure à l’adresse des Polonais.

      De son côté, Ivonna, une Ukrainienne de 42 ans passée par le poste-frontière de Medyka, et elle aussi hébergée sous un panier de basket dans l’école de Przemyśl, s’est dite choquée par le « comportement de certains étrangers, qui étaient agressifs et se comportaient de manière inadéquate ».

      En gare de Przemyśl, un contrôleur polonais interrogé sur la mesure mise en place par les chemins de fer polonais pour garantir des tickets gratuits afin de se déplacer dans le pays précise qu’ils sont réservés aux détenteurs et détentrices de passeports ukrainiens : « La logique est la suivante : la guerre est en Ukraine, pas dans leur pays. Ils doivent donc payer s’ils veulent un ticket », explique-t-il.

      En réalité, il est rare que ces tickets soient vérifiés à bord, et les bénévoles déployé·es en gare annoncent souvent des trains gratuits pour tout le monde. Il n’empêche, personne ne semble encore savoir ce qu’il en sera des ressortissant·es non européen·nes sur le sol polonais, une fois les quinze jours de séjour tolérés expirés. Les Ukrainiennes et les Ukrainiens ont droit pour le moment à 90 jours de séjour, et l’UE réfléchit à leur octroyer un statut de protection spéciale valable jusqu’à trois ans.

      https://www.mediapart.fr/journal/international/010322/les-residents-etrangers-non-europeens-grands-oublies-de-l-exode-hors-d-ukr

    • « On nous disait “Pas les Noirs” » : le tri racial dans la fuite de l’Ukraine

      Ivoiriens, Indiens, Camerounais, Marocains... De nombreux ressortissants étrangers qui résidaient en Ukraine tentent également de rejoindre la Pologne, loin des combats. Une traversée périlleuse, rythmée par des comportements racistes de certains soldats ukrainiens.

      Lundi 28 février, sous de légers flocons de neige, Stephan cherche un bus pour se rendre dans la ville la plus proche. Il traîne ses valises d’un pas chancelant, suivi de près par ses quatre amis camerounais. Ensemble, ils viennent tout juste de traverser la frontière polonaise depuis l’Ukraine, près de Medyka, après deux jours d’un interminable voyage depuis Kiev. « C’est l’expérience la plus horrible que j’ai vécue dans ma vie », soupire-t-il.

      De ce périple pourtant, Stephan ne retient ni la peur des bombardements, ni la vie qu’il a laissée derrière lui. Il retient uniquement les coups de crosses de Kalachnikov, les insultes et les menaces lancées par les soldats ukrainiens et les garde-frontières tout au long de sa fuite. Des violences racistes que rapportent également de nombreux ressortissants et étudiants africains, pakistanais, indiens ou encore népalais, qui seraient constamment relégués de façon inhumaine derrière les exilés ukrainiens pour quitter le pays au plus vite.

      « Tu es obligé de payer pour que ça s’arrête »

      Depuis le début de l’invasion russe, des vidéos circulent sur les réseaux sociaux. On y voit des soldats ukrainiens repousser à l’arrière des files les personnes de couleur, pourtant résidentes légales en Ukraine, pour faire passer en priorité les personnes blanches. Les témoignages affluent également : ceux d’Africains débarqués d’un bus en route pour la frontière, d’armes braquées sur un groupe d’Indiens ou encore d’insultes racistes répétées.

      « Ils faisaient passer les femmes et les enfants d’abord, ce qui est normal », raconte Stephan, qui travaillait en tant qu’ingénieur des ponts et chaussées en Ukraine. Parti de Kiev à 6h du matin le samedi, l’homme espérait attraper un premier train avec ses amis, avant de vite déchanter sur les quais de la gare. « Sur le côté, il y avait plein de femmes africaines avec leurs enfants que personne ne faisait passer devant, contrairement aux Ukrainiennes. D’un coup, les policiers nous ont repoussés. Il y en a un qui m’a frappé avec un fusil », ajoute le Camerounais en montrant le bas de son dos. Il ne le savait pas encore, mais ce type de scène ne sera qu’une infime partie du traitement que lui réserveront certains soldats ukrainiens jusqu’à son arrivée en Pologne.

      Bloqués par des kilomètres de bouchons d’exilés fuyant la guerre depuis l’invasion de la Russie le 24 février, le groupe de Camerounais est contraint de marcher sur plus de 12 kilomètres, comme tout le monde. Rapidement, un premier check point. « Là, la situation s’est empirée pour les étrangers. On a dû former un corridor, bloqué par les armes des soldats, comme du bétail. “Je vais tirer”, ils disaient, en mettant des coups de crosses ! », explique Stephan. Juste à côté d’eux, les femmes et les enfants ukrainiens défilaient sans difficulté. « On a passé presque deux jours au premier check point, debout, sans manger, sans eau, sans douche et dans le froid. »

      Poussé à bout, le groupe de Camerounais a finalement compris comment s’en tirer : en payant les soldats les plus agressifs. « Ils ne te demandent pas de l’argent frontalement, mais ils te mettent dans des conditions telles que tu es obligé de payer pour que ça s’arrête. » Le groupe déboursera finalement 1.000 hryvnia (environ 30 euros) une première fois, puis 100 dollars au deuxième check point. « À un moment, je me suis demandé si j’étais un être humain », se questionne d’une voix basse le Camerounais.
      « Ils donnaient de la nourriture aux Ukrainiens, pas à nous »

      Il n’y a pas besoin de chercher bien loin pour trouver des témoignages similaires. À quelques mètres de Stephan, un groupe de cinq Népalais raconte leur voyage en enfer. « C’est simple, il y a d’un côté la file des Ukrainiens, de l’autre celle des étrangers. D’un côté on les laisse tranquilles, de l’autre on les traite comme des animaux », s’exclame Padma, une jeune Népalaise qui étudiait la médecine en Ukraine. Comme elle, des dizaines de milliers d’étudiants étrangers résidaient dans le pays d’Europe de l’Est, venant principalement du Maroc, d’Égypte, d’Inde ou encore de plusieurs pays d’Afrique subsaharienne. Beaucoup d’entre eux font désormais partie des 280.000 exilés qui ont déjà rejoint la Pologne depuis le début du conflit.

      La Népalaise n’arrive pas à se calmer. Ses amies ont loupé quatre fois le train, « parce qu’ils ne mettaient que les Ukrainiens dedans », affirme-t-elle, tout en rassemblant ses affaires près de tentes blanches installées à Medyka, l’un des postes de frontière les plus empruntés par les réfugiés. Au total, ils attendront 24 heures pour enfin grimper dans un wagon.

      « On était comme des singes », ajoute la jeune femme, en expliquant s’être retrouvée bloquée à quelques kilomètres de la Pologne, après son voyage en train. « Il donnait de la nourriture aux Ukrainiens, pas à nous. » Un de ses amis l’interrompt en criant : « On leur a même proposé de l’argent ! Mais ils disaient qu’il n’y avait plus rien. » Après 36 heures sans manger, le groupe a finalement été accueilli par la police polonaise, avec de l’eau et à manger. « Eux ils nous ont bien traités », ajoute Padma. « Rien que leur façon de nous parler n’avait rien à voir », renchérit Milan, un autre Népalais. Mais même côté polonais pourtant, certains commencent à dénoncer un accueil bien plus froid à leur égard, comparé à celui réservé à leurs homologues ukrainiens.

      Le tri des réfugiés en fonction de leur origine commence à faire du bruit sur les réseaux sociaux, où les hashtag #AfricansInUkraine ou encore #IndiansInUkraine ont fait leur apparition à côté des vidéos montrant ces discriminations. Une sorte de cri d’alarme en ligne visant à alerter sur le sort des milliers de ressortissants de pays d’Afrique et autres qui sont encore bloqués aux frontières ukrainiennes, empêchés de quitter le pays. Pourtant, filmer ce type de vidéo ne serait pas sans danger.

      « Si tu sors ton téléphone pour filmer, ils [les soldats ukrainiens] deviennent comme des fous, ils te menacent pour que tu ne montres pas ce qui se passe. On voulait filmer, montrer quand on nous disait : “pas les Noirs” », explique Blaise*, un étudiant ivoirien qui a laissé derrière lui six ans de vie en Ukraine. L’homme peine à marcher. « Regardez notre démarche ! On vient de passer des jours debout, en ligne, sans pouvoir s’allonger. Tandis que les Ukrainiens étaient mieux traités », glisse quelques mètres plus loin Rohit, un ressortissant indien qui se réchauffe près d’un feu improvisé.

      Double peine

      Sous une bâche installée par des Polonais venus prêter main-forte à tous les exilés, Yren, une Congolaise, temporise. « Pour les femmes étrangères, c’était déjà un peu mieux que pour les hommes. » De l’autre côté de la frontière, des milliers d’Ukrainiens sont également bloqués dans le froid pendant des heures, et les douaniers veillent toujours à empêcher les hommes de 18 à 60 ans de sortir du pays. Tout le monde ici a vu des familles ukrainiennes obligées de se séparer, ou même rebrousser chemin, avec femmes et enfants, pour ne pas se diviser.

      La jeune femme emmitouflée dans une couverture boit une gorgée de soupe chaude, et ajoute : « On nous laissait un peu plus tranquilles les femmes, et moi on ne m’a pas frappée. Mais il y avait quand même des animaux domestiques qui passaient devant nous. »

      Pour les personnes racisées, fuir l’Ukraine de la sorte est comme une double peine. « À Kiev, j’étais terrifié. La situation était horrible, avec les tirs, les couvre-feux... Tous les comptes des étrangers ont été bloqués, ma carte ne marchait plus. Tout s’est écroulé », explique Joseph* originaire d’Afrique subsaharienne. Un traumatisme qui n’arrivera finalement pas seul. « Sur la route, la police m’a tapé avec une crosse de fusil pour essayer de garder la ligne. Ils ont terrorisé les gens, tout le monde tombe malade de l’autre côté. Honnêtement, j’ai cru que je n’y arriverais jamais. »

      Les discriminations envers ces exilés posent aussi question pour l’avenir. Quel accueil les pays européens réserveront-ils aux réfugiés non ukrainiens –et même ukrainiens– qui ont fui ce conflit meurtrier ? Une question d’autant plus importante au vu du nombre de déplacés potentiels, qui pourrait atteindre les 7 millions, selon l’ONU. Avec cet exode massif et les crises humanitaires qu’elles induisent, il y a un risque que la distinction entre les exilés se poursuive en Europe, prolongeant l’expérience traumatisante des réfugiés.

      De son côté, Stephan et ses amis camerounais ne savent pas encore de quoi seront faits les jours qui se profilent. « Pour l’instant, on doit trouver un bus pour partir loin de la frontière », explique-t-il en regardant devant et derrière lui, en espérant apercevoir l’un des véhicules en partance pour Przemyśl. « Je veux juste m’allonger, et me reposer. Je n’en peux plus. » Se reposer avant de reprendre la route, dans un voyage qui est encore loin d’être terminé.

      *Les prénoms ont été changés.

      http://www.slate.fr/story/224214/reportage-guerre-ukraine-russie-profilage-racial-noirs-frontiere-racisme-solda

    • Guerre en Ukraine : à la frontière polonaise, « les gardes ukrainiens nous ont tapé avec des bâtons », racontent des étudiants étrangers

      De nombreux étudiants africains ou asiatiques qui vivaient en Ukraine tentent de passer en Pologne depuis le début de l’offensive russe. Certains se plaignent d’un traitement raciste de la part des garde-frontières ukrainiens.

      Couverture sur le dos, Gurwinder peine encore à réaliser qu’il est enfin arrivé en Pologne. « J’ai essayé de passer à plusieurs reprises », raconte cet étudiant indien, chauffeur de VTC à Kiev (Ukraine). Il a marché 30 kilomètres pour rejoindre la frontière, où il a dû attendre trois jours au poste-frontière ukrainien pour traverser. « À chaque fois, les gardes ukrainiens m’ont dit : ’Non, ce sont d’abord les femmes et les enfants qui passeront. Vous, les Indiens, vous ne passerez pas’, raconte Gurwinder. Nous avons essayé pendant trois jours, sans dormir, sans manger car si vous dormez, vous perdez votre place. »

      Comme lui, plus de 500 000 personnes ont rejoint la Pologne depuis le lancement de l’offensive russe en Ukraine, le 24 février. L’exode est notamment très difficile pour les 78 000 étudiants étrangers qui vivaient comme lui en Ukraine, dont beaucoup sont originaires d’Afrique et d’Asie. Plusieurs d’entre eux ont en effet dénoncé des discriminations du côté ukrainien de la frontière.
      Frappés et laissés dans le froid

      Si les étrangers interrogés n’ont pas tous eu de problèmes à traverser la frontière en raison de leur nationalité, plusieurs récits ont émergé de la part d’étudiants bloqués du côté ukrainien de la frontière. L’Union africaine a même dénoncé un traitement « inacceptable » et « raciste » pour les Africains. Certaines ambassades, comme celle de Côte-d’Ivoire, d’Afrique du Sud ou du Nigéria, ont envoyé des représentants sur place.

      « Quand on est arrivés, ils ont fait passer avant nous les Ukrainiens avec des documents de résidence. Quand on a essayé de se plaindre, les gardes ukrainiens nous ont tapé avec des bâtons. J’ai été frappé plusieurs fois », témoigne pour sa part Clinton, un Ougandais de 24 ans. Il est arrivé dès le 24 février au poste frontière mais n’a pu rejoindre la Pologne que le 3 mars. « Ils nous ont laissé dormir dehors. On a dû faire un feu et ils l’ont éteint », raconte-t-il, encore sous le choc, dans la gare de Przemysl. Il estime que ce traitement infligé aux étrangers est raciste.

      « Parce que vous êtes noir, même si vous essayez de communiquer en utilisant un traducteur en ligne, ils vous regardent et s’en vont. Ce sont les dépositaires de l’autorité, est-ce qu’ils ne sont pas supposés nous aider ? C’était très dur. Je suis vraiment très content d’être arrivé en Pologne car, honnêtement, je ne pensais pas y arriver. C’était très inquiétant. »
      Clinton, étudiant Ougandais de 24 ans

      à franceinfo

      De son côté, l’Ukraine a démenti toute différence de traitement, assurant que le premier arrivé était le premier servi. Le service des garde-frontières ukrainiens a nié « toute difficulté », assurant que « personne n’a été empêché de quitter l’Ukraine ». De son côté, Varsovie a rappelé que toute personne fuyant l’Ukraine est accueillie quelle que soit sa nationalité, passeport valide ou non...

      https://www.francetvinfo.fr/monde/europe/manifestations-en-ukraine/guerre-en-ukraine-a-la-frontiere-polonaise-les-gardes-ukrainiens-nous-o
      #Pologne

    • People of colour fleeing Ukraine attacked by Polish nationalists

      Non-white refugees face violence and racist abuse in Przemyśl, as police warn of fake reports of ‘migrants committing crimes’

      Police in Poland have warned that fake reports of violent crimes being committed by people fleeing Ukraine are circulating on social media after Polish nationalists attacked and abused groups of African, south Asian and Middle Eastern people who had crossed the border last night.

      Attackers dressed in black sought out groups of non-white refugees, mainly students who had just arrived in Poland at Przemyśl train station from cities in Ukraine after the Russian invasion. According to the police, three Indians were beaten up by a group of five men, leaving one of them hospitalised.

      “Around 7pm, these men started to shout and yell against groups of African and Middle Eastern refugees who were outside the train station,” two Polish journalists from the press agency OKO, who first reported the incident, told the Guardian. “They yelled at them: ‘Go back to the train station! Go back to your country.’”

      Police intervened and riot officers were deployed after groups of men arrived chanting “Przemyśl always Polish”.

      “I was with my friends, buying something to eat outside,” said Sara, 22, from Egypt, a student in Ukraine. “These men came and started to harass a group of men from Nigeria. They wouldn’t let an African boy go inside a place to eat some food. Then they came towards us and yelled: ‘Go back to your country.’”

      Following the incident, police in Poland warned that groups linked to the far right are already spreading false information about alleged crimes committed by people from Africa and the Middle East fleeing war in Ukraine.

      Przemyśl police said on Twitter: “In the media, there is false information that serious crimes have occurred in Przemyśl and the border: burglaries, assaults and rape. It’s not true. The police did not record an increased number of crimes in connection with the situation at the border. #StopFakeNews.”

      According to the news website Notes From Poland, one Facebook group, named Przemyśl Always Polish (Przemyśl Zawsze Polski), has been spreading false claims that “economic migrants from the Middle East” were committing crimes, “including a knife attack on a young woman and numerous thefts from shops”.

      The attacks on people fleeing the war come amid efforts by some African governments to evacuate their citizens who have passed into countries bordering Ukraine after reports of racist abuse and discrimination.

      On Wednesday, Nigeria’s foreign ministry said it planned to start airlifting more than 1,000 Nigerians stranded in countries neighbouring Ukraine.

      Many of the foreign nationals fleeing the Russian attacks are students. About 16,000 African students were studying in the country before the invasion, Ukraine’s ambassador to South Africa said this week.

      Reports and footage on social media in the past week have shown acts of discrimination and violence against African, south Asian and Caribbean citizens while fleeing Ukrainian cities and at some of the country’s border posts.

      In an interview with the Guardian, a 24-year-old medical student from Kenya, who did not want to be named, said she spent hours waiting for Ukrainian border guards to let her enter Poland because they were prioritising Ukrainian nationals.

      After eventually crossing the border, she boarded a free bus, organised by an NGO, to a hotel near Warsaw that was offering free board to Ukrainian refugees. But the hotel refused to take her and her Kenyan friends in, even after she offered to pay for a room.

      However, other foreign nationals interviewed by the Guardian said that they had been treated well by the Polish authorities, with many of the reports of racial abuse occurring on the Ukrainian side of the border.

      The Nigerian president, Muhammadu Buhari, said on Monday: “All who flee a conflict situation have the same right to safe passage under the UN convention and the colour of their passport or their skin should make no difference,” citing reports that Ukrainian police had obstructed Nigerians.

      “From video evidence, first-hand reports, and from those in contact with … Nigerian consular officials, there have been unfortunate reports of Ukrainian police and security personnel refusing to allow Nigerians to board buses and trains heading towards Ukraine-Poland border,” he said.

      On Tuesday, Ukraine’s foreign minister, Dmytro Kuleba, acknowledging the allegations, said: “Ukraine’s government spares no effort to solve the problem.”

      “Africans seeking evacuation are our friends and need to have equal opportunities to return to their home countries safely,” he said in a statement on Twitter.

      Ghana, South Africa and Ivory Coast are also among a growing number of African countries seeking to evacuate their citizens in response to reports of discrimination and violence that have sparked widespread outrage.

      In Nigeria, Gabriel Aduda, permanent secretary for the ministry of foreign affairs, said three jets chartered from local carriers would leave the country on Wednesday, with the capacity to bring back nearly 1,300 people from Poland, Romania and Hungary.

      Rights groups have welcomed the efforts by Poland to help, but some drew comparisons with the treatment of other refugees from Syria, Afghanistan and Kurdish Iraqis in the country, where the populist rightwing government has often played on anti-refugee sentiment.

      Last year, after the Belarusian president, Alexander Lukashenko, organised the movement of refugees with the promise of a safe passage to Europe, thousands of people from the Middle East were caught by Polish border guards in the forests near the border and illegally and violently pushed back to Belarus.

      https://www.theguardian.com/global-development/2022/mar/02/people-of-colour-fleeing-ukraine-attacked-by-polish-nationalists

    • Europe welcomes Ukrainian refugees — others, less so

      They file into neighboring countries by the hundreds of thousands — refugees from Ukraine clutching children in one arm, belongings in the other. And they’re being heartily welcomed, by leaders of countries like Poland, Hungary, Bulgaria, Moldova and Romania.

      But while the hospitality has been applauded, it has also highlighted stark differences in treatment given to migrants and refugees from the Middle East and Africa, particularly Syrians who came in 2015. Some of the language from these leaders has been disturbing to them, and hurtful.

      “These are not the refugees we are used to… these people are Europeans,” Bulgarian Prime Minister Kiril Petkov told journalists earlier this week, of the Ukrainians. “These people are intelligent, they are educated people.... This is not the refugee wave we have been used to, people we were not sure about their identity, people with unclear pasts, who could have been even terrorists…”

      “In other words,” he added, “there is not a single European country now which is afraid of the current wave of refugees.”
      Syrian journalist Okba Mohammad says that statement “mixes racism and Islamophobia.”

      Mohammad fled his hometown of Daraa in 2018. He now lives in Spain, and with other Syrian refugees founded the first bilingual magazine in Arabic and Spanish. He described a sense of déjà vu as he followed events in Ukraine. He also had sheltered underground to protect himself from Russian bombs. He also struggled to board an overcrowded bus to flee his town. He also was separated from his family at the border.

      “A refugee is a refugee, whether European, African or Asian,” Mohammad said.

      The change in tone of some of Europe’s most extreme anti-migration leaders has been striking — from “We aren’t going to let anyone in” to “We’re letting everyone in.”

      Those comments were made only three months apart by Hungarian Prime Minister Viktor Orban. In the first, in December, he was addressing migrants and refugees from the Middle East and Africa. In the second, this week, he was addressing people from Ukraine.

      Some journalists, too, are being criticized for descriptions of Ukrainian refugees. “These are prosperous, middle-class people,” an Al Jazeera English television presenter said. “These are not obviously refugees trying to get away from areas in the Middle East... in North Africa. They look like any European family that you would live next door to.”

      The channel issued an apology saying the comments were insensitive and irresponsible.

      CBS news apologized after one of its correspondents said the conflict in Kyiv wasn’t “like Iraq or Afghanistan that has seen conflict raging for decades. This is a relatively civilized, relatively European” city.

      As more and more people scrambled to flee Ukraine, several reports emerged of non-white residents, including Nigerians, Indians and Lebanese, getting stuck at borders. Unlike Ukrainians, many non-Europeans need visas to get into neighboring countries. Embassies around the world were scrambling to assist their citizens in getting through.

      Videos shared on social media under the hashtag #AfricansinUkraine allegedly showed African students being kept from boarding trains out of Ukraine, to make space for Ukrainians.

      The African Union in Nairobi said Monday that everyone has the right to cross international borders to flee conflict. The continental body said “reports that Africans are singled out for unacceptable dissimilar treatment would be shockingly racist and in breach of international law.”

      It urged all countries to “show the same empathy and support to all people fleeing war notwithstanding their racial identity.”

      Polish U.N. Ambassador Krzysztof Szczerski said at the General Assembly on Monday that assertions of race- or religion-based discrimination at Poland’s border are “a complete lie and a terrible insult to us.”

      “The nationals of all countries who suffered from Russian aggression or whose life is at risk can seek shelter in my country,” he said.

      Szczerski said people of some 125 nationalities had been admitted to Poland on Monday morning from Ukraine, including Ukrainian, Uzbek, Nigerian, Indian, Moroccan, Pakistani, Afghan, Belarussian, Algerian and more. Overall, he said, 300,000 people have arrived during the crisis.

      When over a million people crossed into Europe in 2015, support for refugees fleeing wars in Syria, Iraq and Afghanistan was relatively high at first. There were also moments of hostility — such as when a Hungarian camerawoman was filmed kicking and possibly tripping migrants along the country’s border with Serbia.

      Still, back then, Germany’s chancellor, Angela Merkel, famously said “Wir schaffen das” (“We can do it”), and the Swedish prime minister urged citizens to “open your hearts” to refugees.

      Volunteers gathered on Greek beaches to rescue exhausted families crossing on boats from Turkey. In Germany, they were greeted with applause at train and bus stations.

      But the warm welcome soon ended after EU nations disagreed over how to share responsibility, with the main pushback coming from Central and Eastern European countries like Hungary and Poland. One by one, governments across Europe toughened migration and asylum policies, earning the nickname “Fortress Europe.”

      Just last week, the U.N. High Commissioner for Refugees denounced the increasing “violence and serious human rights violations” across European borders, specifically pointing the finger at Greece.

      Last year hundreds of people, mainly from Iraq and Syria but also from Africa, were left stranded in a no man’s land between Poland and Belarus as the EU accused Belarusian President Alexander Lukashenko of luring thousands of foreigners to its borders in retaliation for sanctions. At the time, Poland blocked access to aid groups and journalists. More than 15 people died in the cold.

      Meanwhile, in the Mediterranean, the European Union has been criticized for paying Libya to intercept migrants trying to reach its shores, helping to return them to abusive and often deadly detention centers.

      “There is no way to avoid questions around the deeply embedded racism of European migration policies when we see how different the reactions of national governments and EU elites are to the people trying to reach Europe,” Lena Karamanidou, an independent migration and asylum researcher in Greece, wrote on Twitter.

      Jeff Crisp, a former head of policy, development and evaluation at UNHCR, agreed that race and religion influenced treatment of refugees.

      “Countries that had been really negative on the refugee issue and have made it very difficult for the EU to develop coherent refugee policy over the last decade, suddenly come forward with a much more positive response,” Crisp noted.

      Much of Orban’s opposition to migration is based on his belief that to “preserve cultural homogeneity and ethnic homogeneity,” Hungary should not accept refugees from different cultures and different religions.

      Members of Poland’s conservative nationalist ruling party have echoed Orban’s thinking, saying they want to protect Poland’s identity as a Christian nation and guarantee its security.

      These arguments have not been applied to their Ukrainian neighbors, with whom they share historical and cultural ties. Parts of Ukraine today were once also parts of Poland and Hungary. Over 1 million Ukrainians live and work in Poland and hundreds of thousands more are scattered across Europe. Some 150,000 ethnic Hungarians also live in Western Ukraine, many of whom have Hungarian passports.

      “It is not completely unnatural for people to feel more comfortable with people who come from nearby, who speak the (similar) language or have a (similar) culture,” Crisp said.

      In Poland, Ruchir Kataria, an Indian volunteer, told The AP on Sunday that his compatriots got stuck on the Ukrainian side of the border crossing into Medyka, Poland. In Ukraine, they were initially told to go to Romania, hundreds of kilometers away, he said, after they had already made long journeys on foot to the border, not eating for three days. Finally, on Monday they got through.

      https://apnews.com/article/russia-ukraine-war-refugees-diversity-230b0cc790820b9bf8883f918fc8e313

    • I’m currently in a train back from Warsaw which is full of refugees heading to Berlin.

      At #Frankfurt-am-Oder, German border police disembarked many BIPOCs.

      I can’t say if all were taken out of the train but only people of colour & their partners & children got off.

      Just talked to 2 Indian students from Punjab fleeing Kyiv, they were still in the train, getting off at Berlin central station. They said they had no issue crossing the Hrebenne-Hava Ruska border checkpoint but that they knew of people for whom it was hell at other checkpoints.

      https://twitter.com/EmmanuelleChaze/status/1499727609432879105
      #Allemagne #profilage #profilage_racial #profilage_ethnique

    • Statement on the war in Ukraine and the treatment of Africans trying to flee the country

      Like countless people all over the world, the members of the Africa Multiple Cluster of Excellence based at the University of Bayreuth (Germany) and African Cluster Centres at the University of Lagos (Nigeria), Joseph Ki-Zerbo University (Ouagadougou, Burkina Faso), Moi University (Eldoret, Kenya) and Rhodes University (Makhanda, South Africa), are greatly shocked about the Russian war on Ukraine and the Russian government’s disregard for the rights of everyone in the Ukraine to live in peace and security. We declare our concern for all those affected by the virulent and reprehensible attacks by Russian forces on Ukrainian territory.

      At the same time, we are deeply troubled by the flagrant racism towards Africans—predominantly students—anxious to flee danger to their lives during this turbulent period, which has been widely observed and reported in the news and social media from train stations in Ukrainian towns as well as from the Ukrainian-Polish border. The blatant racial profiling exercised through officials’ refusals to allow Black people cross the border, forcing them to remain in areas of conflict, is abhorrent and not to be condoned.

      We also note with dismay how several white-positioned government officials and media representatives have expressed their shock at the necessity of Ukrainian citizens to flee as refugees while simultaneously articulating racist comparisons to previous waves of Iraqi, Syrian, Afghani, and African refugees to Europe in the past years. The current display of racism vis-à-vis Africans trying to flee Ukraine sadly reconfirms the pattern of dehumanization of refugees of color that has become all too familiar in many refugee crises in Europe of the recent past.

      Just as we stand in solidarity with all Ukrainians and Russians who never wanted this war, we declare our solidarity and concern for all Black people and people of color who became embroiled in this conflict. We join the African Union in urging “all countries to respect international law and show the same empathy and support to all people fleeing war notwithstanding their racial identity” (official AU statement issued on February 28, 2022). We further demand of the European Union as well of the respective national governments to call out the racist practices and to play their part in putting an end to the suffering caused, through creating the conditions necessary to preserve the dignity of Africans fleeing the country and to protect all human lives during this time of war.

      Eldoret (Kenya), Lagos (Nigeria), Makhanda (South Africa), Ougadougou (Burkina Faso), and Bayreuth (Germany), March 4, 2022

      The Directors of the African Cluster Centres
      The Members of the Management Board, Africa Multiple Cluster of Excellence

      Prof. Dr. Yacouba Banhoro, Joseph Ki-Zerbo University, Ouagadougou

      Prof. Dr. Andrea Behrends, Vice Dean of Early Career & Equal Opportunity, University of Bayreuth

      Prof. Dr. Olumuyiwa Falaiye, University of Lagos

      Prof. Dr. Ute Fendler, Vice Dean of Internationalisation & Public Engagement, University of Bayreuth

      Dr. Franz Kogelmann, Managing Director, University of Bayreuth

      Prof. Dr. Enocent Msindo, Rhodes University, Makhanda

      Prof. Dr. Sabelo Ndlovu-Gatsheni, Vice Dean of Research, University of Bayreuth

      Prof. Dr. Cyrus Samimi, Vice Dean of Digital Solutions, University of Bayreuth

      Prof. Dr. Rüdiger Seesemann, Dean, University of Bayreuth

      Prof. Dr. Peter Simatei, Moi University, Eldoret

      Dr. Christine Vogt-William, Director of the Gender & Diversity Office

      https://www.africamultiple.uni-bayreuth.de/en/news/2022/2022-03-04_Statement-on-the-war/index.html

    • More African students decry racism at Ukrainian borders

      As at least half a million refugees flee Ukraine, more reports of mistreatment by Ukrainian border guards surface.

      Barlaney Mufaro Gurure, a space engineering student from Zimbabwe, had finally reached the front of a nine-hour queue at Ukraine’s western border crossing of Krakovets after an exhausting four-day trip.

      It was her turn to cross. But the border guard pushed her and four other African students she was travelling with aside, giving priority to Ukrainians. It took hours, and relentless demands, before they were also allowed to go through border control.

      “We felt treated like animals,” the 19-year-old said in a phone interview from a Warsaw hotel. Gurure, a freshman at the National Aviation University, fled Kyiv hours after Russian President Vladimir Putin ordered troops into Ukraine on February 24.

      “When we left [Kyiv] we were just trying to survive,” she said. “We never thought that they would have treated us like that […] I thought we were all equal, that we were trying to stand together,” Gurure added.

      Her story is not isolated as scores of Africans have reported episodes of abuse and discrimination while trying to cross into Ukraine’s neighbours.

      Since the war started, more than 870,000 refugees have fled from Ukraine to neighbouring countries, the United Nations said. Half of those are currently in Poland. Queues along the border are now tens of kilometres long with some African students describing to Al Jazeera how they have been waiting for days to cross amid freezing temperatures and with no food, blankets or shelters.

      For others, issues started before reaching border crossings. Claire Moor, another Black student, was pushed down as she tried to board a train at Lviv’s train station. The guard insisted that only women could take the train. The officer looked away, Moor said, as she pointed out that she was, indeed, a woman. “I was shocked because I did not know the extent of the racism,” she added.

      Jan Moss, a volunteer with the Polish aid organisation, Grupa Zagranica, who has been providing assistance at the Polish-Ukrainian border, said while refugees have been welcomed at many crossings out of Ukraine without any form of discrimination, the reception near Medyka has been more problematic as refugees were being organised based on “racial profiling”.

      Ukrainians and Polish nationals are allowed to pass through the much quicker vehicles’ lane, while foreigners have to go through the pedestrian one, a three-stage process that can last from 14 to 50 hours, Moss said.

      Al Jazeera contacted Ukraine’s Border Guard Service via email over the allegations of segregation at the borders but had not received a response before the publication of this report.

      In the last 20 years, Ukraine has emerged as a choice destination for African students, especially in medicine-related fields as it is cheaper compared with universities in the United States and elsewhere in Europe.

      Videos and tweets under the hashtag #AfricansinUkraine have flooded social media, triggering numerous crowdfunding initiatives on Telegram and Instagram to support students at the borders and put pressure on respective governments.

      The African Union reacted to the outcry on Monday: “Reports that Africans are singled out for unacceptable dissimilar treatment would be shockingly racist and in breach of international law,” it said in a statement. A spokesperson from South Africa’s foreign ministry said on Sunday that a group of its nationals and other Africans were being “treated badly” at the Polish-Ukrainian border.

      The Nigerian government also expressed concerns over reports of discriminatory behaviour, including a video widely shared on social media showing a Nigerian woman with her young baby being forcibly made to give up her seat to another person. It also said that a group of Nigerians had been refused entry into Poland – an allegation dismissed by Poland’s ambassador to Nigeria.

      But some foreigners said they received a warm welcome in neighbouring countries, such as Moldova and Romania, including a relatively smooth transit.

      https://www.aljazeera.com/news/2022/3/2/more-racism-at-ukrainian-borders

    • Guerre en Ukraine : « Il faut transporter tous les réfugiés gratuitement » dans les trains français, réclame la CGT-Cheminots

      Suite à l’annonce du patron de la #SNCF sur le transport gratuit des réfugiés ukrainiens dans les trains français, syndicats et associations demandent, la généralisation de la gratuité pour tous les réfugiés.

      Les réfugiés ukrainiens pourront « circuler gratuitement en TGV et en Intercités » en France. L’annonce du PDG de la SNCF, Jean-Pierre Farandou, sur Twitter lundi 28 février, a provoqué de nombreuses réactions sur les réseaux sociaux. Certains internautes dénoncent notamment une hypocrisie et une discrimination à l’égard des autres réfugiés. Mardi 1er mars, la #CGT-Cheminots, premier syndicat de la compagnie ferroviaire, a écrit une lettre ouverte à sa direction pour demander la généralisation de la gratuité à tous les réfugiés en France.

      « Comment des agents de la SNCF pourraient-ils sanctionner certains réfugiés et pas d’autres ? » demande le syndicat. « Comme se développe cette petite ambiance ’il y a des bons et des mauvais réfugiés’, on ne voudrait pas être soumis à ce style de calcul là », martèle Laurent Brun, le secrétaire général de la CGT-Cheminots. « Il y a des réfugiés et il faut tous les transporter gratuitement. Pas de problème, c’est le rôle d’un service public. »
      Changer l’accueil des réfugiés en France

      Les associations qui s’occupent de réfugiés syriens, irakiens ou encore kurdes depuis des années, dénoncent aussi le traitement qui leur est fait à bord des trains. « Dans une logique d’entrave d’État envers ces personnes, les dispositifs policiers de surveillance ont été augmentés à la fois dans les gares,donc à la gare du Nord, à Grande-Synthe et Calais et aussi dans les trains », affirme Nikolaï Posner, le responsable communication d’Utopia 56. « Et souvent les personnes se font arrêter et sortir à la gare suivante. »

      Avec l’arrivée de réfugiés ukrainiens, l’association espère un réel changement sur l’accueil des réfugiés en France. « Aujourd’hui, on se retrouve dans une situation où ça touche à un pays d’Europe et on approche les questions d’une autre manière. » commente Nicolaï Posner. « On souhaite qu’on le fasse pour tous et arrêter ces politiques de discrimination. » Contactée par franceinfo, la SNCF se refuse à tout commentaire.

      https://www.francetvinfo.fr/monde/europe/manifestations-en-ukraine/guerre-en-ukraine-il-faut-transporter-tous-les-refugies-gratuitement-da

    • Ukraine : Trente trois ONG dénoncent le #racisme_anti-noir

      Trente trois ONG ont dénoncé vendredi 4 Mars 2022 le racisme anti noir constaté en Ukraine à l’occasion de la guerre russo -ukrainienne, dans un communiqué collectif parvenu au site madaniya. Exprimant leur “grave préoccupation face aux actes de traitement dégradants et inhumains que les ressortissants africains vivant ou résidant en Ukraine subissent suite à la guerre déclenchée depuis le 24 février 2022”, le collectif invite les autorités ukrainiennes à “mettre un terme au racisme manifesté à l’égard des africains résidant ou séjournant” dans ce pays. Intitulé “Stop au racisme dans la guerre”, le communiqué relève “que plusieurs citoyens d’origine africaine sont confrontés à la persécution, à la xénophobie, au racisme, à la discrimination raciale de la part des autorités ukrainiennes. “Selon les informations parvenues à nos organisations ainsi que des témoignages recueillis auprès de victimes, la police ukrainienne empêcherait l’évacuation des ressortissants d’origine africaine. À cela s’ajoutent les actes xénophobes orchestrés par les autorités polonaises qui procèdent de manière sélective à l’autorisation d’entrée des personnes fuyant la guerre sur des critères liés à leur couleur de peau. C’est ainsi que plusieurs citoyens africains sont retenus à la frontière Ukraine-polonaise, poursuit le communiqué. “À cet effet, nos organisations rappellent l’Article 1 de la Déclaration Universelle des Droits de l’Homme qui stipule : « Tous les êtres humains naissent libres et égaux en dignité et en droits. Ils sont doués de raison et de conscience et doivent agir les uns envers les autres dans un esprit de fraternité ». Nous tenons également à souligner l’Article 14.1 de la DUDH « devant la persécution, toute personne a le droit de chercher asile et de bénéficier de l’asile en d’autres pays, ajoute le document. Le collectif lance un appel “au Président en exercice de l’Union Africaine M. Macky Sall (Sénégal) ainsi que le Président de la Commission de l’Union Africaine M. Moussa Mahamat Faki (Tchad) les invitant à veiller au respect du droit international des droits de l’homme et du droit international humanitaire. “Devant les risques d’aggravation de cette guerre et ses conséquences dévastatrices pour les populations civiles et plus largement en Afrique”, le collectif dénonce ces pratiques hideuses, xénophobes et discriminatoires relevant d’un autre âge et condamne fermement ces atteintes contraires aux droits humains et aux principes du droit international des droits de l’homme et du droit international humanitaire”. Devant cette montée fulgurante de la haine raciale dans le monde il est urgent que tous les pays respectent et mettent en application la Convention des nations contre le racisme ainsi que le programme et plan d’action de la Conférence Mondiale contre le racisme, la discrimination raciale, la xénophobie qui y est associée. (Durban en Afrique du Sud, du 31 août au 8 septembre 2001). Le collectif invite en outre impérativement à l’Union Africaine, l’Union Européenne et aux Nations Unies de se saisir immédiatement de cette situation afin de garantir et assurer une protection adéquate à ces personnes en détresse, conclut le document. NDLR La guerre en Ukraine a révélé le tréfonds de la pensée d’une fraction de l’élite occidentale, particulièrement en France, La « Patrie des Droits de l’Homme ». Jean Louis Bourlanges, président de la commission des Affaires étrangères à l’Assemblée nationale française, a ainsi vanté l’immigration de qualité qui résulterait de l’afflux d’Ukrainiens en France par comparaison avec les Afghans, les Irakiens ou les Syriens. M. Bourlanges, pourtant député Modem, une formation qui se revendique de la « Démocratie Chrétienne » a assuré que les Ukrainiens constitueraient en France une « immigration de grande qualité, dont on pourra tirer profit », faisant valoir qu’elle était composée « d’intellectuels ». Ce qui reviendrait à déduire de ces propos qu’il existe de par le monde des réfugiés moins utiles… Parce que culturellement trop différents ? Pas chrétiens ou pas Européens ? qui conduit les commentateurs à distinguer « accueil de réfugiés » en parlant des Ukrainiens, mais « crise des migrants », quand il s’agit du sort des « basanés » …Irakiens, des Syriens ou des Afghans ! Beaucoup de commentateurs et éditorialistes de renom se sont paresseusement laissés aller à ces raccourcis conscient ou inconscient depuis le déclenchement du conflit le 24 Février 2022

      https://libnanews.com/ukraine-trente-trois-ong-denoncent-le-racisme-anti-noir
      #racisme_anti-Noirs

    • Niet iedere vluchteling uit Oekraïne krijgt dezelfde behandeling

      Oekraïners met de juiste papieren worden snel ingeschreven in het bevolkingsregister en kunnen ook snel aan het werk. Ook vluchtelingen uit Oekraïne die oorspronkelijk uit een ander land komen, maar wel een Oekraïense verblijfsvergunning hebben, kunnen hier bescherming krijgen. Maar niet iedere vluchteling uit Oekraïne krijgt dezelfde behandeling.

      Als de papieren niet kloppen en er vragen zijn over de identiteit en over het verblijfsrecht in Oekraïne, dan moeten ze asiel vragen of het land verlaten.

      De meeste vluchtelingen die uit Oekraïne komen (op dit moment ruim 12.000) zijn vrouwen en kinderen. Oekraïense mannen moeten in het land blijven. Niet-Oekraïense mannen mogen het land wel verlaten, hoewel dat niet eenvoudig is. Bij pogingen om weg te gaan uit Oekraïne krijgen ze te maken met discriminatie. Een onbekend aantal van deze vluchtelingen heeft Nederland weten te bereiken.
      Afrikaanse mannen

      In de gemeentelijke opvanglocaties verblijven dus ook mensen die niet geboren zijn in Oekraïne. Zij woonden daar bijvoorbeeld omdat ze er asiel hadden gekregen of er studeerden. Om hoeveel mensen dat gaat, kunnen de ministeries van binnenlandse zaken en justitie nog niet zeggen. Volgens het COA gaat het in de locaties die zij beheren om kleine aantallen. Ook Vluchtelingenwerk, actief in de gemeentelijke opvanglocaties, ziet dat het om weinig mensen gaat.

      Hun aanwezigheid leidt soms tot verbazing bij de gemeentelijke opvangplekken. Inwoners van Harskamp waren vrijdag verrast toen er tijdens een voetbaltoernooi dat voor de Oekraïense vluchtelingen was georganiseerd Afrikaanse mannen het veld op kwamen lopen. Ook bij het inzamelen van spullen is er niet aan mannen gedacht. Er is voldoende kleding voor vrouwen en kinderen, maar er is ook ondergoed voor mannen nodig.
      Drie groepen

      Het ministerie van justitie heeft Oekraïense vluchtelingen in drie groepen ingedeeld: Oekraïners met alle benodigde documenten, Oekraïners met beperkte of geen documenten en mensen die uit Oekraïne zijn gevlucht omdat ze daar verblijven, maar uit een ander land komen.

      Een vreemdeling uit Oekraïne moet zich melden bij een gemeente om ingeschreven te kunnen worden in de Basis Registratie Personen (BRP). Voor een Oekraïner met alle bewijsdocumenten kan dat in principe snel.

      Oekraïners die niet alle vereiste documenten hebben, moeten meer moeite doen. Voor hen zal er nader onderzoek komen. Pas na de vaststelling van hun identiteit, binnen één dag, worden ook zij ingeschreven in de BRP. Zij mogen van het ministerie van justitie gewoon in de gemeentelijke opvanglocaties blijven als hun identiteit geloofwaardig is.
      Land verlaten

      Als de identiteit en nationaliteit niet kan worden vastgesteld, heeft de vreemdeling de mogelijkheid om een asielaanvraag in te dienen. Hij of zij komt niet in aanmerking voor de richtlijn tijdelijke bescherming voor Oekraïners. De asielprocedure moet dan in een asielzoekerscentrum worden afgewacht. Als de vreemdeling terug wil naar zijn land van herkomst dan kan de Dienst Terugkeer en Vertrek of de Internationale Organisatie voor Migratie (IOM) daarbij helpen, maar daar heeft in dit geval nog niemand zich gemeld.

      https://nos.nl/collectie/13892/artikel/2422218-niet-iedere-vluchteling-uit-oekraine-krijgt-dezelfde-behandeling

    • Accueil sélectif aux frontières européennes : du racisme des politiques migratoires

      Communiqué sur la situation en Ukraine

      « Les ministres (de l’Intérieur) de l’Union européenne (UE) se sont accordés aujourd’hui unanimement sur la mise en place d’un mécanisme de protection temporaire pour répondre à l’afflux de personnes déplacées en provenance d’Ukraine » [1]. C’est dans ces termes que la France, qui préside actuellement le Conseil de l’UE, s’est félicitée par la voix de son ministre de l’Intérieur de l’accord historique de la mise en œuvre, pour la toute première fois, de la directive européenne sur la protection temporaire de 2001, lors de la réunion du Conseil « Justice et affaires intérieures » du 3 mars. « Cette décision reflète le plein engagement de l’Union européenne à afficher sa solidarité à l’égard de l’Ukraine et à assumer son devoir à l’égard des populations victimes de cette guerre injustifiable », a-t-il ajouté.

      Ce mécanisme de protection, demandé à plusieurs reprises par la société civile pour d’autres groupes de personnes exilées – les Syrien⋅ne⋅s en 2011 ou les Afghan⋅e⋅s à l’été 2021 – n’avait jamais été jusque-là appliqué [2]. Par ailleurs, depuis le début de l’invasion militaire russe de l’Ukraine, les pays limitrophes – tels que la Pologne, la Hongrie, la Bulgarie – qui ont, au cours des dernières années, pratiqué une politique de rejet et d’hostilité à l’égard des personnes en exil tentant de traverser leurs frontières, se sont rapidement organisés pour accueillir les Ukrainien⋅ne⋅s fuyant la guerre. Ailleurs en Europe, des États qui, il y a peu, criminalisaient la solidarité manifestée par une partie de la population avec les exilé⋅e⋅s l’encouragent au contraire à l’égard des déplacé⋅e⋅s ukrainien⋅ne⋅s.

      L’Europe aurait-elle décidé d’en finir avec la guerre aux migrant⋅e⋅s qu’elle mène depuis plus de 30 ans ? Rien n’est moins sûr. Bien que ces initiatives récentes ne puissent être que saluées – la population ukrainienne en fuite doit absolument être accueillie – elles sont révélatrices de l’hypocrisie de la politique européenne et des politiques nationales qui pratiquent une hospitalité à deux vitesses en continuant à opérer un tri entre les « bons » réfugié⋅e⋅s et les « mauvais » migrant⋅e⋅s afin de tenir à l’écart et nier les droits des populations du Sud global.

      En effet, alors que le gouvernement polonais soutient que « les réfugiés fuyant l’Ukraine en guerre entrent en Pologne quelle que soit leur nationalité » [3], nombreux sont les témoignages des personnes originaires d’Afrique, d’Asie et du Moyen-Orient résidant en Ukraine qui font état des pratiques discriminatoires et racistes qu’elles ont eu à subir de la part des garde-frontières ukrainiens et polonais. Des centaines d’entre elles ont été bloquées dans les gares ferroviaires ou aux frontières, y compris des femmes avec leurs bébés, lors du passage à la frontière. Des vidéos ont circulé sur les réseaux sociaux montrant des personnes attendant, dans un froid intense, d’être autorisées à quitter le territoire ukrainien, tandis que d’autres ont dû rebrousser chemin ou s’organiser pour franchir collectivement les barrages [4].

      Au mépris de ces témoignages concordants, le porte-parole des garde-frontières ukrainiens a déclaré : « Je ne sais pas ce qu’il s’est passé, ces personnes ont peut-être été refoulées parce qu’elles essayaient de griller la priorité dans la file d’attente » [5]. Le ministre de l’Intérieur français est allé jusqu’à affirmer que « les Polonais eux-mêmes ont dit que tout le monde était accueilli en Pologne et dans le reste de l’Union européenne », rapportant que « l’ambassadeur de la Pologne a[vait] évoqué le fait que c’était notamment une utilisation russe pour déprécier le travail » fait par les autorités de ce pays [6].

      Tant les pratiques de tri aux frontières de l’UE que le mécanisme de protection temporaire mis en place à l’heure de l’exode de la population vivant en Ukraine sont discriminatoires, puisqu’ils engendrent un choix à opérer parmi les personnes à protéger [7]. Ces pratiques visant à limiter l’arrivée des citoyen⋅ne⋅s du Sud global s’inscrivent dans la continuité de la politique raciste de l’UE et de ses États membres au cours des dernières décennies.

      En effet, il y a à peine quelques mois les autorités polonaises érigeaient ainsi des barbelés et des murs à la frontière biélorusse comme seule réponse à l’arrivée des femmes, des hommes et des enfants en provenance des pays tels le Yémen, l’Afghanistan, la Syrie, l’Irak, ou la République démocratique du Congo (RDC) parmi d’autres, au prétexte qu’il s’agissait de « migrant·e·s » instrumentalisé⋅e⋅s par le chef d’État biélorusse.

      Un peu plus tôt, après la prise de pouvoir par les Talibans à Kaboul, les pays européens aujourd’hui « accueillants » s’organisaient pour fermer leurs frontières aux milliers de personnes cherchant à fuir l’Afghanistan, alléguant comme l’a fait la France, que « l’Europe ne peut pas à elle seule assumer les conséquences de la situation actuelle [et que] « nous devons anticiper et nous protéger contre les flux migratoires irréguliers importants » [8].

      Ce que cachent mal les discours et pratiques à géométrie variable que nous observons aujourd’hui porte un nom : le racisme, c’est-à-dire la croyance en une hiérarchie des êtres humains et la production d’un rapport de domination pour tenter de rendre opérante cette hiérarchisation. L’idéologie raciste se masque le plus souvent derrière des atours présentables, dans des arguties telles que : « La place de ces gens-là est chez eux, à aider leur pays à sortir de la misère », « ils doivent être accueillis dans les pays limitrophes au Sud, dont la culture dominante est proche de la leur… », ou encore « dans la migration, ils se mettent en danger et se font la proie des passeurs ». Mais elle apparaît pour ce qu’elle est en période de crise, quand refont surface les discours alarmistes qui, chez les responsables politiques et dans certains médias, attisent la peur de l’invasion.

      Pour commenter la décision de l’UE de déclencher le mécanisme de protection temporaire, la Commissaire européenne aux Affaires intérieures, Ylva Johansson, parle d’un « changement de paradigme », et on entend volontiers dire dans les médias que les Européens auraient retrouvé « le sens de l’accueil » [9]. C’est oublier que, comme on le voit aujourd’hui, la légitimité des souffrances se mesure à l’aune des origines et de la couleur de la peau.

      Des exilé⋅e⋅s se mobilisent depuis des mois pour défendre leur droit à la protection et à quitter un pays où leur vie est en danger et n’ont toujours pas vu cet accueil se matérialiser. A l’image de celles et ceux sur la route des Balkans [10], ou bloqué⋅e⋅s dans le sud de la Tunisie [11], ou encore en Libye qui ne sont pas dupes : « Ils affirment que les Ukrainiens sont différents, qu’ils sont des programmeurs informatiques et qu’ils ont une histoire bien connue, contrairement aux Africains dont le passé est marqué par la pauvreté. Les Ukrainiens sont désormais accueillis dans des pays qui ont fermé leurs portes aux réfugiés du Moyen-Orient et d’Afrique » [12]. Si nous exprimons toute notre solidarité avec les exilé⋅e⋅s ukrainien⋅e⋅s, nous joignons nos voix à celles de toutes les personnes qui sont bloquées et maintenues sciemment à distance des frontières européennes.

      Aujourd’hui l’UE fait pour les exilé⋅e⋅s Ukrainien⋅ne⋅s ce qu’elle a longtemps prétendu impossible : permettre la mobilité des personnes en quête de refuge et la reconnaissance de leurs droits plutôt que de chercher à les bloquer à tout prix. Cette brèche ouverte avec la mobilisation exceptionnelle dont font preuve aujourd’hui les Etats membres démontre que, contrairement à ce qu’elle a toujours dit, l’UE a la capacité d’accueillir un très grand nombre d’exilé⋅e⋅s. Le réseau Migreurop réclame que cet élan de solidarité et d’accueil soit étendu à toutes les personnes quelles que soient l’origine, la nationalité, la couleur de la peau, la classe, etc.

      Seule la liberté de circuler de toutes et tous pourrait enfin mettre un terme à l’apartheid global imposé à travers les frontières.

      http://migreurop.org/article3095.html?lang_article=fr

    • Témoignage : fuir Kiev sans la #nationalité ukrainienne

      Le politologue palestinien Yousef Munayyer s’étonnait il y a peu, dans les pages de The Nation, des « doubles standards » qui saturent le discours occidental « mainstream » depuis l’invasion de l’Ukraine. Ce qui jusqu’à la veille était impensable — ou, pire, tenu pour condamnable — se voit célébré par l’intégralité du personnel médiatique, politique et culturel. C’est que certains humains sont perçus et pensés « comme moins humains que d’autres ». Les vingt-sept États membres de l’Union européenne ont rapidement activé une procédure de régularisation visant à protéger les personnes fuyant la guerre : créée en 2001, cette protection temporaire n’avait jamais été mise en application. Mais une partie de la population résidant en Ukraine en est actuellement exclue : en clair, ceux et celles qui n’ont pas la nationalité ukrainienne. Rien, pourtant, ne saurait justifier la distinction de civils échappant ensemble au même conflit armé : ni les papiers, ni — lorsque la chose est formulée sans détour — la couleur de peau ou la confession. Nous avons recueilli le témoignage d’Alaya, jeune femme originaire d’Afrique subsaharienne qui vient de fuir Kiev.

      Le jour se lève sur Kiev en ce matin du 28 février 2022, lorsque John1 apprend que sa jeune sœur Alaya et trois de ses amis essaient de fuir la ville. À lui qui vit en France, elle affirmait encore la veille au téléphone que tout allait bien, que les craintes qu’il avait étaient sans doute dues à ce qu’il avait vu à la télévision, qui grossit les choses au point d’effrayer tout le monde.

      24 heures plus tard, il apprend qu’elle a pris la route.

      Douze ans auparavant — c’était en 2010 —, il avait perdu toute trace d’elle, comme du reste de sa famille, lorsque leur village avait été attaqué. Tous deux, alors enfants d’une dizaine d’années, avaient dû se débrouiller pour survivre. Mais voici, en ce mois de février 2022, qu’il retrouve sa trace grâce aux réseaux sociaux. À Kiev. Quelques semaines avant le début de la guerre.

      Sa peur à lui — peut-être à elle aussi : que va-t-il leur arriver sur le chemin ? Parviendra-t-elle à quitter la ville, le pays, saine et sauve ? Mais qui sait ce qui vous traverse l’esprit quand il faut fuir, avec cette montée d’adrénaline qui rend opérationnelle, qui sait quel sac prendre, quoi mettre dedans, comment s’habiller ? Ça fait bientôt dix ans que Alaya vit en Ukraine. Elle attendait le renouvellement de son visa étudiant, qu’elle obtenait sans faute depuis toutes ces années car il lui était impossible de retourner dans son pays d’origine. Elle vit à Kiev, la guerre éclate, elle est sans titre de séjour et elle est noire ; les choses pourraient être plus simples.

      Son frère apprend vite qu’elle n’est pas partie seule — soulagement. Mais les échanges écrits sont très succincts : ils ne communiquent que peu d’éléments. Entre la couverture réseau qu’elle dit aléatoire, la batterie du téléphone qu’il faut préserver le plus longtemps possible, l’état d’esprit dans lequel il imagine qu’elle se trouve, il sait qu’il doit se contenter de quelques mots. Il n’obtient qu’au compte-goutte, comme un puzzle infernal dont les toutes petites pièces filent entre les doigts, quelques informations. Celles qui circulent sur les réseaux sociaux sont pour le moins inquiétantes ; le traitement réservé aux personnes noires qui tentent de fuir l’Ukraine fait le tour de la toile. Presque au même moment, les étudiants marocains présents en Ukraine signalent avoir subi ce type de violence raciste : ils dénoncent un traitement qui les relègue au second plan, loin derrière les ressortissants ukrainiens qui cherchent à fuir la guerre.

      La mise en place d’un énorme réseau solidaire est aussitôt annoncée un peu partout en Europe. En Belgique, le secrétaire d’État à l’Asile et à la Migration, Sammy Mahdi, annonce que les réfugiés ukrainiens bénéficieront automatiquement d’un titre de séjour de six mois, renouvelable une fois et pour une durée allant jusqu’à deux ans, avec autorisation de travailler. Ils ne se verront pas basculés dans le dispositif de gestion de l’asile général, « car trop saturé ». Le chef du gouvernement régional flamand, Jan Jambon, leader du parti d’extrême droite N‑VA (bien connu pour ses positions sur la question migratoire), affirme qu’il faut les accueillir et qu’une aide financière sera versée aux localités pour chaque Ukrainien secouru. Suivant l’exemple de l’entreprise ferroviaire publique allemande Deutsche Bahn, les réseaux de transport européens se mobilisent à leur tour pour faciliter les déplacements des réfugiés ukrainiens — mais seulement « sur présentation d’un passeport ou d’une carte d’identité ukrainienne ». C’est en effet ce qu’affichent sur leur site certaines compagnies2. Secourir les réfugiés d’Ukraine, oui, mais pas n’importe lesquels. L’évidence qu’en Ukraine ne vivent pas seulement des Ukrainiens semble devoir être rappelée aux gouvernements — à moins, plus sûrement, qu’ils feignent de l’ignorer. Pas le temps de se demander ce que ça représente pour toutes les autres personnes contraintes à l’exil, continuellement traquées et rejetées, ni ce que peuvent ressentir toutes les populations aux territoires bombardés, colonisés, à l’instar des Palestiniens. Alaya doit réussir à quitter le pays saine et sauve.

      Le soir du 28 février, il est environ 20 heures lorsqu’ils sont arrêtés à l’un des multiples checkpoints installés dans la capitale et ses alentours. On leur interdit de poursuivre leur chemin, puis on les somme de faire demi-tour. « On ne comprenait pas pourquoi, on ne savait pas où aller. Rentrer à la maison n’était pas envisageable. D’ailleurs, aucun lieu n’était sûr. On a cherché un hôtel, mais tout était plein partout, avec de longues files d’attente. » Ils décident de dormir dans leur voiture, stationnée dans une rue résidentielle. Une Ukrainienne d’un certain âge, habitant la maison devant laquelle ils sont garés, vient toquer à leur fenêtre. Elle les invite chez elle, leur offre à manger, des lits où passer la nuit. Ils lui en sont profondément reconnaissants. Ils reprennent la route le lendemain à l’aube. Peu de temps après, ils ont un accident et la voiture est à l’arrêt. Deux policiers interviennent, leur viennent en aide. « On a eu de la chance, ils nous ont emmenés dans un abri et nous ont aidés à prendre un bus. » Pourtant, rien n’était moins sûr : Alaya est bien placée pour le savoir. Quand son frère les alertait sur les risques d’agressions racistes sur le chemin, aucun d’eux ne se montrait surpris. « C’est tous les jours qu’on vit avec ça. » Les regards insistants sur sa peau dans la rue, les remarques désobligeantes, c’est son lot quotidien. Elle raconte que pendant ses études en pharmacie, les étudiants ukrainiens et étrangers étaient toujours placés dans des salles séparées. « On suivait le même enseignement, dans la même université, mais on nous mettait toujours dans des salles à part, jamais avec les autres étudiants ukrainiens. »

      Les quatre amis montent dans un bus à destination de Lviv pour se rapprocher des frontières polonaises, slovaques et hongroises, à l’ouest du pays. Des queues interminables sont signalées à la frontière de tous les pays limitrophes : impossible alors pour John de savoir quelle route ils vont pouvoir emprunter. Il contacte différentes personnes en lien avec des groupes de citoyens qui s’organisent dans certains de ces pays pour venir en aide aux réfugiés ukrainiens. Il apprend ainsi que dans une ville frontalière de Pologne, les citoyens se sont mobilisés pour aider les gens à monter dans des bus vers des destinations sûres, qu’il y a beaucoup de monde pour donner un coup de main. Mais ce contact prévient : « Ils disent qu’ils vérifient bien les identités de chacun, parce que, ils ajoutent, "Il ne faudrait pas laisser passer des Russes". » On ne saura pas si cette remarque est représentative de ce qu’il se passe réellement, mais sa simple évocation est glaçante. Passer les garde-frontières, ukrainiens d’abord, puis polonais, espérer ne pas être retenu et être traité dignement, tout ça ne suffira donc pas : il faudra aussi subir les filtrages opérés par les populations. Quel danger représente un ressortissant russe cherchant lui aussi à fuir ?

      De Lviv, ils prennent un train.

      « On était assez choqués car malgré tout ce qui se passait, la guerre, il fallait acheter les billets sinon on ne pouvait pas monter à bord. » Ils parviennent à gagner la frontière avec la Hongrie. « Il y avait une queue interminable. Ça n’avançait pas du tout. Au bout de plusieurs heures on est parvenus à se faufiler vers l’avant, au moins pour comprendre ce qu’il se passait. » Ils voient alors une jeune femme d’origine indienne, en larmes. Elle crie qu’elle attend depuis deux jours, que les garde-frontières ukrainiens ne la laissent pas passer. Elle n’est pas seule : tout un groupe de personnes non-blanches est derrière elle. Alaya raconte : « Ils faisaient passer les personnes blanches et bloquaient toutes les personnes de couleur. Ils ont clairement dit qu’il y avait des gens plus importants que nous. Mais on s’est défendus, on a tous crié. Ils ont fini par nous laisser passer. » Le tampon de sortie d’Ukraine figure dorénavant sur leurs passeports : il date du 2 mars 2022.

      Ayant trouvé refuge dans une petite ville de l’autre côté de la frontière, le groupe d’amis s’accorde un jour entier pour réfléchir. Que faire ? Accroché à son téléphone, plusieurs centaines de kilomètres plus loin, John s’inquiète et trouve qu’ils s’attardent trop. Il comprendra plus tard leur dilemme. Si deux personnes du groupe possédaient encore un titre de séjour en cours de validité en Ukraine, les deux autres n’en avaient pas. C’est ensemble qu’ils se sentent plus forts, et surtout mieux protégés — la situation administrative des uns pouvant aider les autres. Ils ne savent pas où se mettre à l’abri, si ce n’est l’offre que John leur a fait d’aller se réfugier chez lui. Mais le plus jeune de la bande, tout juste âgé de 16 ans, a de la famille en Italie. Il voudrait retrouver ses proches. Impensable pour le groupe de le laisser voyager seul en ces circonstances. Si bien qu’ils en viennent à imaginer l’accompagner tous ensemble, avant de se mettre ensuite à l’abri chez John, en France, le temps de comprendre ce qui leur arrive et de réfléchir aux choix possibles pour chacun d’entre eux. Attendre que le conflit se calme et rentrer en Ukraine ? Cette option ne semble même pas avoir été envisagée. Quant à la protection temporaire activée le 4 mars 2022 par le Conseil de l’Union européenne — qui offre une protection immédiate et collective, avec une série d’avantages dont beaucoup de personnes exilées rêveraient3 — il est fort à parier qu’elle servira essentiellement aux ressortissants ukrainiens4. Demander l’asile dans un pays de l’Union européenne ? Quelles chances réelles d’obtenir le statut de réfugié ? Ça dépendra de l’histoire de chacun, pour qui tentera cette procédure.

      Après des heures qui lui paraissent interminables, John a enfin des nouvelles : ils ont décidé de continuer encore un peu le chemin tous ensemble, au moins jusqu’au pays suivant. Ils décideront à la prochaine étape s’il est nécessaire de se séparer en deux groupes, avec chacun un porteur de titre de séjour valable, pour protéger celui qui n’en a pas. Un groupe vers la France, l’autre vers l’Italie. Ensemble, ils parviennent à traverser la frontière vers l’Autriche sans encombre. Là, comme précédemment, ce sont les mêmes files d’attente interminables, le stress aigu, l’épuisement, l’impossibilité d’obtenir les fameux tickets de train « Helpukraine5 ». Mais il faut bien avancer ; et, tant bien que mal, ils y parviennent. Arrivés à Vienne, une personne leur vient en aide. Ils soufflent quelques heures, mangent, essaient de dormir un peu. La première bonne nouvelle tombe enfin : la tante du plus jeune s’est rendue jusqu’en Autriche pour venir le chercher. Il va pouvoir retrouver sa famille en Italie. Son combat administratif est loin d’être terminé, mais pour l’instant, le voilà à l’abri. Et, pour les autres, c’est une frontière de moins à franchir. Voilà qu’ils obtiennent enfin le fameux ticket de train « Helpukraine », qu’ils imaginent leur permettre de voyager et traverser les frontières plus facilement. Ils espèrent en tous les cas avancer plus sereinement dorénavant.

      Ils embarquent dans un train. Prochaine étape, l’Allemagne. À peine la frontière est-elle passée que la douane monte à bord. Toutes les personnes en possession de ce ticket doivent descendre du train, petit groupe par petit groupe. Vient leur tour. Alaya dit aux policiers qu’ils ne s’arrêtent pas en Allemagne, qu’ils vont rejoindre son frère en France. « Enregistrement obligatoire pour toutes les personnes qui viennent d’Ukraine. Prise d’empreintes aussi », lui rétorque-t-on. Il est minuit passé de quelques minutes. La foule de personnes, incluant des familles avec des enfants en bas âge, est transportée par bus jusqu’à une station de police. « On pensait que ça allait être rapide, ils nous disaient que c’était juste une formalité. Mais on arrive dans cet endroit, il y a plein de policiers, énormément de personnes qui attendent. Les gens semblent épuisés. On ne nous dit rien. On nous fait juste passer des grilles et on nous amène à l’arrière du bâtiment, dans la cour. L’espace est fermé par des barrières, on ne peut pas partir. » Ils attendront des heures que chacun soit entendu par la police, que leurs empreintes soient prises. Fuir une guerre en cours n’y change rien : c’est l’enregistrement bureaucratique qui prime, qui retient au milieu de la nuit des centaines de personnes dans le froid et les empêche de rejoindre les lieux d’abri qu’elles avaient pu choisir, pour certaines chez des proches.

      Il est 7 heures du matin quand Alaya et ses amis signalent à John qu’ils y sont toujours. « On est glacés. Ils s’en fichent, on a beau fuir une guerre, même dans ces circonstances, voilà comment on nous traite. » Une bonne partie des personnes ont déjà été libérées. Elle raconte que parmi celles qui sont encore retenues, un homme entre en crise. Ça fait dix heures qu’il est là. Il hurle qu’il veut être libéré. Le groupe d’amis essaie de garder son sang-froid, de ne pas faire de bruit, patiente et espère. Le risque est pourtant réel d’être embarqué vers un centre de rétention. Sur les photos qu’elle fait parvenir à son frère, il ne peut que remarquer qu’il ne reste que des personnes de couleur. Les familles « blanches » que l’on voyait présentes quelques heures plus tôt n’y sont plus. L’angoisse le gagne. Il retient sa respiration. Alaya lui racontera ensuite qu’ils avaient d’abord fait passer les femmes avec enfants.

      Il est près de 8 heures lorsqu’ils sont relâchés à leur tour, avec en main un papier d’enregistrement et une obligation de se présenter au service d’immigration le plus proche, sous quatre jours. Pour qui demandera l’asile, Dublin a frappé6 : ce n’est pas au pays de destination choisi mais au premier où les empreintes ont été enregistrées qu’incombe le traitement de la demande de protection. Mais, pour l’heure, ça importe peu aux membres du groupe : ils poursuivent leur chemin.

      Alaya et John se sont retrouvés.

      Après douze ans sans aucunes nouvelles l’un de l’autre, ne sachant même pas s’il restait un espoir de retrouver d’autres survivants de l’attaque de leur village, les voilà réunis. L’intensité de l’émotion qu’ils ressentent et qui se dégage d’eux est immense — mais une nouvelle lutte commence. Alaya vient de se présenter à la préfecture pour solliciter la protection temporaire activée pour les personnes fuyant l’Ukraine. Fin de non-recevoir. « Elle n’est pas ukrainienne, qu’elle aille demander l’asile », lui a‑t-on dit.

      https://www.revue-ballast.fr/temoignage-fuir-kiev-sans-la-nationalite-ukrainienne

    • La #solidarité à géométrie variable n’en est pas vraiment une

      Une solidarité réglée sur la ségrégation entre ‘#bons’ et ‘#mauvais’ réfugiés ne se discrédite-t-elle pas par elle-même ? Une scission discriminante de l’humanité en ceux dignes d’être sauvés et accueillis et ceux et celles exclus du domaine de l’hospitalité, ne témoigne-t-elle d’une contamination des sociétés européennes par des motifs racistes ?
      Depuis quelques semaines, nous découvrons que l’accueil tant redouté des réfugiés est bien possible en Europe. Accueillir, accueillir dans de conditions qui respectent la dignité des personnes, accueillir en ouvrant grand les portes à ceux et celles qui viennent serait alors faisable, même si les arrivants dépassent les quatre millions. Jusqu’à il y a un mois, une telle perspective était perçue comme annonciatrice de catastrophe majeure voire comme une menace existentielle pour l’Europe : on nous assenait de tous les côtés qu’un accueil digne de ce nom constituerait un appel d’air exposant nos sociétés européennes à un risque d’implosion. Tout geste d’accueil était suspect et pourrait être puni comme un délit voire un crime. Les solidaires étaient stigmatisés comme les idiots utiles au service de trafiquants, les sauveteurs comme faisant partie de bandes de passeurs, voire comme des espions coupables d’intelligence avec l’ennemi.

      Avec la guerre en Ukraine, changement complet de cap, les réfugiés- à vrai dire certains d’entre eux- sont reconnus comme tels, leurs droits sont respectés, leurs souffrances et leurs traumatismes pris en compte. Même en Grèce, le retournement complet de pratiques et de discours fut impressionnant. En deux semaines, ce pays dont le gouvernement déclarait qu’il ne pouvait plus recevoir un seul réfugié de plus, a su accueillir 15.000 Ukrainiens en leur accordant des documents temporaires, ainsi qu’un numéro de Sécurité Sociale, un numéro fiscal et le droit de travailler.

      Or nous savons que cette réception digne ne concerne point tous les réfugiés, mais quelques-uns, choisis en fonction des affinités ethniques et religieuses, peu importe si celles-ci sont réelles ou imaginaires. Elle ne concerne même pas tous les réfugiés fuyant la guerre en Ukraine mais uniquement les ressortissants ukrainiens. En fait, non seulement la protection temporaire accordée par les pays européens aux Ukrainiens est refusée à la grande majorité d’étrangers résidant en Ukraine, mais plusieurs d’entre eux sont placés en détention pour entrée irrégulière au territoire polonais. Ce n’est qu’en fonction de leurs nationalités et de leur couleur de peau que les réfugiés d’Ukraine seront accueillis ou rejetés. Quant aux Kurdes, Irakiens, Syriens et Afghans qui se présentent non pas à la frontière polonaise avec l’Ukraine, mais à celle avec la Biélorussie, ils sont traqué et violemment refoulés, après avoir été tabassés et dépouillés de leurs biens ; certains d’entre eux peuvent même être laissés pieds nus par températures négatives à errer sur un sol glacial – au moins 20 personnes sont morts ainsi d’hypothermie à la frontière avec la Biélorussie. Quant à ceux et celles qui oseraient offrir l’hospitalité à ces hommes, femmes et enfants affamés et frigorifiés, ils risquent huit ans d’ans de prison ferme. Les mêmes scènes d’une guerre qui ne dit pas son nom, celle contre les migrants, se passent à la frontière gréco-turque d’Evros où il y a une quinzaine de jours un petit garçon syrien de 4 ans est mort noyé sous les yeux impassibles d’un commando grec, victime d’un refoulement trop violent. L’incident, loin d’être un cas isolé, fait partie d’une nouvelle stratégie adoptée pars les garde-frontières de la région d’Evros qui consiste à refouler ceux qui arrivent en les abandonnant sur des îlots du fleuve Evros sans vivres ni eaux avec l’injonction de retourner en Turquie. En janvier dernier, cette tactique avait déjà coûté la vie à un syrien souffrant d’une grave insuffisance rénale.

      C’est cette face hideuse du visage de l’Europe que celle-ci tourne vers tout un chacun dont l’image s’écarte de la figure-type du ‘bon’ réfugié –chrétien, blanc aux yeux bleus. D’un côté, on accueille à bras ouvert les « nôtres », ceux qui ne menaceraient pas le vénéré mode de vie européen, et de l’autre on violente, on torture, on refoule avec des véritables opérations militaires qui exposent délibérément ceux qui se présentent à nos portes à des risques mortels.

      Cependant il ne suffit pas de dénoncer cette solidarité à géométrie variable, il faudrait essayer d’aller au-delà du registre d’une condamnation morale. En effet, si la solidarité dépend de la tête du client, est-ce vraiment de la solidarité ? Ou bien plutôt une défense atavique de nôtres contre les autres, une réaction identitaire qui présuppose une bipartition de l’humanité entre ceux à notre image, et les autres, ces aliens qui, à nos yeux étriqués, portent les stigmates d’une altérité qui les exclurait du domaine d’exercice de l’hospitalité ? Ainsi, ce qui est présenté comme un retour du sens de l’accueil en Europe, pourrait s’avérer le symptôme d’un racisme meurtrier qui ne dit pas son nom.

      Cette année, nous avons ‘célébré’ les cinq ans d’accords de coopération entre UE et la Libye : selon Amnesty International , plus de 82 000 réfugié·e·s et migrant·e·s ont été renvoyés à l’enfer libyen depuis que les accords ont été conclus. La plupart « se sont retrouvés dans des centres de détention sordides, où sévit la torture, tandis que beaucoup d’autres ont été victimes de disparitions forcées ». Cette politique européenne qui ne se contente pas de refouler en renvoyant aux centres de tortures et aux marchés aux esclaves libyens mais criminalise systématiquement le secours en mer, a bien porté ses fruits : elle a transformé la mer Méditerranée en une fosse commune qui a englouti pas moins de 23.500 personnes morts ou disparus de 2014 jusqu’à aujourd’hui. En Grèce, un écart significatif entre le chiffre officiel des personnes secourues en mer et celui de nouveaux arrivants enregistrés dans les îles révèle au moins 25.000 cas de refoulement en mer Egée pendant la seule année 2021. Ces refoulements sont non seulement systématiques mais de plus en plus violents ; les commandos qui s’en chargent, recourent à des méthodes d’une brutalité paroxystique qui mettent délibérément en danger la vie ceux qui en sont les victimes. Cette escalade des violences contre les arrivants comporte des actes criminels comme ceux des garde-côtes qui en septembre dernier n’ont pas hésité à jeter en pleine mer trois hommes qui ne savaient pas nager et dont deux sont morts noyés, ou ceux de garde-frontières d’Evros qui avaient dépouillés des exilés de leur vêtement en les laissant pieds nus par températures négatives –19 personnes en sont morts ainsi début février. Ces crimes ne constituent point des bavures ou des dérapages isolés, mais font partie intégrante d’une politique concertée de dissuasion réglée sur le principe « rendons les la vie infernale ». En les exposant délibérément à des dangers mortels, les garde-frontières qui assurent la protection de l’Europe, s’attendent à ce que les candidats à l’exil finirons par comprendre non seulement qu’ils sont indésirables sur le sol européen mais que leurs propre vies n’y comptent pour rien.

      La situation dramatique des réfugiés ukrainiens pourrait-elle sensibiliser les sociétés européennes au drame de tous les réfugiés indépendamment de leur origine ? Si nous tenons compte ce qui continue à se passer à nos frontières loin de projecteurs médiatiques, nous aurons du mal à y croire. Force est de constater que l’accueil des Ukrainiens va de pair avec notre indifférence, en tout cas avec notre inaction blasée, face à ces crimes commis contre les ‘mauvais’ réfugiés aux confins de l’Europe et/ ou à ses frontières externalisés.

      La question est ‘sommes-nous disposés de vivre au sein d’une société régie par la croyance « en une hiérarchie des êtres humains et par la production d’un rapport de domination pour tenter de rendre opérante cette hiérarchisation » (communiqué de Migreurop du 22 mars 2022) ? Car, la solidarité à deux vitesses revient à une bipartition de l’humanité entre ceux dont la vie serait digne d’être sauvés, et les autres, ceux dont les vies en seraient indignes. Ce qui fait inévitablement penser à la doctrine abjecte de Lebensunwertes Leben, de vies indignes d’être vécues, notion clé de la politique eugéniste et raciale nazie. Certes nous n’en sommes là, mais en sommes-nous vraiment loin ? D’un côté, vous avez des vies dignes d’être sauvées, secourues, accueillies, et de l’autre, les vies de ceux qui, n’appartenant pas à la ‘grande famille européenne’, seraient non seulement indignes d’être sauvés mais qui pourraient dans l’indifférence générale être conduits à la noyade ou à la mort par hypothermie. La pente est plus que glissante.

      Que cela soit clair : tous ceux et celles qui fuient la guerre en Ukraine doivent être accueillis dans les meilleures conditions possibles non seulement à court mais aussi à moyen voire long terme. Ce qui reste insoutenable, est cette politique de deux poids et deux mesures, qui présuppose une bipartition pernicieuse de l’humanité. Qu’une partie d’êtres humains soit traitée comme si elle n’appartenait plus à l’humanité, comme si elle pourrait en être retranchée et exclue, cela ne saurait ne pas affecter nous autres européens des stigmates d’inhumanité.

      La guerre en Ukraine serait-elle d’autant plus la ‘nôtre’ qu’elle est une guerre européenne ? Tout compréhensible que puisse être ce point de vue, on pourrait y objecter que la guerre en Syrie ne nous concernait pas moins, et que la résistance de Kurdes à l’avancée fulgurante de Daech n’a pas été moins décisive pour l’avenir de l’Europe que l’issue de la guerre actuelle en Ukraine. Si, comme le dit Michel Agier, penser l’Europe devrait être une méthode pour penser notre commune humanité, nous ne saurions nous affirmer en tant qu’européens qu’en pensant et agissant en tant que citoyens du monde. Contre les politiques du tri sélectif, de l’exclusion et de criminalisations des arrivants, il nous faudra construire un monde Un, un monde commun où il y aura une place pour toutes et tous.

      Paris, 31 mars 2022

      https://blogs.mediapart.fr/vicky-skoumbi/blog/010422/la-solidarite-geometrie-variable-n-en-est-pas-vraiment-une

    • Entre les réfugiés d’Ukraine et ceux d’ailleurs : une « #différence_de_traitement insupportable »

      Les annonces gouvernementales se succèdent pour organiser l’arrivée des personnes fuyant l’Ukraine. Après des années de refus politique d’accueillir les exilés d’Afrique ou du Moyen-Orient, les associations dénoncent une discrimination.

      « Elle arrive… » Un chuchotement circule dans l’assistance. Marlène Schiappa, ministre déléguée chargée de la Citoyenneté auprès du ministre de l’Intérieur, s’avance pour saluer une rangée de responsables d’associations. Nous sommes le 23 mars. Tous s’activent ici, dans ce hall du parc des expositions Porte de Versailles à Paris, pour accueillir les personnes réfugiées d’Ukraine. « Vous avez toujours en majorité des femmes et des enfants ? » s’enquiert la ministre. Depuis l’ouverture du centre, mi-mars, 1900 Ukrainiens, principalement des femmes et des enfants (les hommes ukrainiens de moins de 60 ans ne sont pas autorisés à quitter le pays) ont été hébergés sur place pour une ou deux nuits. Ils y ont trouvé un dispositif inédit, rassemblant en un même lieu préfecture, Office français de l’immigration et de l’intégration, assurance-maladie… Du jamais-vu en France.

      Une dizaine de box ouverts sur une salle bruyante s’alignent. Des familles ukrainiennes y exposent, dans une intimité toute relative, leur situation aux agents de l’État. Première étape à l’entrée : le contrôle des documents d’identité par la préfecture de Paris. Si tout est en règle, c’est-à-dire si les personnes sont en capacité de prouver qu’elles fuient l’Ukraine, elles se voient délivrer dans la foulée une autorisation provisoire de séjour. Celle-ci est d’une durée de six mois, renouvelable trois ans.

      Du jamais-vu en France
      Depuis l’ouverture du centre de Porte de Versailles (Paris), mi-mars, 1900 Ukrainiens, principalement des femmes et des enfants, ont trouvé un dispositif inédit, rassemblant en un même lieu préfecture, Office français de l’immigration et de l’intégration, assurance-maladie… Du jamais-vu en France.

      « Nous délivrons près de 300 autorisations provisoires de séjour par jour », explique un représentant de la préfecture. Ces autorisation sont l’application concrète, en France, de la directive européenne sur la protection temporaire créée en 2001 et activée le 3 mars 2022 pour la première fois. Elles donnent, entre autres, le droit de travailler et d’obtenir une couverture maladie immédiatement, là où les demandeurs d’asile sont depuis 2019 soumis à une attente de trois mois pour bénéficier de la Sécurité sociale.
      « Cette protection, tous les demandeurs d’asile devraient y avoir droit »

      « Il y a un deux poids deux mesures. N’ayons pas peur des mots : c’est du racisme. »

      Aucun autre exilé sur le territoire français n’a droit au dispositif de protection temporaire. Pas même les Afghans ayant fui la prise de Kaboul par les talibans, l’été dernier. « L’Europe ne peut pas à elle seule assumer les conséquences de la situation actuelle. Nous devons anticiper et nous protéger contre les flux migratoires irréguliers importants », déclarait en août 2021 à leur propos Emmanuel Macron. Six ans plus tôt, au regard de la crise syrienne, une cinquantaine d’organisations demandaient déjà au président Hollande et à l’Europe d’œuvrer en faveur de la protection temporaire. En vain.

      « Cette protection, tous les demandeurs d’asile devraient y avoir droit. Il y a un deux poids deux mesures. N’ayons pas peur des mots : c’est du racisme. La différence de traitement est insupportable », dénonce Yann Manzi, cofondateur de l’association Utopia56. Il y voit une incarnation du double discours « humanité et fermeté », martelé par le gouvernement Macron depuis son arrivée au pouvoir. « Pour toutes les populations maghrébines, ou d’Afrique subsaharienne, on a la fermeté ; tandis que pour les Ukrainiens, on a l’humanité ».

      4 millions de réfugiés
      Les associations craignent de trouver bientôt des familles ukrainiennes sans solution, comme les autres. Actuellement, 26 000 réfugiés ukrainiens sont arrivés en France. Une partie est en transit, mais il est difficile de prévoir le nombre d’arrivées futures : plus de 4 millions de personnes ont quitté l’Ukraine, au 30 mars.

      L’exemple des transports est parlant. L’État a noué un partenariat inédit avec la SNCF pour permettre aux familles ukrainiennes de se déplacer gratuitement vers les régions où on leur propose un hébergement, ou vers les pays qu’elles souhaitent rejoindre. Au sein du hall Porte de Versailles, « on travaille sur une solution de guichet SNCF », explique Nordine Djebarat, directeur régional Île-de-France à Coallia, une association spécialisée dans l’hébergement et l’accompagnement social.
      100 000 places d’hébergement… et des gens toujours à la rue

      « Les pouvoirs publics sont capables de se mobiliser pour accueillir un grand nombre de réfugiés ukrainiens. On voit que quand la volonté politique est là, on y arrive »

      Pour les autres nationalités, les gares et les trains restent ce qu’ils ont toujours été. À savoir, des lieux de traque et de contrôle. En plein cœur de la vallée de la Roya, un escadron de gendarmerie mobile contrôle en permanence la zone autour de la commune de Sospel et sa gare TER. « Ici, le train ne s’arrête que quelques minutes, mais cela suffit aux militaires pour contrôler l’ensemble des voitures, où il n’est pas rare de se retrouver en présence d’individus entrés irrégulièrement en France », écrit par exemple le média de la gendarmerie nationale Gend.Info. Dans un communiqué du 14 mars, la CGT Cheminots explique que la direction de la SNCF leur « demande de vérifier la provenance des réfugiés dans le train (...) et “d’agir avec bienveillance” s’ils sont Ukrainiens ». De quoi soulever « un malaise profond chez une partie des cheminots, conscients d’une différence de traitement entre les réfugiés ».

      Depuis 2015, l’accès au logement pour les personnes exilées est l’une des principales batailles que mènent les associations. Il y a eu les occupations place de la République ou devant la mairie de Paris, les réquisitions de bâtiment vacants, les demandes répétées de prise en charge systématique des personnes à la rue après les évacuations de campements... Le numéro d’urgence 115 saturé, les structures d’hébergement pleines : les associations se sont habituées à recevoir ces réponses de la part des services de l’État.

      Des dizaines de réfugiés Afghans dorment dans le campement du Cheval noir, à Pantin (Seine-Saint-Denis). Avec la fin de la trêve hivernale, « il y a plein de territoires où des remises à la rue se préparent », craint Yann Manzi d’Utopia56. Avec la possibilité de la reformation de campements de milliers de personnes en périphérie de Paris.

      Alors, le 23 mars, quand le Premier ministre Jean Castex annonce l’ouverture prochaine de 100 000 places d’hébergement pour les personnes fuyant la guerre en Ukraine [1], les associations qui viennent en aide aux exilés à la rue ont évidemment salué le geste… tout en soulevant quelques contradictions. « Nous avons distribué plus de 800 repas hier soir dans les rues de Paris, les conditions de vie des personnes exilées sont très dures, témoigne Philippe Caro de l’association Solidarité Migrants Wilson. On s’aperçoit que les pouvoirs publics sont capables de se mobiliser pour accueillir un grand nombre de réfugiés ukrainiens, alors que depuis des années ils nous disent que ce n’est pas possible pour les autres. On voit que quand la volonté politique est là, on y arrive », s’agace-t-il.
      Parfois dès 9 h du matin, ils disent aux familles “revenez demain”

      À Calais, l’auberge de jeunesse, comptant 130 places, a été mobilisée pour héberger des Ukrainiens. Les exilés d’autres nationalités continuent de survivre dans des campements informels ("jungles”), au rythme des expulsions tous les deux jours par les forces de l’ordre. « Ils nous disent : “C’est terrible ce qu’il se passe en Ukraine”. Puis, quand on leur explique cet accueil, ils s’étonnent : “ah oui ? Pourquoi ils ne sont pas dans la jungle comme nous ?” », rapporte Marguerite Combes, coordinatrice d’Utopia56 sur place. « On est contents pour les Ukrainiens, mais si on peut le faire pour eux, pourquoi pas pour tout le monde ? C’est assez rageant, cela fait 30 ans que c’est l’impasse… », soupire Alexandra Limousin, responsable de l’Auberge des migrants, association historique du Calaisis.

      Malgré cette mobilisation inédite de l’État, des défaillances commencent à être mises en lumière. Dans un échange de courriers, des bénévoles traducteurs alertent la Croix rouge sur un manque d’assistance médicale, de nourriture et d’eau lors du premier accueil, gare de l’Est à Paris. La rapidité de l’ouverture des droits est aussi « très variable » en fonction des endroits, explique Gérard Sadik, responsable asile de la Cimade. Même au hub Porte de Versailles, « c’est premier arrivé, premier servi. Parfois dès 9 h du matin, ils disent aux familles “revenez demain” », précise-t-il.

      Enfin, les associations craignent de trouver bientôt des familles ukrainiennes sans solution, comme les autres. Actuellement, 26 000 réfugiés ukrainiens sont arrivés en France. Une partie est en transit, mais il est difficile de prévoir le nombre d’arrivées dans les prochaines semaines (plus de 4 millions de personnes ont quitté l’Ukraine, au 30 mars). Dans un gymnase réquisitionné à Rennes, « la semaine dernière, six personnes d’Ukraine sont arrivées, et c’est nous qui leur avons payé l’hôtel, car le gymnase était plein… », raconte Yann Manzi.
      Des hébergement évacués, des gens mis à la rue

      « On insiste beaucoup sur la générosité des gens, mais soyons extrêmement vigilant sur l’hébergement citoyen, qui doit inclure de l’accompagnement social dans la durée »

      Dans la dernière instruction envoyée aux préfets sur le schéma d’hébergement et de logement des réfugiés d’Ukraine, que Basta ! s’est procurée, les ministères insistent sur le fait de ne pas mettre en concurrence les publics. « Il est essentiel de ne pas dégrader ou saturer les dispositifs de droit commun », y écrivent-ils. Mais sur le terrain, des formes de priorisation s’opèrent. À Rennes, 144 personnes, dont une quarantaine d’enfants, occupaient depuis mi-janvier un gymnase réquisitionné par les associations qui les suivent depuis un an. Le 30 mars, les forces de l’ordre ont évacué les lieux. « Il reste une famille de dix personnes sans solution, ainsi qu’une petite vingtaine d’hommes seuls », indique Ludovine Colas, coordinatrice d’Utopia 56 à Rennes.

      Des guichets uniques au centre d’accueil de Porte de Versailles permettent aux familles réfugiées ukrainiennes d’accomplir toutes leurs démarches. « Cette protection, tous les demandeurs d’asile devraient y avoir droit », dénonce Yann Manzi, cofondateur de l’association Utopia56.

      Dans le même temps, « on sait qu’il y a des dispositifs qui ont été ouverts à Rennes pour les Ukrainiens, des places libres », souligne Yann Manzi. Ces derniers peuvent accéder à un hébergement juste après s’être présentés en préfecture. Pour les autres exilés, « il faut passer par le guichet unique de Coallia pour avoir ensuite un rendez-vous en préfecture, puis la préfecture renvoie vers Coallia, qui orientera vers un hébergement », décrit Ludivine Colas. De quoi allonger les délais sur plusieurs mois… « La majorité des occupants du gymnase étaient ainsi des primo-arrivants, pris dans ces fameux délais de rendez-vous », explique-t-elle.

      La clôture de la trêve hivernale, fin mars, risque de multiplier ces situations selon les associations. « Il y a plein de territoires où des remises à la rue se préparent. Là où il y aura des soutiens ou une médiatisation, on peut espérer les faire reculer. Mais dans les territoires moins visibles, tout va se faire dans une grande discrétion » craint Yann Manzi d’Utopia56. Face à la priorisation donnée à l’hébergement de familles ukrainiennes, Agathe Nadimi de l’association les Midis du MIE, qui vient en aide aux mineurs isolés, craint la reformation de campements de milliers de personnes en périphérie de Paris.

      La priorisation se ressent aussi dans la mobilisation citoyenne. Porte de Versailles, l’Armée du Salut coordonne les distributions alimentaires. Le centre peut accueillir jusqu’à 400 personnes par jour. « On a les capacités d’y répondre, grâce à tous les dons reçus, notamment beaucoup d’entreprises. Enfin… à destination des Ukrainiens. Parce que pour les autres publics, les Syriens, les Afghans, on a plus de mal. Des fois, on a envie de dire : il y a tous les autres, aussi », soupire Emmanuel Ollivier, directeur de la fondation de l’Armée du Salut. Marlène Schiappa soulignait lors de sa visite : « Tous les jours, on a des gens qui veulent aider, faire des dons, laisser un appartement à disposition… C’est pour cela qu’on a créé une plateforme de parrainage ».

      Pour l’heure, peu d’informations ont été données sur les 100 000 places d’hébergement annoncées par Jean Castex, si ce n’est qu’une grande partie d’entre elles sont organisées par des entreprises privées ou des citoyens. Cela pose question à de nombreuses associations. « On insiste beaucoup sur la générosité des gens, mais soyons extrêmement vigilant sur l’hébergement citoyen, qui doit inclure de l’accompagnement social dans la durée », soutient Bruno Morel, le directeur général d’Emmaüs Solidarité. Gérard Sadik, de la Cimade, rappelle aussi une évidence : « L’État a un devoir d’hébergement, avec une obligation des moyens renforcés : c’est-à-dire, une obligation d’aller vers le logement de toutes les personnes. Il ne peut pas se reposer sur les initiatives privées… »

      Tous les acteurs associatifs saluent la réaction rapide et massive de l’État pour accueillir les déplacés ukrainiens, ils souhaiteraient désormais que cette crise soit l’électrochoc permettant d’instaurer un accueil digne et durable à tous les exilés. « On a jamais vu des conditions d’accueil aussi favorables. Cela doit être considéré comme une opportunité pour les généraliser à toute personne qui a fui la guerre ou une situation humanitaire insupportable », défend Bruno Morel, d’Emmaüs Solidarité.

      https://basta.media/Refugies-ukrainiens-porte-de-Versailles-difference-de-traitement-Afghans-Sy

    • Ukraine and Double Standards on Refugees

      Critics are right to point out that some Western nations are treating Ukrainian refugees better than those fleeing similar horrific situations elsewhere. But the right way to address the problem is to increase openness to other refugees, not exclude Ukrainians.

      Russia’s brutal invasion of Ukraine has created a massive refugee crisis, with over 5 million Ukrainians fleeing the country. Many Western countries have admirably accepted Ukrainian refugees in response. But critics argue that this relative openness by the US and Europe involves a pernicious double standard under which white European refugees from Ukraine are welcomed, but non-white ones from Syria, Africa and elsewhere, are mostly shut out, even though many are fleeing comparably grave dangers from war and oppression. Pope Francis, among others, has said that the differential treatment of refugees is driven by “racism.”

      The critics have a legitimate point. But the right way to address the problem is not to close our doors to Ukrainians, but to be more open to other migrants and refugees fleeing horrific conditions.

      Non-white refugees from Africa and the Middle East really do often face violence and oppression comparable to that which threatens Ukrainian refugees, and many Western nations have been less willing to let them enter. In the case of the US, the difference is less glaring than in Europe, because the Biden administration has so far taken only modest steps to open US doors to Ukrainians. Some of those steps, such as granting Ukrainians already in the US “Temporary Protected Status” have parallels in similar policies adopted towards some predominantly non-white groups of refugees, such as Venezuelans (regardless of their actual skin color, Venezuelans and other Hispanics are usually not considered “white” in the US). The contrast is greater in Canada and various European nations that have been relatively more open to Ukrainians than the United States has been so far.

      Although racial and ethnic bias surely plays a role, it probably isn’t the only factor at work. It is also significant that the US and its European allies have an important strategic stake in the Russia-Ukraine War that is either smaller or entirely absent in the cases of Syria and various African conflicts. Openness to Ukrainians is not only a moral gesture, but also a way of opposing Vladimir Putin’s brutal war of aggression, which threatens Western security interests.

      It’s also worth noting that the US and its European allies have done little or nothing to open their doors to Russian refugees fleeing Putin’s intensifying repression, despite the strong moral and strategic case for doing so. Most Russian refugees are white, just like most Ukrainian ones. Western nations’ unwillingness (so far, at least) to take them is likely driven by shortsighted unwillingness to distinguish them from the very regime they are fleeing.

      That said, racial and ethnic bias clearly is a factor. Some European officials openly admit it. For example, Bulgarian Prime Minister Kiril Petkov said in February that his country is welcoming Ukrainians in part because “[t]hese are not the refugees we are used to.… These people are Europeans…These people are intelligent.”

      But, as I explained in one of my earliest pieces making the case for admitting Russian and Ukrainian refugees, the right way to combat such disparities is “leveling up” the treatment of non-white refugees, not barring Ukrainians.

      There are some cases where it is perfectly legitimate to end discrimination by “leveling down” the treatment of the previously favored group. For example, if the government gives subsidies to white-owned businesses that aren’t available to others, there is nothing wrong with just abolishing the subsidy program entirely.

      But barring refugees fleeing war or repression is a grave wrong even if it is done in a “race-neutral” manner. It still unjustly consigns people to oppression or even death merely because they happen to be born to the wrong parents or in the wrong place. That itself is an injustice similar to racial discrimination. In the same way, if police brutality is directed against African-Americans more often than whites, the problem could not be justly “solved” by having the police abuse whites more often. Rather, the only defensible approach in that situation is to curb brutality directed at blacks.

      In my view, there should be a strong presumption against barring any peaceful migrants, especially those fleeing war, authoritarian regimes, or other severe oppression. But I recognize this ideal is unlikely to be fully achieved anytime soon, if ever. In the meantime, we should seek whatever incremental improvements are feasible, which may include measures focused on specific refugee crises, even as others remain (relatively) neglected.

      And while I have long argued it is essential to make the general moral case for migration rights, there is nothing wrong with also noting considerations that may only apply to a specific situation. For example, there are specific strategic advantages to opening our doors to Russians fleeing Putin, because doing so strengthens the West’s position against one of the world’s most dangerous illiberal authoritarian regimes.

      In my view, Russians fleeing Putin’s regime (like others fleeing repression) should be accepted even in the absence of those strategic advantages. But these points still add to the case for openness, and they may be more decisive for observers who are less generally pro-migration rights than I am.

      The issue of racial and ethnic double standards on migration rights often comes up when I speak about admitting Ukrainians and Russians during the present war. Reporters and interviewers routinely ask about it. I always emphasize that my support for migration rights is not and never has been bounded by race or ethnicity.

      For members of the media and anyone else who may be interested, here is a convenient, though not exhaustive, list of my writings advocating migration rights for predominantly non-white groups (as “white” is usually defined in US political discourse). Unless otherwise noted, these are all posts at the Volokh Conspiracy blog:

      1. “The Moral and Strategic Case for Admitting Syrian Refugees,” Nov. 23, 2015.

      2. “Obama’s Cruel Policy Reversal on Cuban Refugees,” Jan. 14, 2017. While many Cuban migrants are light-skinned, they are not usually considered white in the US.

      3. “Supreme Court Ruling on Travel Ban Ignores Religious Discrimination,” USA Today, June 26, 2018. This piece and the next one are just a small sampling of my extensive writings opposing Donald Trump’s anti-Muslim travel bans.

      4. “Trump’s Expanded Travel Ban Compounds the Wrongs of Previous Versions,” Feb. 2, 2020.

      5. “Let Hongkongers Immigrate to the West - And other Victims of Chinese Government Oppression, too,” May 29, 2020. This is just one of several pieces I have written on Asian refugees.

      6."Immigration Restrictions and Racial Discrimination Share Similar Roots," The Hill, Nov. 24, 2020.

      7. “The Case for Accepting Afghan Refugees,” Aug. 20, 2021.

      8. Free to Move: Foot Voting, Migration, and Political Freedom, (Oxford University Press, rev. ed. 2021). In Chapters 5 and 6 of this book, I include an extensive critique of justifications for racial, ethnic, and cultural discrimination in migration policy. In the case of the US and many other Western nations, such restrictions most often target non-whites.

      9. “The Case Against Covid-19 Pandemic Migration Restrictions,” Cato Institute, Feb. 1, 2022. In the US, these restrictions have most heavily impacted non-white migrants from Latin America. That’s especially true of the Title 42 “public health” expulsions, against which I also authored an amicus brief when their legality was challenged in court.

      This list could easily be expanded. But it’s enough to give a representative sampling of my work on this issue.

      Committed conspiracy theorists (though not Volokh Conspirators!) might still say I only wrote the above because I anticipated there would someday be a refugee crisis involving whites. My previous writings about non-white refugees would store up credibility that I could then make use of. But that just goes to show there’s no satisfying hard-core conspiracy theorists!

      https://reason.com/volokh/2022/04/24/ukraine-and-double-standards-on-refugees

    • Migranti : verso un contributo per i profughi ospitati dai privati

      Lo ha dichiarato il presidente del Fvg #Massimiliano_Fedriga: «Stiamo lavorando a una misura che sarà valida per tre mesi, per venire incontro alle famiglie che ospitano. Importante distinguere tra rotta balcanica e profughi Ucraini»

      Voici le passage sur la distinction à faire entre les réfugiés « de la route des Balkans » et ceux d’Urkaine :

      «Oggi il numero di profughi dall’Ucraina è gestibile a livello nazionale - ha spiegato Fedriga - ma ci preoccupa la sommatoria con l’immigrazione proveniente dalla rotta balcanica e dal Mediterraneo. Oltretutto bisogna avere consapevolezza che i due percorsi devono essere ben distinti, soprattutto per quanto riguarda i minori stranieri non accompagnati. Dall’Ucraina arrivano minori dai 6 ai 14 anni circa, dalla rotta balcanica e dal Mediterraneo arrivano sedicenti 17enni che in realtà sono maggiorenni. Non possiamo pensare di mischiare i due percorsi, dobbiamo tutelare al massimo le persone che scappano dalla guerra».

      https://www.triesteprima.it/politica/migranti-fedriga-contributo-ospiti.html
      #Italie #Fedriga

      –---

      To a certain degree, double standards are already emerging regarding the treatment of refugees travelling Balkan and Mediterranean routes, and those arriving from Ukraine. While every person crossing the border is mandated to quarantine for 6 days, people fleeing Ukraine can do so in specialized centers (there are 4 of them in #Trieste at the moment). All other nationalities (predominantly people from Pakistan and Afghanistan) are sent to #Campo_Sacro, which presents considerably worse living conditions. Since there are 40 to 50 people present there, it can be concluded that the Italian police still chases and leads them back when they decide to resume their journeys. Of particular concern is the case of two Pakistani people who fled Ukraine, where they had obtained their residency permits, but were conducted to Campo Sacro regardless.

      (p.11)

      source : https://www.borderviolence.eu/balkan-regional-report-march-2022

    • En #Pologne, les exilés non ukrainiens se sentent abandonnés

      Irakiens, Syriens ou Yéménites, ils ont traversé la frontière entre le Bélarus et la Pologne fin 2021, en y frôlant parfois la mort. Placés en rétention, relâchés, certains se retrouvent aujourd’hui livrés à eux-mêmes, à l’heure où des millions de réfugiés ukrainiens sont accueillis en Pologne.

      Kouba a aperçu la veille une silhouette marchant le long de la route, un sac sur le dos, et en a déduit que c’était lui. « Une amie m’a demandé d’aller le récupérer. Comme il ne parle quasiment pas anglais, je lui ai quand même montré son numéro pour vérifier que c’était la bonne personne », chuchote-t-il, l’air amusé, assis sur la pelouse près de la gare de Varsovie vendredi 6 mai. Près de lui, Waleed, cheveux coiffés en arrière et barbe fournie, ne dit pas un mot. Mais il acquiesce lorsqu’il parvient à déchiffrer ce que dit son accompagnateur.

      « Il a été refoulé deux fois à la frontière en octobre dernier, puis il a passé six mois à Stary Raduszec », poursuit Kouba en remuant la tête de gauche à droite pour marquer son agacement. Il fait référence au centre de rétention qui a vu le jour dans la province de Krosno, à l’ouest de la Pologne. « C’est au milieu de nulle part, au milieu des champs. Il n’y a même pas d’adresse. » Waleed ignore pourquoi il a pu en sortir du jour au lendemain. « C’est comme une prison, explique-t-il en arabe, dans le train qui l’emmène droit vers Łódź, à une centaine de kilomètres de la capitale. On n’avait pas le droit d’utiliser nos smartphones, ni d’avoir de la visite. »

      Un ami à lui a tout de même pu prendre une vidéo tournée à l’intérieur du centre fin 2021. « We are not animals ! » (« Nous ne sommes pas des animaux ! »), crie un homme parmi un groupe d’exilés derrière un grillage, en s’adressant aux gardes. Au cours des derniers mois, plusieurs personnes se sont lancées dans une grève de la faim pour protester contre leur rétention, injustifiée – la plupart d’entre elles ont demandé l’asile (ou émis le souhait de le faire) par l’intermédiaire de bénévoles ou d’avocats rencontrés avant qu’ils ne soient interpellés par les gardes-frontières puis enfermés, comme nous le relations ici ou là.

      Originaire du Kurdistan irakien, Waleed confie, dans le train, ses rêves d’Europe : « Mon frère, avec qui j’ai traversé, est aujourd’hui en Allemagne. Et j’ai un autre frère en Belgique. » Il aimerait les rejoindre mais ignore comment faire. Il craint aussi les contrôles de police dans les gares allemandes. Son frère, lui aussi placé en centre de rétention, n’a pu en sortir que parce qu’il souffrait d’une forme grave de diabète. C’est avec lui que Waleed a d’abord tenté de gagner la Bulgarie, depuis la Turquie, à dix reprises. « À chaque fois, on nous a refoulés. La police était très dure avec nous. Une fois, ils nous ont retiré nos téléphones et vêtements, les ont brûlés sous nos yeux et nous ont dit “go” en nous montrant la forêt. »

      En arrivant en gare de Łódź, en début de soirée, le jeune homme retrouve Sebastian, l’un des maillons de cette chaîne de solidarité qui refuse d’abandonner les personnes exilées de toutes nationalités, à l’heure où la Pologne accueille près de trois millions de réfugié·es venant d’Ukraine. Tous deux ne se connaissent pas mais Waleed le suit volontiers lorsqu’il se dirige vers sa voiture puis fait démarrer le moteur. Du heavy metal sort, sans crier gare, de la radio, et plusieurs exemplaires du journal anarchiste traînent sur le siège arrière. La voiture rejoint un petit village, surnommé « Palestine », où Sebastian va héberger, pour la toute première fois, un exilé chez lui.

      « Je vais te montrer ta chambre », lance-t-il à Waleed en grimpant les marches de la maison. Sur le tee-shirt de l’activiste anarchiste, un nounours barre au feutre rouge une croix gammée nazie. Une fois dans le salon, Sebastian tente de mettre la musique sur la télévision pour noyer le silence qui s’installe, faute de langue commune. « Je suis assez nul pour briser la glace », affirme-t-il en enchaînant les cigarettes dans le jardin.

      Magda, la femme de Sebastian, arbore un sourire gêné. « Elle est bien embêtée car elle est très bavarde, d’habitude », plaisante-t-il. Pour lui souhaiter la bienvenue, le couple a organisé une fête, en présence d’Ewa, le premier contact de Waleed, qui est restée en lien avec lui durant son enfermement. C’est aussi elle qui a demandé à Kouba de le récupérer à sa sortie du centre de rétention.

      Installée à table, elle convoque ses souvenirs. « J’ai passé trois ou quatre mois à la frontière bélarusse. Des fois, on restait 46 heures sans dormir, au point d’avoir des hallucinations. On a aidé beaucoup de personnes, bien qu’on ne se souvienne pas de tous les visages et prénoms. » Aujourd’hui, poursuit-elle, les exilé·es continuent de tenter le passage de cette frontière, devenue une nouvelle route migratoire en Europe. « Il y a encore du monde qui traverse, au moins cinquante personnes par semaine. Vendredi dernier, on a trouvé une famille qui avait passé sept jours dans la forêt », rapporte Kouba.

      "Quand je vois les gardes-frontières polonais avec des enfants ukrainiens dans les bras aujourd’hui, ça me rend fou."

      Sebastian, activiste anarchiste

      Et Ewa d’ajouter : « Le centre de Bruzgi, au Bélarus, comptait sept cents personnes. Il a été fermé et les plus vulnérables ont été relâchés pour dire que la Pologne les refoulait. C’est un sale “jeu” entre les deux pays. Certaines personnes sont restées coincées à la frontière durant des mois. » « Quand je vois les gardes-frontières polonais avec des enfants ukrainiens dans les bras aujourd’hui, ça me rend fou », peste Sebastian en se tenant la tête entre les mains. Il a, lui aussi, ratissé la forêt située dans la zone en état d’urgence pour sauver des vies.

      Deux jours plus tard, dans la cour du centre social et culturel ADA à Varsovie, Kouba se souvient de ce qui a marqué un tournant pour lui : au moins trois décès avaient été signalés à la frontière entre la Pologne et le Bélarus en octobre dernier. « La même semaine, les autorités locales ont annoncé lors d’une conférence de presse avoir trouvé des images de zoophilie et de pédophilie sur le téléphone des exilés. Cette propagande a été insupportable pour moi. » Kouba multiplie, durant trois mois, les allers-retours à la frontière et garde contact avec certains exilés placés en centre de rétention, par un réseau d’entraide.

      Depuis le début de la guerre en Ukraine, ce professeur d’université a choisi de s’impliquer auprès des exilés non ukrainiens, considérant qu’il y avait « suffisamment d’aide » pour eux à travers le pays. Et parce que, selon plusieurs sources, les ONG autrefois présentes à la frontière bélarusse sont depuis impliquées à la frontière ukrainienne.

      « Ces différences de traitement me dépassent. On s’est aussi organisés, avec des volontaires, pour créer à l’intérieur de la gare de Varsovie un point d’accueil pour les réfugiés non ukrainiens fuyant la guerre. » Un groupe basé à la frontière avec l’Ukraine est chargé de les recenser et de signaler leur départ en train. À leur arrivée dans la capitale, les équipes les orientent pour la suite de leur parcours ou leur cherchent un hébergement.

      Proposer une aide à tous les exilés, sans distinction

      Dimanche 8 mai, Chris retrouve Sulaïman et Mohsen dans un café de la capitale situé près du théâtre. Les deux jeunes hommes, originaires du Yémen, laissent entrevoir deux personnalités radicalement opposées : l’un, coupe afro assumée, est extraverti et enchaîne les blagues avec un serveur peu réceptif ; l’autre est réservé, le regard presque méfiant.

      Ils viennent, eux aussi, d’être relâchés du centre de rétention de Wędrzyn, un village situé près de la frontière allemande. « Le centre a été créé dans une zone militaire, où il y avait des entraînements tous les jours. On entendait les tirs, les explosions, comme si on était au milieu d’une guerre », relate Sulaïman, qui évoque un « camp de concentration »
      On se battait pour du pain. Des gens sont devenus fous et se sont mis à parler tout seuls.
      Mohsen, un exilé yéménite

      Là-bas, Mohsen, à la carrure déjà frêle, perd quatre kilos. « On se battait pour du pain. Des gens sont devenus fous et se sont mis à parler tout seuls. » Durant deux mois, le trentenaire ne peut donner aucune nouvelle à sa famille restée au Yémen. « Quand j’ai enfin récupéré un vieux téléphone, j’ai dit à ma mère que j’étais dans un hôtel 5 étoiles, car je ne voulais pas l’inquiéter. »

      Aujourd’hui, ses proches, qui ont découvert la vérité, ne parviennent toujours pas à y croire. Après avoir travaillé en Arabie saoudite pour fuir la crise que connaît son pays en 2013, Mohsen se confronte à de nouvelles difficultés. Son pays d’accueil restreint le droit au travail pour les étrangers et augmente, chaque année, le tarif des permis de résidence.Il lance une demande de visa étudiant en Espagne à plusieurs reprises, sans succès. « En 2021, j’ai pu obtenir un visa étudiant au Bélarus. Tout à coup, on a entendu dire que la frontière avec la Pologne était ouverte. Pour moi, c’était la seule chance de gagner l’Europe », explique-t-il, faisant référence aux droits humains et à une vie meilleure.

      « Bla bla bla… », lâche aujourd’hui Mohsen d’un ton amer. Il prend contact avec Sulaïman, originaire du même village que lui au Yémen, qui a de son côté tenté de rejoindre l’Europe via la Turquie. « J’ai été refoulé à chaque fois par la Grèce. Quand tu cherches un endroit sûr, tu trouves. On connaît le sens du mot “guerre” et on pensait qu’en passant par le Bélarus, on pourrait demander l’asile en Europe.
      Un soldat a fini par me frapper à la poitrine. Ils ont cassé le port permettant la charge de nos téléphones et nous ont dit de repartir.
      Sulaïman, un exilé yéménite

      Les deux comparses font appel à un passeur bélarusse qui les achemine à la frontière le 16 août, au début de la crise, contre 200 dollars. « C’était le 15 août », rectifie Mohsen, pour qui chaque détail a son importance. Ils n’imaginaient pas combien ce serait « difficile ». Ils sont refoulés une première fois par les gardes-frontières polonais, qui braquent leurs armes sur eux.

      « Ils nous ont demandé ce qu’on voulait et on a répondu “l’asile”. » Côté bélarusse, les soldats leur ordonnent de retourner en Pologne. « Une nuit, ils nous ont laissés plusieurs heures sous la pluie, sous des températures négatives, en nous observant. Un soldat a fini par me frapper à la poitrine. Ils ont cassé le port permettant la charge de nos téléphones et nous ont dit de repartir. »

      Le « ping-pong » dure sept jours. Affamé, déshydraté et souvent malade pour avoir bu l’eau des marécages, le groupe – des Afghans et Kurdes les ont rejoints dans leur mésaventure – désespère et ne pense qu’à survivre. Ils finissent par croiser une ONG dans la forêt, qui promet de les aider. Alexandra, une bénévole, les accompagne au poste des gardes-frontières, pensant bien faire.

      « Ils l’ont virée du poste en la poussant violemment. On s’est dit que s’ils faisaient ça à une ONG, qu’est-ce qu’ils feraient avec nous ? », poursuit Mohsen en jouant nerveusement avec le couteau posé sur la table à manger de la cuisine, dans le petit appartement qu’ils occupent au centre-ville de Varsovie. Leur téléphone confisqué, ils sont de nouveau refoulés, au milieu de la nuit. C’est finalement une équipe de télévision, qui tourne côté Bélarus, qui les sort de cet « enfer ».

      Près de deux mille exilés seraient toujours placés en centre de rétention depuis la crise à la frontière bélarusse. « Quelle différence entre les Ukrainiens et nous ? Est-ce une question de couleur ? », interroge Mohsen, faisant référence à la guerre et à la famine que connaît son pays. « On se sent désolés pour la guerre en Ukraine, mais on trouve dingue que les réfugiés aient juste à se présenter à la frontière polonaise pour être protégés après ce qu’on a vécu. »

      Et Sulaïman d’ajouter : « Il ne devrait pas y avoir de différence entre les gens. Et s’ils ne veulent vraiment pas de nous, pourquoi nous enfermer ? » Près de deux mille personnes seraient toujours placées en centre de rétention depuis la crise à la frontière bélarusse. Mohsen et Sulaïman ont passé huit mois et vingt jours en centre de rétention, sans même en connaître la raison. « Comme si on était des criminels », résument-ils. Ils sont suivis par le collectif d’aide aux migrants Grupa Granica, et un avocat tente aujourd’hui de les aider dans leurs démarches administratives.

      Chris, qui se dit sans « étiquette » et dont les parents sont eux aussi réfugiés, estimait qu’il n’en avait « pas assez fait » durant la crise à la frontière bélarusse. « Les Polonais se sont réveillés avec l’arrivée massive de réfugiés ukrainiens et font tout pour les soutenir. C’est super. J’ai estimé de mon côté que Mohsen et Sulaïman en avaient plus besoin, puisque personne ne les aide », susurre celui qui leur prête cet appartement, où ils vivent depuis leur sortie du centre de rétention. Mohsen, le regard plongé dans le vide, se dit « brisé ».

      Pensent-ils rester en Pologne ? « Ça fait huit mois qu’on est là et les ONG ont rempli les documents pour la demande d’asile, mais on n’a rien eu, pas même un entretien », rétorque Sulaïman.Recontacté, Moussa*, qui nous racontait en décembre dernier avoir dû enterrer ses frères dans la forêt à la frontière, vit toujours en Podlachie, au nord-est de la Pologne, mais a dû quitter le centre d’accueil où il était hébergé pour faire de la place aux Ukrainien·nes.

      « Des personnes de bonne volonté se sont regroupées pour me trouver un logement en ville car ce n’était plus vivable pour moi là-bas. Mais je n’ai toujours pas de procédure d’asile ici en Pologne », confie-t-il, admettant être « perdu ».

      « Je suis incapable de réfléchir à ce que je veux faire pour le moment », complète Mohsen. Chris assure que si la zone en état d’urgence est toujours interdite d’accès, c’est pour que le monde « ne puisse pas voir ce qui s’y passe ». « Il doit aussi y avoir des corps là-dedans. C’est un crime contre l’État de droit et contre l’humanité, pour lequel les responsables devront payer », dénonce-t-il en avouant avoir « honte » de son pays. En cherchant le regard de ses deux interlocuteurs, il conclut : « Vous devriez essayer d’oublier tout cela. Nous, on se chargera de ne rien oublier. »

      https://www.mediapart.fr/journal/international/160522/en-pologne-les-exiles-non-ukrainiens-se-sentent-abandonnes

    • Réfugiés d’Ukraine : tapis rouge pour les uns, barbelés pour les autres

      Février 2022 : face à l’afflux d’exilé·es en provenance d’Ukraine aux frontières européennes, la présidente de la Commission européenne déclare que l’Union est « pleinement préparée » à accueillir ces réfugiés qui sont « les bienvenus [1] ». En France, la ministre déléguée auprès du ministre de l’intérieur précise qu’il n’est prévu ni répartition entre les États membres de l’UE (« ce sont des personnes libres, elles vont là où elles veulent [2] ») ni quotas (« dès lors que des besoins seront exprimés, la France y répondra ») : sera octroyé un statut provisoire de protection immédiate, sans besoin de demander l’asile, avec un accompagnement social pour tout le monde ; les personnes seront logées, pourront travailler et leurs enfants iront à l’école. Et pour « ceux […] partis sans passeport, il y aura évidemment de la souplesse, ce sont après tout des gens qui fuient la guerre, on ne va pas les bloquer avec des formalités administratives. L’humanité c’est de ne pas ajouter des formalités aux formalités ».

      L’incrédulité face à cette inhabituelle hospitalité cède au malaise. Comment en serait-il autrement, quand on apprend, par la voix du directeur de l’Office français de l’immigration et de l’intégration que « la France se prépare » et dispose d’un « parc d’hébergement de demandeurs d’asile qui peut être agrandi [3] », tandis que sont laissé·es à la rue, depuis des années, des milliers d’exilé·es que la police pourchasse, rafle et déplace sans cesse ?

      Pour la plupart d’entre eux, il eût suffi, comme on vient de le faire, d’activer la directive UE relative à la « protection temporaire », instituée dès 2001 mais qui n’a jamais, depuis lors, été mise en œuvre. Afghan·es, Érythréen·nes, Irakien·nes, Soudanais·es, Syrien·nes notamment, auraient ainsi pu, au fil du temps et des crises, bénéficier des conditions de protection et d’accueil offertes aujourd’hui aux Ukrainien·nes. Qu’il n’en ait rien été ne peut qu’interroger : la protection temporaire, pourtant de portée universelle dans toutes les situations d’« afflux massif », serait-elle en pratique réservée aux personnes exilées plutôt blanches et de culture chrétienne ?

      Comment expliquer, sinon, qu’au mois d’août 2021, tout en condamnant la prise de pouvoir par les talibans à Kaboul, le président Macron ait pu déclarer : « L’Europe ne peut pas à elle seule assumer les conséquences de la situation actuelle. Nous devons anticiper et nous protéger contre les flux migratoires irréguliers importants [4] » ? Comment comprendre que cette même Europe, soudain prête « à recevoir cinq millions de personnes » selon le chef de la diplomatie de l’UE, ait approuvé l’édification par la Pologne, la Lituanie ou la Lettonie de murailles à leurs frontières pour parer à une « invasion » d’exilé·es venu·es d’Asie ou d’Afrique, favorisée par la Biélorussie à l’automne 2021 ?

      La discrimination raciale a d’ailleurs contaminé, dès ses premiers jours, l’exode ukrainien lui-même. Un tri des exilé·es s’est opéré à la frontière entre l’Ukraine et la Pologne, sur la base de la nationalité ou de la couleur de peau, au point que la Haut-Commissaire aux droits de l’Homme de l’ONU s’est dite « alarmée par les informations crédibles et vérifiées faisant état de discrimination, de violence et de xénophobie à l’encontre de ressortissants de pays tiers qui tentent de fuir le conflit en Ukraine [5] ». Ces pratiques ne peuvent être traitées comme de simples bavures ; elles traduisent la conception qu’a l’UE de l’accueil : tapis rouge pour les un·es, barbelés pour les autres.

      Le tri ne s’arrête pas aux frontières : la proposition de la Commission européenne aux États membres d’activer la directive « protection temporaire » prévoyait d’inclure « les personnes qui ont fait de l’Ukraine leur lieu de vie [6] ». Une catégorie que n’a pas retenue le Conseil européen : en plus des Ukrainien·nes, seules seront éligibles les personnes bénéficiant d’une protection en Ukraine. En France, une instruction précise que, pour y prétendre, les autres devront justifier d’une résidence régulière sous couvert d’un titre de séjour permanent en Ukraine (quid des personnes en demande d’asile ?) et de « l’impossibilité de rentrer dans leur pays ou région d’origine dans des conditions sûres et durables ».

      Difficile de ne pas voir, derrière ces pratiques et ces annonces, l’idéologie raciste qui imprègne la politique migratoire menée en Europe et en France, hier portée par l’extrême-droite, aujourd’hui propagée par de nombreux responsables politiques et professionnels des médias. En témoigne, par exemple, les propos d’un sénateur-maire conservateur de la ville de Mikulov en République tchèque, pays qui, soudain, secourt dans l’enthousiasme près de 200 000 Ukrainien·nes alors qu’il avait catégoriquement refusé la prise en charge du moindre réfugié en 2015. C’est qu’alors, explique-t-il, « les gens qui arrivaient en Europe avaient une religion différente et une culture qui n’était pas compatible avec la nôtre [7] ». Une analyse que partagent manifestement les États membres de l’UE sans s’autoriser à le reconnaître…

      Notes

      [1] France Info, « Guerre en Ukraine : comment l’accueil des réfugiés se prépare en Europe », 24 février 2022.

      [2] Marlène Schiappa, interviewée par France Info, 8 mars 2022. Idem pour les citations suivantes.

      [3] France Info, « Réfugiés ukrainiens : “Les capacités d’accueil seront trouvées”, assure le directeur général de l’Office français de l’immigration et de l’intégration », 28 février 2022.

      [4] Emmanuel Macron, au cours d’une allocution télévisée le 16 août 2021.

      [5] ONU info, « Guerre en Ukraine : des dizaines de millions de personnes en “danger de mort”, prévient Michelle Bachelet », 3 mars 2022.

      [6] Commission UE, « Ukraine : la Commission propose une protection temporaire pour les personnes fuyant la guerre en Ukraine, et des lignes directrices concernant les vérifications aux frontières », 3 mars 2022.

      [7] Le Monde, « Submergée par les réfugiés ukrainiens, la République tchèque ne veut pas entendre parler de “quotas” européens », 21 mars 2022.

      https://www.gisti.org/spip.php?article6793

    • #Moldavie : racisme à l’accueil pour les #Roms d’Ukraine qui fuient la guerre

      Tous les réfugiés d’Ukraine ne sont pas accueillis de la même façon. En Moldavie, les membres de la communauté rom doivent faire face au racisme et à la ségrégation. Le rapport accablant de Human Rights Watch.

      Les autorités moldaves hébergent les réfugiés roms d’Ukraine séparément des autres personnes fuyant la guerre, ce qui constitue un « traitement inégal et discriminatoire », alerte l’organisation Human Rights Watch (HRW), qui a enquêté sur la situation en Moldavie. Le gouvernement aurait même permis et, dans certains cas, demandé aux équipes de bénévoles de refuser les réfugiés roms dans les centres d’accueil étatiques.

      « Les autorités moldaves offrent un soutien très important aux personnes fuyant l’Ukraine, mais cela n’excuse pas la ségrégation des réfugiés roms », dénonce Anastasija Kruope, chercheuse à l’ONG de défense des droits humains. « Peu importe les problèmes économiques et sociaux auxquels la Moldavie fait face, le gouvernement a la responsabilité d’assurer que les réfugiés ne sont pas discriminés sur des bases ethniques. »

      Depuis l’invasion russe le 24 février, 471 000 personnes ont fui l’Ukraine vers la Moldavie, et 87 000 sont restées dans ce pays de 2,6 millions d’habitants, qui est aussi l’un des plus pauvres d’Europe. Depuis la mi-mars, la quasi-totalité des réfugiés roms pris en charge par les autorités moldaves ont été placés dans un bâtiment jusque-là abandonné de la Faculté des Relations internationales (FRISPA) et dans le Manej Sports Arena. Mais des militants de défense des droits des Roms soulignent que les conditions d’accueil au Manej et au centre de Frispa sont « inadéquates » et « pauvres », en tout cas inférieures à celles des autres centres d’accueil.

      Certains administrateurs de ces centres refuseraient les réfugiés roms. Selon des bénévoles qui ont travaillé dans l’accueil des réfugiés, un fonctionnaire gouvernemental a dit aux bénévoles qu’ils devaient confirmer l’ethnie des réfugiés avant de les placer dans des centres pour éviter les problèmes, tout en admettant qu’il s’agissait d’une forme de profilage racial. De fait, les Roms sont catégorisés avant tout comme Roms et non Ukrainiens, quand bien même ils possèdent le passeport ukrainien.

      Des membres du staff du centre MoldExpo, le plus grand centre d’accueil du pays, à Chișinău, rapportent également que les autorités de la ville auraient une politique « non écrite » de refuser presque tous les Roms dans ce centre. Le 2 avril, l’HWR été témoin d’un tel refus opposé à des réfugiés roms arrivant d’Ukraine sous prétexte qu’il n’y avait plus de place dans le centre d’accueil, alors que ce n’était pas le cas.

      Les Roms font toujours face à un profond racisme et des discriminations constantes à la fois en Ukraine, en Moldavie et en Roumanie. On estime à 400 000 le nombre de Roms qui vivaient en Ukraine avant l’invasion russe, le plus souvent dans des conditions de pauvreté élevée, avec peu ou pas d’accès à l’emploi, à l’éducation et au système de santé. Ils sont également souvent victimes de discours de haine et parfois d’attaques violentes dont la justice locale ne se saisit pas sérieusement.

      Certaines réactions des Moldaves accueillant des réfugiés ukrainiens et d’Ukrainiens fuyant la guerre dans leur pays montrent l’étendu du racisme et des préjugés auxquels les Roms font face. « Pas de Roms », indiquent certaines familles pourtant prêtes à héberger des réfugiés ukrainiens à titre privé. « Quand on appelle des centres d’accueil et qu’on leur demande d’héberger un groupe de réfugiés, on nous dit ’Pas de soucis, amenez-les, mais assurez-vous qu’ils ne sont pas roms’, ou ’assurez-vous qu’ils sont ukrainiens’ ou ’blancs’ », rapporte un bénévole qui aide les réfugiés à trouver des lieux d’hébergement. « Un jour, on nous a demandé s’ils étaient des ’purs ukrainiens’. »

      Selon des activistes de défense des droits des Roms, certains réfugiés roms sont retournés en Ukraine, car ils ne trouvaient pas d’hébergement dans les centres d’accueil ou dans des familles en Moldavie. Ils rapportent aussi que des réfugiés ukrainiens non roms ont refusé de rester dans des centres d’accueil avec des réfugiés roms et que des Ukrainiens non roms ont refusé de monter à bord de bus à destination de villes d’Europe avec des réfugiés roms.

      « Les autorités moldaves doivent mettre fin à cette politique officielle ou non officielle de ségrégation des Roms et prendre toutes les mesures nécessaires pour contrer les attitudes discriminatoires contre eux », appelle HRW.

      https://www.courrierdesbalkans.fr/Moldavie-racisme-a-l-accueil-pour-les-Roms-d-Ukraine-qui-fuient-l

    • « Ce que l’Etat a fait pour les Ukrainiens, il peut le faire pour les autres exilés »

      Une #manifestation est organisée par différentes ONG ce samedi à Paris pour dénoncer les conditions d’accueil différenciées entre les réfugiés ukrainiens et ceux venant d’autres pays.

      Deux poids, deux mesures. D’un côté, il y a les réfugiés ukrainiens, arrivés par dizaines de milliers sur le sol français – 100 000 selon les derniers décomptes – depuis le début de l’invasion russe de leur pays et dignement accueillis dans des centres d’hébergement ouverts spécialement pour eux. De l’autre côté, des exilés venant d’autres pays, qui n’ont guère accès à ces foyers.

      C’est contre cette « #politique_migratoire_différentialiste » que des ONG, comme Utopia 56, Médecins du monde, Pantin Solidaire, Paris d’Exil ou Solidarité migrants Wilson, appellent à manifester, ce samedi, à 14 h 30, depuis le centre d’accueil de la Porte de Versailles, à Paris, jusqu’à la préfecture d’Ile-de-France, chargée d’orchestrer les opérations dites de mises à l’abri. Pour que les centaines de migrants sans-abri en Ile-de-France puissent accéder aux centres d’hébergement dédiés aux Ukrainiens, et qui sont désormais « à moitié vides », selon Pierre Mathurin, coordinateur au sein d’Utopia 56. Il explique à Libération les raisons de la mobilisation.

      Pourquoi avez-vous décidé de descendre dans la rue ce samedi après-midi ?

      Depuis le début de l’invasion russe en Ukraine, le 24 février, on se réjouit toutes et tous de l’accueil des réfugiés ukrainiens en France. Mais on demande que cette organisation soit mise en place pour tous les réfugiés sans-abri, et non pas seulement ceux qui viennent d’Ukraine. C’est le message que nous voulons porter ce samedi dans la rue. On veut que l’accès au logement, à la santé, au travail, aux transports publics, à la demande d’asile immédiat et à l’information, qui ont tous été facilités pour les exilés ukrainiens, soient aussi ouverts aux autres réfugiés, quelle que soit leur nationalité. Et ce, d’autant plus qu’aujourd’hui, de moins en moins d’exilés ukrainiens arrivent en France. Les centres d’accueil exclusivement dédiés aux réfugiés ukrainiens se vident.

      Par exemple, dans le #centre_de_premier_accueil de la #Porte_de_Versailles, entre 300 et 500 places sont laissées vacantes chaque nuit. D’autres foyers ferment même leurs portes. Comme les gymnases de Bercy et de la gare de l’Est. C’est pourquoi il est impératif qu’on parle maintenant du problème. On a vraiment très peur que, dans les prochaines semaines, d’autres centres d’hébergement ferment et que, parallèlement, l’Etat fasse comme si ce #dispositif_exceptionnel d’accueil n’avait jamais existé. Pourtant, si, 100 000 places d’accueil ont été ouvertes en l’espace de quelques jours pour les réfugiés ukrainiens. C’est énorme. Ce que l’Etat a fait pour les Ukrainiens, il peut le faire pour les exilés d’autres nationalités. C’est ce qu’on lui demande depuis des années.

      Qu’est-ce que vous répond le gouvernement ?

      Il refuse catégoriquement d’accueillir des réfugiés d’autres nationalités dans ces centres d’hébergement. Nous, les associations venant en aide aux migrants, faisons des tribunes, des lettres ouvertes… mais nous n’avons aucun retour du gouvernement. Depuis des années, l’Etat nous rétorque qu’il n’a pas suffisamment de moyens pour trouver ne serait-ce que quelques centaines de places d’hébergement, et ce sur une temporalité beaucoup plus large. Mais au vu de la réponse du gouvernement face à l’exil migratoire des Ukrainiens, l’ouverture de 100 000 places en quelques jours donc, cela nous prouve que l’État peut le faire. Tout est question de volonté politique.

      A quoi tient, selon vous, cette différence de traitement entre les réfugiés ukrainiens et ceux d’autres nationalités ?

      On a beaucoup de mal à savoir si c’est une question de racisme culturel, de localisation, de proximité des Ukrainiens du territoire français. Mais on a bien du mal à ne pas poser la question du racisme. Elle est même prédominante. C’est parce que les réfugiés ukrainiens ont la peau blanche qu’ils sont mieux accueillis.

      La comparaison la plus frappante peut être faite avec les réfugiés afghans. Seulement quelques mois avant, en septembre 2021, lors de la prise de Kaboul par les talibans et l’exil des Afghans, le gouvernement français parlait de « gestion des flux migratoires » et de « contrôle des frontières ». Seulement quelques centaines de migrants afghans avaient alors bénéficié d’un corridor humanitaire pour être pris en charge en France. Depuis, ce n’est guère mieux. Les réfugiés afghans arrivant sur le sol français sont dans la rue pendant des mois, attendant d’être pris en charge. La politique différentialiste de l’Etat, son refus d’accueillir des réfugiés d’autres nationalités dans les centres d’hébergement dédiés aux Ukrainiens en disent long…

      Concrètement, en quoi consiste cette #différence_de_traitement entre un réfugié afghan et un exilé ukrainien ?

      Quand un exilé ukrainien débarque en France, il va être « récupéré » à la gare par des associations opératrices de l’Etat, puis emmené en bus vers le centre de premier accueil de la Porte de Versailles, dans le XVe arrondissement de Paris. Sur place, en une heure, il va pouvoir, s’il le souhaite, entamer sa démarche de demande d’asile et obtenir un rendez-vous avec France terre d’asile et la préfecture pour trouver un hébergement adéquat. S’il souhaite rester en France, il va avoir accès directement à Pôle emploi. Au centre de la Porte de Versailles, il aura aussi accès à une crèche à disposition pour les enfants et à des distributions alimentaires en continu. Une prise en charge globale donc. A aucun moment, les réfugiés ukrainiens ne dorment dans la rue ou ne sont pas accompagnés dans leurs démarches. C’est ce dispositif-là qui doit être octroyé à tous les réfugiés.

      Car les exilés d’autres nationalités, quand ils arrivent en France, n’ont aucune structure vers qui se tourner. Ils ne bénéficient pas de la gratuité des transports, dorment souvent dans la rue, n’ont pas accès aux informations, doivent appeler des numéros surchargés pour entamer leur demande d’asile… Au mieux, ils croisent, au petit bonheur la chance, des associations qui peuvent les aider et leur donner un kit de survie ou une soupe. Bref, ils subissent une accumulation d’entraves.

      https://www.liberation.fr/societe/ce-que-letat-a-fait-pour-les-ukrainiens-il-peut-le-faire-pour-les-autres-
      #France #deux_poids_deux_mesures

    • À #Paris, les actions se multiplient pour obtenir un hébergement aux exilés

      Dimanche 17 juillet, des membres de #La_Chapelle_debout et des habitants de l’Ambassade des immigrés ont occupé le centre d’accueil pour les réfugiés ukrainiens, quasi vide, pour dénoncer les inégalités de traitement entre les exilés. Mardi, ils avaient rendez-vous à la préfecture.
      Ils ont déjà occupé les locaux vides d’une société d’assurance situés #rue_Saulnier, dans le IXe arrondissement de Paris, en avril dernier. Cette fois, le collectif La Chapelle debout, qui vient en aide aux exilé·es de la capitale depuis 2015, a choisi d’investir le centre d’accueil dédié aux réfugié·es ukrainien·nes #Porte_de_Versailles, dans le XVe arrondissement, dimanche 17 avril.

      Les bénévoles étaient accompagnés des habitant·es de l’#Ambassade_des_immigrés (du nom de ce nouveau lieu de mobilisation né après l’#occupation du bâtiment de la rue Saulnier) et d’exilés à la rue, lorsqu’ils sont entrés dans le centre d’accueil, où la fréquentation a fortement baissé au cours des dernières semaines selon plusieurs sources.

      « Notre action avait un double objectif, explique Yacine*, membre de La Chapelle debout. D’abord, dénoncer les #différences_de_traitement entre les exilés et le racisme qui en découle, sachant que le centre dédié aux Ukrainiens est presque vide et que pendant ce temps, d’autres exilés vivent dehors depuis des mois, voire des années ; et obtenir d’autre part des solutions d’hébergement pour les personnes confrontées à la rue. »

      La semaine précédente, déjà, plusieurs collectifs et associations d’aide aux migrant·es comme Utopia 56, Solidarité migrants Wilson ou Médecins du monde manifestaient depuis le centre d’accueil des Ukrainien·nes jusqu’à la préfecture de région, avec le même credo : « Hébergement pour tous·tes, quelle que soit leur nationalité ».

      Ce mardi 19 juillet, une délégation composée de deux exilés, un Éthiopien et un Soudanais, ainsi que de trois membres de La Chapelle debout, a été reçue par Cécile Guilhem, sous-préfète et cheffe de cabinet du préfet de la région Île-de-France, ainsi que par deux responsables de la Direction régionale et interdépartementale de l’hébergement et du logement (Drihl).

      Dimanche, le directeur adjoint du cabinet du préfet s’était lui-même rendu sur place, au centre pour réfugié·es ukrainien·nes, pour tenter de dénouer la situation. « Des exilés ont pu échanger avec lui et lui signifier qu’ils ne remettaient pas en doute le droit des Ukrainiens à un hébergement, mais qu’ils attendaient simplement d’avoir les mêmes droits, poursuit Yacine. Eux sont accueillis en France par la rue et le harcèlement des policiers, qui donnent des coups de pied dans leurs tentes tôt le matin ou les déchirent. »

      Le sous-préfet dit « avoir bien pris en compte » leur situation

      Les participant·es à l’action – des réfugié·es, des demandeurs et demandeuses d’asile, des dubliné·es (à qui la France demande de retourner dans le premier pays européen par lequel ils et elles sont arrivé·es pour l’examen de leur demande d’asile) ou des sans-papiers – ont accepté de quitter les lieux après discussion avec le directeur adjoint de cabinet du préfet de région, aux alentours de 22 heures dimanche, alors que les forces de l’ordre étaient postées à l’entrée du centre.

      400 personnes étaient présentes, dont des femmes, parfois enceintes, et des enfants, de nationalité soudanaise, somalienne, érythréenne, tchadienne, malienne ou afghane, et une cinquantaine de Français venus en soutien.

      Dans une vidéo, le sous-préfet, Christophe Aumonier, s’adresse à eux et dit « avoir bien pris en compte » leur situation. « Il n’y a pas de solution miracle. Ce sur quoi je peux m’engager, c’est qu’on essaiera de traiter chacun des cas. Mais il faut parfois être patient car nous avons des difficultés pour mettre tout le monde à l’abri. Mais nous nous y sommes engagés », assure-t-il.

      Selon nos informations, la délégation qui s’est présentée au rendez-vous en préfecture ce jour prévoyait d’insister sur un point : obtenir des solutions « durables » pour les personnes ayant participé à l’action, y compris les habitant·es de l’Ambassade des immigrés, qui occupent depuis quatre mois le bâtiment situé rue Saulnier.

      « Le rendez-vous a donné lieu à des échanges tendus mais respectueux, même si deux logiques s’opposent, la démocratie sociale contre une logique gestionnaire, comptable et technocratique, expliquent des membres de La Chapelle debout présents à celui-ci. Ils nous ont proposé de travailler sur une liste qu’on doit leur envoyer et qu’ils se sont engagés à étudier attentivement. On doit se revoir pour en discuter. » La délégation, qui dit ne pas avoir obtenu de garanties, se dit prête à organiser d’autres actions ailleurs si besoin.

      Contactée, la préfecture de la région Île-de-France n’a pas répondu à nos questions à l’heure où nous publions cet article.

      Cela concerne plus de 300 personnes, précise Yacine, pour qui l’action est une « réussite ». « On a occupé la salle de vie et les dortoirs, qui étaient majoritairement inoccupés. Il y avait quelques Ukrainiens, qui ont été évacués par des membres de l’association Coallia, qui gère le centre. »

      À leur arrivée au centre, les exilé·es ont découvert comment tout était mis en œuvre pour permettre aux Ukrainien·nes de faire leurs démarches sur place, dans des délais restreints – comme l’a documenté Mediapart, l’organisation de leur accueil s’est faite au détriment des autres et de manière décousue –, à l’heure où les arrivées de réfugié·es ukrainien·nes se font de moins en moins nombreuses depuis le mois de mars.

      Services de la préfecture, de l’Office français de l’immigration et de l’intégration, de l’assurance-maladie et de Pôle emploi… « On a vu qu’il y avait également un service permettant aux Ukrainiens qui ne veulent pas rester en France de remplir une demande pour aller dans un autre pays européen. Pour les autres exilés, c’est incompréhensible, en particulier les dublinés, à qui on ne laisse pas le choix du pays où il peuvent demander l’asile. Les gens sont vraiment affectés par ces différences de traitement. »

      https://www.mediapart.fr/journal/france/190722/paris-les-actions-se-multiplient-pour-obtenir-un-hebergement-aux-exiles

      #résistance #France

    • How the EU Failed Ukraine’s International Students

      Tracing the fate of a cohort of non-white students who fled Russia’s invasion to be confronted with Europe’s hostile environment

      The EU’s decision to offer unprecedented rights and freedoms to refugees fleeing Russia’s invasion of Ukraine less than a month after the war began was widely celebrated. What was not said at the time was that the policy was drawn up to intentionally exclude a considerable number of non-European refugees fleeing the war.

      This double standard was not an accident. The first draft of the legislation implementing the Temporary Protection Directive (TPD), a measure designed to provide protection for at least one year, contained a clause stating that all foreigners residing in Ukraine on a long-term basis – regardless of their country of origin – would be granted the same rights as Ukrainians. When the text came out of the EU council meeting this clause was gone.

      This decision has had very direct consequences on the lives of many of the nearly half a million third-country nationals who were living in Ukraine before the war. The data we collected reveals that only 54,443 of these people were offered temporary protection in the EU. While some 5 million Ukrainians got refuge and rights, many non-Ukrainians were given time limits on how long they could stay, while others were refused any form of protection, rendering them undocumented.

      The tens of thousands of African and South Asian students enrolled in Ukrainian universities on student visas fell outside the scope of the TPD. We spoke to more than 30 students who spent months applying to European universities, only to be told they do not meet visa conditions and language requirements. Some, already traumatised during the invasion, found themselves homeless, while others are facing imminent deportation. While native Ukrainians were met with open arms, many of their non-white classmates met with discrimination and xenophobia.
      METHODS

      In tandem with diaspora groups, activists and lawyers, we spent the past eight months following students who fled Ukraine. Through phone calls, voice-notes and text messages, people shared updates of their attempts to settle in EU countries as they struggled to navigate visa bureaucracies and access accommodation. Students shared email exchanges with European universities and rejection letters from the same institutions that accepted several of their Ukrainian peers.

      We obtained internal documents written by German diplomats on 4 March ahead of the implementation of the TPD revealing that Poland, Austria and Slovakia were among the countries that objected to including third-country nationals in the directive.

      Our partner publications reached out to their individual governments and university authorities to find out what protection measures had been implemented for third-country nationals. This revealed that a myriad of often contradictory rules were being applied. A non-bureaucratic solution was found for Ukrainians, while pragmatic reception and recognition for non-Ukrainians was denied.

      We analysed and collected available data from the European Commission, the International Organisation for Migration (IOM) and national governments, revealing that – despite 325,000 third-country nationals fleeing Ukraine to neighbouring countries since the onset of the war, only 54,443 of them were offered temporary protection in Europe. Of those, we found that nearly a quarter were granted TPD in Portugal, the only country to give the same rights to non-Ukrainians, including international students who were in Ukraine on short-term (one year) visas.
      STORYLINES

      According to NIDO, the Nigerians in diaspora organisation, many international students who fled Ukraine have found themselves homeless, while others are facing imminent removal. Many have been stripped of the rights they previously had in Europe and can no longer access higher education. “We receive dozens of calls from desperate students every day asking for help with accommodation and food, as well as from depressed parents who spent all their money on their children’s tuition in Ukraine. It is so bad that some have told us they were considering suicide”, says Chibuzor Onwugbonu, a volunteer at NIDO.

      In Germany, rights granted to third-country nationals fleeing the conflict vary between federal states. While some cities granted six-month non renewable visas to international students who could prove they were enrolled in Ukrainian universities, others failed to put in place adequate permits. In one instance, a student moved between six different cities and spent months struggling to find accommodation before she ended up sleeping for weeks in Berlin Central train station.

      In the Netherlands, immigration authorities announced that from 19 July onwards they would stop processing applications from non-Ukrainians with safe countries to return to and that those who had obtained the status would not be allowed to apply for renewal. The Dutch government has described the act of these individuals applying to stay in the country after fleeing Ukraine as an “abuse” of the system.

      In France, only 200 international students have been accepted into university. The requirements for entry include demands for a bank account with at least €3,750 and proof that accommodation has been secured (or €7,500 for those who are yet to find housing). These are the regular requirements for international students in France, but they have been waived for Ukrainian students fleeing the war. At least 10 non-Ukrainian students received “obligations to leave the French territory”, a letter threatening them with deportation.

      Dutch MEP Thijs Reuten told us that omitting international students from the protection directive was not an oversight, but a decision aimed at excluding non-Europeans, suggesting an element of racism: “It seems almost certain to me that the countries of origin of the international students played a role”. Cornelia Ernst, German MEP, said the restriction was “solely a political decision”, which was “strongly criticised at the time”, adding: “In practice, this led to first- and second-class protection seekers fleeing Ukraine – an unacceptable discrimination.”

      We also reported on the difficulties facing third-country nationals attempting to join their families in the UK. Deborah, a 19-year old Nigerian medical student who was studying in Kharkiv, has spent months trying to join her parents and siblings in the North of England. Despite fleeing war, and her family being settled in the UK, the British government’s scheme for people fleeing the Russian invasion does not accept applicants who are not Ukrainian or related to a Ukrainian national. UK government data shows that even those who are related to Ukrainians – indicating that they should be eligible – have a far higher refusal rate under the scheme than Ukrainian nationals, at 14 per cent compared with 0.4 per cent.

      https://www.lighthousereports.nl/investigation/how-the-eu-failed-ukraines-international-students

    • Collins, réfugié d’Ukraine en #Allemagne : « Je suis passé d’un étudiant à un gars qui cherche un endroit où dormir »

      Fuyant la guerre en Ukraine, l’étudiant nigérian Collins Okoro a dû faire preuve d’abnégation en arrivant en Allemagne au début du conflit. Entre les méandres administratifs et la recherche désespérée d’un logement, il raconte les hauts et les bas de ses premiers mois dans le pays.

      "C’est remarquable à quel point le vide et le silence peuvent exprimer tant de choses. Après tout ce silence et cette spirale de vide sans fin, je choisis de parler. Car je pense qu’il y a de la lumière au bout du tunnel.

      Avant d’arriver ici, j’aurais prétendu avec assurance que lorsque vous venez d’Ukraine, vous avez le temps de vous installer, de prendre du recul et de trouver votre place. Aujourd’hui, je ne dirais plus la même chose. Je n’avais manifestement pas compris ce que pouvait être la vie en Allemagne.
      Pas d’arrivée triomphale

      Après mon arrivée à Berlin, avec très peu d’argent et juste quelques vêtements, j’ai tenté de vivre au jour le jour, en gardant toute ma tête, sans dépenser d’argent, en essayant de vivre dans le présent. J’avais de l’espoir, ce qui était très important pour moi.

      Lorsque j’ai débarqué à la gare centrale de Berlin, j’ai vu des affiches avec le drapeau ukrainien. Comme je ne savais pas lire l’allemand, je n’ai pas compris qu’il s’agissait d’indications pour pouvoir obtenir de l’aide.

      J’ai suivi un groupe d’Ukrainiens, un peu comme un espion, jusqu’à ce qu’ils me conduisent vers d’autres personnes. C’était le vrai début de mon séjour en Allemagne. J’ai rencontré une femme étonnante, assise devant une bannière représentant des BIPOC (BIPOC est un acronyme anglophone et vient de People of Color, qui fait notamment référence aux noirs). Par rapport aux autres stands, celui-ci n’avait pas été installé par les autorités, mais par des habitants, qui faisaient de leur mieux pour apporter leur aide.

      Je n’ai jamais été du genre à engager la conversation lorsque je rencontre quelqu’un pour la première fois. Mais cette-fois, j’y suis parvenu, et je serai toujours reconnaissant d’avoir eu cette conversation. La dame que j’ai rencontrée, Lily Ackerman, est une Américaine d’une quarantaine d’années. C’est une personne que je n’oublierai jamais. Après notre conversation, j’ai décidé de l’aider au stand. L’aide pour les noirs était plutôt limitée.

      Au cours de mon voyage pour quitter l’Ukraine, j’ai réalisé que nous n’avions jamais fait partie du récit de l’Union européenne. Nous n’étions que des notes de bas de page, que seuls certains lecteurs se souciaient de consulter. Ce constat de la ségrégation m’a motivé à agir.
      Des formations hors de portée

      C’est drôle comme votre statut peut changer en quelques jours. Un peu comme un arbre puissant que l’on transforme en une simple chaise de jardin pour enfants. Je suis passé du statut de mannequin, acteur et étudiant en droit avec des perspectives d’avenir à celui d’un simple gars qui cherche un endroit où pouvoir se reposer. 

      Je n’avais pas de travail, pas d’école, pas de maison, pas d’amis, pas de famille, pas de perspective. On ne peut pas être plus seul que ça.

      Sans logement stable à Berlin, je suis passé d’un hôte bienveillant à un autre, toutes les deux ou trois semaines. J’ai cherché des écoles mais elles exigeaient un compte bloqué de 10 000 euros et un niveau d’allemand B2 pour pouvoir s’inscrire. 

      Il m’était impossible de réunir cette somme. De plus, je n’avais jamais été en Allemagne et n’avais aucune connaissance de la langue allemande. Alors j’ai essayé de trouver une issue en me tournant vers d’autres pays.

      Je me souviens avoir postulé pour une école de théâtre aux États-Unis. J’ai réussi mon entretien, mais les frais de scolarité dépassaient largement mes capacités financières. J’ai tenté en vain de trouver un emploi pour gagner un peu d’argent, de quoi me débrouiller. 

      Finalement, à force de faire des recherches et de glaner des conseils, je suis tombé sur une organisation qui s’est intéressée à mon cas. Il s’agit de BIPOC Ukraine and Friends.

      Lily m’a informée de leur première réunion dans un café. J’ai obtenu plein d’informations sur la façon de naviguer dans le système allemand et de s’en sortir.
      Obstacles bureaucratiques

      Comprendre le fonctionnement d’un gouvernement est une chose. Comprendre comment les fonctionnaires travaillent en est une autre. J’ai appris à mes dépens. Parfois, c’est juste de la bureaucratie. D’autres fois, ce sont des comportements individuels.

      A Berlin, j’ai voulu m’enregistrer dans un centre en tant que réfugié d’Ukraine. 

      À mon arrivée, tout s’est bien passé, jusqu’à ce que j’entre dans le bureau d’une personne qui m’a dit que mes documents étaient soi-disant « incomplets ». Il m’a « conseillé » de demander l’asile ou de retourner en Ukraine, pour obtenir mes documents. Ce n’est que lorsque je suis revenu un autre jour avec des lettres d’un avocat que j’ai été autorisé à m’inscrire.

      J’ai appris que je devais me battre pour passer les étapes. Je me suis engagé en participant à des manifestations et des rassemblements, des lettres ouvertes et des points d’information. J’ai pris la parole lors de réunions, devant des auditoires et j’ai essayé d’éclairer les gens sur la façon dont les minorités ont été traitées.

      Après tout ce temps, ma situation reste floue. Mon deuxième et, je l’espère, dernier rendez-vous avec les services d’immigration approche. J’ai l’impression que nous devons toujours encore faire nos preuves pour obtenir des améliorations dans nos vies. Dans l’ensemble, je considère cependant toute cette phase de ma vie comme une nouvelle expérience. Je ne connais personne qui souhaite s’enfouir vers un endroit inconnu, sans rien emporter, sans rien prévoir. Et c’est ce que j’ai fait.

      J’ai beaucoup appris et j’ai beaucoup gagné. Je me suis fait des amis et j’ai appris ce que sont la joie, l’amour et la paix. J’ai un petit boulot maintenant et un endroit où me poser. J’en suis reconnaissant. Il m’a fallu vivre une guerre pour comprendre et apprécier ce qu’est la paix. Il m’a fallu beaucoup de tristesse et de colère pour comprendre et apprécier ce qu’est la joie. Enfin, il m’a fallu ressentir beaucoup de haine et de peur pour comprendre et apprécier ce qu’est l’amour. Comme je l’ai dit au début, je peux voir la lumière au bout du tunnel".
      https://www.youtube.com/watch?v=DF6dmSgrXyw&embeds_euri=https%3A%2F%2Fwww.infomigrants.net%2F&featu


      J’ai beaucoup appris et j’ai beaucoup gagné. Je me suis fait des amis et j’ai appris ce que sont la joie, l’amour et la paix. J’ai un petit boulot maintenant et un endroit où me poser. J’en suis reconnaissant. Il m’a fallu vivre une guerre pour comprendre et apprécier ce qu’est la paix. Il m’a fallu beaucoup de tristesse et de colère pour comprendre et apprécier ce qu’est la joie. Enfin, il m’a fallu ressentir beaucoup de haine et de peur pour comprendre et apprécier ce qu’est l’amour. Comme je l’ai dit au début, je peux voir la lumière au bout du tunnel".

      https://www.infomigrants.net/fr/post/46084/collins-refugie-dukraine-en-allemagne--je-suis-passe-dun-etudiant-a-un

  • Communiqué de presse de l’association #Refuges_Solidaires à #Briançon, 24.10.2021 :
    Refuges Solidaires a décidé d’interrompre totalement l’#accueil aux #Terrasses_Solidaires à partir d’aujourd’hui

    #fermeture #asile #migrations #réfugiés #Hautes-Alpes #Briançonnais

    –-

    ajouté à la métaliste sur le Briançonnais
    https://seenthis.net/messages/733721
    et plus précisément ici :
    https://seenthis.net/messages/733721#message930101

    • Briançon : ils aident les exilés, afin qu’ils poursuivent leur route

      Ce lundi, plusieurs dizaines de bénévoles ont passé la journée à tenter d’aider les personnes migrantes à poursuivre leur chemin vers d’autres villes voire d’autres pays. À la gare, environ 200 étaient dans l’attente d’un billet de train et d’un test covid.

      https://www.ledauphine.com/societe/2021/10/25/hautes-alpes-briancon-ils-aident-les-exiles-afin-qu-ils-poursuivent-leur

    • 25.10.2021 :

      Le dimanche 24 octobre, l’association Refuges Solidaires a décidé de fermer les portes du nouveau refuge en raison de sa surpopulation. Alors que le lieu est initialement prévu pour accueillir 80 personnes, plus de 200 s’y trouvaient hier. Les arrivées sont en augmentation depuis le printemps et la prise en charge est assurée uniquement par les bénévoles. Ce nombre important de personne menace la sécurité et l’accueil digne des personnes exilées.

      C’est la raison pour laquelle le refuge a, hier, le lendemain de son inauguration, décidé d’arrêter momentanément et symboliquement son activité afin d’interpeller les autorités : la Préfecture, la Ville et l’Etat. Nous, citoyens et associations solidaires du briançonnais, exigeons la mise en place de solutions d’hébergements d’urgence complémentaires dans les plus brefs délais afin que le refuge puisse de nouveau accueillir les exilés dans de bonnes conditions.

      Au moment où nous écrivons ce texte, bénévoles et exilés occupent toujours la gare de Briançon. Le Maire de Briançon Arnaud Murgia a condamné notre action. La Préfecture n’a pas formulé d’éléments de réponse et est même allé jusqu’à interdire à la Croix-Rouge d’effectuer des test Covid-19 pendant une bonne partie de la journée pour les personnes exilées, ce qui les empêche de se rendre à Grenoble ou à Paris. Les guichets SNCF sont également restés fermés toute la journée. La situation évolue constamment et nous vous tiendrons informés sur les réseaux sociaux (retrouvez tous les liens juste au dessus de ce paragraphe).

      Ce soir, nous entammons notre deuxième nuit dans la gare.
      Venez nous prêter main forte ce soir et/ou demain
      matin dès 05h00 pour soutenir les exilés et notre message.

      Retrouvez ci-dessous les deux communiqués de presse du 24 et du 25 octobre de l’association Refuges Solidaires, ainsi que quelques photos de cette nuit.

      –-> Reçu via la mailing-list de Tous Migrants, 25.10.2021

    • Les personnes exilées qui dormaient dans la gare de Briançon depuis dimanche soir ont été accueillies dans l’Eglise Sainte Catherine par le prêtre de Briançon et l’évêque de Gap et d’Embrun.

      Nous vous donnons finalement rendez-vous demain
      matin à 08h30 devant l’Eglise Sainte Catherine (rue Alphand)

      Pour rappel, Refuges Solidaires a décidé le 24 octobre, le lendemain de son inauguration, d’arrêter momentanément et symboliquement son activité en raison de sa surpopulation et afin d’interpeller les autorités : la Préfecture, la Ville et l’Etat. Nous, citoyens et associations solidaires du briançonnais, exigeons la mise en place de solutions d’hébergements d’urgence complémentaires dans les plus brefs délais afin que le refuge puisse de nouveau accueillir les exilés dans de bonnes conditions. Depuis plus de 5 ans, l’accueil des exilés est exclusivement effectué par des bénévoles solidaires.

      –-> Reçu via la mailing-list de Tous Migrants, 26.10.2021

      #église

    • Briançon : après la fermeture d’un refuge, des migrants hébergés dans une église

      Depuis la fin du week-end du 23 octobre, la situation est tendue à Briançon, dans les Hautes-Alpes. L’association qui hébergeait environ 200 migrants, afghans pour la plupart, a dû fermer ses portes. Ils ont été hébergés dans une église.

      C’est un hébergement d’urgence à même le sol dans une église de Briançon (Hautes-Alpes). Ils sont 150 à 200 migrants, des familles, des hommes seuls, principalement afghans et iraniens, à qui un prêtre a ouvert les portes de la paroisse Sainte-Catherine, propriété du diocèse. « Je suis heureux que ça contribue à une parole commune, que ça permette à des gens de toucher du doigt cette réalité, par la migration, tant qu’on n’a pas rencontré les personnes, on ne sait pas trop ce qu’on dit », explique le père Jean-Michel Bardet.
      Bras de fer avec la préfecture

      Ces migrants venaient chercher à Briançon un hébergement temporaire. Une association disposait de 80 places, mais a très vite été débordée par le nombre, et a décidé de fermer provisoirement le local. Dimanche soir, 230 personnes ont dû dormir à la gare. « On ne peut pas ouvrir, sinon on va tomber dans les mêmes travers. Accueillir, accueillir, accueillir encore et exploser en vol », prédit Jean Gaboriau, administrateur de l’association Refuges Solidaires. L’organisme demande plus de places à l’État. Hors de question, pour la préfecture.

      https://www.francetvinfo.fr/monde/europe/migrants/briancon-apres-la-fermeture-d-un-refuge-des-migrants-heberges-dans-une-

    • APPEL A SOUTIEN A DIFFUSER DANS VOS RESEAUX SOLIDAIRES !

      Aujourd’hui, le 2 novembre 2021, la situation dans le Brianconnais ne
      cesse de se compléxifier.

      La frontière franco-italienne continue d’être le théâtre d’inégalités
      toujours plus marquées entre les personnes exilées et les Européens.nes.

      Alors que près de 50 personnes passent cette frontière quotidiennement,
      dans l’espoir de pouvoir demander l’asile, parfois dans d’autres pays
      européens, l’Etat Français continue son travail méthodique de
      précarisation et d’enfermement des personnes sans papiers.

      Chaque année, depuis 5 ans, l’arsenal répressif ne cesse d’augmenter,
      rendant les conditions de passage de plus en plus dangereuses.
      Certaines lignes de bus locales sont modifiées, rendant la traversée
      plus complexe. Ailleurs, les services sociaux ou sanitaires sont
      interdits d’exercer leurs fonctions auprès des personnes exilées et les
      soutiens logistiques sont très largement entravés, les rafles se
      multiplient partout en France.

      Cette persécution étatique sur des personnes qui voyagent, pour
      certaines, depuis plusieurs années dans des conditions extrêmement
      difficiles entraîne de nombreuses tensions et difficultés à la fois en
      Italie mais aussi en France, dans un contexte qui n’était déjà pas
      facile à solutionner.
      La Préfecture, en empêchant minutieusement les personnes de se déplacer
      librement, alimente et cristallise des tensions qui ne servent qu’a
      légitimer un discours raciste et xénophobe qui ne manque pourtant pas de
      relais.

      Dans ce contexte extrêmement tendu, le refuge solidaire de Briançon a
      momentanément interrompu l’accueil aux exilés le soir du 24/10/21,
      invoquant un manque de sécurité et de dignité pour les personnes
      accueillies là bàs. Cette tentative de « rapport de force » avec l’état
      Français, dans l’attente de l’ouverture d’un second lieu d’accueil
      d’urgence pris en charge par l’état, s’est traduite par les occupations
      de la gare SNCF de Briançon ainsi qu’une salle communalle vide. Les
      seules réponses des autorités auront été l’évacuation de ces lieux et
      une fois de plus l’arrivée de prés de 200 gendarmes mobiles
      supplémentaires dans le Briançonnais ainsi que 10 agents
      supplémentaires à la police aux frontières de Montgenèvre, faisant
      gonfler les effectifs du corps répressif à près de 400 individus.
      De nombreuses personnes continuent de tenter leur chance sur ces
      chemins. La traque en montagne, encore une fois renforcée par des moyens
      humains et technologiques toujours plus sophistiqués va inévitablement
      contribuer à pousser les exilées à prendre encore plus de risques.

      Nous, des personnes solidaires auto-organisées, les collectifs et
      associations du Briançonnais, lançons un appel d’urgence afin de
      mobiliser des militant.es dans les plus brefs délais pour :

      1- Continuer d’organiser une solidarité d’urgence sur les besoins
      élémentaires des exilé.es qui arrivent à Briançon, informer ces
      personnes, relayer des informations et être présent.es face au non
      respect des droits des personnes exilées par les forces de l’ordre.

      2- Organiser des permanences jours et nuits, en vue d’une prochaine
      réouverture du refuge solidaire (et/ou d’un second lieu d’accueil
      d’urgence) : sécurité des personnes accueillies, logistiques diverses et
      liens avec les maraudes en montagne.

      3- Partout sur le territoire, accueillir, informer et soutenir les
      personnes sans papiers.

      4- Un rassemblement aura lieu à Briançon le 13 novembre 2021, RDV à 14h
      devant la médiathèque !!

      Toutes les compétences et les motivations de votre part sont les
      bienvenues, notre énergie n’est pas infinie.

      CONTRE LES POLITIQUES RACISTES DE L’ÉTAT ET SES FRONTIERES, MOBILISONS
      NOUS !!!!!

      Reçu par email le 3 novembre 2021.

    • « Personne ne doit rester dehors » : les solidaires de Briançon en détresse

      La ville frontalière de Briançon, dans les Hautes-Alpes, est un point de passage important pour les migrant.es arrivant de l’Italie à travers les montagnes. Face à des arrivées de plus en plus importantes, le « Refuge Solidaire » a fermé ses portes dimanche 24 octobre. Depuis, les solidaires mènent un bras de fer avec mairie et préfecture.

      Le Refuge Solidaire de Briançon avait à peine deux mois de vie lorsqu’il a fermé ses portes, le 24 octobre dernier. Le lieu d’accueil pour les migrant.es qui traversent tous les jours la frontière franco-italienne sur le col du Montgenèvre avait ouvert fin août, après presque une année de confrontation avec la mairie de la ville, passée LR en 2020. Dès l’automne 2020, le maire #Arnauld_Murgia avait souhaité fermer le précédent lieu d’accueil, ouvert depuis 2017, mais avait dû faire marche arrière face à la mobilisation de la société civile, et fournir un nouveau lieu d’accueil à l’association TousMigrants et aux autres solidaires de Briançon. Les événements de fin octobre ont précipité la situation et la dégradation des rapports entre mairie, État, et solidaires.

      Le nouveau refuge, les « Terrasses Solidaires », a arrêté ses activités en raison d’une pression prolongée sur le lieu, qui accueillait plus de 250 personnes dans la nuit entre le 23 et le 24 octobre, alors que la jauge maximale était de 80 personnes. Le refuge a donc fermé pour « des raisons de sécurité », peut-on lire dans le communiqué de presse de TousMigrants. Pour Max, membre de l’association, « on ne pouvait simplement pas accueillir 250 personnes dans un lieu qui peut en héberger au maximum 80. Le fameux soir du 23, on marchait littéralement l’un sur l’autre dans le refuge. S’il y a un incendie, on est tous morts. On ne peut pas, c’est tout ».

      Après la fermeture du refuge, le soir du 24, plus de 200 personnes se sont rendues à la gare de Briançon dans le but de quitter la ville, mais la #SNCF a fermé ses guichets. C’est ainsi, selon les comptes-rendus qu’en font les solidaires, qu’a commencé « l’occupation » de la gare, qui n’a duré qu’une nuit. Les bénévoles ont continué à assurer un repas chaud et des couvertures aux personnes sur place. Le lendemain, des bus ont été affrétés par la préfecture, en direction de Marseille et Lyon : « On a eu à chaque fois l’information à la dernière minute de la préfecture, affirme Sam, du collectif informel de solidaires briançonnais qui s’est constitué dans les derniers jours, mais on n’avait pas la garantie que les gens n’auraient pas été arrêtés à leur arrivée, donc on a temporisé et on a alerté nos réseaux entre-temps. Il y a un bus pour Lyon qui a été un peu chaotique parce que la police les attendait à l’arrivée, donc des migrant.es ont eu peur et sont parti.es. Sinon, il y a eu une vingtaine de personnes interpellées par la PAF à Lyon, qui étaient parties avant les bus de la préfecture, mais ils et elles sont sorti.es sans OQTF, sans rien. »

      Un accueil difficile

      Cette confusion reflète l’état chaotique du système d’accueil français, et s’est prolongée dans la suite du voyage des migrant.es. À Paris, ce sont des solidaires, collectifs ou individus, qui ont pris en charge l’accueil des dizaines de personnes arrivant de Briançon. Lucie fait partie d’un collectif occupant un local à #Pantin, dans la banlieue parisienne : « Nous avons su la situation à Briançon à travers des amis, qui nous ont dit que deux familles seraient arrivées le 26 en Gare de Lyon. Alors on a dit OK pour les héberger. Finalement ils étaient 15, avec des bébés. Ils et elles ne sont resté.es que deux nuits, et sont maintenant en Allemagne. Nous nous sommes démerdé.es seul.es, nous n’avons eu aucun contact avec d’autres collectifs ou organisations ».

      Les solutions bricolées pour accueillir au mieux les personnes en détresse sont la spécialité des Briançonnais.es, qui agissent solidairement avec les migrant.es depuis longtemps, mais qui ont décidé d’en arrêter là en l’absence de réponses de la part de l’État : « Ça fait des années qu’on demande à l’État, à la préfecture, d’ouvrir un autre lieu pour accueillir ces gens, on n’a pas de réponse » nous dit Max, de Refuges Solidaires. Dans ce contexte, la fermeture du refuge a engendré un #bras_de_fer avec la préfecture et la mairie autour de l’accueil des migrant.es. Le 30 octobre, solidaires et migrant.es ont occupé une ancienne école, vide après avoir été utilisée comme centre de vaccination contre la Covid-19. L’intervention de la gendarmerie a mis fin à cette occupation dans les 24 heures, et les solidaires restent encore en attente d’une solution durable pour l’accueil des migrant.es.

      Pour le moment, ils et elles sont hébergées dans la #salle_paroissiale #Sainte-Thérèse, mise à disposition par le prêtre de l’église Sainte-Catherine, et dans des tentes montées pour l’occasion, mais la situation météorologique s’empire, les arrivées ne cessent pas et la situation sur le terrain se complique : « Il y a environ 80 personnes maintenant, dont une cinquantaine qui sont arrivé.es cette nuit. En moyenne, les gens restent deux, trois jours, mais ça implique de devoir prendre des billets de train, de faire des #tests_Covid pour pouvoir prendre le train et cetera. Mais ça fait trois jours que la préfecture bloque la Croix-Rouge, donc il n’y a que Médecins du monde qui paie des tests ». Face à cette situation compliquée, même le discours de l’église se durcit, comme en témoignent les mots du curé de Briançon, le père #Jean-Michel_Bardet, à l’encontre des autorités : « Mais gare ! Si la parole n’est pas honorée… c’est alors l’expression de la désespérance, d’une colère qui trouvera souvent son expression dans une violence amère, et des errements accablants ».

      Que fait la #police ?

      La réponse de la préfecture, affidée à un communiqué de presse relayé le 26 octobre, a été le doublement des effectifs de la #gendarmerie_mobile à Briançon, passés de un à deux escadrons, soit 200 effectifs. La #police_aux_frontières a aussi bénéficié d’une augmentation des effectifs de dix unités, qui s’ajoutent aux cinquante fonctionnaires déjà affecté.es, comme annoncé par le directeur central de la #PAF, #Fernand_Gontier, en visite dans la ville le 27 octobre. La préfète des Hautes-Alpes, #Martine_Clavel, n’a engagé aucun dialogue avec les solidaires, qui sont pourtant loin d’être radicalement « anti-flics » et qui, selon Max, communiquaient à la préfecture le nombre exact de personnes présentes au refuge depuis le 24 août, sans avoir de réponses. Au contraire, dans son communiqué de presse, la préfecture estime que la présence même du refuge attire les migrant.es : « La situation actuellement observée à Briançon est liée à un double phénomène : d’une part, au moment où la crise sanitaire est moins aiguë, la reprise des flux migratoires au travers l’Europe par la route des Balkans, avec un niveau se rapprochant de celui de 2019, d’autre part, l’accroissement de l’offre d’hébergement des « Terrasses Solidaires », offre bien identifiée des réseaux de passeurs ».

      C’est la vieille rhétorique des « #pull_factor », les facteurs qui augmenteraient les chances de réussite des voyages migratoires, et donc la quantité de personnes qui les tenteraient. Cette rhétorique est utilisée pour contrer les efforts des ONGs et des collectifs solidaires tout au long des routes migratoires européennes, et elle est infondée. De surcroît, elle cache une logique dangereuse : pour limiter les arrivées de migrant.es il faut que leur parcours soit le plus périlleux possible, ce qui mène beaucoup trop fréquemment à des morts. Dans les Hautes-Alpes, ce sont plus de 1500 personnes qui ont été refoulées sans avoir la possibilité de déposer une demande d’asile en 2020. En même temps, du côté italien de la frontière alpine, trois lieux d’accueil (le refuge « Chez JesOulx », la vieille douane et la « Casa Cantoniera » de Clavière) ont été évacués par la police cette année. Cette « #raison_sécuritaire » est justifiée par une rhétorique qui relève de la « #raison_humanitaire », deux éléments étroitement liés, comme souligné par le chercheur Didier Fassin1.

      Ainsi, le maire de Briançon Arnauld #Murgia n’hésite pas à en appeler à « l’#humanité » : « Ce dossier, qui est extrêmement difficile, doit naturellement être regardé avec humanité ». Avant de soumettre « l’humanité » aux « lois » : « mais ce regard humain ne peut pas nous empêcher de traiter ce dossier dans un cadre qui est celui de la #loi de la République française ». Et de s’attaquer aux bénévoles, qui auraient « pris en otage » la ville de Briançon. Une attitude qui rappelle de près le « délit de solidarité », dans une ville qui a vu se dérouler le procès des « sept » qui auraient favorisé l’immigration clandestine lors d’une manifestation en 2018 (finalement relaxés cette année). La réponse aux demandes des solidaires est donc, tenez-vous bien… le soutien aux forces de police, en particulier aux nouveaux.elles employé.es de la PAF, auxquel.les le maire promet de l’aide dans la recherche de logement et dans l’accès à l’emploi pour leurs conjoint.es. Pour ce qui est d’un lieu d’accueil digne, repassez plus tard, la #responsabilité est à l’État, selon le maire.

      Une tragédie évitable

      La frontière alpine se configure donc comme un champ de bataille où se croisent des enjeux politiques, des ambitions sécuritaires et un nationalisme mal caché. À en faire le prix des centaines des personnes qui, tous les mois, traversent la frontière alpine en dépit du danger de mort. La politique sécuritaire qui semble enivrer toute l’administration, du gouvernement aux préfet.es en passant par les élus locaux, est en effet parfaitement inutile même pour ses buts déclarés : « Ça sert à rien, on a 150 km de frontières avec l’Italie, souligne Max des Refuges Solidaires. Ils sont relativement inefficaces par rapport à leurs directives, la frontière est poreuse et elle le sera toujours. ». En revanche, elle contribue à créer une ambiance politique de peur très profitable pour ces mêmes politicien.nes.

      De l’autre côté de la barricade, ce sont les citoyen.nes, les collectifs et les organisations qui sont laissé.es seul.es à gérer l’arrivée des exilé.es et leur secours, dans des conditions très difficiles. Les voyages à travers la frontière ne sont pas découragés par la police, ni par les intempéries, et les migrant.es se retrouvent à payer, parfois de leur vie, le prix d’un jeu politique dont ils et elles n’ont aucune responsabilité. Épuisé.es et sans ressources, les solidaires ne demandent à l’État que d’investir une fraction de ses ressources pour garantir la survie de ces personnes. On pourrait se demander, après des décennies de politiques migratoires répressives, si ce n’est plutôt le jeu de l’État de laisser ces gens, au mieux arriver en France dans des conditions d’illégalité, prêtes pour un marché du travail précaire, au pire crever.

      1 Dans sa post-faction à l’ouvrage “La raison humanitaire”, titrée “Signes des temps”, publiée en 2018.

      https://www.lamuledupape.com/2021/11/05/personne-ne-doit-rester-dehors-les-solidaires-de-briancon-en-detresse

      Dans le communiqué de presse de la préfecture (je copie-colle ici l’extrait) :

      « l’accroissement de l’offre d’hébergement des ’Terrasses Solidaires’, offre bien identifiée des réseaux de passeurs »

      –->

      "C’est la vieille rhétorique des « #pull_factor », les facteurs qui augmenteraient les chances de réussite des voyages migratoires, et donc la quantité de personnes qui les tenteraient. Cette rhétorique est utilisée pour contrer les efforts des ONGs et des collectifs solidaires tout au long des routes migratoires européennes, et elle est infondée."

      –-> et voilà encore une fois la rhétorique de l’#appel_d'air :-(

      #pull-factors

    • Accueil des migrants : la préfète des Hautes-Alpes rejette les demandes des associations

      La réponse de #Martine_Clavel à Refuges solidaires quant aux conditions de réouverture des Terrasses solidaires est sans appel. Aucun autre #dispositif_d’accueil ne sera ouvert par l’État pour les migrants arrivant à Briançon après avoir franchi la frontière franco-italienne.

      https://www.ledauphine.com/societe/2021/11/08/accueil-des-migrants-la-prefete-des-hautes-alpes-rejette-les-demandes-de

    • Manifestation, 13.11.2021

      –—

      Texte d’accompagnement, reçu via la mailing-list Tous Migrants, 10.11.2021

      La situation actuelle de l’accueil des exilés.

      Pourquoi Refuges Solidaires a suspendu temporairement son activité ?

      Depuis plusieurs mois les exilés sont contraints de rester plus longtemps au refuge en raison des délais des test Covid pour le pass sanitaire et des travaux du train de nuit qui limitent les places disponibles. Le dimanche 24 octobre, l’association Refuges Solidaires a décidé de suspendre momentanément et symboliquement son activité d’accueil en raison du nombre important de personnes (200 pour une jauge initiale de 80) qui menaçait la sécurité et l’accueil digne des personnes exilées.

      Objectif : interpeller la Ville, la Préfecture et l’Etat sur la nécessité de mettre en place des solutions d’hébergements d’urgence complémentaires dans les plus brefs délais afin que le refuge puisse rouvrir dans de bonnes conditions.

      Depuis 2015, l’accueil d’urgence et la mise à l’abri sont assurés uniquement par des associations et des bénévoles. Pourtant, il s’agit d’une obligation de l’État.

      Où les exilés sont-ils mis à l’abri depuis la fermeture ?

      Dans le but de partir dès le lendemain, les exilés se sont rendus à la gare et y ont passé la nuit du dimanche 24 au lundi 25 aux côtés de dizaines de personnes de la société civile. Par peur d’une potentielle intervention des forces de l’ordre qui aurait menacé les exilés et à la demande des associations, le curé de Briançon et Monseigneur Xavier Malle (évêque de Gap et Embrun) ont ouvert les portes de l’église Sainte Catherine. Les exilés ont pu y dormir 5 nuits (de lundi à samedi).

      Nous avons ensuite quitté l’église afin de la laisser disponible pendant les célébrations de la Toussaint. Entre le samedi 30 octobre et le dimanche 7 novembre, les exilés ont été mis à l’abri dans la salle paroissiale Sainte Thérèse (capacité de 25 places) et dans des tentes dans le jardin de Sainte Catherine. Depuis le dimanche 7 octobre, les exilés dorment soient dans des tentes soit chez des hébergeurs solidaires.

      Quelles réactions des autorités ?

      Le lendemain de la suspension des activités du refuge, la Préfecture a interdit à la Croix-Rouge d’effectuer des tests antigéniques, ce qui a empêché les exilés de quitter Briançon. La Mairie de Briançon a demandé des renforts au Ministère de l’Intérieur. Deux escartons de gendarmerie mobile (soit 200 personnes) ont rejoint Briançon.

      Plusieurs bus à destination de Valence et de Lyon ont été affrétés par la Préfecture la première semaine. Elle s’est engagée auprès de l’évêque, des associations et des exilés qu’aucune interpellations n’auraient lieux à leur arrivée.

      Samedi 30 octobre nous avons investi pacifiquement l’ancien centre de vaccination du Prorel qui est vacant et adapté à la mise l’abri des exilés. Nous avons été expulsés par les forces de l’ordre sous ordre de la Mairie et de la Préfecture.

      A ce jour, aucune solution pérenne n’a été proposée par les autorités. Elles condamnent même nos modes d’actions non-violents.

    • A la frontière italienne des Hautes Alpes, une situation humanitaire toujours plus dégradée face à l’inaction de l’Etat

      Depuis deux semaines, devant l’impossibilité d’assurer la sécurité des personnes et un accueil digne, le refuge solidaire à Briançon a pris la difficile décision de fermer temporairement et par ce geste, de tenter de mettre l’Etat devant ses responsabilités. En lieu et place de solutions d’accueil, les autorités poursuivent une logique sécuritaire et répressive qui met en danger la vie des personnes qui tentent de franchir la frontière alpine. Les associations appellent à manifester samedi 13 novembre à 14h au Parc Roseinheim à Briançon !

      Depuis cinq ans, près de 15 000 hommes, femmes et enfants sur les routes de l’exil ont traversé la frontière franco-italienne haute-alpine, souvent dans la nuit, le froid, ou la neige, au milieu de montagnes dont ils méconnaissent les dangers. Après un périple long et souvent très éprouvant, cette ultime étape pour arriver en France ou dans un autre pays européen s’avère extrêmement périlleuse, à fortiori depuis le rétablissement des contrôles aux frontières intérieures en 2015, sans cesse renouvelé depuis, qui a rendu la traversée de cette zone particulièrement dangereuse. C’est dans ce contexte que, depuis l’été 2017, des citoyens solidaires du Briançonnais ont créé le « Refuge solidaire » : un lieu d’accueil d’urgence unique destiné à offrir à un temps de pause et d’écoute indispensable aux personnes qui traversent la frontière. Ce lieu, ainsi que tou.te.s les citoyen.ne.s solidaires qui le font vivre, leur permet de dormir, manger, se laver, d’avoir accès aux soins et d’être informées sur leurs droits. Quelques jours de répit précieux pour se poser et se reposer, avant de reprendre leur route.

      Depuis plus d’un an, alors que la population accueillie est plus nombreuse et plus vulnérable (familles avec nourrissons, personnes âgées ou handicapées), les appels et cris d’alerte répétés de la société civile, se sont heurtés au silence et à l’inaction de l’Etat. A nouveau, les acteurs solidaires du Briançonnais ont dû se mobiliser pour acquérir un nouveau lieu, plus grand et plus adapté, avec des fonds privés uniquement : Les « Terrasses solidaires » ont ouvert leurs portes le 25 août 2021. Mais la situation humanitaire a continué de se dégrader. Selon les estimations des associations, près de 300 personnes, en majorité de nationalité afghane et iranienne, avec de nombreux enfants en bas âge, traversent actuellement chaque semaine à pied la frontière franco-italienne au niveau du col de Montgenèvre dans des conditions climatiques de plus en plus risquées avec l’arrivée de l’hiver et des températures négatives.

      Le 24 octobre 2021, devant l’impossibilité d’assurer la sécurité des personnes et un accueil digne (200 personnes pour une capacité d’accueil maximum autorisé de 81), le nouveau refuge solidaire a pris la difficile décision de fermer temporairement et par ce geste, de tenter de mettre l’Etat devant ses responsabilités. En lieu et place de solutions d’accueil, l’État a dépêché 200 gendarmes mobiles supplémentaires pour tenter renforcer les contrôles à cette frontière afin d’empêcher les nouvelles arrivées. Dans un courrier au Refuge Solidaire la préfète affirme que « ces moyens supplémentaires ont été concentrés à la frontière afin d’entraver les passages illégaux » et qu’ « aucun dispositif d’accueil ne sera initié » par les services de l’Etat. Une décision qui ne fait que perpétuer un cycle infernal de violences et de déni des droits. Depuis plus de cinq ans, La Cimade et ses partenaires constatent que le renforcement des dispositifs de contrôle et de surveillance entraîne de graves violations des droits : contrôles au faciès ; détention arbitraire ; refoulements expéditifs ; non protection des mineur.e.s non accompagné.e.s ; obstacles majeurs rendant impossible l’accès à la demande l’asile. Le durcissement de la règlementation (restriction des conditions de d’octroi des visas, difficultés d’accès et de mise en œuvre de la réunification familiale, etc.) conjuguée à la militarisation des frontières, en rendant leur franchissement toujours plus difficile, accroissent les risques et aggravent encore davantage la précarité et la vulnérabilité des personnes en exil. A la frontière franco-italienne, près de 30 cas de personnes décédées ont été recensés depuis 2015.

      Il n’est pas acceptable que l’Etat poursuive une logique sécuritaire et répressive qui met en danger la vie des personnes qui tentent de franchir la frontière alpine et continue de se reposer sur les associations et la population briançonnaise pour assurer la mise en sécurité, l’accueil, l’hébergement, l’accompagnement en santé et l’information aux droits des hommes, des femmes et des enfants qui y sont parvenues. Il est urgent de faire cesser les pratiques illégales et de proposer un accueil digne aux personnes qui traverse la frontière des Hautes-Alpes, en concertation avec les acteurs locaux et nationaux compétents (personnes concernées, citoyens solidaires, associations, pouvoirs publics, élus), y compris du côté italien.

      *

      Retrouvez ci-dessous le témoignage de Benjamin et Pauline, militant.e.s de La Cimade de la Drôme mobilisé.e.s en solidarité avec les acteurs locaux du Briançonnais et les personnes exilées bloquées à cette frontière, sur l’évolution de la situation sur place depuis la fermeture du Refuge.

      « Ce dimanche 24 octobre, nous prenons la route pour Briançon, dans le but de venir aider les bénévoles et salariés du Refuge Solidaire et de Tous Migrants, deux associations qui viennent en aide aux dizaines de personnes exilées qui traversent chaque jour la frontière à pieds depuis l’Italie.

      Briançon, Montgenèvre, les Alberts… une ville et ses alentours qui attirent des milliers de touristes, de vacanciers hiver comme été pour profiter des loisirs de montagne. Cette ville, nous qui venons régulièrement aider les solidaires depuis un an, nous la connaissons principalement pour sa proximité avec la frontière italienne, et la capacité des associations à accueillir depuis presque 5 ans les personnes exilées de passage, non seulement sans aucune aide publique, mais en luttant également contre des politiques publiques toujours plus maltraitantes et irrespectueuses des droits. Chaque fois que nous nous y rendons, nous rencontrons des salarié.e.s et bénévoles qui s’investissent sans relâche, malgré les burn out fréquents, et l’absence de considération, voire le mépris et le harcèlement de la part des pouvoirs publics.

      Depuis plusieurs mois, la situation est devenue intenable au Refuge : le lieu, calibré pour 80 personnes, en héberge et nourri souvent jusqu’à 200 par nuit. Un accueil digne de ce nom devient impossible, chaque cm2 de couloir est occupé par des personnes et des familles qui dorment à même le sol.

      Nous savons que plusieurs fois, les associations sur place ont évoqué la possibilité d’occuper l’espace public avec les personnes exilées pour dénoncer les conditions d’accueil et le manque de place d’hébergement d’urgence à Briançon afin que l’Etat prenne ses responsabilités.

      Or c’est ce dimanche 24 en arrivant vers 17h, que nous apprenons que Les Terrasses Solidaires, le nouveau local d’accueil du Refuge Solidaire, est en train de fermer. Les 200 personnes qui occupent le lieu, ainsi que des dizaines de bénévoles se dirigent à pied vers la gare de Briançon pour y passer la nuit. Des bénévoles resteront toute la nuit pour réorienter les personnes qui viennent d’arriver vers la gare, d’autres assureront les navettes pour les y transporter. Ce soir-là, des habitants de Briançon sont appelés en renfort et viennent également nous rejoindre à la gare. 250 à 300 repas sont servis, préparés par des bénévoles qui trouvent en urgence assiettes, couverts, bouteilles d’eau, etc. Ce sont aussi des échanges entre bénévoles, personnes exilées et personnel de gare sur l’incertitude du lendemain… Tout le monde espère par cette action faire réagir la préfecture, la mairie, quelqu’un là-haut…la demande essentielle est que l’Etat propose un hébergement d’urgence dès que la capacité d’accueil du refuge est atteinte.

      Malheureusement dès le lendemain lundi 25 octobre, les seules réactions politiques sont une condamnation du maire et l’interdiction donnée à la Croix-Rouge via la préfecture de réaliser des tests covid gratuits. Sans tests, nous sommes comme dans une souricière. Toute la journée, on tente de s’organiser pour continuer un accueil partiel et une aide au départ via des bus sans pass sanitaire. L’inquiétude monte chez les militant.e.s et les personnes exilées à mesure que l’on observe le dispositif policier qui se met en place. D’après les observations et les informations des associations, une expulsion de la gare dans la nuit ou au petit matin se prépare. On craint le pire (placement en CRA, risque d’expulsion, etc.). Dans la journée, quelques solidaires demandent au prêtre de la paroisse de l’église sainte Catherine à Briançon, s’il peut ouvrir l’église pour y mettre à l’abri les personnes.

      Mardi 26, c’est une nouvelle occupation de l’espace qui commence, entre l’église où dorment une partie des exilés et la salle paroissiale où continuent d’être hébergées les familles. Face à la pression médiatique préparée en amont par des solidaires, le rapport de force s’inverse. L’occupation de l’église fait venir de nombreux médias…. Les négociations avec la préfecture, commencent à porter quelques fruits : des bus « gratuits » et sans pass pour Lyon sont affrétés, avec la garantie qu’il n’y aura pas de contrôles à l’arrivée. Une cinquantaine de personnes partent pour Lyon, mais la plupart sont interpellées à leur arrivées et placées en garde à vue… finalement il semblerait que toutes aient pu être libérées. En lieu et place de solutions d’hébergement d’urgence, l’Etat envoie deux escadrons supplémentaires de gendarmes mobiles à la frontière.

      Le mercredi 27, contrairement à ce qui avait été annoncé la veille, nous apprenons au petit matin que les tests Covid réalisés gratuitement par la Croix Rouge ne seront à nouveau plus autorisés, les bénévoles se remettent donc à chercher des rendez-vous en laboratoire et en pharmacie…Des dons de dernière minute levés dans les réseaux militants la veille permettent de les financer. La préfecture affrète 3 bus pour Lyon, Marseille et Villeurbanne, avec promesse de tests gratuits à l’arrivée et possibilité de demander l’asile pour celles et ceux qui le souhaitent.

      Jeudi 28, les personnes arrivées à Lyon la veille qui ont été hébergées par Adoma, sont mises dehors à 10h, familles et bébés compris, et sans les tests covid promis.

      A ce jour, les arrivées ont repris malgré le renforcement des contrôles à la frontière, jusqu’à 40 par nuit sont comptées. On imagine sans peine les risques énormes que prennent ces personnes et familles dans la neige et en montagne pour éviter les contrôles. La nuit du 7 au 8 novembre par exemple, une dizaine de bassines d’eau ont été nécessaires à l’arrivée pour dégeler les pieds des personnes qui venaient de franchir la frontière alpine. Certaines seront conduites à l’hôpital.

      Face à l’absence de prise en charge par la préfecture, le Refuge ne rouvre toujours pas. Les solidaires recherchent des grands barnums, chauffages soufflants, groupes électrogènes pour continuer à abriter, chauffer, préparer à manger aux personnes, coûte que coûte, dans le jardin de la cure.

      Des solidaires diois à Briançon

      Pauline et Benjamin

      https://www.lacimade.org/a-la-frontiere-italienne-des-hautes-alpes-une-situation-humanitaire-toujou

    • Briançon : pour les migrants, dernière nuit dans les #barnums de Sainte-Thérèse

      Médecins sans frontières a installé, ce samedi 13 novembre, une immense tente sur la pelouse de la paroisse briançonnaise afin d’héberger temporairement des exilés. Une solution moins précaire que les barnums disposés depuis la fin du mois d’octobre. Et un message fort, en plein cœur de la ville.

      https://www.ledauphine.com/societe/2021/11/13/briancon-pour-les-migrants-derniere-nuit-dans-les-barnums-de-sainte-ther

    • 01.12.2021

      1-Le refuge solidaire rouvre ses portes aujourd’hui avec le renfort de la tente @MSF_france pour pallier à l’absence de prise en charge par l’état des exilés alors que l’hiver est là
      2-jusqu’à quand l’état va t’il se défausse de ses obligations de mise à l’abri sur des associations et la solidarité des citoyens ?
      3-notre appel à l’aide n’a pas été entendu mais nous ne résignons pas à laisser dormir dehors par-10 des personnes qui présentent de plus des vulnérabilités liées à la traversée des montagnes ds des conditions hivernales
      4-nous savons que la situation va perdurer, que l’épuisement des bénévoles est patent et que ce mépris affiché par @Prefet05 à notre appel à l’aide fait écho à qu’il se passe à Calais, à Paris et ailleurs
      5-maltraitance d’état, déni de droit constant, militarisation et traitement inhumain des exilés et la mort au bout de la route qui guette les chercheurs de refuge
      6-une dépense pharaonique pour quels résultats ? La mise au ban des valeurs qui devraient animer tte démocratie digne de ce nom :respect de la personne humaine, des lois et des textes internationaux protection des plus faibles
      7-oui nous allons continuer à accueillir, à soigner avec @MdM_France, à accompagner celleux qui ont besoin mais nous allons aussi continuer avec une gde détermination à combattre ces politiques migratoires mortifères

      https://twitter.com/nos_pas/status/1465937218426572801

    • Briançon : un amer retour en arrière pour les Terrasses solidaires

      Le tiers lieu de la route de Grenoble à Briançon héberge de nouveaux des migrants depuis ce mercredi 1er décembre. Un mois après sa fermeture, les associations se sont résolues à abandonner, en partie, le bras de fer engagé avec l’État. La tente de Médecins sans frontières, à la salle paroissiale, va servir de lieu d’hébergement secondaire.

      https://www.ledauphine.com/societe/2021/12/01/terrasses-solidaires-a-briancon-un-amer-retour-en-arriere

    • Briançon : la #justice rejette la requête d’une association sur l’ouverture d’un centre d’accueil pour migrants

      Le #juge_des_référés du #tribunal_administratif de Marseille a rejeté, mardi, la requête du collectif d’associations Tous migrants qui avait sollicité la justice pour contraindre l’État à héberger les migrants, à Briançon. De nombreuses personnes sont sans abri dans cette ville des Hautes-Alpes malgré les températures hivernales.

      Malgré les températures glaciales, l’État ne sera pas contraint d’héberger les migrants à Briançon (Hautes-Alpes). C’est la décision qu’a rendu, mardi 30 novembre, le juge des référés du tribunal administratif de Marseille, rejetant la requête de Tous migrants.

      Le collectif d’associations qui vient en aide, à Briançon, aux exilés arrivant en France depuis l’Italie, avait attaqué l’État en justice en déposant le 16 novembre un #référé-liberté au tribunal administratif de Marseille. L’organisation souhaitait « contraindre la préfète des Hautes-Alpes #Martine_Clavel à ‘la mise en place d’un dispositif d’accueil’ pour les migrants arrivant à Briançon, ainsi que l’autorisation pour la Croix-Rouge d’effectuer des tests Covid afin que les exilés puissent prendre les transports en commun et quitter Briançon, et l’organisation des transports publics permettant aux exilés de quitter le Briançonnais ’ », rapporte Le Dauphiné libéré.

      Le tribunal administratif de Marseille a rejeté la requête de Tous migrants au motif que les Terrasses solidaires, lieu d’hébergement géré par l’association Refuges solidaires, « a une capacité d’accueil supérieure au nombre de personnes actuellement présentes sous la tente installée par Médecins du monde [la tente a, en réalité, été installée par Médecins sans frontières NDLR], alors aucun motif, ni matériel ni juridique, ne fait obstacle à sa réouverture immédiatement ».

      Refuges solidaires avait décidé de fermer ce lieu d’hébergement fin octobre après avoir été débordé par le nombre de personnes qui s’y présentaient. Plus de 200 personnes avaient besoin d’un hébergement alors que les Terrasses solidaires ne disposent que de 80 places. L’association et des dizaines d’exilés avaient alors occupé la gare de Briançon pour appeler l’État à ouvrir un lieu de mise à l’abri. « Cela fait longtemps qu’on alerte les pouvoirs publics sur impossibilité de gérer [la mise à l’abri des personnes] seuls. On demande d’urgence l’aide de l’État », avait expliqué Jean Gaboriau, administrateur bénévole de l’association, à InfoMigrants.

      Pas de dispositif d’accueil

      Depuis le début du bras de fer qui l’oppose aux associations de Briançon, la préfète des Hautes-Alpes Martine Clavel refuse l’ouverture d’une telle structure, malgré la dégradation de la situation pour les migrants et la baisse des températures dans la région. Dans un communiqué adressé à Tous Migrants mi-novembre, elle avait indiqué « qu’aucun dispositif d’accueil ne sera[it] initié » par ses services.

      En revanche, des « moyens supplémentaires » ont depuis été déployés à la frontière « afin d’entraver les passages illégaux ».

      Depuis la fermeture des Terrasses Solidaires, 200 gendarmes mobiles patrouillent dans la zone. « Les forces de l’ordre sont omniprésentes : sur les routes, à la frontière, dans les montagnes, dans les gares », a déploré Tous Migrants sur Twitter, dénonçant « une véritable chasse à l’homme des personnes en exil », « mise en place par l’État ».

      Pour parer au manque d’hébergements, Médecins sans frontières (MSF) a ouvert, le 13 novembre, à Briançon une tente d’une superficie de 100 m2, pouvant accueillir au chaud une cinquantaine de personnes. Bien que dépourvue de sanitaires, de toilettes et de douches, la structure « est très utile parce qu’elle permet aux exilés de ne pas mourir de froid », avait indiqué Alfred Spira, médecin et membre des Refuges solidaires à InfoMigrants.

      https://www.infomigrants.net/fr/post/36909/briancon--la-justice-rejette-la-requete-dune-association-sur-louvertur

  • Lettre Ouverte d’Alerte à la Préfète

    "Alerte de la Plateforme des associations impliquées dans l’accueil des personnes exilées à Madame la Préfète des Hautes-Alpes LR avec AR - 25 juin 2021

    Madame la Préfète des #Hautes-Alpes,

    Depuis cet hiver, plusieurs dizaines de personnes exilées arrivent quotidiennement à #Briançon. La population a changé, elle est composée de plus en plus souvent de familles et de personnes particulièrement vulnérables. Le nombre de femmes et d’enfants a triplé depuis le début de l’année.

    Les capacités du #Refuge_Solidaire ne permettent plus d’assurer un #accueil digne de ce nom, ni même de préserver la #sécurité des personnes.

    Nous vous demandons à nouveau la mobilisation du plan d’#hébergement_d'urgence à Briançon pour accueillir dignement les personnes exilées qui arrivent sur notre territoire par la #montagne frontalière.

    Il s’agit pour ces personnes d’un #accueil_temporaire, d’une à trois journées maximum, puisqu’elles repartent le plus rapidement possible vers leur destination, le plus souvent une métropole où elles pourront déposer leur demande d’asile.

    Depuis 2016, Briançonnais et personnes solidaires venus de toute part reçoivent chez eux les personnes épuisées et vulnérables et gèrent un refuge solidaire qui a déjà accueilli plus de 14 000 personnes.

    Depuis 2016, Briançonnais et personnes solidaires venus de toute part se mobilisent pour porter assistance aux personnes qui se trouvent mises en danger dans la montagne.

    Depuis 2016, Briançonnais et personnes solidaires venus de toute part pallient les manquements de l’Etat et des collectivités locales au regard de leurs #responsabilités et leurs #obligations face à la #réalité_migratoire.

    Depuis 2016, Briançonnais et personnes solidaires venus de toute part font que notre territoire reste digne et humaniste.

    En 2020, la nouvelle municipalité de Briançon a choisi de se désengager du Refuge Solidaire. Au même moment, lors d’une réunion tenue à la préfecture des Hautes-Alpes le 7 juillet, votre secrétaire générale nous indiquait que le besoin d’accueil d’urgence de 30 à 35 places à Briançon était reconnu par la Préfecture, mais qu’il n’y avait pas de possibilité d’ouvrir plus de places d’hébergement d’urgence selon l’administration centrale.

    Aujourd’hui, selon les jours, ce besoin est deux à trois fois plus important qu’il n’était l’an dernier.

    Face à l’absence totale d’engagement de l’Etat et des pouvoirs publics, les acteurs solidaires ont dû se mobiliser une nouvelle fois pour acquérir un nouveau lieu avec des fonds privés uniquement. Mais ce lieu n’ouvrira ses portes, au mieux, qu’à la mi-août, compte tenu des travaux nécessaires de mise en conformité aux normes de sécurité.

    En attendant cette ouverture, les #capacités du refuge solidaire actuel ne permettent plus d’accueillir dans des conditions acceptables les personnes exilées de passage. En tout état de cause, ce nouveau lieu ne pourra pas accueillir au-delà de ses capacités et des limites de l’action bénévole.

    Dans ce contexte particulièrement difficile, il n’est pas envisageable que l’#Etat continue de se reposer sur les #associations et la #population briançonnaise alors que la population accueillie est plus nombreuse et plus vulnérable (familles avec nourrissons, personnes âgées ou handicapées).

    Nous appelons l’Etat, et plus largement les #pouvoirs_publics, à revoir leurs responsabilités en rapport avec les situations actuelles de la migration dans le Briançonnais, à respecter leurs obligations à l’égard des exilés, et notamment le #droit_à_l’hébergement_d’urgence_inconditionnel, et à mettre en place sans plus tarder un #dispositif_d’accueil_d’urgence à la hauteur de la réalité migratoire présente et future.

    Nous demandons que cette crise humanitaire soit gérée en concertation avec tous les acteurs publics et associatifs concernés, y compris du côté italien où le préfet conscient de la gravité de la situation vient d’apporter un soutien fort aux communes de Bardonecchia et d’Oulx et aux associations impliquées.

    Nous demandons à notre gouvernement de mettre en oeuvre un #plan_d’hébergement_d’urgence à Briançon, avec un nombre de places pérennes, qui soit évolutif pour s’adapter aux besoins réels. Cet hébergement doit permettre l’accueil familial sans séparation des membres de la famille et avec la possibilité de préparation des repas.

    Notre alerte est solennelle et nous attendons vivement votre réponse devant cette situation d’urgence.

    Afin d’éviter toute confusion ou instrumentalisation en cette période électorale, nous rendrons cette lettre publique seulement à compter de lundi 28 juin.

    Avec nos salutations respectueuses,

    Premières associations locales signataires :

    ATD Quart Monde PACA, CCFD Terre Solidaire Briançon, Chemins Pluriels, Icare , JRS France/Welcome – Antenne des Hautes Alpes, Low-tech & Réfugiés, MJC-Centre social du Briançonnais, Paroisse de Briançon - Hautes Vallées, Refuges Solidaires, Réseau Hospitalité, Secours Populaire Briançon, Tous Migrants, Unjourlapaix, Un thé dans la neige,

    Premières associations nationales signataires :

    La Cimade, Médecins du Monde, Médecins sans Frontières, Secours Catholique Caritas France, ANVITA (association nationale des villes et territoires accueillants)"

    Reçu via la mailing-list Tous Migrants, le 30.06.2021

    –---

    Septembre 2020 :
    #Briançon : « L’expulsion de Refuges solidaires est une vraie catastrophe pour le territoire et une erreur politique »
    https://seenthis.net/messages/876342

    Avril 2021 :
    Sauvé, le refuge solidaire de #Briançon s’adapte à de nouveaux arrivants
    https://seenthis.net/messages/913269

    ping @isskein @karine4

    • depuis ce printemps c’est quasiment 100 personnes en moyenne pour un refuge prévu au départ pour offrir 15 places... les bénévoles s’épuisent, les problèmes de promiscuité et d’hygiène sont récurrents mais ni la mairie ni l’état ne font le moindre geste à part augmenter encore le nombre de gendarmes, CRS et militaires pour « jouer » à la chasse à l’homme sur la frontière !
      Le but « inavoué » serait il de décourager les bonnes volontés et de tarir la légendaire hospitalité des Briançonnais ?

  • Artificial intelligence : #Frontex improves its maritime surveillance

    Frontex wants to use a new platform to automatically detect and assess „risks“ on the seas of the European Union. Suspected irregular activities are to be displayed in a constantly updated „threat map“ with the help of self-learning software.

    The EU border agency has renewed a contract with Israeli company Windward for a „maritime analytics“ platform. It will put the application into regular operation. Frontex had initially procured a licence for around 800,000 Euros. For now 2.6 million Euros, the agency will receive access for four workstations. The contract can be extended three times for one year at a time.

    Windward specialises in the digital aggregation and assessment of vessel tracking and maritime surveillance data. Investors in the company, which was founded in 2011, include former US CIA director David Petraeus and former CEO’s of Thomson Reuters and British Petroleum. The former chief of staff of the Israeli military, Gabi Ashkenazi, is considered one of the advisors.

    Signature for each observed ship

    The platform is based on artificial intelligence techniques. For analysis, it uses maritime reporting systems, including position data from the AIS transponders of larger ships and weather data. These are enriched with information about the ship owners and shipping companies as well as the history of previous ship movements. For this purpose, the software queries openly accessible information from the internet.

    In this way, a „fingerprint“ is created for each observed ship, which can be used to identify suspicious activities. If the captain switches off the transponder, for example, the analysis platform can recognise this as a suspicuous event and take over further tracking based on the recorded patterns. It is also possible to integrate satellite images.

    Windward uses the register of the International Maritime Organisation (IMO) as its database, which lists about 70,000 ships. Allegedly, however, it also processes data on a total of 400,000 watercraft, including smaller fishing boats. One of the clients is therefore the UN Security Council, which uses the technology to monitor sanctions.

    Against „bad guys“ at sea

    The company advertises its applications with the slogan „Catch the bad guys at sea“. At Frontex, the application is used to combat and prevent unwanted migration and cross-border crime as well as terrorism. Subsequently, „policy makers“ and law enforcement agencies are to be informed about results. For this purpose, the „risks“ found are visualised in a „threat map“.

    Windward put such a „threat map“ online two years ago. At the time, the software rated the Black Sea as significantly more risky than the Mediterranean. Commercial shipping activity off the Crimea was interpreted as „probable sanction evasions“. Ship owners from the British Guernsey Islands as well as Romania recorded the highest proportion of ships exhibiting „risky“ behaviour. 42 vessels were classified as suspicious for drug smuggling based on their patterns.

    Frontex „early warning“ units

    The information from maritime surveillance is likely to be processed first by the „Risk Analysis Unit“ (RAU) at Frontex. It is supposed to support strategic decisions taken by the headquarters in Warsaw on issues of border control, return, prevention of cross-border crime as well as threats of a „hybrid nature“. Frontex calls the applications used there „intelligence products“ and „integrated data services“. Their results flow together in the „Common Integrated Risk Analysis Model“ (CIRAM).

    For the operational monitoring of the situation at the EU’s external borders, the agency also maintains the „Frontex Situation Centre“ (FSC). The department is supposed to provide a constantly updated picture of migration movements, if possible in real time. From these reports, Frontex produces „early warnings“ and situation reports to the border authorities of the member states as well as to the Commission and the Council in Brussels.

    More surveillance capacity in Warsaw

    According to its own information, Windward’s clients include the Italian Guardia di Finanza, which is responsible for controlling Italian territorial waters. The Ministry of the Interior in Rome is also responsible for numerous EU projects aimed at improving surveillance of the central Mediterranean. For the training and equipment of the Libyan coast guard, Italy receives around 67 million euros from EU funds in three different projects. Italian coast guard authorities are also installing a surveillance system for Tunisia’s external maritime borders.

    Frontex now wants to improve its own surveillance capacities with further tenders. Together with the fisheries agency, The agency is awarding further contracts for manned maritime surveillance. It has been operating such a „Frontex Aerial Surveillance Service“ (FASS) in the central Mediterranean since 2017 and in the Adriatic Sea since 2018. Frontex also wants to station large drones in the Mediterranean. Furthermore, it is testing Aerostats in the eastern Mediterranean for a second time. These are zeppelins attached to a 1,000-metre long line.

    https://digit.site36.net/2021/01/15/artificial-intelligence-frontex-improves-its-maritime-surveillance
    #intelligence_artificielle #surveillance #surveillance_maritime #mer #asile #migrations #réfugiés #frontières #AI #Windward #Israël #complexe_militaro-industriel #militarisation_des_frontières #David_Petraeus #Thomson_Reuters #British_Petroleum #armée_israélienne #Gabi_Ashkenazi #International_Maritime_Organisation (#IMO) #thread_map #Risk_Analysis_Unit (#RAU) #Common_Integrated_Risk_Analysis_Model (#CIRAM) #Frontex_Situation_Centre (#FSC) #Frontex_Aerial_Surveillance_Service (#FASS) #zeppelins

    ping @etraces

    • Data et nouvelles technologies, la face cachée du contrôle des mobilités

      Dans un rapport de juillet 2020, l’Agence européenne pour la gestion opérationnelle des systèmes d’information à grande échelle (#EU-Lisa) présente l’intelligence artificielle (IA) comme l’une des « technologies prioritaires » à développer. Le rapport souligne les avantages de l’IA en matière migratoire et aux frontières, grâce, entre autres, à la technologie de #reconnaissance_faciale.

      L’intelligence artificielle est de plus en plus privilégiée par les acteurs publics, les institutions de l’UE et les acteurs privés, mais aussi par le #HCR et l’#OIM. Les agences de l’UE, comme Frontex ou EU-Lisa, ont été particulièrement actives dans l’#expérimentation des nouvelles technologies, brouillant parfois la distinction entre essais et mise en oeuvre. En plus des outils traditionnels de surveillance, une panoplie de technologies est désormais déployée aux frontières de l’Europe et au-delà, qu’il s’agisse de l’ajout de nouvelles #bases_de_données, de technologies financières innovantes, ou plus simplement de la récupération par les #GAFAM des données laissées volontairement ou pas par les migrant·e·s et réfugié∙e∙s durant le parcours migratoire.

      La pandémie #Covid-19 est arrivée à point nommé pour dynamiser les orientations déjà prises, en permettant de tester ou de généraliser des technologies utilisées pour le contrôle des mobilités sans que l’ensemble des droits des exilé·e·s ne soit pris en considération. L’OIM, par exemple, a mis à disposition des Etats sa #Matrice_de_suivi_des_déplacements (#DTM) durant cette période afin de contrôler les « flux migratoires ». De nouvelles technologies au service de vieilles obsessions…

      http://www.migreurop.org/article3021.html

      Pour télécharger le rapport :
      www.migreurop.org/IMG/pdf/note_12_fr.pdf

      ping @karine4 @rhoumour @_kg_ @i_s_

    • La #technopolice aux frontières

      Comment le #business de la #sécurité et de la #surveillance au sein de l’#Union_européenne, en plus de bafouer des #droits_fondamentaux, utilise les personnes exilées comme #laboratoire de recherche, et ce sur des #fonds_publics européens.

      On a beaucoup parlé ici ces derniers mois de surveillance des manifestations ou de surveillance de l’espace public dans nos villes, mais la technopolice est avant tout déployée aux #frontières – et notamment chez nous, aux frontières de la « forteresse Europe ». Ces #dispositifs_technopoliciers sont financés, soutenus et expérimentés par l’Union européenne pour les frontières de l’UE d’abord, et ensuite vendus. Cette surveillance des frontières représente un #marché colossal et profite grandement de l’échelle communautaire et de ses programmes de #recherche_et_développement (#R&D) comme #Horizon_2020.

      #Roborder – des essaims de #drones_autonomes aux frontières

      C’est le cas du projet Roborder – un « jeu de mots » entre robot et border, frontière en anglais. Débuté en 2017, il prévoit de surveiller les frontières par des essaims de #drones autonomes, fonctionnant et patrouillant ensemble. L’#intelligence_artificielle de ces drones leur permettrait de reconnaître les humains et de distinguer si ces derniers commettent des infractions (comme celui de passer une frontière ?) et leur dangerosité pour ensuite prévenir la #police_aux_frontières. Ces drones peuvent se mouvoir dans les airs, sous l’eau, sur l’eau et dans des engins au sol. Dotés de multiples capteurs, en plus de la détection d’activités criminelles, ces drones seraient destinés à repérer des “#radio-fréquences non fiables”, c’est-à-dire à écouter les #communications et également à mesurer la #pollution_marine.
      Pour l’instant, ces essaims de drones autonomes ne seraient pas pourvus d’armes. Roborder est actuellement expérimenté en #Grèce, au #Portugal et en #Hongrie.

      Un #financement européen pour des usages « civils »

      Ce projet est financé à hauteur de 8 millions d’euros par le programme Horizon 2020 (subventionné lui-même par la #Cordis, organe de R&D de la Commission européenne). Horizon 2020 représente 50% du financement public total pour la recherche en sécurité de l’UE. Roborder est coordonné par le centre de recherches et technologie de #Hellas (le #CERTH), en Grèce et comme le montre l’association #Homo_Digitalis le nombre de projets Horizon 2020 ne fait qu’augmenter en Grèce. En plus du CERTH grec s’ajoutent environ 25 participants venus de tous les pays de l’UE (où on retrouve les services de police d’#Irlande_du_Nord, le ministère de la défense grecque, ou encore des entreprises de drones allemandes, etc.).

      L’une des conditions pour le financement de projets de ce genre par Horizon 2020 est que les technologies développées restent dans l’utilisation civile, et ne puissent pas servir à des fins militaires. Cette affirmation pourrait ressembler à un garde-fou, mais en réalité la distinction entre usage civil et militaire est loin d’être clairement établie. Comme le montre Stephen Graham, très souvent les #technologies, à la base militaires, sont réinjectées dans la sécurité, particulièrement aux frontières où la migration est criminalisée. Et cette porosité entre la sécurité et le #militaire est induite par la nécessité de trouver des débouchés pour rentabiliser la #recherche_militaire. C’est ce qu’on peut observer avec les drones ou bien le gaz lacrymogène. Ici, il est plutôt question d’une logique inverse : potentiellement le passage d’un usage dit “civil” de la #sécurité_intérieure à une application militaire, à travers des ventes futures de ces dispositifs. Mais on peut aussi considérer la surveillance, la détection de personnes et la #répression_aux_frontières comme une matérialisation de la #militarisation de l’Europe à ses frontières. Dans ce cas-là, Roborder serait un projet à fins militaires.

      De plus, dans les faits, comme le montre The Intercept (https://theintercept.com/2019/05/11/drones-artificial-intelligence-europe-roborder), une fois le projet terminé celui-ci est vendu. Sans qu’on sache trop à qui. Et, toujours selon le journal, beaucoup sont déjà intéressés par Roborder.

      #IborderCtrl – détection d’#émotions aux frontières

      Si les essaims de drones sont impressionnants, il existe d’autres projets dans la même veine. On peut citer notamment le projet qui a pour nom IborderCtrl, testé en Grèce, Hongrie et #Lettonie.

      Il consiste notamment en de l’#analyse_d’émotions (à côté d’autres projets de #reconnaissances_biométriques) : les personnes désirant passer une frontière doivent se soumettre à des questions et voient leur #visage passer au crible d’un #algorithme qui déterminera si elles mentent ou non. Le projet prétend « accélérer le #contrôle_aux_frontières » : si le #détecteur_de_mensonges estime qu’une personne dit la vérité, un code lui est donné pour passer le contrôle facilement ; si l’algorithme considère qu’une personne ment, elle est envoyée dans une seconde file, vers des gardes-frontières qui lui feront passer un #interrogatoire. L’analyse d’émotions prétend reposer sur un examen de « 38 #micro-mouvements du visage » comme l’angle de la tête ou le mouvement des yeux. Un spectacle de gadgets pseudoscientifiques qui permet surtout de donner l’apparence de la #neutralité_technologique à des politiques d’#exclusion et de #déshumanisation.

      Ce projet a également été financé par Horizon 2020 à hauteur de 4,5 millions d’euros. S’il semble aujourd’hui avoir été arrêté, l’eurodéputé allemand Patrick Breyer a saisi la Cour de justice de l’Union Européenne pour obtenir plus d’informations sur ce projet, ce qui lui a été refusé pour… atteinte au #secret_commercial. Ici encore, on voit que le champ “civil” et non “militaire” du projet est loin de représenter un garde-fou.

      Conclusion

      Ainsi, l’Union européenne participe activement au puissant marché de la surveillance et de la répression. Ici, les frontières et les personnes exilées sont utilisées comme des ressources de laboratoire. Dans une optique de militarisation toujours plus forte des frontières de la forteresse Europe et d’une recherche de profit et de développement des entreprises et centres de recherche européens. Les frontières constituent un nouveau marché et une nouvelle manne financière de la technopolice.

      Les chiffres montrent par ailleurs l’explosion du budget de l’agence européenne #Frontex (de 137 millions d’euros en 2015 à 322 millions d’euros en 2020, chiffres de la Cour des comptes européenne) et une automatisation toujours plus grande de la surveillance des frontières. Et parallèlement, le ratio entre le nombre de personnes qui tentent de franchir la Méditerranée et le nombre de celles qui y laissent la vie ne fait qu’augmenter. Cette automatisation de la surveillance aux frontières n’est donc qu’une nouvelle façon pour les autorités européennes d’accentuer le drame qui continue de se jouer en Méditerranée, pour une “efficacité” qui finalement ne profite qu’aux industries de la surveillance.

      Dans nos rues comme à nos frontières nous devons refuser la Technopolice et la combattre pied à pied !

      https://technopolice.fr/blog/la-technopolice-aux-frontieres

    • Artificial Intelligence - based capabilities for European Border and Coast Guard

      In 2019, Frontex, the European Border and Coast Guard Agency, commissioned #RAND Europe to carry out an Artificial intelligence (AI) research study.

      The purpose of the study was to provide an overview of the main opportunities, challenges and requirements for the adoption of AI-based capabilities in border managament. Frontex’s intent was also to find synergies with ongoing AI studies and initiatives in the EU and contribute to a Europe-wide AI landscape by adding the border security dimension.

      Some of the analysed technologies included automated border control, object recognition to detect suspicious vehicles or cargo and the use of geospatial data analytics for operational awareness and threat detection.

      As part of the study, RAND provided Frontex in 2020 with a comprehensive report and an executive summary with conclusions and recommendations.

      The findings will support Frontex in shaping the future landscape of AI-based capabilities for Integrated Border Management, including AI-related research and innovation projects which could be initiated by Frontex (e.g. under #EU_Innovation_Hub) or recommended to be conducted under the EU Research and Innovation Programme (#Horizon_Europe).

      https://frontex.europa.eu/media-centre/news/news-release/artificial-intelligence-based-capabilities-for-european-border-and-co

    • Pour les réfugiés, la #biométrie tout au long du chemin

      Par-delà les murs qui poussent aux frontières du monde depuis les années 1990, les réfugiés, migrants et demandeurs d’asile sont de plus en plus confrontés à l’extension des bases de #données_biométriques. Un « #mur_virtuel » s’étend ainsi à l’extérieur, aux frontières et à l’intérieur de l’espace Schengen, construit autour de programmes et de #bases_de_données.

      Des réfugiés qui paient avec leurs #iris, des migrants identifiés par leurs #empreintes_digitales, des capteurs de #reconnaissance_faciale, mais aussi d’#émotions… Réunis sous la bannière de la « #frontière_intelligente », ces #dispositifs_technologiques, reposant sur l’#anticipation, l’#identification et l’#automatisation du franchissement de la #frontière grâce aux bases de données biométriques, ont pour but de trier les voyageurs, facilitant le parcours des uns et bloquant celui des autres.

      L’Union européenne dispose ainsi d’une batterie de bases de données qui viennent compléter les contrôles aux frontières. Depuis 2011, une agence dédiée, l’#Agence_européenne_pour_la_gestion_opérationnelle_des_systèmes_d’information_à_grande_échelle, l’#EU-Lisa, a pour but d’élaborer et de développer, en lien avec des entreprises privées, le suivi des demandeurs d’asile.

      Elle gère ainsi plusieurs bases compilant des #données_biométriques. L’une d’elles, le « #Entry_and_Exit_System » (#EES), sera déployée en 2022, pour un coût évalué à 480 millions d’euros. L’EES a pour mission de collecter jusqu’à 400 millions de données sur les personnes non européennes franchissant les frontières de l’espace Schengen, afin de contrôler en temps réel les dépassements de durée légale de #visa. En cas de séjour prolongé devenu illégal, l’alerte sera donnée à l’ensemble des polices européennes.

      Se brûler les doigts pour ne pas être enregistré

      L’EU-Lisa gère également le fichier #Eurodac, qui consigne les empreintes digitales de chacun des demandeurs d’asile de l’Union européenne. Utilisé pour appliquer le #règlement_Dublin III, selon lequel la demande d’asile est déposée et traitée dans le pays européen où le migrant a été enregistré la première fois, il entraîne des stratégies de #résistance.

      « On a vu des migrants refuser de donner leurs empreintes à leur arrivée en Grèce, ou même se brûler les doigts pour ne pas être enregistrés dans Eurodac, rappelle Damien Simonneau, chercheur à l’Institut Convergences Migrations du Collège de France. Ils savent que s’ils ont, par exemple, de la famille en Allemagne, mais qu’ils ont été enregistrés en Grèce, ils seront renvoyés en Grèce pour que leur demande y soit traitée, ce qui a des conséquences énormes sur leur vie. » La procédure d’instruction dure en effet de 12 à 18 mois en moyenne.

      La collecte de données biométriques jalonne ainsi les parcours migratoires, des pays de départs jusqu’aux déplacements au sein de l’Union européenne, dans un but de limitation et de #contrôle. Pour lutter contre « la criminalité transfrontalière » et « l’immigration clandestine », le système de surveillance des zones frontières #Eurosur permet, via un partage d’informations en temps réel, d’intercepter avant leur arrivée les personnes tentant d’atteindre l’Union européenne.

      Des contrôles dans les pays de départ

      Pour le Transnational Institute, auteur avec le think tank Stop Wapenhandel et le Centre Delàs de plusieurs études sur les frontières, l’utilisation de ces bases de données témoigne d’une stratégie claire de la part de l’Union européenne. « Un des objectifs de l’expansion des #frontières_virtuelles, écrivent-ils ainsi dans le rapport Building Walls (https://www.tni.org/files/publication-downloads/building_walls_-_full_report_-_english.pdf), paru en 2018, est d’intercepter les réfugiés et les migrants avant même qu’ils n’atteignent les frontières européennes, pour ne pas avoir à traiter avec eux. »

      Si ces techniques permettent de pré-trier les demandes pour fluidifier le passage des frontières, en accélérant les déplacements autorisés, elles peuvent également, selon Damien Simonneau, avoir des effets pervers. « L’utilisation de ces mécanismes repose sur l’idée que la #technologie est un facilitateur, et il est vrai que l’#autonomisation de certaines démarches peut faciliter les déplacements de personnes autorisées à franchir les frontières, expose-t-il. Mais les technologies sont faillibles, et peuvent produire des #discriminations. »

      Ces #techniques_virtuelles, aux conséquences bien réelles, bouleversent ainsi le rapport à la frontière et les parcours migratoires. « Le migrant est confronté à de multiples points "frontière", disséminés un peu partout, analyse Damien Simonneau. Cela crée des #obstacles supplémentaires aux parcours migratoires : le contrôle n’est quasiment plus lié au franchissement d’une frontière nationale, il est déterritorialisé et peut se produire n’importe où, en amont comme en aval de la frontière de l’État. »

      Ainsi, la « politique d’#externalisation de l’Union européenne » permet au contrôle migratoire de s’exercer dans les pays de départ. Le programme européen « #SIV » collecte par exemple dès leur formulation dans les #consulats les données biométriques liées aux #demandes_de_visas.

      Plus encore, l’Union européenne délègue une partie de la gestion de ses frontières à d’autres pays : « Dans certains États du Sahel, explique Damien Simonneau, l’aide humanitaire et de développement est conditionnée à l’amélioration des contrôles aux frontières. »

      Un programme de l’Organisation internationale pour les migrations (OIM), le programme #MIDAS, financé par l’Union européenne, est ainsi employé par 23 pays, majoritairement en Afrique, mais aussi en Asie et en Amérique. Son but est de « collecter, traiter, stocker et analyser les informations [biométriques et biographiques] des voyageurs en temps réel » pour aider les polices locales à contrôler leurs frontières. Mais selon le réseau Migreurop, ces données peuvent également être transmises aux agences policières européennes. L’UE exerce ainsi un droit de regard, via Frontex, sur le système d’information et d’analyse de données sur la migration, installé à Makalondi au Niger.

      Des réfugiés qui paient avec leurs yeux

      Un mélange des genres, entre organisations humanitaires et États, entre protection, logistique et surveillance, qui se retrouve également dans les #camps_de_réfugiés. Dans les camps jordaniens de #Zaatari et d’#Azarq, par exemple, près de la frontière syrienne, les réfugiés paient depuis 2016 leurs aliments avec leurs iris.

      L’#aide_humanitaire_alimentaire distribuée par le Programme alimentaire mondial (PAM) leur est en effet versée sur un compte relié à leurs données biométriques. Il leur suffit de passer leurs yeux dans un scanner pour régler leurs achats. Une pratique qui facilite grandement la gestion #logistique du camp par le #HCR et le PAM, en permettant la #traçabilité des échanges et en évitant les fraudes et les vols.

      Mais selon Léa Macias, anthropologue à l’EHESS, cela a aussi des inconvénients. « Si ce paiement avec les yeux peut rassurer certains réfugiés, dans la mesure où cela les protège contre les vols, développe-t-elle, le procédé est également perçu comme une #violence. Les réfugiés ont bien conscience que personne d’autre au monde, dans une situation normale, ne paie ainsi avec son #corps. »

      Le danger de la fuite de données

      La chercheuse s’inquiète également du devenir des données ainsi collectées, et se pose la question de l’intérêt des réfugiés dans ce processus. « Les humanitaires sont poussés à utiliser ces nouvelles technologies, expose-t-elle, qui sont vues comme un gage de fiabilité par les bailleurs de fonds. Mais la #technologisation n’est pas toujours dans l’intérêt des réfugiés. En cas de fuite ou de hackage des bases de données, cela les expose même à des dangers. »

      Un rapport de Human Rights Watch (HRW) (https://www.hrw.org/news/2021/06/15/un-shared-rohingya-data-without-informed-consent), publié mardi 15 juin, alerte ainsi sur des #transferts_de_données biométriques appartenant à des #Rohingyas réfugiés au Bangladesh. Ces données, collectées par le Haut-commissariat aux réfugiés (HCR) de l’ONU, ont été transmises par le gouvernement du Bangladesh à l’État birman. Si le HCR a réagi (https://www.unhcr.org/en-us/news/press/2021/6/60c85a7b4/news-comment-statement-refugee-registration-data-collection-bangladesh.html) en affirmant que les personnes concernées avaient donné leur accord à ce #transfert_de_données pour préparer un éventuel retour en Birmanie, rien ne permet cependant de garantir qu’ils seront bien reçus si leur nom « bipe » au moment de passer la frontière.

      https://www.rfi.fr/fr/technologies/20210620-pour-les-r%C3%A9fugi%C3%A9s-la-biom%C3%A9trie-tout-au-long-du-chemin

      #smart_borders #tri #catégorisation #déterritorialisation #réfugiés_rohingyas

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      Sur les doigts brûlés pour ne pas se faire identifier par les empreintes digitales, voir la scène du film Qu’ils reposent en paix de Sylvain George, dont j’ai fait une brève recension :

      Instant tragique : ce qu’un migrant appelle la « prière ». Ce moment collectif où les migrants tentent de faire disparaître leurs empreintes digitales. Étape symbolique où ils se défont de leur propre identité.

      https://visionscarto.net/a-calais-l-etat-ne-peut-dissoudre

  • De l’usage des #campements dans les #politiques_migratoires

    La litanie des #expulsions de migrants se poursuit, après Paris place de la République fin novembre, les associations alertent sur l’accélération du phénomène à #Calais au cours du mois écoulé. Alors que l’expérience longue pourrait informer de nouvelles pratiques, pourquoi ce recours systématique à l’expulsion perdure-t-il ? Parce que les campements sont un répertoire des politiques migratoires, et non la conséquence d’un trop plein auquel nos capacités d’accueil ne pourraient plus faire face.

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    Lundi 23 novembre 2020, vers 19h, plusieurs centaines de personnes exilées issues du campement de St-Denis n’ayant pu bénéficier de “la #mise_à_l’abri” organisée par la préfecture de Paris la semaine précédente, accompagnées d’associations de soutien, d’avocats, d’élus et de journalistes, déploient 200 tentes sur la #place_de_la_République. Malgré la résistance des exilés et de leurs soutiens, la place sera évacuée le soir même. La police pourchassera jusque tard dans la nuit et en dehors de #Paris celles et ceux qui n’ont plus où aller. La #violence déployée fera l’objet de nombreuses images sur les réseaux sociaux.

    Cette opération est loin d’être inhabituelle, contrairement à ce que laisse penser la médiatisation inédite à laquelle elle a donné lieu et qui s’explique par une conjonction de facteurs : le lieu de la scène (le centre de Paris), le moment (montée des critiques sur les violences policières et adoption d’une loi interdisant de les filmer), les acteurs (des journalistes et des élus violentés et non plus seulement des exilés et leurs soutiens). Depuis le 2 juin 2015 et l’évacuation d’un campement dans Paris (sous le métro la Chapelle), on dénombre soixante-six opérations de ce type dans la capitale et sa petite couronne (une moyenne d’un par mois). Dans le Calaisis, elles relèvent de la routine.

    Les évacuations de campement sont ainsi devenues courantes, relayées par des articles de presse qui se suivent et se ressemblent, préférant souvent à l’analyse un alignement de faits bruts immédiats, peu éloignés des communiqués de la préfecture de police. Que révèle donc la litanie dans laquelle s’inscrit cet énième épisode ? Que cristallise-t-il comme phénomènes ?

    Pour le comprendre, nous proposons de revenir sur la manière dont sont fabriqués ces campements et mises en scène ces évacuations en faisant l’effort d’inverser le regard, de le diriger vers les coulisses que la lumière des projecteurs laisse dans l’ombre.

    La fabrique des campements

    À première vue, le campement apparaît comme le signe d’un #trop_plein, preuve que les étrangers seraient trop nombreux et que nous aurions atteint les limites de nos #capacités_d’accueil, d’un point de vue économique comme social. Les campements sont en réalité davantage fabriqués par les choix de politiques migratoires de l’État, que par une submersion par le nombre.

    Ceux qui survivent dans les campements du Nord de Paris sont majoritairement en demande d’asile, certains attendent une réponse, d’autres de pouvoir simplement déposer une demande, une minorité a été déboutée. Ils sont majoritairement Afghans et Soudanais, mais aussi Ethiopiens et Erythréens et dans une moindre mesure Guinéens et Ivoiriens. Pas de Chinois, de Sri-Lankais, de Maliens… qui sont accueillis – bien ou mal – par des compatriotes installés de longue date. Pas non plus de Syriens – qui sont peu venus en France.

    Les campements sont le résultat de #politiques_publiques qui ont précarisé les demandeurs d’asile au lieu de les laisser doucement s’intégrer au tissu économique et social de notre pays. Car en vertu d’une loi adoptée en 1991, les demandeurs d’asile n’ont pas le droit de travailler. En contrepartie, ils sont censés bénéficier d’un #hébergement, d’une #allocation et de l’#accès_aux_soins. En leur interdisant l’accès au marché de l’emploi, on les assigne à une #dépendance, qui leur est ensuite reprochée. Et qui s’est transformée en #précarité extrême – jusqu’à la rue pour certains – à mesure que les réformes successives ont introduit de nombreuses conditions pour accéder et se maintenir dans le #dispositif_d’aide. Des aides par ailleurs attribuées dans la pratique de manière toujours plus tardive, incomplète et fréquemment suspendues sous divers motifs, ou simplement par erreur.

    Les campements sont également fabriqués par le #choix_politique de sous-dimensionner de manière structurelle le #dispositif_d’hébergement dédié aux demandeurs d’asile. Ce choix, car il s’agit bien d’un choix et non d’une fatalité, est spécifiquement français. On ne trouve en effet aucun campement dans les rues des pays européens comparables à la France. Les seuls pays confrontés à ce phénomène sont ceux qui, situés aux portes de l’Europe, conjuguent arrivées massives et contexte économique dégradé, tels la Grèce, la Bulgarie ou l’Italie.

    Au plus fort des mouvements migratoires vers l’Europe en 2015, la France ne recensait que 79 000 demandeurs d’asile (soit 0,1% de sa population) là où l’Allemagne en comptabilisait un million, mais aucun camp de rue. L’#Allemagne a en effet choisi d’ouvrir des #hébergements, réquisitionner des centaines de gymnases et même un ancien aéroport, plutôt que de laisser les exilés dehors. En France, c’est la théorie de l’#appel_d’air, selon laquelle des conditions favorables risqueraient d’attirer les migrants et des conditions défavorables de les dissuader de venir, qui explique le choix de privilégier une politique basée sur l’#insuffisance_structurelle.

    À la fois issu de dynamiques spontanées (des personnes à la rue qui se regroupent pour passer la nuit) et organisées (des soutiens qui apportent nourritures, tentes et vêtements puis qui exigent des pouvoirs publics l’installation de points d’eau et de WC), les campements apparaissent et s’étendent jusqu’au jour où, jugés trop gros et/ou trop visibles, les autorités décident d’une opération d’évacuation. Ces évacuations laissent cependant toujours dans leur sillage les germes du prochain campement.

    Car si une partie des personnes est effectivement mise à l’abri dans des #hôtels pour entrer dans le #dispositif_national_d’accueil, d’autres sont placées dans des #gymnases avant d’être remises à la rue une ou deux semaines plus tard. Un dernier groupe est systématiquement laissé sur le trottoir sans aucune solution, pas même celle de retourner au campement puisque celui-ci a été détruit pour des raisons sanitaires.

    Un sondage organisé par des associations en 2020 a montré qu’une évacuation laisse en moyenne un quart des personnes sans solution le jour même et que près de la moitié de ceux qui sont mis à l’abri se retrouvent à la rue le mois suivant. Les deux-tiers des personnes évacuées l’auraient ainsi déjà été plusieurs fois.

    Rien d’étonnant donc à ce que les campements succèdent aux opérations de mise à l’abri, et inversement. Cela n’empêche pas la préfecture d’annoncer à chaque évacuation, que cette fois c’est la dernière.

    Une question se pose alors. À la soixante-sixième évacuation, alors que l’expérience longue pourrait informer de nouvelles pratiques, pourquoi rien ne change ?

    Est-ce de l’impuissance ? De l’impréparation ? Et si le campement et l’évacuation constituaient des répertoires de l’#action_publique, plutôt que les manifestations d’un phénomène qui la dépassent ? Ils serviraient alors à cadrer le débat en mettant en scène et en image l’immigration comme un problème, un « trop-plein », justifiant selon la théorie – jamais démontrée – de l’appel d’air, une politique de fermeté.

    Le campement : invisible mais pas trop

    Le campement doit pouvoir servir d’illustration sans cependant prendre trop d’ampleur. D’où une gestion subtile par l’État de la visibilité des campements qui nécessite de naviguer habilement entre la #mise_en_scène du débordement et la maîtrise du #désordre.

    Les campements existent de longue date en France (campements Rroms, campements du Calaisis depuis la fin des années 1990) ainsi que les regroupements informels (à Paris, gare de l’Est au début des années 2000, puis à Austerlitz en 2014) mais ne surgissent dans l’espace médiatique qu’à partir de l’été 2015. Leurs images, relayées par les médias et les réseaux sociaux, entrent en résonance avec les messages, différents selon les publics, que les autorités souhaitent faire passer sur l’immigration.

    Aux citoyens français, on montre l’immigration comme problème en mettant en #spectacle des migrants non seulement trop nombreux mais aussi affamés, sales, malades qui suscitent dès lors un mélange d’#empathie, de #dégoût et de #crainte. La persistance des campements malgré les évacuations fait apparaître l’immigration comme un puits sans fond en donnant l’impression qu’on écume, mais que l’inondation est trop importante.

    Aux migrants, c’est le message du #non-accueil (« il n’y a pas de place pour vous ») qu’on espère faire passer par ces images dans l’objectif de faire fuir ceux qui sont déjà là et décourager ceux qui pourraient vouloir venir.

    Mais les campements ne doivent pas non plus être trop visibles car ils peuvent susciter une #solidarité susceptible de se mettre en travers des politiques migratoires restrictives. Pour peu qu’ils soient au cœur des villes, ils peuvent devenir lieux de rencontre, d’apprentissages, d’engagement et de mobilisation. La quasi-totalité des #collectifs_solidaires est ainsi née dans les campements. Leur recrutement dans les milieux non militants et leur mode de fonctionnement agile et horizontal ont largement renouvelé et même bousculé le champ du soutien aux étrangers.

    Les campements, lieux où personne a priori ne souhaite se retrouver, sont ainsi devenus, dans un renversement, un objectif, un moyen d’obtenir quelque chose pour les exilés et leur soutien. Car, paradoxalement, alors que les évacuations avaient pour objectif affiché de faire disparaître les campements, elles ont abouti à en faire une modalité d’accès à l’hébergement, bien souvent la seule.

    « Faire tenir » un campement est devenu dès lors stratégique pour les personnes exilées et les militants. Il constitue non seulement une solution immédiate bien que précaire mais il permet aussi de rendre visible la situation des exilés et susciter par là une solution plus pérenne. Ce n’est dès lors plus seulement le campement mais aussi sa visibilité qui est devenue une ressource, pour les exilés et leurs soutiens. Et c’est bien en retour la lutte contre cette visibilité qui est devenue un enjeu pour les pouvoirs publics.

    D’où l’ambivalence du traitement étatique à l’égard des campements : les laisser se former tant qu’ils restent de petite taille et peu visibles, les évacuer mais jamais complètement ; les tolérer mais pas n’importe où. Surtout pas au centre, à Paris : depuis 2016, la politique de la préfecture de police de la capitale, appuyée en cela par la Mairie, consiste à repousser les campements à la périphérie puis à l’extérieur de la ville. Les consignes des policiers auprès des personnes exilées sont sans ambiguïté : pour espérer poser sa couverture quelque part, il faut partir en dehors de Paris.

    Le campement revient néanmoins sous les feu des projecteurs au moment de l’évacuation organisée comme un spectacle.

    L’évacuation : le spectacle… et ensuite

    L’évacuation est autant une opération de #maintien_de_l’ordre que de #communication. C’est le moment où l’État met en scène sa #responsabilité et sa #fermeté. Son #humanité aussi. Il doit laisser voir un subtil mélange de deux facettes : non, il n’est pas laxiste en matière d’immigration mais oui, il respecte les valeurs républicaines et humanistes. Il doit aussi faire croire aux habitants du campement, comme aux médias, que tout le monde va être mis à l’abri… tout en ayant prévu un nombre de places insuffisant.

    D’où les deux moments de l’évacuation : celui visible du spectacle sur une scène centrale sous les projecteurs, en présence de nombreux acteurs ; puis quand ces derniers sont partis, la suite en coulisses, où la violence peut se déployer à l’abri des regards.

    Après 66 évacuations parisiennes, il est possible d’identifier un #rituel respecté à la lettre. Les mêmes gestes sont répétés avec précision et minutie, sans presque aucune variation.

    D’abord la date : un vrai-faux mystère est savamment entretenu autour du jour de l’évacuation. Certains acteurs, les structures d’hébergement mais aussi les journalistes, doivent être au courant. D’autres, les associations et les personnes exilées, doivent être tenus dans l’ignorance pour limiter les risques d’installations de dernière minute sur le campement. Les collectifs solidaires seront néanmoins les premiers sur place au petit matin pour distribuer boissons chaudes et informations, tenter de récupérer du matériel et surveiller les comportements des policiers.

    Les opérations proprement dites débutent à 5h du matin par l’encerclement du campement par des policiers lourdement équipés ; le préfet arrive, il ouvre la conférence de presse à laquelle assistent les journalistes, les élus et l’opérateur France Terre d’Asile. Il déclare qu’il convient de lutter contre les « #points_de_fixation » que constituent les campements parce qu’ils sont dangereux « pour les riverains comme pour les migrants », il annonce que suffisamment de places ont été mobilisées pour que tout le monde soit hébergé, que c’est la dernière évacuation et que le campement ne se reformera pas. Les journalistes relaient le nombre de places rendues disponibles et interviewent un exilé et un soutien.

    Les exilés montent dans les bus après avoir été fouillés un par un, pendant que leurs tentes, sacs de couchage et autres affaires sont détruites. Les soutiens profitent de la fenêtre d’attention médiatique pour déployer une banderole destinée à être photographiée et relayée sur les réseaux sociaux.

    Alors que les journalistes et les élus sont partis depuis longtemps, on « s’apercevra » qu’il n’y a pas assez de place. Commence alors la seconde partie de l’évacuation. La mise à l’abri prend un sens différent : il s’agit de mettre à l’abri des regards ceux qui demeurent à la rue. Les policiers laissés seuls face à cette pénurie organisée, ayant ordre de faire disparaître « le campement », piochent alors dans leur répertoire : violence verbale et physique, coups de matraque, coups de pied, gaz lacrymo… pour chasser les personnes vers un ailleurs indéfini. Ce que les exilés et les soutiens encore présents s’efforceront de rendre visible par des photos et films sur les réseaux sociaux.

    *

    Comme les « faux mineurs isolés » et les « étrangers qui abusent » (des allocations, du système de soin et d’asile), les campements et leur évacuation sont une figure centrale du #récit_médiatique sur le phénomène migratoire. Pourtant, ils n’en représentent qu’une toute petite partie et nous en disent moins sur ce dernier que sur nos choix politiques. Ce récit sert tout autant à raconter une histoire qu’à en taire une autre.

    Les campements et les évacuations racontent l’immigration comme #problème et les étrangers comme trop nombreux et trop coûteux pour pouvoir être bien accueillis. L’horizon des politiques migratoires est dès lors restreint à une seule question : comment réduire le nombre des arrivées et éviter les « appels d’airs » ? Ainsi racontée, l’histoire interdit de prendre le recul nécessaire à une compréhension fine du phénomène migratoire. Elle dirige toutes les ressources vers le #non_accueil, le #contrôle et la #répression et les détourne de l’investissement dans l’accueil, la formation, l’insertion et tous les autres outils permettant aux étrangers de construire leur place dans notre société.

    Ce #récit laisse dans l’ombre l’histoire d’un #État qui condamne à la misère les nouveaux arrivants en les privant du droit de travailler, substitué par un système d’accueil structurellement sous-dimensionné et de moins en moins accessible. Il permet enfin de continuer à ignorer les recherches qui depuis maintenant plus de 30 ans démontrent de manière presque unanime que l’immigration est très loin de constituer un problème, économique, social ou démographique.

    Les campements sont un répertoire des politiques migratoires et non la conséquence d’un #trop_plein. Ils perdurent jusqu’à ce jour car ils sont non seulement le résultat mais aussi une justification des politiques migratoires restrictives. À rebours du campement et des impasses qui nous tiennent aujourd’hui lieu de politique, les recherches et les pratiques de terrain, vivifiées par l’émergence en 2015 d’un mouvement solidaire inédit, inventent des #alternatives et dessinent des perspectives où l’immigration n’est ni un problème ni une solution, mais bien ce qu’on en fait.

    https://aoc.media/analyse/2021/01/05/de-lusage-des-campements-dans-les-politiques-migratoires
    #campement #migrations #asile #réfugiés #Karen_Akoka #Aubépine_Dahan #précarisation #visibilité #in/visibilité #vide #plein #droit_au_travail #travail #SDF #sans-abris #sans-abrisme #destruction #ressources_pédagogiques

    ping @isskein @karine4

  • Relire #Dark_Knight_Returns de #Frank_Miller, ou le rêve d’une société sécuritaire sous surveillance (1)
    https://labojrsd.hypotheses.org/2862

    J’ai relu Dark Knight Returns, dans une édition en noir et blanc qui confère à la violence du plus mythique des héros DC #Comics une coloration sensiblement différente. Moins frappante mais non moins graphique,...

    #Billets #Batman #BD_étatsunienne #DC_Comics #dispositifs_sécuritaires #Etats-Unis #Gotham #Harvey_Dent #Joker #Super-Héros

  • L’hôpital de Besançon teste un anneau gonflable comme aide à l’accouchement pour éviter les césariennes
    https://www.ouest-france.fr/bourgogne-franche-comte/besancon-25000/l-hopital-de-besancon-teste-un-anneau-gonflable-comme-aide-a-l-accouche
    https://media.ouest-france.fr/v1/pictures/MjAyMDA5N2UwMDA1ZmM4OWU5ODA0ZWY2Yzc0YzQyODE1M2M0ZjE?width=1260&he

    Depuis le début de l’année 2020, le CHRU de Besançon (Doubs) teste une nouvelle aide à l’#accouchement : le #dispositif_Odon, du nom de son inventeur, un mécanicien argentin. En remplaçant les spatules et les forceps par un anneau gonflable en plastique, il pourrait permettre d’éviter de nombreuses césariennes. Il a déjà été utilisé sur 42 volontaires.

    #mécanique ah non #obstétrique :)

  • HCR - L’Ouganda accueille des réfugiés de la RDC malgré les mesures de prévention liées au Covid-19
    https://www.unhcr.org/fr/news/press/2020/7/5efd8bd4a/louganda-accueille-refugies-rdc-malgre-mesures-prevention-liees-covid-19.html

    « Je remercie le gouvernement ougandais et les communautés locales pour cette importante manifestation de solidarité avec les personnes qui fuient le conflit », a déclaré Joel Boutroue, le Représentant du HCR en Ouganda. « Cela prouve que même au cœur d’une crise mondiale comme celle du Covid-19, il est possible de mettre en place des mesures aux frontières qui respectent les normes internationales en matière de droits de l’homme et de protection des réfugiés. » L’Ouganda a mis en place des restrictions aux frontières en mars pour contenir la propagation du Covid-19, interrompant l’admission de nouveaux demandeurs d’asile dans le pays. Pour des raisons humanitaires, le Président de l’Ouganda a ordonné à son gouvernement de rouvrir temporairement la frontière de Zombo afin de permettre la fourniture d’une aide d’urgence et de garantir la protection du groupe de réfugiés. Le gouvernement a indiqué que les contrôles aux frontières devraient être réintroduits vendredi, une fois l’opération humanitaire terminée.Le HCR et ses partenaires, en coordination avec le Bureau du Premier Ministre, le Ministère de la Santé et le gouvernement local du district, ont œuvré 24 heures sur 24 à Zombo pour renforcer les capacités d’accueil à la frontière, y compris les infrastructures de quarantaine, et pour assurer un approvisionnement suffisant en d’aide d’urgence.
    Tous les nouveaux arrivants seront soumis à un contrôle de sécurité et à un examen médical à la frontière. Les personnes vulnérables seront identifiées, feront l’objet d’une procédure accélérée et recevront de l’aide de façon prioritaire.Dans un premier temps, le groupe sera mis en quarantaine au Zewdu Farm Institute, près du poste frontière, qui peut accueillir actuellement quelque 6000 personnes. Le HCR et ses partenaires y ont installé des tentes, des zones de dépistage sanitaire, des toilettes, des dispositifs pour se laver les mains et des réservoirs d’eau.
    Après la période de quarantaine obligatoire de 14 jours, conformément aux directives et protocoles nationaux, les demandeurs d’asile seront transférés dans les sites de réfugiés existants.

    #Covid-19#migrantmigration#ouganda#RDC#sante#humanitaire#HCR#dispositifsanitaire#urgence#refugie

  • Camps de migrants en Ile-de-France : « On est reparti pour un cercle infernal puissance 10 » - Le Parisien
    https://www.leparisien.fr/faits-divers/camps-de-migrants-en-ile-de-france-on-est-reparti-pour-un-cercle-infernal

    Dans ce contexte, MSF a maintenu son dispositif de santé publique en place lors de la crise sanitaire. « On a une clinique mobile 5 jours sur 7 jusqu’à fin septembre sur ces zones. C’est-à-dire un camion médicalisé avec médecins, infirmiers et traducteurs. On offre un accès aux soins et un diagnostic des cas suspects, puis une prise en charge Covid », rappelle la cheffe de mission de MSF. La situation pourrait s’aggraver cet été. « Il va y avoir des problèmes de présence d’acteurs humanitaires qui seront en nombre réduits en juillet et août. L’ouverture des frontières va provoquer une nouvelle vague d’immigration et, en plus, on voit arriver une population française nouvellement précaire », s’alarme Corinne Torre. « On est reparti pour un cercle infernal puissance 10 », conclut, lasse, la cadre associative.

    #Covid-19#migrant#migration#france#sante#dispositif #santepublique#humanitaire#postcovid19#frontiere#camp

  • #Villes et alimentation en période de #pandémie : expériences françaises

    La #crise_sanitaire a durement touché le monde entier, notamment la France, et a conduit à adapter les modes de #consommation, de #production et d’#approvisionnement pour faire face à cette situation inédite. Fermeture des marchés, des commerces, des restaurants et des cantines, pénurie de main d’œuvre dans la production agricole… Les acteurs du secteur ont dû s’adapter à un contexte évolutif pour garantir la #sécurité_alimentaire du pays. Malgré toutes ces difficultés, le système alimentaire français a tenu.

    Comment garantir la #sécurité et la #qualité de l’#approvisionnement_alimentaire pour tous en période de crise sanitaire ? Quels dispositifs ont été mis en place dans les villes françaises pour répondre à une situation inédite d’urgence ? Quels enseignements retenir de ces deux mois de confinement ? Quelle place les villes ont-elles vocation à occuper dans la redéfinition des #stratégies_alimentaires_territoriales en cours ?

    France urbaine, en partenariat avec les associations RESOLIS et Terres en villes, a mené une vaste #enquête intitulée « Villes et alimentation en période de pandémie : expériences françaises », dont résulte le #recensement des #dispositifs mis en place dans 30 grandes villes et agglomérations, permettant l’analyse des nombreux rôles joués par les villes, en partenariat avec les acteurs locaux, lors des deux mois de confinement.

    L’enquête et son analyse sont construites autour de quatre grands thèmes (#circuits_courts, distribution, #solidarité, #communication), dont voici les quatre principaux enseignements :

    - L’action menée dans l’#urgence ne doit pas contredire les besoins durables de #transition et de #résilience du système alimentaire ;
    – La réussite d’une action urbaine dans le domaine alimentaire nécessite un mouvement et une #organisation_collective, à savoir une « Alliance des territoires » et une synergie entre acteurs du système alimentaire ;
    – Des évolutions majeures sont en cours dans les modes agro-écologiques de #production_agricole, dans des mutations liées au numériques et dans les #comportements_alimentaires ;
    – La #mobilisation_citoyenne est nécessaire aux grandes #transformations du système alimentaire pour que celles-ci soient réussies et démocratiques.

    Qu’il s’agisse de réagir dans l’urgence ou d’agir dans la durée pour rendre les systèmes alimentaires plus résilients, plus solidaire et accélérer la #transition_alimentaire, les villes souhaitent collaborer ensemble, avec les différents acteurs du système alimentaire, d’autres territoires et apporter leurs contributions aux agendas nationaux et européens, à l’instar des stratégies « De la ferme à la fourchette » et « Biodiversité 2030 » de la Commission européenne, dévoilées le 20 mai dernier.

    https://franceurbaine.org/publications/villes-et-alimentation-en-periode-de-pandemie-experiences-francaises
    #rapport #France #alimentation #covid-19 #coronavirus #système_alimentaire #confinement #résilience #urban_matter

    Pour télécharger le rapport :
    https://franceurbaine.org/sites/franceurbaine.org/files/documents/franceurbaine_org/villes_alimentation_pandemie_26mai.pdf