• #Vidéo « Ça fait super mal en fait ! » : des députés ont expérimenté un simulateur de règles douloureuses

    Les députés écologistes #Sébastien_Peytavie et #Marie_Charlotte_Garin vont défendre une proposition d’#arrêt_menstruel à l’Assemblée, fin mars.
    Des petits cris de douleur. Les députés écologistes Sébastien Peytavie et Marie-Charlotte Garin ont fait tester à certains de leurs collègues masculines un simulateur de règles douloureuses, alors que leur proposition de loi pour instaurer un arrêt menstruel doit être débattue à partir du 27 mars à l’Assemblée nationale. Le texte, qui doit être étudié dans le cadre de la niche parlementaire écologiste, propose aux personnes atteintes de règles incapacitantes, et pouvant le justifier par un certificat médical, de prendre jusqu’à 13 jours d’arrêt maladie par an, sans carence.

    Dans une vidéo publiée sur X (ex-Twitter) vendredi 22 mars (https://twitter.com/speytavie/status/1771268422820590019), plusieurs députés de tout bord se prêtent à l’exercice... non sans douleur. « Ça fait super mal en fait ! », réagit notamment Benjamin Saint-Huile, député Liot du Nord. « Très douloureux », a aussi commenté l’ancien ministre Clément Beaune, redevenu député Renaissance de Paris. « C’est bien cette expérience, cela nous permet de mieux se mettre à la place… C’est horrible en fait », a réagi le député Les Républicains de l’Oise Maxime Minot.

    En février, le groupe socialiste au Sénat avait échoué à faire adopter un texte similaire. Le ministre de la Santé, Frédéric Valletoux, s’était montré ouvert à la discussion pour « continuer à briser les tabous », mais il s’était opposé à cette généralisation qui « tourne le dos au dialogue social », évoquant notamment le « risque de discrimination à l’embauche ».

    https://www.francetvinfo.fr/societe/droits-des-femmes/video-ca-fait-super-mal-en-fait-des-deputes-ont-experimente-un-simulate
    #règles #menstruations #douleur #hommes #femmes #test #expérimentation #parlement #France

  • #Lina_Soualem et #Hiam_Abbass : « Faire exister l’humanité du peuple palestinien »

    Après Leur Algérie, explorant la branche familiale paternelle, la réalisatrice Lina Soualem poursuit l’introspection du double exil qu’elle porte : l’Algérie mais aussi la Palestine. Bye bye Tibériade, son second documentaire, sort en salles mercredi 21 février. Bouleversant de tristesse mais aussi de joie, il raconte comment la lignée de femmes de sa famille maternelle, dont sa mère l’actrice Hiam Abbass, a été percutée par les violences de l’histoire.

    À travers elles, c’est l’histoire du peuple palestinien qui se déploie sur plusieurs décennies, un peuple qui subit une injustice historique et qui est revenu au cœur de l’actualité de la plus sanglante des manières. La sortie de Bye Bye Tibériade survient en pleine guerre à Gaza, où Israël mène, depuis le 7 octobre 2023 et les massacres du Hamas qui ont fait 1 160 morts, une riposte militaire. Celle-ci a tué plus de 29 000 personnes, dont 70 % sont des femmes et des enfants, dans l’enclave palestinienne.

    En explorant les douleurs de la mémoire familiale et collective à travers le prisme des femmes, Lina Soualem questionne aussi admirablement l’universel qui nous percute et nous rassemble : l’amour, l’exil, la famille, la terre, les racines.

    https://www.youtube.com/watch?v=9vsnwCDc1Ww

    #film #Palestine #cinéma #documentaire #film_documentaire #dépossession #héroïsme #arrachement #exil #identité #droit_à_la_complexité #culture #nakba #intimité #négation #histoire_familiale #parcours_de_vie #silence #art #récits_de_vie #mémoire_collective #peur_de_la_perte #maison #douleurs_du_passé #transmission #force_féminine #vie #humour #liberté #rupture #exil_forcé #patriarcat #poésie

  • Le barche dei migranti diventano un’orchestra. Alla Scala il primo concerto

    Dal legno delle imbarcazioni arrivate a Lampedusa violini, viole, violoncelli e contrabbassi. Il 12 febbraio suoneranno Bach e Vivaldi a Milano, in uno teatri più prestigiosi del mondo

    E alla fine approdano alla Scala di Milano. Sono violini, viole, violoncelli e contrabbassi costruiti con i legni delle barche dei migranti, arrivate a Lampedusa cariche di vite e di speranze, ma anche di morte e di lamenti. È l’Orchestra del Mare, quella che lunedì 12 febbraio suonerà per la prima volta, e lo farà nel teatro più famoso al mondo, con i suoi strumenti ancora verdi e azzurri e gialli come le assi dei gozzi che erano pochi mesi fa. Legni ben diversi dai pregiati abeti e aceri utilizzati nella liuteria, legni crepati, intrisi di gasolio e di salsedine, eppure casse armoniche in grado di suonare Bach e Vivaldi…

    Così come crepate sono le mani che hanno saputo trasformare le barche in orchestra, mani di uomini detenuti nel penitenziario milanese di Opera – i loro nomi sono Claudio, Nicolae, Andrea, Zurab –, diventati liutai sotto la guida di maestri esperti.

    Non poteva allora che chiamarsi Metamorfosi il progetto che ha dato vita a tutto questo, ideato dalla “Casa dello spirito e delle arti”, la fondazione creata nel 2012 per offrire all’umanità scartata un’opportunità di riscatto attraverso la forza inesauribile della bellezza e i talenti che ciascuno ha, anche in un carcere. «L’idea è nata come nella parabola della moltiplicazione dei pani e dei pesci – sorride Arnoldo Mosca Mondadori, presidente della Fondazione –: nel carcere di Opera da dieci anni funzionava la liuteria, dove il maestro liutaio Enrico Allorto e le persone detenute realizzavano i violini da donare ai ragazzini rom che al Conservatorio di musica non potevano permettersi uno strumento. Ma nel dicembre del 2021 portai nel laboratorio quattro legni delle barche di Lampedusa per fare un presepe e loro invece ne fecero un violino. Rimasi stupefatto, la loro idea si poteva moltiplicare, già mi immaginavo un’intera orchestra, poi – dissi loro – suonerà alla Scala».

    L’unico a credere subito a quella follia è stato Andrea, anni di carcere pesante in Tunisia e poi in Italia, nome d’arte Spaccabarche, perché lui e Claudio smontano i gozzi, Nicolae e Zurab li “rimontano” in violini e violoncelli. «Fu Andrea a darmi l’idea di rivolgermi all’allora ministro dell’Interno Luciana Lamorgese e chiedere che quegli scafi, fino a quel momento sotto sequestro per essere polverizzati e poi bruciati, venissero invece dati a noi e da “rifiuti speciali” diventassero memoria viva – continua Mosca Mondadori –. I Tir ne hanno trasportate in carcere un centinaio, così com’erano…».

    «Con all’interno scarpe, biberon, vestiti, salvagenti, tutine da neonato – racconta Andrea “Spaccabarche” –, allora ti chiedi chi era quella gente, se si sono salvati, da quale disperazione dovevano scappare, e rifletti su te stesso: c’è qualcuno che sta molto peggio di me e questo ti dà quel po’ di umiltà che nella vita non fa mai male, anche perché è quella che ti consente di continuare a imparare, quindi di cambiare».

    Metamorfosi, appunto. «Si tratta soprattutto di legni di conifere, che usiamo per il fasciame degli strumenti», spiega Enrico Allorto, che con Carlo Chiesa è il maestro liutaio, «mentre per lo scheletro utilizziamo un altro legno più duro di cui non conosco il nome. Sono alberi africani oppure, chissà, di importazione, non sappiamo quelle barche da dove arrivassero. Ovviamente non hanno la resa dei veri legni di liuteria, ma cerco i pezzi più adatti: i più leggeri per simulare l’abete rosso e i più pesanti per imitare l’acero di cui è fatto il fondo. È chiaro che sono legni difficili, hanno addosso la vernice delle barche, le crepe, i buchi: mentre costruiamo gli strumenti ripariamo i danni, ma c’è una sofferenza in questi difetti e il fatto che riescano comunque a suonare scuote emotivamente. Da quei violini esce un Sos, “non lasciateci morire”, anche i musicisti suonando si commuovono».

    E a suonarli alla Scala saranno alcuni tra i più grandi al mondo: i violoncellisti Mario Brunello e Giovanni Sollima e il violinista francese Gills Apap “dialogheranno” con i tredici strumentisti dell’Accademia dell’Annunciata diretti da Riccardo Doni, mentre l’installazione scenografica sarà un dono di Mimmo Paladino, artista di fama internazionale. «Il suono di questi strumenti viene da lontano: lontano al di là del Mediterraneo, e lontano nel tempo, forse di secoli», commenta Mario Brunello, solista abituato ad esibirsi con le orchestre più prestigiose con il suo prezioso violoncello “Maggini” dei primi del ‘600. «Quel legno che ha attraversato il mare ora suona il Terzo Concerto Brandeburghese di Bach e L’Inverno di Vivaldi, poi una pagina di virtuosismo violinistico come il celebre Preludio di Kreisler o l’affascinante White Man Sleeps di Kevin Volans, compositore sudafricano. Chiude il programma Violoncellos Vibrez di Giovanni Sollima», violoncellista che nei teatri si esibisce con il suo “Francesco Ruggeri” del XVII secolo ed è il compositore italiano contemporaneo più eseguito nel mondo.

    In ouverture lo scrittore Paolo Rumiz, triestino che ha nel sangue la poetica della frontiera e del viaggio, leggerà “La memoria del legno”, testo crudo e tagliente in cui l’albero racconta in prima persona le sue metamorfosi, dalla crescita in Africa come patriarca venerabile abitato dalle anime dei trapassati, a quando viene abbattuto da una scure senz’anima e attraverso il deserto arriva al mare. Lì trova mani delicate che lo trasformano in barca per pescatori. Dimenticato sulla spiaggia, è poi violentato da mani di trafficanti e in mare aperto ode le voci del suo carico umano. All’approdo finale è marchiato a fuoco come corpo del reato e verrebbe bruciato se altre mani delicate non lo trasformassero invece in violini. «L’ho scritto in metrica rigorosamente dispari, endecasillabi e settenari – spiega Rumiz – perché il ritmo pari è quello usato per far marciare gli eserciti». “Voi non mi riconoscerete – comincia l’albero – perché quando sono arrivato puzzavo di vomito e salsedine, ma ora vi racconto la mia storia…”.

    Tutti gli artisti prestano gratuitamente i loro talenti per il progetto Metamorfosi: «L’articolo 27 porta il Vangelo nella Costituzione, dice che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato – ricorda Mosca Mondadori – e niente come un lavoro ricostruisce la dignità delle persone». Tra le carceri di Opera a Milano), Secondigliano a Napoli, Monza e Rebibbia a Roma «diamo lavoro a venti persone con contratti a tempo indeterminato. Le persone cambiano per davvero, ne ho viste passare tante e tutte ce l’hanno fatta grazie al lavoro, sia in carcere che dopo: la misericordia supera i tempi della giustizia». Sembrano sogni, ma sono realtà imprenditoriali che richiedono grande concretezza, «i conti a fine anno devono tornare e ogni mese abbiamo stipendi da pagare, ci sostengono Intesa Sanpaolo e Confcommercio insieme a generose Fondazioni (Cariplo, Peppino Vismara, Santo Versace, Alberto e Franca Riva, Comunità di Monza e Brianza): non sono idee astratte, sono persone, e tu le vedi rinascere».

    Ne sa qualcosa Nicolae, il liutaio che “rimonta” le barche in viole e contrabbassi: «In liuteria mi dimentico di essere in carcere e mi sento utile, se sono in grado di costruire, allora non sono così scarso da non poter fare niente, solo che non ho avuto fortuna né ho trovato i riferimenti giusti nella vita. Non cerco giustificazioni per ciò che ho fatto, dico solo che ho capito che il mondo non è soldi e bella vita, ci sono tante cose piccole che possiamo dare l’uno all’altro – dice accarezzando il pezzo colorato del futuro violino che sta lavorando –. Io do il mio contributo qui dentro, in silenzio, ma poi quando qualcuno suonerà questo violino io spero che muoverà qualcosa nel mondo», assicura commosso. «A rovinarci è la sete di potere, invece la terra è di tutti e alla fine di nessuno: siamo solo di passaggio».

    L’Orchestra del Mare non si ferma qui, presto si aggiungeranno un clavicembalo, percussioni, chitarre, il liuto arabo, vari strumenti del mondo mediterraneo, «tutto ciò che si può costruire con le barche», e magari dopo la Scala arriveranno altri grandi teatri. Dal carcere di Secondigliano escono già mandolini e chitarre, la prima è stata suonata da Sting in persona l’aprile scorso nel carcere napoletano. «Il mio tormento d’amore è sempre stato la necessità di comunicare il mistero dell’Eucarestia, cioè la presenza del Crocefisso e Risorto nell’Ostia – riprende Mosca Mondadori – e questi sono strumenti eucaristici, perché hanno dentro la morte ma anche la speranza, e il loro suono arriva a tutti i cuori, anche se non credenti». Arriverà certamente ai 1.850 spettatori che hanno già fatto il “tutto esaurito” per il 12 febbraio e ai detenuti delle quattro carceri, gli unici che potranno vedere lo spettacolo in streaming nei loro auditorium.

    Solo i detenuti liutai saranno alla Scala ad ascoltare i “loro” strumenti, come fossero figli loro, due addirittura saranno in palco reale assieme al sindaco Beppe Sala, al cardinale Josè Tolentino de Mendonça, prefetto del Dicastero vaticano per la Cultura e l’Educazione, alla vicepresidente del Senato Maria Domenica Castellone, al capo del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) Giovanni Russo, al direttore del carcere di Opera Silvio Di Gregorio, tutti lì alla pari. Il perché lo ha spiegato papa Francesco, per il quale nel 2022 ha suonato il primo violino costruito con le barche, quello del presepe mancato: «Quando entro in carcere mi faccio sempre una domanda: perché loro e non io? Avrei potuto agire peggio di loro», che forse sono stati sfortunati, o deboli, o hanno avuto una famiglia difficile. Aiutare i carcerati, ha ricordato Francesco ai volontari della Casa dello Spirito e delle Arti, «è una delle cose che Gesù dice che ci farà entrare in Cielo, ero carcerato e siete venuti a trovarmi. Ma resta quella domanda: perché loro e non io?».

    È la stessa domanda che vale per chi partì su quelle barche diventate orchestra, fossi nato nella loro guerra, piegato dalla loro miseria, non sarei partito anch’io?, conclude Arnoldo Mosca Mondadori. «Se ci fosse mio figlio su quel gozzo, vorrei che fosse rimpatriato in Libia in un campo di concentramento o pregherei perché venisse accolto con umanità nel Paese in cui è arrivato? Questa è la domanda dirimente che, chiunque noi siamo, dobbiamo onestamente farci. Tutta Metamorfosi si riassume in questo unico interrogativo».

    https://www.avvenire.it/attualita/pagine/se-le-barche-diventano-un-orchestraalla-scala-lo-s
    #mémoire #embarcations #Méditerranée #migrations #réfugiés #naufrages #musique #instruments_de_musique #concert #Lampedusa #Orchestra_del_Mare #bois

    • #Metamorfosi

      Un progetto di progetti per trasformare il dolore in nuova speranza.

      «Metamorfosi» è un progetto della Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti in collaborazione con il Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria e l’Agenzia delle Accise, Dogane e Monopoli.

      Il progetto è reso possibile grazie a Fondazione Cariplo, Intesa Sanpaolo, Fondazione Peppino Vismara, Fondazione della Comunità di Monza e Brianza Onlus.

      Il progetto “Metamorfosi” è stato insignito della Medaglia del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione del 79° Festival del Cinema di Venezia durante il quale è stato proiettato il cortometraggio che racconta il progetto.

      Di fronte alla tragedia contemporanea che vede il Mar Mediterraneo come il più grande cimitero d’Europa e di fronte al dramma a cui stiamo assistendo quotidianamente di milioni di persone in fuga dalla guerra, la Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti ha voluto pensare a un progetto culturale e di conoscenza a cui ha dato il nome di «Metamorfosi».

      “Metamorfosi” è innanzitutto un concetto che vuole richiamare l’attenzione verso ogni persona costretta a fuggire dal proprio Paese a causa di guerre, persecuzioni e fame.

      “Metamorfosi” perché la proposta di porre lo sguardo su questi temi avviene attraverso non solo una metafora, ma una vera e propria metamorfosi: quella del legno dei barconi, trasportati dal molo Favarolo di Lampedusa in alcune carceri italiane, che viene trasformato in strumenti musicali e oggetti di testimonianza di carattere sacro.

      «Metamorfosi» affinché le persone e soprattutto i giovani possano conoscere una realtà, quella dei migranti, che viene spesso rimossa, guardata con indifferenza o affrontata e raccontata in modo ideologico.

      “Metamorfosi” perché a trasformare il legno dei barconi provenienti da Lampedusa in oggetti di speranza sono le persone detenute che vengono coinvolte nel progetto.

      Come nasce l’idea

      L’idea del progetto “Metamorfosi” è nata nel dicembre 2021 quando, all’interno del Laboratorio di Liuteria e Falegnameria nella Casa di Reclusione Milano-Opera, progetto istituito dal 2012, la Fondazione ha chiesto al falegname di Lampedusa Francesco Tuccio, di portare dei legni per costruire dei presepi che, nel tempo della pandemia, potessero essere un segnale di speranza per tutti, credenti e non credenti.

      Presepi dunque realizzati, sotto la guida di Francesco Tuccio, dalle persone detenute con il legno di una tragedia contemporanea.

      Nell’ambito di questa iniziativa, con alcuni dei legni è stato costruito un violino, utilizzando una tecnica risalente al 1500, con la quale in Inghilterra venivano costruite le viole da gamba.

      Il violino realizzato produce un suono che ha stupito musicisti e esecutori per la sua limpidezza.

      Il musicista e compositore Nicola Piovani, quando per primo lo ha ascoltato, ha deciso di scrivere una composizione dal titolo “Canto del legno”, che è stata eseguita davanti al Santo Padre dal primo violino dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Carlo Parazzoli.

      Questo primo violino tratto dal legno dei barconi è stato chiamato “Violino del Mare”.

      La collaborazione con il Ministero dell’Interno e con l’Agenzia delle Accise, Dogane e Monopoli

      Da qui prende spunto la Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti per chiedere all’ex Ministro degli Interni Luciana Lamorgese 60 imbarcazioni provenienti dal molo Favarolo di Lampedusa, affinché potessero essere creati, all’interno della Liuteria del carcere di Opera e di altre liuterie presenti in diverse carceri italiane, strumenti musicali: violini, viole e violoncelli per la nascita di una vera e propria “Orchestra del Mare”.

      Le imbarcazioni, grazie alla collaborazione con ADM, sono state trasportate da Lampedusa all’interno del carcere di Opera.

      Il progetto prevede di far suonare questi strumenti musicali ad orchestre italiane e straniere, portando con essi una cultura della conoscenza, dell’accoglienza e dell’integrazione, attraverso la bellezza e le armonie.

      Nello specifico, nel corso del 2022 sono stati costruiti, dalle persone detenute nelle diverse Case di Reclusione, un secondo violino, una viola e un violoncello; nel corso del 2023 saranno costruiti altri 6 violini e nel corso del 2024 saranno costruiti altri 8 strumenti ad arco.

      A coordinare la formazione e il lavoro delle persone detenute sono esperti liutai, come

      il liutaio Enrico Allorto che sta coordinando la Liuteria nel carcere di Opera.

      Strumenti musicali, Croci e Rosari

      Gli strumenti ricavati dai barconi trasportati nel 2022 da Lampedusa nelle diverse carceri, verranno dunque suonati dalle orchestre che aderiranno al progetto e viaggeranno, come segno di testimonianza, in Italia e all’estero. «L’Orchestra del Mare» è perciò un progetto di adesione e prenderà vita nel momento in cui gli strumenti ricavati dai barconi verranno di volta in volta suonati dalle orchestre che aderiranno al progetto. Un viaggio per testimoniare in Italia e all’estero, attraverso l’armonia, il dramma che vivono quotidianamente migliaia di persone migranti in tutto il mondo. Nel triennio 2022- 2024, insieme agli strumenti musicali che comporranno l’"Orchestra del Mare", nei Laboratori di Liuteria e Falegnameria all’interno delle carceri, verranno costruite migliaia di croci da donare alle scuole italiane. Inoltre, con lo stesso legno dei barconi, nel carcere di Monza e in quello di Rebibbia a Roma e con il coinvolgimento della Casa di Accoglienza Profughi Centro Astalli e l’Opera Cardinal Ferrari di Milano che accoglie persone senzatetto, saranno realizzati rosari che verranno donati al Santo Padre.

      La Rete delle Liuterie e Falegnamerie nelle carceri italiane

      Con l’Agenzia delle Accise, Dogane e Monopoli e il Dap, la Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti nell’agosto 2022 ha firmato un Protocollo per la creazione di una Rete di Liuterie e Falegnamerie nelle carceri italiane al fine di dare al Paese un forte segnale di testimonianza che ponga al centro la cultura e la dignità della persona.

      Ad oggi, le Case di Reclusione coinvolte sono quelle di: Milano- Opera, Monza, Rebibbia e Secondigliano.

      In ogni laboratorio, attraverso la Cooperativa Casa dello Spirito e delle Arti, sono assunte dalle tre alle cinque persone detenute.

      L’obiettivo comune delle diverse Liuterie e Falegnamerie è, dunque, la creazione di strumenti musicali che andranno a comporre l’”Orchestra del Mare” e di oggetti dal forte significato simbolico e sacro come, appunto, croci e rosari.

      I liutai e i falegnami coinvolti nelle diverse carceri restano in comunicazione tra di loro per coordinare il lavoro delle persone detenute in coerenza con gli obiettivi del comune progetto “Metamorfosi”.

      Il percorso immersivo per gli studenti

      “Metamorfosi” è un progetto anche di conoscenza.

      Il percorso proposto alle scuole e alle Università si svolgerà, a partire dal 2023, nella Casa di Reclusione Milano-Opera, dove tre barconi sono stati posti all’interno del carcere formando quella che è stata chiamata la «Piazza del Silenzio». All’interno di questa piazza situata al centro del Carcere, i giovani potranno partecipare ad una visita guidata, con la testimonianza di persone migranti che hanno vissuto personalmente il viaggio sui barconi.
      Questa esperienza potrà essere replicata, a partire dal 2024, anche nelle altre quattro carceri in collaborazione con le scuole e le Università locali.

      I momenti del percorso

      Ciascuna uscita didattico - formativa è suddivisa in diversi momenti.

      Il primo momento è nella “Piazza del Silenzio”: un narratore introdurrà il tema partendo dall’immigrazione del passato, in particolare dal racconto dell’emigrazione italiana e di come la storia si ripeta con i suoi pregiudizi e i suoi luoghi comuni.

      Dopo questo momento introduttivo, è prevista la testimonianza diretta di una persona migrante.
      I ragazzi sono invitati poi a meditare, ognuno in silenzio su un testo diverso, sulle testimonianze scritte da persone migranti tratte dal libro “Bibbia e Corano a Lampedusa” (La Scuola editore).

      I musicisti della Piccola Orchestra dei Popoli (progetto della Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti) accompagnano questo momento suonando gli strumenti realizzati nel Laboratorio, primo tra i quali il “Violino del Mare”.

      Nella seconda parte del percorso, i ragazzi vengono accompagnati nella Liuteria dove possono conoscere le persone detenute mentre lavorano nella costruzione degli strumenti musicali.

      Un ultimo momento del percorso è di carattere teorico e accademico sui temi cardine del progetto a cura del RiRes - Unità di ricerca sulla Resilienza del Dipartimento di psicologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

      Ai ragazzi infine, è richiesto di restituire le loro emozioni, impressioni e riflessioni attraverso uno scritto personale.

      La Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti curerà una pubblicazione che racconterà l’esperienza, i pensieri e le emozioni degli studenti in collaborazione con l’Associazione Francesco Realmonte e il RiRes.

      Protocollo d’intesa tra la Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti e il Museo del Violino di Cremona

      È stato condiviso tra la Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti e il Museo del Violino di Cremona, un protocollo di intesa nel quale uno dei violini prodotti nel carcere di Opera, è entrato nella collezione permanente del Museo del Violino e viene utilizzato presso l’Auditorium del Museo, soprattutto per momenti di natura didattica rivolti alle scuole. In queste occasioni, non solo “il Violino del Mare” viene suonato ma viene anche raccontata la sua storia attraverso il racconto delle guide e le immagini che ne testimoniano la storia.

      https://casaspiritoarti.it/it/progetti/metamorfosi

      #douleur #espoir

  • [A Question Of Listening] # 034 - Aïeaïeaïe et Zikzikzik sont sur un bateau…
    https://www.radiopanik.org/emissions/a-question-of-listening/034-aieaieaie-et-zikzikzik-sont-sur-un-bateau

    Habituellement, une #douleur apparaît à la suite d’une anomalie, et disparaît avec elle. La douleur aiguë (aiguë ne signifie pas nécessairement intense) est de courte durée (le temps nécessaire à la guérison) et a une cause précise, connue ou non : elle peut être provoquée par un trauma, un soin ou un examen médical ; rechercher sa cause et la traiter rapidement est important car plus une douleur dure, plus elle risque de s’installer et de devenir chronique. Une douleur est dite chronique lorsque : elle dure plus de 3 mois, malgré un traitement antidouleur ; elle persiste même si la cause a disparu ; elle est difficile à comprendre car elle n’a pas toujours de cause visible et elle varie parfois sans explication claire ; elle est envahissante, moralement et physiquement. Une #douleur_chronique peut (...)

    #musique #psychologie_cognitive #musique,psychologie_cognitive,douleur,douleur_chronique
    https://www.radiopanik.org/media/sounds/a-question-of-listening/034-aieaieaie-et-zikzikzik-sont-sur-un-bateau_16966__1.mp3

  • The Congo Tribunal

    En plus de 20 ans, la #guerre du #Congo a déjà fait plus de 6 millions de victimes. La population souffre de cet état d’#impunité totale, les #crimes_de_guerre n’ayant jamais fait l’objet de poursuites judiciaires. Cette région recèle les gisements les plus importants de #matières_premières nécessitées par les technologies de pointe. Dans son « #Tribunal_sur_le_Congo », Milo Rau parvient à réunir les victimes, les bourreaux, les témoins et les experts de cette guerre et à instituer un #tribunal d’exception du peuple du Congo de l’Est. Un portrait bouleversant de la guerre économique la plus vaste et la plus sanglante de l’histoire humaine.

    https://vimeo.com/234124116

    https://www.film-documentaire.fr/4DACTION/w_fiche_film/53668_0


    http://www.the-congo-tribunal.com

    #film #documentaire #film_documentaire #extractivisme #tribunal_des_peuples #justice_transformatrice #justice #vérité_et_justice #multinationales #responsabilité #Banro #RDC #massacres #témoignage #Twangiza #massacre_de_Mutarule #mine #extractivisme #Sud-Kivu #or #Banro_Corporation #impunité #crimes #douleur #tribunal #engagement #viols #vérité_et_justice #multinationales #guerre #concessions_minières #ressources_naturelles #pillage #minerai #Mining_and_Processing_Congo (#MPC) #Walikale #Bisie #droits_humains #MCP_Alptamin #Mukungwe #milices #Cheka_Group #groupes_armés #diamants #cassiterite #marché_noir #loi_Dodd_Frank #minerai_critique #Mutarule #MONUSCO #ONU #Nations_Unies

    • La production du réel sur scène est ce qui m’intéresse
      Entretien avec #Milo_Rau

      Né à Berne, en Suisse en 1977, Milo Rau étudie la sociologie auprès de Pierre Bourdieu et Tzvetan Todorov, ainsi que les littératures allemandes et romanes à Paris, Zurich et Berlin. Tout d’abord journaliste, ses premiers voyages et reportages se déroulent au Chiapas ainsi qu’à Cuba en 1997. À partir de 2000, Rau travaille comme auteur au sein de la Neue Zürcher Zeitung, un groupe de presse suisse qui édite le journal du même nom puis il entame en 2003 sa carrière de metteur en scène en Suisse tout d’abord et, par la suite, à l’étranger.

      https://www.cairn.info/la-video-en-scene--9782379243431-page-329.htm

    • #IIPM#International_Institute_of_Political_Murder

      Produktionsgesellschaft für Theater, Film und Soziale Plastik


      Das IIPM – International Institute of Political Murder wurde vom Regisseur und Autor Milo Rau im Jahr 2007 mit Sitz in der Schweiz und in Deutschland gegründet zur Produktion und internationalen Verwertung seiner Theaterinszenierungen, Aktionen und Filme.

      Die bisherigen Produktionen des IIPM stießen international auf große Resonanz und stehen für eine neue, dokumentarisch und ästhetisch verdichtete Form politischer Kunst – „Real-Theater“, wie Alexander Kluge Milo Raus Ästhetik einmal nannte. Seit 2007 hat das IIPM mehr als 50 Theaterinszenierungen, Filme, Bücher, Ausstellungen und Aktionen realisiert. Die Stücke des IIPM tourten durch bisher über 30 Länder und wurden an alle bedeutenden internationalen Festivals eingeladen. Wiederkehrende Kooperationspartner sind u. a. die Schaubühne am Lehniner Platz, das Théâtre Nanterre-Amandiers, das Theaterspektakel Zürich, das Kunstenfestival Brüssel, das Goethe Institut, die Prohelvetia, ARTE, das Schweizerische und das Deutsche Fernsehen, der Berliner Senat oder die Kulturstiftung des Bundes. Bisherige Projekt- und Essaybände des IIPM wurden mehrfach aufgelegt („Die letzten Tage der Ceausescus“, 2010), von der Bundeszentrale für Politische Bildung als Schulbücher nachgedruckt („Hate Radio“, 2014) und von der taz zum „Buch des Jahres“ gewählt („Was tun? Kritik der postmodernen Vernunft“, 2013). Für 2017 entstehen der ästhetiktheoretische Band „Wiederholung und Ekstase“ (Diaphanes Verlag, Abschlussband zu einem Forschungsprojekt, das das IIPM an der Zürcher Hochschule der Künste zum Realismus in den Künsten durchführte), die beiden Projektbände „Das Kongo Tribunal“ und „1917“ (beide Verbrecher Verlag) sowie das Manifest „Die Rückeroberung der Zukunft“ (Rowohlt Verlag).

      Seit der Gründung konzentriert sich das IIPM auf die multimediale Bearbeitung historischer oder gesellschaftspolitischer Konflikte: Unter anderem holte die Produktionsgesellschaft die Erschießung des Ehepaars Ceausescu („Die letzten Tage der Ceausescus“), den ruandischen Völkermord („Hate Radio“) und den norwegischen Terroristen Anders B. Breivik („Breiviks Erklärung“) auf die Bühne, boxte per Theaterperformance das Ausländerstimmrecht ins Parlament einer Schweizer Stadt („City of Change“), hob im Frühjahr 2013 mit zwei mehrtägigen Justiz-Spektakeln („Die Moskauer Prozesse“ und „Die Zürcher Prozesse“) ein völlig neues Theaterformat aus der Taufe und eröffnete mit „The Civil Wars“ (2014) das Großprojekt „Die Europa-Trilogie“, die mit „The Dark Ages“ (2015) fortgeführt wurde und 2016 mit „Empire“ ihren Abschluss fand. Mit „Five Easy Pieces“ (2016) und „Die 120 Tage von Sodom“ (2017) unterzogen Rau und das IIPM das Einfühlungs- und Darstellungsinstrumentarium des Theaters einer eingehenden Prüfung – das eine Mal mit minderjährigen, das andere mal mit behinderten Darstellern.

      Von Debatten weit über die Kunstwelt hinaus begleitet, wurden die vom IIPM produzierten Filme, Video-installationen, Peformances und Inszenierungen mit zahllosen Preisen weltweit ausgezeichnet. Die „zutiefst berührende“ (La Libre Belgique) Inszenierung „The Civil Wars“, von Publikum und Kritik euphorisch gefeiert, etwa wurde mit dem Jury-Preis der Theatertriennale „Politik im Freien Theater“ ausgezeichnet und von der Experten-Jury des Schweizer Fernsehens in die Liste der „5 besten Theaterstücke 2014“ gewählt. Außerdem wurde „The Civil Wars“ unter die „besten Stücke der Niederlande und Flanderns 2014/15″ ausgewählt. Die Inszenierung „Five Easy Pieces“ (2016) wurde mit dem Hauptpreis des belgischen „Prix de la Critique Théâtre et Danse“ ausgezeichnet. Zu den weiteren Auszeichnungen gehören Einladungen zum Berliner Theatertreffen oder ans Festival d’Avignon, der Schweizer Theaterpreis oder der Preis des Internationalen Theaterinstituts (ITI).

      „Mehr Wirkung kann Theater kaum provozieren“, urteilte die Basler Zeitung über die Lecture-Performance „Breiviks Erklärung“, die 2014 nach zahlreichen Stationen im EU-Parlament Brüssel zu sehen war. Die Produktion „Die Moskauer Prozesse“, zu der in Kooperation mit Fruitmarket Kultur und Medien GmbH eine Kinofassung und mit dem Verbrecher Verlag Berlin eine Buchfassung entstand, führte zu einer internationalen Debatte über Kunstfreiheit und Zensur. Die Kinofassung lief international in den Kinos und auf Festivals und wurde mit einer „Besonderen Auszeichnung“ am Festival des Deutschen Films 2014 geehrt.

      Zu den „Zürcher Prozessen“ entstand – wie auch zu den Produktionen „Die letzten Tage der Ceausescus“ und „Hate Radio“ – eine abendfüllende Filmfassung, die auf 3sat und im Schweizer Fernsehen ausgestrahlt wurde und in ausgewählten Kinos zu sehen war. Die Hörspielfassung von „Hate Radio“ wurde mit dem renommierten „Hörspielpreis der Kriegsblinden 2014“ ausgezeichnet.

      In der Spielzeit 2013/14 fand in den Sophiensaelen (Berlin) unter dem Titel „Die Enthüllung des Realen“ eine Retrospektive zur Arbeit des IIPM statt. Anlässlich der Ausstellung erschien im Verlag „Theater der Zeit“ eine gleichnamige Monographie mit Beiträgen von u. a. Elisabeth Bronfen, Heinz Bude, Alexander Kluge, Sandra Umathum, Michail Ryklin und Christine Wahl, die das Werk des IIPM aus verschiedenster Perspektive beleuchteten. Nach Einzelausstellungen in Österreich (Kunsthaus Bregenz 2011, Akademie der Bildenden Künste Wien, 2013) und der Schweiz (migrosmuseum für gegenwartskunst Zürich 2011, KonzertTheaterBern, 2013) handelte es sich dabei um die erste Retrospektive zur Arbeit Milo Raus und des IIPM in Deutschland, die in der Presse heiß diskutiert wurde.

      In der Saison 2014/15 folgten Werkschauen in Genf (Festival La Batie) und Paris (Théatre Nanterre-Amandiers), in der Saison 2015/16 in Gent (CAMPO). Die Live-Talkshowreihe „Die Berliner Gespräche“ (in Kooperation mit den Sophiensaelen und der Schweizerischen Botschaft Berlin) 2013/14 war der Startpunkt der Produktionsphase von Milo Raus Theaterinszenierung “The Civil Wars” (2014), dem ersten Teiler seiner „Europa Trilogie“. Die mit „The Dark Ages“ im Jahr 2015 weitergeführte und 2016 mit „Empire“ abgeschlossene, monumentale „Europa Trilogie“ – in der 13 Schauspieler aus 11 Ländern den Kontinent einer „politischen Psychoanalyse“ (Libération) unterziehen – führte zu euphorischen Reaktionen bei Presse und Publikum: „von der Intimität eines Kammerspiels und der Wucht einer griechischen Tragödie“, urteilte etwa das ORF über „Empire“.

      Zu einem weltweiten Medienecho führte auch das insgesamt 30stündige „Kongo Tribunal“, das Milo Rau und sein Team im Sommer 2015 in Bukavu und Berlin durchführten: ein Volkstribunal zur Verwicklung der internationalen Minenfirmen, der kongolesischen Regierung, der UNO, der EU und der Weltbank in den Bürgerkrieg im Ostkongo, der in 20 Jahren mehr als 5 Millionen Tote gefordert hat. Presse und Publikum verfolgten die „ungeheuerlich spannenden“ (taz) Verhöre atemlos. „Das ambitionierteste politische Theaterprojekt, das je inszeniert wurde“, urteilte die Zeitung THE GUARDIAN, und fügte hinzu: „Ein Meilenstein.“ „Ein Wahnsinnsprojekt“, schrieb die ZEIT: „Wo die Politik versagt, hilft nur die Kunst.“ Die belgische Zeitung LE SOIR schrieb: „Makellos. Milo Rau ist einer der freiesten und kontroversesten Geister unserer Zeit.“ Und die taz brachte es auf den Punkt: „Zum ersten Mal in der Geschichte wird hier die Frage nach der Verantwortung für Verbrechen gestellt.“ Mehr als hundert Journalisten aus der ganzen Welt nahmen an den Tribunalen in Ostafrika und Europa teil, um über das „größenwahnsinnigste Kunstprojekt unserer Zeit“ (Radio France Internationale – RFI) zu berichten.

      Als „ein Meisterwerk, brennend vor Aktualität“ (24 heures) und „atemraubend“ (NZZ) feierten Kritik und Publikum gleichermaßen Milo Raus Stück „Mitleid. Die Geschichte des Maschinengewehrs“ (Uraufführung Januar 2016, Schaubühne am Lehniner Platz Berlin), das seit seiner Uraufführung durch die Welt tourt und u. a. zum „Friedrich-Luft-Preis“ als bestes Stück der Saison in Berlin nominiert und in der Kategorie „Beste Schauspielerin“ (Hauptrolle: Ursina Lardi) in der Kritikerumfrage der Zeitschrift „Theater Heute“ auf den zweiten Platz gewählt wurde.

      Das im Frühjahr 2016 in Kooperation mit CAMPO Gent entstandne Stück „Five Easy Pieces“ war das erste IIPM-Projekt mit Kindern und Jugendlichen. Als „ganz großes Theater, menschlich, sensibel, intelligent und politisch“ beschrieb das belgische Fernsehen (RTBF) das Stück, das bereits durch halb Europa und bis Singapur tourte: „Ein Theaterstück jenseits aller bekannten Maßstäbe.“

      http://international-institute.de

      #art_et_politique

  • Lettre ouverte au président de la République française - L’Orient-Le Jour
    https://www.lorientlejour.com/article/1354010/lettre-ouverte-au-president-de-la-republique-francaise.html

    Lettre ouverte au président de la République française
    OLJ / Par Dominique EDDÉ, le 20 octobre 2023 à 10h30

    Monsieur le Président,

    C’est d’un lieu ruiné, abusé, manipulé de toutes parts, que je vous adresse cette lettre. Il se pourrait qu’à l’heure actuelle, notre expérience de l’impuissance et de la défaite ne soit pas inutile à ceux qui, comme vous, affrontent des équations explosives et les limites de leur toute puissance.

    Je vous écris parce que la France est membre du Conseil de sécurité de l’ONU et que la sécurité du monde est en danger. Je vous écris au nom de la paix.

    L’horreur qu’endurent en ce moment les Gazaouis, avec l’aval d’une grande partie du monde, est une abomination. Elle résume la défaite sans nom de notre histoire moderne. La vôtre et la nôtre. Le Liban, l’Irak, la Syrie sont sous terre. La Palestine est déchirée, trouée, déchiquetée selon un plan parfaitement clair : son annexion. Il suffit pour s’en convaincre de regarder les cartes.

    Le massacre par le Hamas de centaines de civils israéliens, le 7 octobre dernier, n’est pas un acte de guerre. C’est une ignominie. Il n’est pas de mots pour en dire l’étendue. Si les arabes ou les musulmans tardent, pour nombre d’entre eux, à en dénoncer la barbarie, c’est que leur histoire récente est jonchée de carnages, toutes confessions confondues, et que leur trop plein d’humiliation et d’impotence a fini par épuiser leur réserve d’indignation ; par les enfermer dans le ressentiment. Leur mémoire est hantée par les massacres, longtemps ignorés, commis par des Israéliens sur des civils palestiniens pour s’emparer de leurs terres. Je pense à Deir Yassin en 1948, à Kfar Qassem en 1956. Ils ont par ailleurs la conviction – je la partage – que l’implantation d’Israël dans la région et la brutalité des moyens employés pour assurer sa domination et sa sécurité ont très largement contribué au démembrement, à l’effondrement général. Le colonialisme, la politique de répression violente et le régime d’apartheid de ce pays sont des faits indéniables. S’entêter dans le déni, c’est entretenir le feu dans les cerveaux des uns et le leurre dans les cerveaux des autres. Nous savons tous par ailleurs que l’islamisme incendiaire s’est largement nourri de cette plaie ouverte qui ne s’appelle pas pour rien « la Terre sainte ». Je vous rappelle au passage que le Hezbollah est né au Liban au lendemain de l’occupation israélienne, en 1982, et que les désastreuses guerres du Golfe ont donné un coup d’accélérateur fatal au fanatisme religieux dans la région.

    Qu’une bonne partie des Israéliens reste traumatisée par l’abomination de la Shoah et qu’il faille en tenir compte, cela va de soi. Que vous soyez occupé à prévenir les actes antisémites en France, cela aussi est une évidence. Mais que vous en arriviez au point de ne plus rien entendre de ce qui se vit ailleurs et autrement, de nier une souffrance au prétexte d’en soigner une autre, cela ne contribue pas à pacifier. Cela revient à censurer, diviser, boucher l’horizon. Combien de temps encore allez-vous, ainsi que les autorités allemandes, continuer à puiser dans la peur du peuple juif un remède à votre culpabilité ? Elle n’est plus tolérable cette logique qui consiste à s’acquitter d’un passé odieux en en faisant porter le poids à ceux qui n’y sont pour rien. Écoutez plutôt les dissidents israéliens qui, eux, entretiennent l’honneur. Ils sont nombreux à vous alerter, depuis Israël et les États-Unis.

    Commencez, vous les Européens, par exiger l’arrêt immédiat des bombardements de Gaza. Vous n’affaiblirez pas le Hamas ni ne protégerez les Israéliens en laissant la guerre se poursuivre. Usez de votre voix non pas seulement pour un aménagement de corridors humanitaires dans le sillage de la politique américaine, mais pour un appel à la paix ! La souffrance endurée, une décennie après l’autre, par les Palestiniens n’est plus soutenable. Cessez d’accorder votre blanc-seing à la politique israélienne qui emmène tout le monde dans le mur, ses citoyens inclus. La reconnaissance, par les États-Unis, en 2018, de Jérusalem capitale d’Israël ne vous a pas fait broncher. Ce n’était pas qu’une insulte à l’histoire, c’était une bombe. Votre mission était de défendre le bon sens que prônait Germaine Tillion « Une Jérusalem internationale, ouverte aux trois monothéismes. » Vous avez avalisé, cette même année, l’adoption par la Knesset de la loi fondamentale définissant Israël comme « l’État-Nation du peuple juif ». Avez-vous songé un instant, en vous taisant, aux vingt et un pour cent d’Israéliens non juifs ? L’année suivante, vous avez pour votre part, Monsieur le Président, annoncé que « l’antisionisme est une des formes modernes de l’antisémitisme. » La boucle était bouclée. D’une formule, vous avez mis une croix sur toutes les nuances. Vous avez feint d’ignorer que, d’Isaac Breuer à Martin Buber, un grand nombre de penseurs juifs étaient antisionistes. Vous avez nié tous ceux d’entre nous qui se battent pour faire reculer l’antisémitisme sans laisser tomber les Palestiniens. Vous passez outre le long chemin que nous avons fait, du côté dit « antisioniste », pour changer de vocabulaire, pour reconnaître Israël, pour vouloir un avenir qui reprenne en compte les belles heures d’un passé partagé. Les flots de haine qui circulent sur les réseaux sociaux, à l’égard des uns comme des autres, n’exigent-ils pas du responsable que vous êtes un surcroît de vigilance dans l’emploi des mots, la construction des phrases ? À propos de paix, Monsieur le Président, l’absence de ce mot dans votre bouche, au lendemain du 7 octobre, nous a sidérés. Que cherchons-nous d’autre qu’elle au moment où la planète flirte avec le vide ?

    Les accords d’Abraham ont porté le mépris, l’arrogance capitaliste et la mauvaise foi politique à leur comble. Est-il acceptable de réduire la culture arabe et islamique à des contrats juteux assortis – avec le concours passif de la France – d’accords de paix gérés comme des affaires immobilières ? Le projet sioniste est dans une impasse. Aider les Israéliens à en sortir demande un immense effort d’imagination et d’empathie qui est le contraire de la complaisance aveuglée. Assurer la sécurité du peuple israélien c’est l’aider à penser l’avenir, à l’anticiper, et non pas le fixer une fois pour toutes à l’endroit de votre bonne conscience, l’œil collé au rétroviseur. Ici, au Liban, nous avons échoué à faire en sorte que vivre et vivre ensemble ne soient qu’une et même chose. Par notre faute ? En partie, oui. Mais pas seulement. Loin de là. Ce projet était l’inverse du projet israélien qui n’a cessé de manœuvrer pour le rendre impossible, pour prouver la faillite de la coexistence, pour encourager la fragmentation communautaire, les ghettos. À présent que toute cette partie du monde est au fond du trou, n’est-il pas temps de décider de tout faire autrement ? Seule une réinvention radicale de son histoire peut rétablir de l’horizon.

    En attendant, la situation dégénère de jour en jour : il n’y a plus de place pour les postures indignées et les déclarations humanitaires. Nous voulons des actes. Revenez aux règles élémentaires du droit international. Demandez l’application, pour commencer, des résolutions de l’ONU. La mise en demeure des islamistes passe par celle des autorités israéliennes. Cessez de soutenir le nationalisme religieux d’un côté et de le fustiger de l’autre. Combattez les deux. Rompez cette atmosphère malsaine qui donne aux Français de religion musulmane le sentiment d’être en trop s’ils ne sont pas muets.

    Écoutez Nelson Mandela, admiré de tous à bon compte : « Nous savons parfaitement que notre liberté est incomplète sans celle des Palestiniens, » disait-il sans détour. Il savait, lui, qu’on ne fabrique que de la haine sur les bases de l’humiliation. On traitait d’animaux les noirs d’Afrique du Sud. Les juifs aussi étaient traités d’animaux par les nazis. Est-il pensable que personne, parmi vous, n’ait publiquement dénoncé l’emploi de ce mot par un ministre israélien au sujet du peuple palestinien ? N’est-il pas temps d’aider les mémoires à communiquer, de les entendre, de chercher à comprendre là où ça coince, là où ça fait mal, plutôt que de céder aux affects primaires et de renforcer les verrous ? Et si la douleur immense qu’éprouve chaque habitant de cette région pouvait être le déclic d’un début de volonté commune de tout faire autrement ? Et si l’on comprenait soudain, à force d’épuisement, qu’il suffit d’un rien pour faire la paix, tout comme il suffit d’un rien pour déclencher la guerre ? Ce « rien » nécessaire à la paix, êtes-vous sûrs d’en avoir fait le tour ? Je connais beaucoup d’Israéliens qui rêvent, comme moi, d’un mouvement de reconnaissance, d’un retour à la raison, d’une vie commune. Nous ne sommes qu’une minorité ? Quelle était la proportion des résistants français lors de l’occupation ? N’enterrez pas ce mouvement. Encouragez-le. Ne cédez pas à la fusion morbide de la phobie et de la peur. Ce n’est plus seulement de la liberté de tous qu’il s’agit désormais. C’est d’un minimum d’équilibre et de clarté politique en dehors desquels c’est la sécurité mondiale qui risque d’être dynamitée.

    Par Dominique EDDÉ. Écrivaine.

  • In questo mondo : qualche riflessione su #Io_Capitano

    Rappresentare il dolore, la pena e la povertà degli altri è sempre un compito delicato e complicato. La migrazione oggi, resa illegale dalla legislazione europea e spettacolarizzata dai media, è il caso più evidente. L’empatia è apparentemente generata solo quando l’anonimato dei corpi stranieri può essere individualizzato per essere raccontato. Poteri e relazioni strutturali più ampie sono solitamente allontanati dal racconto, ridotti a vaghi riconoscimenti. La storia richiede l’identificazione dell’individuo. O, almeno, questo è ciò che ci insegna la nostra cultura.

    Tutto ciò è stato istituzionalizzato sia nella filosofia politica che nei romanzi che raccontano le nostre vite. Tuttavia, è una prospettiva che ci lascia con una povertà di spiegazioni e di comprensione. Nel recente film di Matteo Garrone, Io Capitano, incontriamo tali domande e problemi. Il viaggio di Seydou e del suo amico Moussa dal Senegal attraverso il Sahel e la Libia, e poi il Mediterraneo, è intensamente raccontato in tutti i suoi strazianti dettagli. Seydou, indotto dai suoi rapitori libici a guidare un barcone verso l’Europa, sperimenta tutte le remore morali della sua responsabilità. Nonostante tutto, riesce nella sua impresa. È un eroe e c’è un (temporaneo) lieto fine. Ma sappiamo che non è così. Oltre alle torture in Libia, questi migranti affrontano anche le condizioni di quasi schiavitù in Italia. Senza documenti e protezione, sono soggetti alla condizione di non avere il diritto di avere diritti. Il sogno europeo è spesso un incubo. Intrappolata in questi meccanismi, ulteriormente codificati e rafforzati dal razzismo strutturale, questa non è certo una narrazione che può essere facilmente trasmessa. Soprattutto, se siamo onesti, essa rivela la nostra responsabilità primaria nel racconto. Nel caso del film di Garrone, la costruzione dell’Africa come luogo di estrazione umana e materiale a beneficio dell’Occidente – dalla schiavitù e l’inizio della modernità atlantica ai metalli preziosi dei nostri gioielli e cellulari – riguarda in ultima analisi la costituzione coloniale del presente. Il migrante moderno non è solo un rifugiato economico o uno sgradito portatore di crisi, ma rappresenta piuttosto il ritorno di quella storia repressa.

    Quindi, cosa sto dicendo? Il film di Garrone non avrebbe dovuto essere realizzato? È un fallimento politico ed etico (e quindi estetico)? Le cose non sono mai così semplici. La consolazione delle alternative binarie, persino del ragionamento dialettico, sfugge. Per il momento, siamo bloccati con la narrazione individualizzata, con scelte e orizzonti ridotti a una comprensione soggettiva del mondo che oscura forze più profonde e relazioni più ampie. Il trucco è lavorare su questa imposizione in modo tale da spingerci oltre questi parametri. La risposta umanista all’eroe migrante è insufficiente. Dopo tutto, ci conferma nella nostra formazione del sentimento, quella stessa formazione che ha prodotto il ‘migrante’ contemporaneo attraverso la nostra colonizzazione delle risorse umane e materiali del pianeta.

    Non c’è una formula ovvia o un’alternativa pronta. Si tratta, pensando con il cinema, di un’estetica cinematografica che ci prepara a un’altra etica in cui la nostra posizione e il nostro punto di vista sono messi in discussione, interrotti, persino emarginati o aggirati. Il metodo non può che risiedere nella pratica cinematografica stessa.

    Ho in mente due film che affrontano il percorso etico ed estetico proposto in Io Capitano. Uno è diretto nel suo stile ‘documentaristico’ come il film di Garrone: Cose di questo mondo (2002) di Michael Winterbottom. L’altro, di Abderrahmane Sissako, Aspettando la felicità (2002), suggerisce un modo poetico di riconfigurare le brutali imposizioni della modernità. Mi limito al film di Winterbottom, più vicino per stile e intenti a quello di Garrone, dove entrambi i registi europei affrontano l’alterità di altri mondi che la loro (mia) cultura ha inquadrato e ora punisce. Nel film In This World seguiamo due afghani, Jamal e Enayatullah, provenienti dal campo profughi di Shamshatoo, vicino a Peshawar, nel nord-ovest del Pakistan, mentre cercano di raggiungere Londra attraversando Iran, Kurdistan, Turchia, Italia e Francia. Enayatullah muore per soffocamento nel container che porta loro e altri migranti da Istanbul via mare a Trieste. Jamal alla fine riesce ad arrivare a Londra. La ruvida bellezza del paesaggio, la violenza dei confini e l’avidità dei trafficanti sono presenti in tutta la loro crudezza.

    Anche il giovanissimo Jamal è un eroe semplicemente per essere sopravvissuto a tutte le avversità. Tuttavia, le relazioni sociali che si creano lungo il percorso, dalla vita familiare allargata a Peshawar alla solidarietà in Kurdistan e all’amicizia nella ‘giungla’ di Calais, ci fanno costantemente entrare in un mondo più ampio. Il singolo viaggiatore non è semplicemente parte della migrazione moderna: il campo di Peshawar è presentato all’inizio del film come il prodotto dell’aggressione prima sovietica e poi americana e alleata, dove sono state spesi quasi 8 miliardi di dollari nel 2001 per sganciare delle bombe sull’Afghanistan. Le brutali semplicità della geopolitica trasformano un’odissea personale in una riorganizzazione radicale delle mappe del mondo moderno: dal basso, dai margini, dal silenzio di altre storie. Anche la mia narrazione non riesce a marcare la differenza. Ciò che si nasconde nel linguaggio cinematografico è un eccesso che allude a qualcosa in più della spiegazione verbale. L’immagine contiene sempre un supplemento in più del semplice svolgimento del racconto. Lasciarla per così dire respirare, sottraendoci alla linearità della narrazione, dissemina una complessità in cui la poetica sostiene una politica più opaca ma profonda (lo stesso si può dire del film di Sissako).

    Riflettendo sul film di Matteo Garrone, delle cui opere cinematografiche resto un ammiratore, sia l’idealizzazione della vita familiare in Senegal sia l’impeto incessante della narrazione che ci spinge verso il Mediterraneo e l’Europa ci negano quello spazio: le sue ambiguità e complessità. Le immagini sono drammatiche, i sentimenti ben intesi, ma la sua estetica resta bloccata da un’etica che ha il fiato corto, che non è disposta a scavare più a fondo e nemmeno a lasciare che il migrante abiti una storia e un mondo che non è semplicemente nostro da raccontare.

    Chiaramente, non esiste una soluzione. Solo un viaggio critico perpetuo. Nel continuum coloniale del presente i nostri fallimenti, una volta riconosciuti e registrati, segnano ulteriori percorsi da perseguire.

    http://www.technoculture.it/author/i-chambers
    #film #douleur #empathie #migrations #colonisation #présent_colonial #colonialité_du_présent #Afrique #esthétique #éthique #continuum_colonial

  • Cancer : l’université des patients, redonner du pouvoir aux malades | La série documentaire
    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/lsd-la-serie-documentaire/l-universite-des-patients-redonner-du-pouvoir-aux-malades-3339211

    Parce qu’ils ont acquis de solides connaissances sur leur maladie et qu’ils ont appris à vivre avec certains patients choisissent de mettre leur expérience au service d’autres malades. Ils sont devenus patients-experts. 1er épisode d’une série de quatre sur les cancers. Durée : 57 min. Source : France Culture

  • Michela Murgia : « Il tempo migliore della mia vita »

    Ha scelto un anello nuziale con la rana, animale «ibrido», come la sua famiglia queer, un capolavoro di creatività degli affetti.

    Michela Murgia racconta la sua rivoluzione dell’amore, di un mondo dove ci sono coraggio e impegno, della morte (che non le fa paura). E si dichiara felice. Con un ultimo sogno coreano.

    https://www.youtube.com/watch?v=xklhwR90Djk


    #Michela_Murgia #amour #patriarcat #violence #père_violent #famille_queer #fuite #bible #foi #féminisme #pardon #famille #queer #famille_traditionnelle #couple #responsabilité #femmes #mariage #parentalité #seuil #maladie #tumeur #mort #douleur

    • La ricerca e la fede. Michela Murgia e quella sete di assoluto

      Era credente, e non ne aveva mai fatto mistero. Non le dispiaceva definirsi «teologa». La sua simpatia per papa Francesco non aveva niente di ideologico. Il ricordo di chi l’ha conosciuta da vicino

      L’ultima volta che ci siamo visti, Michela Murgia aveva appena donato a papa Francesco una copia della rivista di cui era stata direttrice per un solo numero. In copertina c’era lei, elegantissima e sorridente come sempre appariva da quando, nel maggio scorso, aveva deciso di rendere pubblica la fase terminale della sua malattia. “Aspetta, ho bisogno di appoggiarmi un attimo”, aveva detto mentre cercava uno sgabello. Era affaticata ma orgogliosa: di quel giornale che era diventato un manifesto delle sue convinzioni (“La famiglia è di tutti”, annunciava il titolo principale) e del fatto di averlo potuto consegnare nelle mani del Papa che proprio lei, conosciuta come iconoclasta, aveva difeso dalle accuse piovutegli addosso all’indomani dell’elezione (a proposito di titoli, quel “Bergoglio e pregiudizio” scelto per sintetizzare le sue posizioni resta memorabile).

      Michela Murgia era credente e non ne aveva mai fatto mistero. Fin dal suo libro di esordio, Il mondo deve sapere del 2006, non le dispiaceva definirsi teologa, una qualifica poi rivendicata in modo militante attraverso i suoi saggi, in particolare Ave Mary del 2011 e il controverso “catechismo femminista” God Save The Queer del 2022. Non erano mere provocazioni, anche se come tali si è cercato di farle passare. Tutto sommato, anche a Michela Murgia sarebbe convenuto metterla sul piano del paradosso intellettuale, dell’esagerazione argomentativa. Alla peggio, la si poteva buttare in politica, che in certi casi è il modo migliore per chiudere il discorso. Il punto è che la narratrice di Accabadora (il suo libro più celebre e compiuto, pervaso da un’incombenza del sacro per la quale è difficile trovare corrispettivi nella recente letteratura italiana) non si limitava a essere orgogliosa. Era anche una persona esigente, con gli altri e con sé stessa, con la propria scrittura e con le proprie convinzioni, sempre messe alla prova. Prendeva sul serio la fede e proprio per questo si aspettava molto dalla Chiesa.

      La sua simpatia nei confronti di Francesco non aveva niente di ideologico. Era la condivisione intima e istintiva di una dottrina della misericordia dalla quale nessuno, per nessun motivo, può sentirsi escluso. Su questi, che erano i temi che più le stavano a cuore, sapeva essere polemica come sono a volte gli adolescenti, che alzano la voce e sbattono le porte solo per essere sicuri di essere amati nonostante tutto, senza condizioni. A volte esagerano, d’accordo, ma hanno dalla loro la certezza che un amore che ponga condizioni semplicemente non è amore.

      Di tutto il resto si può discutere, ma a questo desiderio di assolutezza non si può né si deve aggiungere nulla. “Ho bisogno di appoggiarmi un attimo”, diceva Michela Murgia l’ultima volta che ci siamo visti. Ne abbiamo bisogno tutti, sempre, solo che spesso non abbiamo il coraggio di ammetterlo. Lei, invece, non ha voluto nascondere la sua fragilità finale. “Voglio andare avanti così, fino alla fine”, ripeteva. “Riesco a scrivere solo quando mi sento minacciata, quando il cuore mi impazzisce per la paura”, aveva confidato in un’altra occasione. Non so se fosse intenzionale, ma stava citando san Paolo, Seconda lettera ai Corinzi, “quando sono debole, è allora che sono forte”. È una bella definizione della fede. Senz’altro, è la definizione migliore per la fede di Michela Murgia, che sorrideva al Papa e si aspettava tanto – tutto – dalla Chiesa.

      https://www.avvenire.it/agora/pagine/le-sue-idee-1-michela-murgia-e-quella-sete-di-assoluto
      #foi #religion

  • Figlie

    Argentina 1978. Silvia è una donna di 35 anni, una architetta che si oppone alla dittatura, quando viene sequestrata dai militari insieme a sua figlia, Sofia, che ha solo due anni. Da quel momento, madre e figlia non si vedranno mai più: Sofia verrà riconsegnata ai nonni poco dopo il sequestro, mentre Silvia diventerà una dei 30.000 desaparecidos che non hanno fatto più ritorno a casa. Milano, 2022. Sofia, cresciuta in Italia, incontra Sara Poma. Le due donne scoprono di avere un’urgenza comune: quella di elaborare e raccontare il proprio lutto materno. Anche Sara, infatti, ha perso sua madre quando era molto giovane. Questa esigenza le porterà a compiere un viaggio in Argentina sulle tracce di Silvia, ma anche a riflettere sulla natura di un dolore che le ha accompagnate, seppur in maniera diversa, per tutta la loro vita adulta.

    https://www.raiplaysound.it/programmi/figlie

    #podcast #audio #desaparecidos #disparitions #dictature #histoire #Argentine #femmes #maternité #douleur #deuil

  • Hé oui. Un jour ou l’autre, vous tous·tes aussi devrez adhérer , si ce n’est déjà fait, au club très pénible des « Tamalous »

    Aujourd’hui, le doc vous explique comment soulager les douleurs liées au syndrome du canal carpien :

    Syndrome du canal carpien : 6 remèdes pour soulager la douleur
    https://docteurtamalou.fr/syndrome-du-canal-carpien-remedes-soulager-douleur

    Proche du syndrome de la souris, le syndrome du canal carpien résulte souvent d’un traumatisme du poignet ou de gestes répétitifs et contraignants (travail en force répété, manipulation d’outils au travail, etc.).
    [.../...]
    Pour les patients, l’inflammation va se traduire par des douleurs handicapantes dans la vie de tous les jours accompagnées d’engourdissements désagréables, de picotements gênants, voire d’une sensation de brûlure. Se pose alors la question de savoir comment soulager les douleurs et les fourmillements dans les mains. C’est justement ce que nous allons voir avec ces remèdes naturels efficaces contre le syndrome du canal carpien.

    #douleurs #vieillesse #soins #médecine

    • En fait, je vois du #Tamalou flamber dès 35 ans dans certains jobs bien ignorés comme pour les caissières de supermarché qui font aussi de la grosse manutention pour le même prix, sans formation spécifique et sans matos, chez les auxiliaires de vie, aides ménagères, etc., pour les mêmes raisons, les métiers agricoles, là aussi, les + pénibles sont féminisés et totalement sous les radars de la pénibilité.

    • Ma frangine, infirmière à domicile (employée par une assoc’ départementale en milieu rural et payée à coup de lance-pierre) a fini sa carrière en invalidité : deux prothèses de genoux et la colonne vertébrale ruinée. Elle souffre aussi du canal carpien mais ça c’est familial (à ce qu’il paraît).

    • Où on t’explique que, comme pour certains virus, si tu souffres c’est beaucoup de ta faute et un peu de la faute à pas de chance

      La quasi-totalité des professions nécessitent l’utilisation des mains :

      Soit pour des tâches répétitives comme pour les femmes de ménage ou les secrétaires,
      Soit pour des tâches intensives en force comme l’utilisation d’outils à percussion vibrants (marteaux piqueur, ponceuse, …) ou à percussions répétées de la paume de la main (maçons, coffreurs boiseurs, …).

      Cependant l’apparition d’un canal carpien exclusivement liée à une activité professionnelle reste rare. Le plus souvent, cette maladie de la main survient pour des modifications hormonales, une prise de poids ou à la suite d’une fracture du poignet.

      https://syndrome-canal-carpien.fr/causes/maladie-professionnelle

      Je vous cause même pas de la reconnaissance en maladie professionnelle.

  • Les troubles prémenstruels, enjeu négligé de santé publique

    Un sondage international en ligne de grande ampleur révèle la prévalence du syndrome prémenstruel et met en lumière des différences de ressenti selon les pays d’un phénomène parfois tourné en dérision.
    https://www.lemonde.fr/sciences/article/2022/10/11/les-troubles-premenstruels-enjeu-neglige-de-sante-publique_6145253_1650684.h

    #sante #femmmes
    #Tellmesomethingthatidontknow

    • « Etre indisposée ». Selon le dictionnaire Larousse, « être légèrement souffrante ». Pour près de 2 milliards de femmes dans le monde, cela signifie avoir ses règles, accompagnées d’un possible syndrome prémenstruel (SPM) – symptômes physiques et/ou changements d’humeur légers, ou des troubles dysphoriques prémenstruels (TDPM), plus rares et comprenant des symptômes plus invalidants. Ces troubles, qui débutent quelques jours avant la période menstruelle, prennent généralement fin quelques heures après le début des règles. Or, les données pour les étudier à une échelle globale sont limitées. D’où l’idée d’une équipe de chercheurs des universités de médecine de Baltimore et de Virginie (Etats-Unis) de passer par la voie numérique en sondant des utilisatrices de l’application Flo Health (Flo, en France) qui propose de suivre les cycles menstruels. L’étude, qui rassemble les réponses de 238 114 femmes de 18 ans à 55 ans dans 140 pays a été publiée dans Women’s Mental Health le 26 août.

      « Nous voulions déterminer dans quelle mesure les différents types de symptômes prémenstruels sont courants et s’ils ont un impact fonctionnel sur les femmes de manière régulière », explique Jennifer L. Payne, directrice du programme de recherche en psychiatrie de la reproduction à l’école de médecine de l’université de Virginie. Nous cherchions également à savoir s’il existait des différences entre pays. A ma connaissance, c’est la plus grande étude menée à ce jour. » Techniquement, ce questionnaire a été administré sur l’application à l’aide d’un chatbot (une intelligence artificielle conversationnelle), en dix langues (du chinois au russe), de mai 2017 à juin 2020.

  • Fibromyalgie : quand l’histoire essentialiste de la douleur révèle l’agnotologie de genre de la médecine
    https://joellepalmieri.org/2021/12/30/fibromyalgie-quand-lhistoire-essentialiste-de-la-douleur-revele-lagn

    La fibromyalgie, maladie chronique invalidante et méconnue, touche très majoritairement des femmes. En France, sa prise en charge est mauvaise et s’explique par une histoire du soin de la douleur emprunte d’une culture doloriste et d’une biologie ciblée qui néglige les symptômes nombreux de la maladie. Cette culture se double d’une négligence des rôles différenciés … Continuer de lire Fibromyalgie : quand l’histoire essentialiste de la douleur révèle l’agnotologie de genre de la médecine


    https://0.gravatar.com/avatar/9756ba41fe8333157071419a20733f4a?s=96&d=https%3A%2F%2F0.gravatar.com%2Fa

  • Une contestation non violente est-elle suffisante ?

    Günther Anders

    https://lavoiedujaguar.net/Une-contestation-non-violente-est-elle-suffisante

    Le niveau prérévolutionnaire de notre lutte contre les préparatifs de l’anéantissement total, celui qui ne consistait qu’en actes factices, sentimentaux et symboliques, appartient désormais au passé. Aller au-delà de ce niveau de violence — ou plutôt de non-violence — est certes en contradiction avec tous les principes et tabous auxquels nous n’avons cessé ou, du moins, je n’ai cessé pour ma part de me tenir depuis la Première Guerre mondiale et que je considérais même à vrai dire comme inviolables ; cela me met d’ailleurs dans un état que je n’ai aucune envie de décrire.

    Mais lorsqu’un des maîtres du monde croit pouvoir amuser son auditoire, comme c’est arrivé il y a peu, en annonçant avec un grand sourire qu’il va donner l’ordre de bombarder l’URSS, et que son public, en entendant cette sinistre plaisanterie, se prend comme un seul homme d’affection pour lui, il est de notre devoir d’adopter un comportement nouveau et de nous interdire dorénavant toute politesse et toute retenue : car il n’y a pas de danger plus sérieux que l’absence de sérieux chez les tout-puissants.

    Rester aujourd’hui mesuré et civilisé serait non seulement faire preuve de nonchalance mais ce serait aussi une marque de lâcheté, cela reviendrait à trahir les générations futures. Contre les monstres menaçants qui, tandis que les forêts disparaissent, s’élèvent dans le ciel pour, demain, faire de la terre un enfer, une « résistance non violente » n’a aucun effet ; ce n’est ni par des discours ou des prières, ni par des grèves de la faim et moins encore par des flatteries que nous les chasserons. (...)

    #Günther_Anders #non-violence #anéantissement #maîtres_du_monde #lâcheté #monstres #morale #armes #tuer #tabou #effroi #douleur #détermination

  • Documenter la douleur des autres : #souvenirs, #identités et #appartenance dans les imaginaires diasporiques des #Teochew

    La #mémoire_traumatique est un héritage avec lequel les descendants des #rescapés du #génocide_cambodgien doivent négocier pour trouver leur place dans une #histoire rompue, celle de leurs parents, et en France, pays où ils sont nés. Pour certains d’entre eux, l’#art et la #littérature sont un moyen de réparer les #blessures.

    La #migration s’accompagne invariablement d’une expérience de bouleversement, mais les circonstances du déplacement des #réfugiés du Cambodge – dont un nombre important de Chinois originaires du sud de la #Chine, les Teochew – équivaut à une réelle rupture. Le génocide mené par les #Khmers_rouges qui a anéanti près d’un quart de la population a laissé une génération dépourvue d’anciens et une fracture qui n’a pas été refermée quatre décennies plus tard. Pour les #réfugiés_cambodgiens, cette #séparation forcée est accentuée par l’apparente permanence de l’#exil. Comme pour tous les réfugiés et survivants cambodgiens, cette expérience du génocide est au cœur de la #mémoire_diasporique des Teochew, une mémoire déjà compliquée par l’histoire de #déplacements répétés (de la Chine au Cambodge et du Cambodge à la #France) et par un rapport ambivalent non seulement envers le Cambodge et son passé génocidaire mais aussi envers la Chine qui est restée silencieuse face à la persécution de ses diasporas.

    Comme mes recherches l’ont montré, ces histoires sont largement cryptées dans le #silence qui hante les familles de réfugiés, projetant les ombres du passé génocidaire à travers les générations. Les réflexions sur le travail de mémoire sino-cambodgien éclairent la relation entre lieux – de vie et d’appartenance –, mémoire et identité diasporique. Elles éclairent les conditions qui facilitent ou entravent la #transmission_intergénérationnelle ainsi que les luttes des générations post-réfugiées – celles qui n’ont pas vécu les #traumatismes mais qui sont néanmoins hantées par eux – pour récupérer cette histoire, et, à travers elle, leur place et leur appartenance à de multiples espaces de connexion.

    Ce texte fait référence aux prises de paroles de descendants de réfugiés cambodgiens (Jenny Teng, Mathieu Pheng et Lana Chhor) lors de la conférence « Générations Post-refugié.e.s » organisée à Sciences Po en décembre 2018. L’analyse de leur parole démontre à quel point le silence autour de la mémoire du génocide des Khmers rouges est un élément constitutif des identités des descendants nés et éduqués en France.

    Les générations post-génocide face au silence

    Dans ses réflexions sur le silence « post-génocide », Jenny Teng, cinéaste française d’origine cambodgienne Teochew, souligne qu’il existe « une culture du récit, de l’histoire, de la transmission des mots, qui est fondatrice de la diaspora et la culture juive » qu’on ne retrouve pas chez les Sino-cambodgiens, ce qui rend le témoignage encore plus difficile. Liant le silence à la honte et la culpabilité des survivants face à de telles violences et de telles pertes, elle note : « Les témoignages viennent ouvrir quelque chose qui était très secret. Et c’est peut-être parce que, dans ce secret, il y a une forme de culpabilité et une honte que ces enfants, que cette deuxième génération porte depuis l’enfance. » Pour Lana Chhor, auteure d’origine sino-cambodgienne, le silence engendre des effets dévastateurs non seulement « pour celui qui porte le silence mais aussi pour ceux à qui il est imposé. » Soulignant l’effet du silence qui, de manière simultanée, lie et fracture, elle compare la famille enveloppée par le silence à une « prison » où « chacun [se trouve] dans des cellules individuelles ». Les générations suivantes se retrouvent ainsi sans les outils nécessaires pour reconstruire et comprendre ces histoires et ces récits non seulement au sens linguistique mais aussi culturel et expérientiel. Comme le note Lana Chhor, « il est douloureux de grandir dans le silence car les mêmes questions reviennent, mais toujours sans réponses. »

    « Quelle place on donne aux disparus, aux défunts qui n’ont pas reçu de sépultures ? Les survivants ont en mémoire et au quotidien gardé une place, quelle est cette place ? »

    #Jenny_Teng, cinéaste et chercheure

    Le credo républicain de l’assimilation en France ne laisse pas de place à la pluralité des histoires, ce qui invisibilise non seulement les histoires des communautés diasporiques en France mais aussi les enchevêtrements de ces histoires avec l’histoire coloniale et post-coloniale de la France. Cet effacement permet à la France de ne considérer les réfugiés que comme des personnes à sauver et les politiques d’asile comme une action humanitariste plutôt que comme une responsabilité. Pour beaucoup, comme l’exprime Jenny Teng, le vide créé par l’inconnu et le non reconnu provoque un questionnement existentiel : « où se sent-on chez soi, physiquement, symboliquement ? » Pour les générations post-réfugiées, historiciser leur identité est donc un moyen d’affirmer leur humanité et individualité (personhood) et, comme le dit Lana Chhor, « d’enlever les étiquettes que la société nous met malgré nous ». En récupérant ces histoires enfouies et désavouées, ils récupèrent un lien avec un passé, et à travers ce passé une place dans le présent – au Cambodge, en Chine, en France – et une identité collective qui s’oppose à l’invisibilisation, à l’altérité, et à un « entre-deux » qui signifie essentiellement être à l’extérieur.
    Les générations post-génocide face à la mémoire

    Comme pour d’autres histoires traumatiques, avec le passage des générations, les questions de transmission et de conservation de la mémoire acquièrent une certaine urgence. Écrivant sur la transmission de la « tutelle de l’Holocauste », l’écrivaine Eva Hoffman décrit la deuxième génération comme « la génération charnière dans laquelle les connaissances reçues et transférées des événements sont transformées en histoire ou en mythe1. Comment les générations « postmémoire », ainsi que les appelle une autre écrivaine, Marianne Hirsch, reçoivent-elles et négocient-elles ces « expériences puissantes, souvent traumatisantes, qui ont précédé leur naissance mais qui leur ont pourtant été si profondément transmises qu’elles semblent constituer des souvenirs pleins ? » Comment raconter et aborder la « douleur des autres sans se l’approprier » comme la philosophe Susan Sontag l’a si bien décrit ? Et comment faire cela avec seulement des fragments de souvenirs, glanés ici et là, et à distance depuis son perchoir générationnel ? Quelles sont, le cas échéant, les négociations entre éthique et esthétique de la mémoire ?

    « Le credo républicain de l’assimilation en France ne laisse pas de place à la pluralité des histoires, ce qui invisibilise non seulement les histoires des communautés diasporiques en France mais aussi les enchevêtrements de ces histoires avec l’histoire coloniale et post-coloniale de la France. »

    Khatharya Um

    Significativement, à partir de leur « proximité distanciée », les générations post-réfugiées peuvent s’engager dans cette histoire traumatisante d’une manière impossible pour les survivants de la première génération. Les « entre-deux » spatiaux, temporels et générationnels, des lieux que #Mathieu_Pheng, documentariste d’origine franco-cambodgienne, décrit comme « les endroits où ça frictionne » – ne sont pas seulement des espaces de tension mais aussi de possibilité, où la distance générationnelle offre de nouvelles perspectives, un sentiment d’urgence renouvelé, où le créatif et le critique peuvent émerger des ruines de la guerre, du génocide et de l’exil. Pour Jenny Teng, qui centre ses œuvres sur cette notion d’« entre », la création est un pont entre le passé et le présent, et la caméra une fenêtre vers un passé douloureux qui « permet à la personne qui témoigne, de se constituer en témoin dans le sens premier, c’est-à-dire qu’elle va dire ce qu’elle a vu, ce qu’elle a connu pour l’inscrire dans l’histoire. Le documentaire a cette force-là, qui est de sortir du cercle familial et de l’affect, peut-être trop chargé, pour s’adresser à la fenêtre qu’ouvre la caméra. » Les documentaires offrent également une opportunité de dialogue intergénérationnel et de co-création qu’elle considère comme ouvrant la voie « pour sortir du tabou familial » même si cela prend du temps.

    Si l’art et l’écriture ont leur rôle dans la promotion des liens intergénérationnels et de la guérison, ils ne peuvent ni consoler ni restaurer les pertes subies par les réfugiés. Pour Jenny Teng, la possibilité offerte par la création artistique n’est pas forcément la récupération, qu’elle juge impossible, mais un moyen de « permettre à la solitude d’être un petit peu apaisée… Donc c’est vraiment consoler la souffrance de la souffrance, pas la souffrance en elle-même. » Également investie dans la potentialité réparatrice de l’art, Lana Chhor voit les mots comme aidant à suturer le vide et la blessure engendrés par le silence spectral de l’histoire : « Autant qu’ils peuvent blesser, je suis intimement convaincue que les mots peuvent réparer. »

    http://icmigrations.fr/2020/11/18/defacto-023-03

    #diaspora #douleur #mémoire #Cambodge #génocide

  • « Aller à l’hôpital, y passer sa vie, y mourir », Douleur et souffrance 5/7 : l’#hôpital - Recherche de notre temps - (1ère diffusion : 09/04/1963). au moment de Naissance de la clinique
    https://www.franceculture.fr/emissions/les-nuits-de-france-culture/recherche-de-notre-temps-douleur-et-souffrance-57-lhopital-1ere-diffus

    «Un malade intelligent, c’est bien plus difficile à soigner.» un infirmier.

    Par Harold Portnoy - Présentation Michel Foucault - Avec Claude Revault d’Allones et Alfred Métraux - Réalisation José Pivin

    On aura beau décrier, dénoncer et conchier tant et plus #Michel_Foucault, ce à quoi il a contribué reste inoubliable.

    Toute la série vaut la peine.

    #douleur #souffrance #institution #clinique #soin

  • Le rapatriement des décédés du Covid-19 autorisé | Lequotidien Journal d’informations Générales
    https://www.lequotidien.sn/le-rapatriement-des-decedes-du-covid-19-autorise

    Les corps des Sénégalais décédés du coronavirus pourront être enterrés chez eux. Cette décision prise hier par Macky Sall va soulager la diaspora, mobilisée pour réaliser les dernières volontés de leurs parents. « Chaque deuil nous affecte profondément, surtout lorsqu’à cette souffrance s’ajoute la douleur de la distance, quand le décès survient à l’étranger. Ainsi, tenant compte de la forte demande de rapatriement de corps de nos compatriotes décédés du Covid-19 à l’étranger, et sur la base d’avis motivés que nous avons recueillis en ce qui concerne les conditions sanitaires, il sera désormais possible de procéder à ces rapatriements », déclare Macky Sall ce 11 mai 2020.

    #Covid-19#migrant#migration#Sénégal#diaspora#rapatriement#corps#douleur#pandémie#politique#santé#décès

  • #Homothérapies, #conversion_forcée

    Électrochocs, lobotomies frontales, « thérapies » hormonales… : dans les années 1970, aux États-Unis, la #dépsychiatrisation de l’homosexualité met progressivement fin à ces pratiques médicales inhumaines, tout en donnant naissance à des mouvements religieux qui prétendent « guérir » ce qu’elles considèrent comme un péché, une déviance inacceptable. Depuis, les plus actives de ces associations – les évangéliques d’Exodus ou les catholiques de Courage – ont essaimé sur tous les continents, à travers une logique de franchises. Bénéficiant d’une confortable notoriété aux États-Unis ou dans l’ultracatholique Pologne, ces réseaux œuvrent en toute discrétion en France et en Allemagne. Mais si les méthodes diffèrent, l’objectif reste identique : convertir les personnes homosexuelles à l’hétérosexualité ou, à défaut, les pousser à la continence. Comme Deb, fille d’évangélistes de l’Arkansas ouvertement homophobes, Jean-Michel Dunand, aujourd’hui animateur d’une communauté œcuménique homosensible et transgenre, a subi de traumatisantes séances d’exorcisme. De son côté, la Polonaise Ewa a été ballottée de messes de guérison en consultations chez un sexologue adepte des décharges électriques. Rongés par la honte et la culpabilité, tous ont souffert de séquelles psychiques graves : haine de soi, alcoolisme, dépression, tentation du suicide…

    Étayée par le travail de deux jeunes journalistes, dont l’un s’est infiltré dans des mouvements français – des rencontres façon Alcooliques anonymes de Courage aux séminaires estivaux de Torrents de vie, avec transes collectives au menu –, cette enquête sur les « thérapies de conversion » donne la parole à des victimes de cinq pays. Leurs témoignages, à la fois rares et bouleversants, mettent en lumière les conséquences dévastatrices de pratiques qui s’apparentent à des dérives sectaires. « Nous avons affaire à une espèce de psychothérapie sauvage qui peut amener à la destruction de la personnalité », affirme ainsi Serge Blisko, ancien président de la #Miviludes (Mission interministérielle de vigilance et de lutte contre les dérives sectaires). En mars 2018, le Parlement européen a voté une résolution appelant les États membres à interdire ces prétendues thérapies. Jusqu’à maintenant, seul Malte a légiféré sur le sujet.


    https://boutique.arte.tv/detail/homotherapies_conversion_forcee
    #film #film_documentaire #documentaire
    #homophobie #LGBT #thérapie #église #Eglise #douleur #souffrance #rejet #choix #déviance #guérison #sexualité #genre #Exodus #thérapies_de_conversion #fondamentalisme_chrétien #maladie #Eglise_catholique #Eglise_évangélique #catholicisme #Les_Béatitudes #douleur #confession #communion_Béthanie #lobotomie #déviance #éradication #foi #Alan_Chambers #Desert_Streams #Living_Waters #Richard_Cohen #Alfie's_home #Journey_into_manhood #virilité #Brothers_Road #courage #Wüstenstrom #Günter_Baum #Torrents_de_vie #Andrew_Comiskey #masculinité #communauté_de_l'Emmanuel #David_et_Jonathan #homosexualité_transitionnelle #homosexualité_structurelle #homosexualité_accoutumance #pornographie #méthode_aversive #médecine #Bible #pêché #Père_Marek_Dziewiecki #compassion #culpabilité #haine #culpabilité_douce #violence #mépris #continence #résistance_à_la_tentation #tentation #responsabilité #vulnérabilité #instrumentalisation #exorcisme #démon #Gero_Winkelmann #violence_familiale #manipulation #secte #dérive_sectaire #dépression #business #honte #peur #suicide #justice #Darlen_Bogle

  • L’obsession de la santé parfaite, Ivan Illich - Le Monde diplomatique, mars 1999.
    https://www.monde-diplomatique.fr/1999/03/ILLICH/2855

    Dans les pays développés, l’obsession de la santé parfaite est devenue un facteur pathogène prédominant. Le système médical, dans un monde imprégné de l’idéal instrumental de la science, crée sans cesse de nouveaux besoins de soins. Mais plus grande est l’offre de santé, plus les gens répondent qu’ils ont des problèmes, des besoins, des maladies. Chacun exige que le progrès mette fin aux souffrances du corps, maintienne le plus longtemps possible la fraîcheur de la jeunesse, et prolonge la vie à l’infini. Ni vieillesse, ni douleur, ni mort. Oubliant ainsi qu’un tel dégoût de l’art de souffrir est la négation même de la condition humaine.
      
    Quand on considère en historien notre médecine, c’est-à-dire la médecine dans le monde occidental, on se tourne inévitablement vers la ville de Bologne, en Italie. C’est dans cette cité que l’ ars medendi et curandi s’est séparé, en tant que discipline, de la théologie, de la philosophie et du droit. C’est là que, par le choix d’une petite partie des écrits de Galien (1), le corps de la médecine a établi sa souveraineté sur un territoire distinct de celui d’Aristote ou de Cicéron. C’est à Bologne que la discipline dont le sujet est la douleur, l’angoisse et la mort a été réintégrée dans le domaine de la sagesse ; et que fut dépassée une fragmentation qui n’a jamais été opérée dans le monde islamique, où le titre de Hakim désigne, tout à la fois, le scientifique, le philosophe et le guérisseur.

    Bologne, en donnant l’autonomie universitaire au savoir médical et, de plus, en instituant l’autocritique de sa pratique grâce à la création du protomedicato , a jeté les bases d’une entreprise sociale éminemment ambiguë, une institution qui, progressivement, a fait oublier les limites entre lesquelles il convient d’affronter la souffrance plutôt que de l’éliminer, d’accueillir la mort plutôt que de la repousser.

    Certes, la tentation de Prométhée (2) s’est présentée tôt à la médecine. Avant même la fondation, en 1119, de l’université de Bologne, des médecins juifs, en Afrique du Nord, contestaient l’effacement des médecins arabes à l’heure fatale. Et il a fallu du temps pour que cette règle disparaisse : encore en 1911, date de la grande réforme des écoles de médecine américaines, on enseignait comment reconnaître la « face hippocratique » , les signes qui font savoir au médecin qu’il ne se trouve plus devant un patient, mais devant un mourant.

    Ce réalisme appartient au passé. Toutefois, vu l’encombrement par les non-morts grâce aux soins, et vu leur détresse modernisée, il est temps de renoncer à toute guérison de la vieillesse. Par une initiative, on pourrait préparer le retour de la médecine au réalisme qui subordonne la technique à l’art de souffrir et de mourir. Nous pourrions sonner l’alarme pour faire comprendre que l’art de célébrer le présent est paralysé par ce qui est devenu la recherche de la santé parfaite.

    #soin #système_médical #médecine #santé #santé_parfaite #vieillesse #art_de_souffrir (...) #douleur #patint #mourant #Ivan_Illich

  • La surconsommation d’opioïdes est liée à la pauvreté, selon une étude, Chloé Hecketsweiler
    https://www.lemonde.fr/societe/article/2020/02/20/la-surconsommation-d-opioides-est-liee-a-la-pauvrete-selon-une-etude_6030149

    Ce travail inédit, réalisé en France, révèle également que les politiques de lutte contre la précarité ont un effet positif sur la réduction de l’usage des antalgiques opiacés.

    La #pauvreté incite-t-elle à consommer davantage de médicaments #opiacés ? Ou ces antalgiques entraînent-ils certains patients dans une spirale d’addiction et de déclin ? Pour la première fois, des économistes se sont penchés sur le cas de la France, et pour eux, dans l’Hexagone du moins, la première hypothèse est la bonne.

    Lire aussi Antalgiques : les chiffres inquiétants de l’addiction aux opiacés en France
    https://www.lemonde.fr/les-decodeurs/article/2019/02/22/antalgiques-les-chiffres-inquietants-de-l-addiction-aux-opiaces-en-france_54

    Selon leurs calculs, l’augmentation du taux de pauvreté de 1 % dans un département se traduit par une augmentation de 10 % de médicaments opiacés. Ces chercheurs de l’Université libre de Bruxelles (ULB) ont exploité les données de vente d’antalgiques en France entre 2008 et 2017 – jusque-là jamais exploitées à l’échelle départementale – et plusieurs indicateurs socio-économiques : le taux de pauvreté (14 % en moyenne dans le pays), le taux de chômage, la densité de population ou le niveau d’éducation. Cette approche leur a permis d’étudier l’influence de ces différentes variables, et de comparer les départements entre eux.

    « Morts de désespoir »

    « Ce résultat valide l’hypothèse des “deaths of despair” [morts de désespoir] américains », commente Mathias Dewatripont, l’un des coauteurs de l’étude, qui n’a pas encore été publiée. Conceptualisée par le Prix Nobel d’économie Angus Deaton et sa consœur Anne Case, cette hypothèse explique la surmortalité liée aux drogues et aux médicaments par le blues de la « working class » américaine, prise au piège d’une économie en berne. Aux Etats-Unis, les antalgiques opiacés ont ainsi causé au moins 200 000 décès depuis 1999. Près de 100 milliards de comprimés ont été distribués pour la seule période 2006-2014.

    Cette crise pourrait-elle se propager en Europe ? En matière de consommation d’opioïdes, la France arrive en quatrième position, après le Royaume-Uni, l’Allemagne et l’Espagne, mais les autorités s’inquiètent de l’engouement des patients pour certaines molécules. En janvier, l’Agence nationale de sécurité du médicament (ANSM) a ainsi placé sous surveillance le Tramadol, après avoir constaté une augmentation des mésusages et des décès. Il s’agit de l’antalgique opiacé le plus consommé en France, avec des prescriptions en hausse de près de 70 % en dix ans. « Les gens dans la pauvreté, qui se sentent abandonnés des services publics parce qu’ils sont dans les zones rurales, qui sont moins éduqués et donc ont du mal à se réadapter au marché du travail, représentent une population à risque », souligne M. Dewatripont, ancien directeur de la Banque nationale de Belgique.

    Pour corroborer leurs résultats, les auteurs se sont intéressés aux changements induits par la mise en place du revenu de solidarité active (RSA) à partir de 2007 dans une partie des départements et à partir de 2009 partout en France. « Il y a un effet positif de cette politique en termes de réduction de la consommation d’opioïdes », note Mathias Dewatripont. « Si vous avez mal au dos, et que vous êtes moins pauvre, vous avez davantage les moyens de vous payer un abonnement au fitness », schématise-t-il. ["davantage de moyens" grâce au RSA, le propos est délirant, peut-être font ils référence à la prime d’activité... ndc]

    Cette étude suggère d’autres pistes possibles pour réduire la consommation d’opioïdes. « Sensibiliser les médecins et les inciter à prendre davantage de précautions avec les patients à risque est une première piste », avance Ilaria Natali, l’une des coauteurs. « Il faudrait aussi améliorer la pharmacovigilance, afin de détecter les patients qui font du shopping auprès de plusieurs docteurs et pharmacies », poursuit-elle.

    « Prendre en charge le patient et pas seulement la douleur »
    Cette analyse à l’échelle nationale confirme ce que les médecins observent sur le terrain. « La précarité sociale rend plus vulnérable à certaines maladies associées à des #douleurs_chroniques » , témoigne le professeur Nicolas Authier, qui dirige le centre de la douleur au CHU de Clermont-Ferrand et l’Observatoire français des médicaments antalgiques (OFMA). Une étude menée par son équipe en 2015 sur 120 patients avait révélé qu’un sur cinq était en situation de vulnérabilité sociale et un sur six en situation de précarité.

    Le médecin évoque l’impact du mode de vie, notamment le tabagisme, plus élevé chez les personnes défavorisées. Une étude publiée en 2017, portant sur près de 190 000 personnes, avait ainsi révélé que les cancers du poumon ou du larynx frappaient davantage les plus pauvres. Or 30 % des opioïdes forts sont prescrits en cancérologie. De même, le diabète, dont les complications peuvent être très douloureuses, touche davantage les plus défavorisés.

    « Soigner suppose de prendre en charge le patient douloureux dans sa globalité, avec ses problèmes financiers, de logement, et pas seulement la douleur », insiste M. Authier. « Le temps d’écoute est très important. Or la place des travailleurs sociaux dans le parcours de soins est insuffisante pour une bonne prise en charge », regrette ce psychiatre, qui plaide pour la création de structures intermédiaires entre les médecins de ville et les centres de la douleur.

    Les patients doivent aujourd’hui attendre entre trois et neuf mois pour obtenir un rendez-vous dans son centre. « C’est trop long », déplore-t-il. Pour certains antalgiques opiacés, un phénomène de dépendance peut apparaître après seulement quelques semaines de traitement. Et le sevrage est d’autant plus difficile qu’ils ont un effet anxiolytique ou antidépresseur qui peut être recherché par les patients une fois leur douleur disparue.

    Examinée à la loupe par les économistes de l’ULB, la consommation d’#oxycodone – un antalgique deux fois plus puissant que la morphine – n’est pas liée aux taux de pauvreté. Multipliée par sept en dix ans, elle s’expliquerait par d’autres facteurs non pris en compte par leur modèle, comme l’impact du #marketing des #laboratoires. « On sait qu’il y a un lien. Les laboratoires ne paient pas des commerciaux pour rien. Il n’y a qu’à voir les chiffres de ventes du Tramadol et de l’oxycodone », avance le professeur Authier.

    En France, l’oxycodone est notamment commercialisé sous la marque OxyContin par Mundipharma, filiale de la firme américaine Purdue, bien connue pour ses dérapages. « La situation en France n’a rien à voir avec celle des Etats-Unis. Mais est-elle épargnée ou juste en retard ? », s’interroge Mathias Dewatripont. En 2015, près de 10 millions de Français, soit 17 % de la population, avaient reçu une prescription d’opioïdes.

    #opioïdes

  • La testostérone, un traitement pour l’endométriose et un antidouleur ?
    https://blogs.mediapart.fr/juliet-drouar/blog/201219/la-testosterone-un-traitement-pour-lendometriose-et-un-antidouleur

    Le patriarcat se fonde sur l’idée et la (re)production de la différence des corps et des sexes en deux catégories. Sur une nature à être femme ou homme. Or tous les êtres humains produisent de la testostérone et des œstrogènes à des taux différents et la #testostérone est une piste de traitement sérieuse pour lutter contre la douleur et l’ #endométriose . Et ça, le #patriarcat n’en veut pas...

    • La masturbation constituerait alors un moyen d’émancipation des femmes face au tout médical et à l’accouchement standardisé, leur permettant de reprendre le contrôle de leur corps et de la venue au monde de leur enfant.

    • Je comprends pas le besoin de lier ça a des trucs mystiques et/ou essentialistes « énergie féminine de la terre et du ciel », « puissance féminine », etc.

      Concrètement elles ont vécu le fait de récupérer l’autonomie sur leur corps, d’être enfin un peu plus maitresse de leur corps et donc de leur vie, sans ingérence extérieure. Point. C’est une magnifique chose en soi !

      Quelque soit son sexe, quelque soit les caractéristiques de son corps. Suivant le corps qu’on a et les événements qu’on vit, les manières d’être autonome sont différentes, et là pour elles, en tant que femmes pendant un accouchement, c’est le fait de stimuler des zones érogènes, le clitoris.

      #femmes #accouchement #accouchement_physiologique #naissance #douleur #péridurale #masturbation #clitoris #autonomie

    • Je ne connaissais pas cette pratique, perso j’ai vécu l’expérience de l’enfantement (à la maison) comme un retour profond sur moi même. Je ne suis pas mystique mais il y a effectivement quelque chose de la transcendance, l’idée violente de mort que l’on peut éprouver aussi quand on jouit, bien au-delà d’un simple processus physiologique que certains hommes voudraient imposer. J’ai aussi des copines qui ont joui en accouchant (à la maison parce qu’à l’hôpital ou dans une maternité classique je suppose que ce n’est pas possible de se détendre assez), sur le nombre de femmes qui enfantent ça doit être un nombre réduit, mais ça arrive bien.
      (l’article note une étude qui évoque un orgasme entre 0,3% et 0,7% des naissances étudiées)
      Et pour les règles, se masturber ou faire l’amour semble fonctionner pour réduire les douleurs.
      Un jour, les femmes vivront peut être la libération sexuelle, la vraie, celle qui appartient à chacune d’elle, dans la connaissance et la reconnaissance des sensations de leur corps, sans jugement moral. Et pas la libération phallique des années 70 qui a occulté les femmes et a consisté à les insulter quand elles refusaient d’être violées.

      L’objectif de ce livre ( Naissance orgasmique, guide pour vivre une naissance sûre et satisfaisante. https://www.lalibrairie.com/livres/naissance-orgasmique--vivre-une-naissance-sure-et-satisfaisante_0-56782) est simple : « Nous avions toutes deux l’ambition de remettre la puissance et la beauté de la naissance entre les mains des femmes et de celleux qui les soutenaient. »

      #jouir ##enfantement

    • woo, en france

      En moyenne, en 2016, 82% des femmes se sont vues poser une péridurale pendant leur accouchement …

      Les femmes n’ont pas fini de souffrir.
      #sexisme_médical
      Dire qu’il y a des opérations de cancer du sein qui se font sous hypnose… (pas dans une secte hein, à Curie)
      Dire encore, que les avortements pouvaient se faire sans douleur et sans anesthésie (méthode #Karman)
      C’est juste terrible d’imposer ces schémas de pensée qui ne font jamais que citer advitam la bible, combien de temps encore pour reprendre nos corps ?

    • A regarder de plus près les années 70, tu te rends compte du continuum du pouvoir terrifiant que les hommes se sont arrogés sur les femmes, en les critiquant sur le biais sexuel, sur la maternité, sur les soins d’élevage des enfants.
      Et surtout en utilisant de pseudos arguments scientifiques en psychanalyse ou en sexologie.

      Recenser les accusations et les reproches faits aux femmes qui avaient pour but de restreindre leurs libertés et le champ de leurs savoirs serait intéressant.
      Et montrer comment ces répercussions persistent aujourd’hui et sont de l’ordre d’une acceptation culturelle des violences sexuelles faites aux femmes et aux enfants.
      #1979