• Vers des transports durables. Des #métropoles en mouvement

    Penser la #ville_sans_voitures : c’est l’un des défis à relever dans l’aménagement de l’#espace_urbain moderne. De #Barcelone à #Copenhague en passant par #Berlin et #Paris, tour d’horizon de plusieurs approches pionnières.

    Comment rendre nos villes plus agréables à vivre, dépolluer l’air, trouver des #solutions pour faire face à la hausse des températures liée au #changement_climatique, ou encore créer de l’espace pour une population en croissance constante ? Autant de défis auxquels sont confrontées les métropoles du monde entier. Pionnière en la matière depuis les années 1960, Copenhague continue de penser la ville hors des sentiers battus et des rues saturées par l’#automobile, tandis que des projets alternatifs se multiplient aussi désormais dans d’autres capitales européennes, notamment à Barcelone, Berlin ou Paris. Plus loin, à Singapour, la ville poursuit sa densification, mais en hauteur et sans moteurs… L’avenir est-il à l’absence de mobilité, cette « #ville_du_quart_d’heure » (la durée de marche idéale pour accéder aux services), dont parle l’architecte #Carlos_Moreno ? Entre réalisations concrètes et utopies, une esquisse passionnante du visage des métropoles de demain.

    https://www.arte.tv/fr/videos/096280-000-A/vers-des-transports-durables

    #film #vidéo #reportage #transports_publics #voiture #car_free #voitures #mobilité #villes #TRUST #Master_TRUST #alternatives #urban_matters #urbanisme #géographie_urbaine

    signalé par @touti ici :
    https://seenthis.net/messages/970872#message971260

  • La menace de l’espace
    https://laviedesidees.fr/La-menace-de-l-espace.html

    À propos de : Daniel Deudney, Dark Skies : Space Expansionism, Planetary Geopolitics, and the Ends of Humanity, Oxford University Press. L’expansion spatiale, dont beaucoup s’enivrent sans recul critique, est-elle vraiment souhaitable ? D. Deudney soutient qu’elle crée de nouvelles menaces bien plutôt qu’elle n’y répond, en en mesurant les réalités discursives, géopolitiques et économiques.

    #International #technique #espace
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/recension_20220826__espace_.pdf
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/20220826_espace.docx

  • Nella città delle piattaforme

    Sullo sfondo del lavoro precario del #delivery ci sono parchi, piazze e marciapiedi: i luoghi di lavoro dei rider. Dimostrano la colonizzazione urbana operata dalle piattaforme

    Non ci sono i dati di quanti siano i rider, né a Milano, né in altre città italiane ed europee. L’indagine della Procura di Milano che nel 2021 ha portato alla condanna per caporalato di Uber Eats ha fornito una prima stima: gli inquirenti, nel 2019, avevano contato circa 60mila fattorini, di cui la maggioranza migranti che difficilmente possono ottenere un altro lavoro. Ma è solo una stima, ormai per altro vecchia. Da allora i rider hanno ottenuto qualche piccola conquista sul piano dei contratti, ma per quanto riguarda il riconoscimento di uno spazio per riposarsi, per attendere gli ordini, per andare in bagno o scambiare quattro chiacchiere con i colleghi, la città continua a escluderli. Eppure i rider sembrano i lavoratori e le lavoratrici che più attraversano i centri urbani, di giorno come di notte, soprattutto a partire dalla pandemia. Dentro i loro borsoni e tra le ruote delle loro bici si racchiudono molte delle criticità del mercato del lavoro odierno, precario e sempre meno tutelato.

    Esigenze di base vs “capitalismo di piattaforma”

    Per i giganti del delivery concedere uno spazio urbano sembra una minaccia. Legittimerebbe, infatti, i fattorini come “normali” dipendenti, categoria sociale che non ha posto nel “capitalismo di piattaforma”. Questa formula definisce l’ultima evoluzione del modello economico dominante, secondo cui clienti e lavoratori fruiscono dei servizi e forniscono manodopera solo attraverso un’intermediazione tecnologica.

    L’algoritmo sul quale si basano le piattaforme sta incessantemente ridisegnando la geografia urbana attraverso nuovi percorsi “più efficienti”. Per esempio – in base al fatto che i rider si muovono per lo più con biciclette dalla pedalata assistita, riconducibili a un motorino – le app di delivery suggeriscono strade che non sempre rispondono davvero alle esigenze dei rider. Sono percorsi scollati dalla città “reale”, nei confronti dei quali ogni giorno i lavoratori oppongono una resistenza silenziosa, fatta di scelte diverse e soste in luoghi non previsti.

    Le piattaforme non generano valore nelle città unicamente offrendo servizi, utilizzando tecnologie digitali o producendo e rivendendo dati e informazioni, ma anche organizzando e trasformando lo spazio urbano, con tutto ciò che in esso è inglobato e si può inglobare, in una sorta di area Schengen delle consegne. Fanno in modo che gli spazi pubblici della città rispondano sempre di più a un fine privato. Si è arrivati a questo punto grazie alla proliferazione incontrollata di queste società, che hanno potuto disegnare incontrastate le regole alle quali adeguarsi.

    Come esclude la città

    Sono quasi le 19, orario di punta di un normale lunedì sera in piazza Cinque Giornate, quadrante est di Milano. Il traffico è incessante, rumoroso e costeggia le due aiuole pubbliche con panchine dove tre rider si stanno riposando. «Siamo in attesa che ci inviino un nuovo ordine da consegnare», dicono a IrpiMedia in un inglese accidentato. «Stiamo qui perché ci sono alberi che coprono dal sole e fa meno caldo. Se ci fosse un posto per noi ci andremmo», raccontano. Lavorano per Glovo e Deliveroo, senza un vero contratto, garanzie né un posto dove andare quando non sono in sella alla loro bici. Parchi, aiuole, marciapiedi e piazze sono il loro luogo di lavoro. Gli spazi pubblici, pensati per altri scopi, sono l’ufficio dei rider, in mancanza di altro, a Milano come in qualunque altra città.

    In via Melchiorre Gioia, poco lontano dalla stazione Centrale, c’è una delle cloud kitchen di Kuiri. È una delle società che fornisce esercizi commerciali slegati dalle piattaforme: cucine a nolo. Lo spazio è diviso in sei parti al fine di ospitare altrettante cucine impegnate a produrre pietanze diverse. I ristoratori che decidono di affittare una cucina al suo interno spesso hanno dovuto chiudere la loro attività durante o dopo la pandemia, perché tenerla in piedi comportava costi eccessivi. Nella cloud kitchen l’investimento iniziale è di soli 10mila euro, una quantità molto minore rispetto a quella che serve per aprire un ristorante. Poi una quota mensile sui profitti e per pagare la pubblicità e il marketing del proprio ristorante, attività garantite dall’imprenditore. Non si ha una precisa stima di quante siano queste cucine a Milano, forse venti o trenta, anche se i brand che le aprono in varie zone della città continuano ad aumentare.

    Una persona addetta apre una finestrella, chiede ai rider il codice dell’ordine e gli dice di aspettare. Siccome la cloud kitchen non è un “luogo di lavoro” dei rider, questi ultimi non possono entrare. Aspettano di intravedere il loro pacchetto sulle sedie del dehors riservate ai pochi clienti che ordinano da asporto, gli unici che possono entrare nella cucina. I rider sono esclusi anche dai dark store, quelli che Glovo chiama “magazzini urbani”: vetrate intere oscurate alla vista davanti alle quali i rider si stipano ad attendere la loro consegna, sfrecciando via una volta ottenuta. Nemmeno di questi si conosce il reale numero, anche se una stima realistica potrebbe aggirarsi sulla ventina in tutta la città.
    Un posto «dal quale partire e tornare»

    Luca, nome di fantasia, è un rider milanese di JustEat con un contratto part time di venti ore settimanali e uno stipendio mensile assicurato. La piattaforma olandese ha infatti contrattualizzato i rider come dipendenti non solo in Italia, ma anche in molti altri paesi europei. Il luogo più importante nella città per lui è lo “starting point” (punto d’inizio), dal quale parte dopo il messaggio della app che gli notifica una nuova consegna da effettuare. Il turno di lavoro per Luca inizia lì: non all’interno di un edificio, ma nel parco pubblico dietro alla stazione di Porta Romana; uno spazio trasformato dalla presenza dei rider: «È un luogo per me essenziale, che mi ha dato la possibilità di conoscere e fare davvero amicizia con alcuni colleghi. Un luogo dove cercavo di tornare quando non c’erano molti ordini perché questo lavoro può essere molto solitario», dice.

    Nel giardino pubblico di via Thaon de Revel, con un dito che scorre sul telefono e il braccio sulla panchina, c’è un rider pakistano che lavora nel quartiere. L’Isola negli anni è stata ribattezzata da molti «ristorante a cielo aperto»: negli ultimi 15 anni il quartiere ha subìto un’ingente riqualificazione urbana, che ha aumentato i prezzi degli immobili portando con sé un repentino cambiamento sociodemografico. Un tempo quartiere di estrazione popolare, ormai Isola offre unicamente divertimento e servizi. Il rider pakistano è arrivato in Italia dopo un mese di cammino tra Iran, Turchia, Grecia, Bulgaria, Serbia e Ungheria, «dove sono stato accompagnato alla frontiera perché è un paese razzista, motivo per cui sono venuto in Italia», racconta. Vive nel quartiere con altri quattro rider che lavorano per Deliveroo e UberEats. I giardini pubblici all’angolo di via Revel, dice uno di loro che parla bene italiano, sono «il nostro posto» e per questo motivo ogni giorno si incontrano lì. «Sarebbe grandioso se Deliveroo pensasse a un posto per noi, ma la verità è che se gli chiedi qualunque cosa rispondono dopo tre o quattro giorni, e quindi il lavoro è questo, prendere o lasciare», spiega.

    Girando lo schermo del telefono mostra i suoi guadagni della serata: otto euro e qualche spicciolo. Guadagnare abbastanza soldi è ormai difficile perché i rider che consegnano gli ordini sono sempre di più e le piattaforme non limitano in nessun modo l’afflusso crescente di manodopera. È frequente quindi vedere rider che si aggirano per la città fino alle tre o le quattro del mattino, soprattutto per consegnare panini di grandi catene come McDonald’s o Burger King: ma a quell’ora la città può essere pericolosa, motivo per il quale i parchi e i luoghi pubblici pensati per l’attività diurna sono un luogo insicuro per molti di loro. Sono molte le aggressioni riportate dalla stampa locale di Milano ai danni di rider in servizio, una delle più recenti avvenuta a febbraio 2022 all’angolo tra piazza IV Novembre e piazza Duca d’Aosta, di fronte alla stazione Centrale. Sul livello di insicurezza di questi lavoratori, ancora una volta, nessuna stima ufficiale.

    I gradini della grande scalinata di marmo, all’ingresso della stazione, cominciano a popolarsi di rider verso le nove di sera. Due di loro iniziano e svolgono il turno sempre insieme: «Siamo una coppia e preferiamo così – confessano -. Certo, un luogo per riposarsi e dove andare soprattutto quando fa caldo o freddo sarebbe molto utile, ma soprattutto perché stare la sera qui ad aspettare che ti arrivi qualcosa da fare non è molto sicuro».

    La mozione del consiglio comunale

    Nel marzo 2022 alcuni consiglieri comunali di maggioranza hanno presentato una mozione per garantire ai rider alcuni servizi necessari allo svolgimento del loro lavoro, come ad esempio corsi di lingua italiana, di sicurezza stradale e, appunto, un luogo a loro dedicato. La mozione è stata approvata e il suo inserimento all’interno del Documento Unico Programmatico (DUP) 2020/2022, ossia il testo che guida dal punto di vista strategico e operativo l’amministrazione del Comune, è in via di definizione.

    La sua inclusione nel DUP sarebbe «una presa in carico politica dell’amministrazione», commenta Francesco Melis responsabile Nidil (Nuove Identità di Lavoro) di CGIL, il sindacato che dal 1998 rappresenta i lavoratori atipici, partite Iva e lavoratori parasubordinati precari. Melis ha preso parte alla commissione ideatrice della mozione. Durante il consiglio comunale del 30 marzo è parso chiaro come il punto centrale della questione fosse decidere chi dovesse effettivamente farsi carico di un luogo per i rider: «È vero che dovrebbe esserci una responsabilità da parte delle aziende di delivery, posizione che abbiamo sempre avuto nel sindacato, ma è anche vero che in mancanza di una loro risposta concreta il Comune, in quanto amministrazione pubblica, deve essere coinvolto perché il posto di lavoro dei rider è la città», ragiona Melis. Questo punto unisce la maggioranza ma la minoranza pone un freno: per loro sarebbe necessario dialogare con le aziende. Eppure la presa di responsabilità delle piattaforme di delivery sembra un miraggio, dopo anni di appropriazione del mercato urbano. «Il welfare metropolitano è un elemento politico importante nella pianificazione territoriale. Non esiste però che l’amministrazione e i contribuenti debbano prendersi carico dei lavoratori delle piattaforme perché le società di delivery non si assumono la responsabilità sociale della loro iniziativa d’impresa», replica Angelo Avelli, portavoce di Deliverance Milano. L’auspicio in questo momento sembra comunque essere la difficile strada della collaborazione tra aziende e amministrazione.

    Tra la primavera e l’autunno 2020, momento in cui è diventato sempre più necessario parlare di sicurezza dei lavoratori del delivery in città, la precedente amministrazione comunale aveva iniziato alcune interlocuzioni con CGIL e Assodelivery, l’associazione italiana che raggruppa le aziende del settore. Interlocuzioni che Melis racconta come prolifiche e che avevano fatto intendere una certa sensibilità al tema da parte di alcune piattaforme. Di diverso avviso era invece l’associazione di categoria. In quel frangente «si era tra l’altro individuato un luogo per i rider in città: una palazzina di proprietà di Ferrovie dello Stato, all’interno dello scalo ferroviario di Porta Genova, che sarebbe stata data in gestione al Comune», ricorda Melis. La scommessa del Comune, un po’ azzardata, era che le piattaforme avrebbero deciso finanziare lo sviluppo e l’utilizzo dello spazio, una volta messo a bando. «Al piano terra si era immaginata un’area ristoro con docce e bagni, all’esterno tensostrutture per permettere lo stazionamento dei rider all’aperto, al piano di sopra invece si era pensato di inserire sportelli sindacali», conclude Melis. Lo spazio sarebbe stato a disposizione di tutti i lavoratori delle piattaforme, a prescindere da quale fosse quella di appartenenza. Per ora sembra tutto fermo, nonostante le richieste di CGIL e dei consiglieri comunali. La proposta potrebbe avere dei risvolti interessanti anche per la società che ne prenderà parte: la piattaforma che affiggerà alle pareti della palazzina il proprio logo potrebbe prendersi il merito di essere stata la prima, con i vantaggi che ne conseguono sul piano della reputazione. Sarebbe però anche ammettere che i rider sono dipendenti e questo non è proprio nei piani delle multinazionali del settore. Alla fine dei conti, sembra che amministrazione e piattaforme si muovano su binari paralleli e a velocità diverse, circostanza che non fa ben sperare sul futuro delle trattative. Creare uno spazio in città, inoltre, sarebbe sì un primo traguardo, ma parziale. Il lavoro del rider è in continuo movimento e stanno già nascendo esigenze nuove. Il rischio che non sia un luogo per tutti , poi, è concreto: molti di coloro che lavorano nelle altre zone di Milano rischiano di esserne esclusi. Ancora una volta.

    https://irpimedia.irpi.eu/nella-citta-delle-piattaforme

    #ubérisation #uber #géographie_urbaine #urbanisme #villes #urban_matters #espace_public #plateformes_numériques #Milan #travail #caporalato #uber_eats #riders #algorithme #colonisation_urbaine #espace_urbain #Glovo #Deliveroo #cloud_kitchen #Kuiri #dark_store #magazzini_urbani #JustEat #starting_point

  • « Les #réfugiés sont les #cobayes des futures mesures de #surveillance »

    Les dangers de l’émigration vers l’Europe vont croissant, déplore Mark Akkerman, qui étudie la #militarisation_des_frontières du continent depuis 2016. Un mouvement largement poussé par le #lobby de l’#industrie_de_l’armement et de la sécurité.

    Mark Akkerman étudie depuis 2016 la militarisation des frontières européennes. Chercheur pour l’ONG anti-militariste #Stop_Wapenhandel, il a publié, avec le soutien de The Transnational Institute, plusieurs rapports de référence sur l’industrie des « #Safe_Borders ». Il revient pour Mediapart sur des années de politiques européennes de surveillance aux frontières.

    Mediapart : En 2016, vous publiez un premier rapport, « Borders Wars », qui cartographie la surveillance aux frontières en Europe. Dans quel contexte naît ce travail ?

    Mark Akkerman : Il faut se rappeler que l’Europe a une longue histoire avec la traque des migrants et la sécurisation des frontières, qui remonte, comme l’a montré la journaliste d’investigation néerlandaise Linda Polman, à la Seconde Guerre mondiale et au refus de soutenir et abriter des réfugiés juifs d’Allemagne. Dès la création de l’espace Schengen, au début des années 1990, l’ouverture des frontières à l’intérieur de cet espace était étroitement liée au renforcement du contrôle et de la sécurité aux frontières extérieures. Depuis lors, il s’agit d’un processus continu marqué par plusieurs phases d’accélération.

    Notre premier rapport (https://www.tni.org/en/publication/border-wars) est né durant l’une de ces phases. J’ai commencé ce travail en 2015, au moment où émerge le terme « crise migratoire », que je qualifierais plutôt de tragédie de l’exil. De nombreuses personnes, principalement motivées par la guerre en Syrie, tentent alors de trouver un avenir sûr en Europe. En réponse, l’Union et ses États membres concentrent leurs efforts sur la sécurisation des frontières et le renvoi des personnes exilées en dehors du territoire européen.

    Cela passe pour une part importante par la militarisation des frontières, par le renforcement des pouvoirs de Frontex et de ses financements. Les réfugiés sont dépeints comme une menace pour la sécurité de l’Europe, les migrations comme un « problème de sécurité ». C’est un récit largement poussé par le lobby de l’industrie militaire et de la sécurité, qui a été le principal bénéficiaire de ces politiques, des budgets croissants et des contrats conclus dans ce contexte.

    Cinq ans après votre premier rapport, quel regard portez-vous sur la politique européenne de sécurisation des frontières ? La pandémie a-t-elle influencé cette politique ?

    Depuis 2016, l’Europe est restée sur la même voie. Renforcer, militariser et externaliser la sécurité aux frontières sont les seules réponses aux migrations. Davantage de murs et de clôtures ont été érigés, de nouveaux équipements de surveillance, de détection et de contrôle ont été installés, de nouveaux accords avec des pays tiers ont été conclus, de nouvelles bases de données destinées à traquer les personnes exilées ont été créées. En ce sens, les politiques visibles en 2016 ont été poursuivies, intensifiées et élargies.

    La pandémie de Covid-19 a certainement joué un rôle dans ce processus. De nombreux pays ont introduit de nouvelles mesures de sécurité et de contrôle aux frontières pour contenir le virus. Cela a également servi d’excuse pour cibler à nouveau les réfugiés, les présentant encore une fois comme des menaces, responsables de la propagation du virus.

    Comme toujours, une partie de ces mesures temporaires vont se pérenniser et on constate déjà, par exemple, l’évolution des contrôles aux frontières vers l’utilisation de technologies biométriques sans contact.

    En 2020, l’UE a choisi Idemia et Sopra Steria, deux entreprises françaises, pour construire un fichier de contrôle biométrique destiné à réguler les entrées et sorties de l’espace Schengen. Quel regard portez-vous sur ces bases de données ?

    Il existe de nombreuses bases de données biométriques utilisées pour la sécurité aux frontières. L’Union européenne met depuis plusieurs années l’accent sur leur développement. Plus récemment, elle insiste sur leur nécessaire connexion, leur prétendue interopérabilité. L’objectif est de créer un système global de détection, de surveillance et de suivi des mouvements de réfugiés à l’échelle européenne pour faciliter leur détention et leur expulsion.

    Cela contribue à créer une nouvelle forme d’« apartheid ». Ces fichiers sont destinés certes à accélérer les processus de contrôles aux frontières pour les citoyens nationaux et autres voyageurs acceptables mais, surtout, à arrêter ou expulser les migrantes et migrants indésirables grâce à l’utilisation de systèmes informatiques et biométriques toujours plus sophistiqués.

    Quelles sont les conséquences concrètes de ces politiques de surveillance ?

    Il devient chaque jour plus difficile et dangereux de migrer vers l’Europe. Parce qu’elles sont confrontées à la violence et aux refoulements aux frontières, ces personnes sont obligées de chercher d’autres routes migratoires, souvent plus dangereuses, ce qui crée un vrai marché pour les passeurs. La situation n’est pas meilleure pour les personnes réfugiées qui arrivent à entrer sur le territoire européen. Elles finissent régulièrement en détention, sont expulsées ou sont contraintes de vivre dans des conditions désastreuses en Europe ou dans des pays limitrophes.

    Cette politique n’impacte pas que les personnes réfugiées. Elle présente un risque pour les libertés publiques de l’ensemble des Européens. Outre leur usage dans le cadre d’une politique migratoire raciste, les technologies de surveillance sont aussi « testées » sur des personnes migrantes qui peuvent difficilement faire valoir leurs droits, puis introduites plus tard auprès d’un public plus large. Les réfugiés sont les cobayes des futures mesures de contrôle et de surveillance des pays européens.

    Vous pointez aussi que les industriels qui fournissent en armement les belligérants de conflits extra-européens, souvent à l’origine de mouvements migratoires, sont ceux qui bénéficient du business des frontières.

    C’est ce que fait Thales en France, Leonardo en Italie ou Airbus. Ces entreprises européennes de sécurité et d’armement exportent des armes et des technologies de surveillance partout dans le monde, notamment dans des pays en guerre ou avec des régimes autoritaires. À titre d’exemple, les exportations européennes au Moyen-Orient et en Afrique du Nord des dix dernières années représentent 92 milliards d’euros et concernent des pays aussi controversés que l’Arabie saoudite, l’Égypte ou la Turquie.

    Si elles fuient leur pays, les populations civiles exposées à la guerre dans ces régions du monde se retrouveront très certainement confrontées à des technologies produites par les mêmes industriels lors de leur passage aux frontières. C’est une manière profondément cynique de profiter, deux fois, de la misère d’une même population.

    Quelles entreprises bénéficient le plus de la politique européenne de surveillance aux frontières ? Par quels mécanismes ? Je pense notamment aux programmes de recherches comme Horizon 2020 et Horizon Europe.

    J’identifie deux types d’entreprises qui bénéficient de la militarisation des frontières de l’Europe. D’abord les grandes entreprises européennes d’armement et de sécurité, comme Airbus, Leonardo et Thales, qui disposent toutes d’une importante gamme de technologies militaires et de surveillance. Pour elles, le marché des frontières est un marché parmi d’autres. Ensuite, des entreprises spécialisées, qui travaillent sur des niches, bénéficient aussi directement de cette politique européenne. C’est le cas de l’entreprise espagnole European Security Fencing, qui fabrique des fils barbelés. Elles s’enrichissent en remportant des contrats, à l’échelle européenne, mais aussi nationale, voire locale.

    Une autre source de financement est le programme cadre européen pour la recherche et l’innovation. Il finance des projets sur 7 ans et comprend un volet sécurité aux frontières. Des programmes existent aussi au niveau du Fonds européen de défense.

    Un de vos travaux de recherche, « Expanding the Fortress », s’intéresse aux partenariats entre l’Europe et des pays tiers. Quels sont les pays concernés ? Comment se manifestent ces partenariats ?

    L’UE et ses États membres tentent d’établir une coopération en matière de migrations avec de nombreux pays du monde. L’accent est mis sur les pays identifiés comme des « pays de transit » pour celles et ceux qui aspirent à rejoindre l’Union européenne. L’Europe entretient de nombreux accords avec la Libye, qu’elle équipe notamment en matériel militaire. Il s’agit d’un pays où la torture et la mise à mort des réfugiés ont été largement documentées.

    Des accords existent aussi avec l’Égypte, la Tunisie, le Maroc, la Jordanie, le Liban ou encore l’Ukraine. L’Union a financé la construction de centres de détention dans ces pays, dans lesquels on a constaté, à plusieurs reprises, d’importantes violations en matière de droits humains.

    Ces pays extra-européens sont-ils des zones d’expérimentations pour les entreprises européennes de surveillance ?

    Ce sont plutôt les frontières européennes, comme celle d’Evros, entre la Grèce et la Turquie, qui servent de zone d’expérimentation. Le transfert d’équipements, de technologies et de connaissances pour la sécurité et le contrôle des frontières représente en revanche une partie importante de ces coopérations. Cela veut dire que les États européens dispensent des formations, partagent des renseignements ou fournissent de nouveaux équipements aux forces de sécurité de régimes autoritaires.

    Ces régimes peuvent ainsi renforcer et étendre leurs capacités de répression et de violation des droits humains avec le soutien de l’UE. Les conséquences sont dévastatrices pour la population de ces pays, ce qui sert de moteur pour de nouvelles vagues de migration…

    https://www.mediapart.fr/journal/international/040822/les-refugies-sont-les-cobayes-des-futures-mesures-de-surveillance

    cité dans l’interview, ce rapport :
    #Global_Climate_Wall
    https://www.tni.org/en/publication/global-climate-wall
    déjà signalé ici : https://seenthis.net/messages/934948#message934949

    #asile #migrations #complexe_militaro-industriel #surveillance_des_frontières #Frontex #problème #Covid-19 #coronavirus #biométrie #technologie #Idemia #Sopra_Steria #contrôle_biométrique #base_de_données #interopérabilité #détection #apartheid #informatique #violence #refoulement #libertés_publiques #test #normalisation #généralisation #Thales #Leonardo #Airbus #armes #armements #industrie_de_l'armement #cynisme #Horizon_Europe #Horizon_2020 #marché #business #European_Security_Fencing #barbelés #fils_barbelés #recherche #programmes_de_recherche #Fonds_européen_de_défense #accords #externalisation #externalisation_des_contrôles_frontaliers #Égypte #Libye #Tunisie #Maroc #Jordanie #Liban #Ukraine #rétention #détention_administrative #expérimentation #équipements #connaissance #transfert #coopérations #formations #renseignements #répression

    ping @isskein @karine4 @_kg_

    • Le système électronique d’#Entrée-Sortie en zone #Schengen : la biométrie au service des #frontières_intelligentes

      Avec la pression migratoire et la vague d’attentats subis par l’Europe ces derniers mois, la gestion des frontières devient une priorité pour la Commission.

      Certes, le système d’information sur les #visas (#VIS, #Visa_Information_System) est déployé depuis 2015 dans les consulats des États Membres et sa consultation rendue obligatoire lors de l’accès dans l’#espace_Schengen.

      Mais, depuis février 2013, est apparu le concept de « #frontières_intelligentes », (#Smart_Borders), qui recouvre un panel ambitieux de mesures législatives élaborées en concertation avec le Parlement Européen.

      Le système entrée/sortie, en particulier, va permettre, avec un système informatique unifié, d’enregistrer les données relatives aux #entrées et aux #sorties des ressortissants de pays tiers en court séjour franchissant les frontières extérieures de l’Union européenne.

      Adopté puis signé le 30 Novembre 2017 par le Conseil Européen, il sera mis en application en 2022. Il s’ajoutera au « PNR européen » qui, depuis le 25 mai 2018, recense les informations sur les passagers aériens.

      Partant du principe que la majorité des visiteurs sont « de bonne foi », #EES bouleverse les fondements mêmes du #Code_Schengen avec le double objectif de :

      - rendre les frontières intelligentes, c’est-à-dire automatiser le contrôle des visiteurs fiables tout en renforçant la lutte contre les migrations irrégulières
      - créer un #registre_central des mouvements transfrontaliers.

      La modernisation de la gestion des frontières extérieures est en marche. En améliorant la qualité et l’efficacité des contrôles de l’espace Schengen, EES, avec une base de données commune, doit contribuer à renforcer la sécurité intérieure et la lutte contre le terrorisme ainsi que les formes graves de criminalité.

      L’#identification de façon systématique des personnes qui dépassent la durée de séjour autorisée dans l’espace Schengen en est un des enjeux majeurs.

      Nous verrons pourquoi la reconnaissance faciale en particulier, est la grande gagnante du programme EES. Et plus seulement dans les aéroports comme c’est le cas aujourd’hui.

      Dans ce dossier web, nous traiterons des 6 sujets suivants :

      - ESS : un puissant dispositif de prévention et détection
      - La remise en cause du code « frontières Schengen » de 2006
      - EES : un accès très réglementé
      - La biométrie faciale : fer de lance de l’EES
      - EES et la lutte contre la fraude à l’identité
      - Thales et l’identité : plus de 20 ans d’expertise

      Examinons maintenant ces divers points plus en détail.

      ESS : un puissant dispositif de prévention et détection

      Les activités criminelles telles que la traite d’êtres humains, les filières d’immigration clandestine ou les trafics d’objets sont aujourd’hui la conséquence de franchissements illicites de frontières, largement facilités par l’absence d’enregistrement lors des entrées/ sorties.

      Le scénario de fraude est – hélas – bien rôdé : Contrôle « standard » lors de l’accès à l’espace Schengen, puis destruction des documents d’identité dans la perspective d’activités malveillantes, sachant l’impossibilité d’être authentifié.

      Même si EES vise le visiteur « de bonne foi », le système va constituer à terme un puissant dispositif pour la prévention et la détection d’activités terroristes ou autres infractions pénales graves. En effet les informations stockées dans le nouveau registre pour 5 ans– y compris concernant les personnes refoulées aux frontières – couvrent principalement les noms, numéros de passeport, empreintes digitales et photos. Elles seront accessibles aux autorités frontalières et de délivrance des visas, ainsi qu’à Europol.

      Le système sera à la disposition d’enquêtes en particulier, vu la possibilité de consulter les mouvements transfrontières et historiques de déplacements. Tout cela dans le plus strict respect de la dignité humaine et de l’intégrité des personnes.

      Le dispositif est très clair sur ce point : aucune discrimination fondée sur le sexe, la couleur, les origines ethniques ou sociales, les caractéristiques génétiques, la langue, la religion ou les convictions, les opinions politiques ou toute autre opinion.

      Sont également exclus du champ d’investigation l’appartenance à une minorité nationale, la fortune, la naissance, un handicap, l’âge ou l’orientation sexuelle des visiteurs.​

      La remise en cause du Code frontières Schengen

      Vu la croissance attendue des visiteurs de pays tiers (887 millions en 2025), l’enjeu est maintenant de fluidifier et simplifier les contrôles.

      Une initiative particulièrement ambitieuse dans la mesure où elle remet en cause le fameux Code Schengen qui impose des vérifications approfondies, conduites manuellement par les autorités des Etats Membres aux entrées et sorties, sans possibilité d’automatisation.

      Par ailleurs, le Code Schengen ne prévoit aucun enregistrement des mouvements transfrontaliers. La procédure actuelle exigeant seulement que les passeports soient tamponnés avec mention des dates d’entrée et sortie.

      Seule possibilité pour les gardes-frontières : Calculer un éventuel dépassement de la durée de séjour qui elle-même est une information falsifiable et non consignée dans une base de données.

      Autre contrainte, les visiteurs réguliers comme les frontaliers doivent remplacer leurs passeports tous les 2-3 mois, vue la multitude de tampons ! Un procédé bien archaïque si l’on considère le potentiel des technologies de l’information.

      La proposition de 2013 comprenait donc trois piliers :

      - ​La création d’un système automatisé d’entrée/sortie (Entry/ Exit System ou EES)
      - Un programme d’enregistrement de voyageurs fiables, (RTP, Registered Traveller Program) pour simplifier le passage des visiteurs réguliers, titulaires d’un contrôle de sûreté préalable
      – La modification du Code Schengen

      Abandon de l’initiative RTP

      Trop complexe à mettre en œuvre au niveau des 28 Etats Membres, l’initiative RTP (Registered Travelers Program) a été finalement abandonnée au profit d’un ambitieux programme Entry/ Exit (EES) destiné aux visiteurs de courte durée (moins de 90 jours sur 180 jours).

      Précision importante, sont maintenant concernés les voyageurs non soumis à l’obligation de visa, sachant que les détenteurs de visas sont déjà répertoriés par le VIS.

      La note est beaucoup moins salée que prévue par la Commission en 2013. Au lieu du milliard estimé, mais qui incluait un RTP, la proposition révisée d’un EES unique ne coutera « que » 480 millions d’EUR.

      Cette initiative ambitieuse fait suite à une étude technique menée en 2014, puis une phase de prototypage conduite sous l’égide de l’agence EU-LISA en 2015 avec pour résultat le retrait du projet RTP et un focus particulier sur le programme EES.

      Une architecture centralisée gérée par EU-LISA

      L’acteur clé du dispositif EES, c’est EU-LISA, l’Agence européenne pour la gestion opérationnelle des systèmes d’information à grande échelle dont le siège est à Tallinn, le site opérationnel à Strasbourg et le site de secours à Sankt Johann im Pongau (Autriche). L’Agence sera en charge des 4 aspects suivants :

      - Développement du système central
      - Mise en œuvre d’une interface uniforme nationale (IUN) dans chaque État Membre
      - Communication sécurisée entre les systèmes centraux EES et VIS
      - Infrastructure de communication entre système central et interfaces uniformes nationales.

      Chaque État Membre sera responsable de l’organisation, la gestion, le fonctionnement et de la maintenance de son infrastructure frontalière vis-à-vis d’EES.

      Une gestion optimisée des frontières

      Grâce au nouveau dispositif, tous les ressortissants des pays tiers seront traités de manière égale, qu’ils soient ou non exemptés de visas.

      Le VIS répertorie déjà les visiteurs soumis à visas. Et l’ambition d’EES c’est de constituer une base pour les autres.

      Les États Membres seront donc en mesure d’identifier tout migrant ou visiteur en situation irrégulière ayant franchi illégalement les frontières et faciliter, le cas échéant, son expulsion.

      Dès l’authentification à une borne en libre–service, le visiteur se verra afficher les informations suivantes, sous supervision d’un garde-frontière :

      - ​Date, heure et point de passage, en remplacement des tampons manuels
      - Notification éventuelle d’un refus d’accès.
      - Durée maximale de séjour autorisé.
      - Dépassement éventuelle de la durée de séjour autorisée
      En ce qui concerne les autorités des Etats Membres, c’est une véritable révolution par rapport à l’extrême indigence du système actuel. On anticipe déjà la possibilité de constituer des statistiques puissantes et mieux gérer l’octroi, ou la suppression de visas, en fonction de mouvements transfrontières, notamment grâce à des informations telles que :

      - ​​​Dépassements des durées de séjour par pays
      - Historique des mouvements frontaliers par pays

      EES : un accès très réglementé

      L’accès à EES est très réglementé. Chaque État Membre doit notifier à EU-LISA les autorités répressives habilitées à consulter les données aux fins de prévention ou détection d’infractions terroristes et autres infractions pénales graves, ou des enquêtes en la matière.

      Europol, qui joue un rôle clé dans la prévention de la criminalité, fera partie des autorités répressives autorisées à accéder au système dans le cadre de sa mission.

      Par contre, les données EES ne pourront pas être communiquées à des pays tiers, une organisation internationale ou une quelconque partie privée établie ou non dans l’Union, ni mises à leur disposition. Bien entendu, dans le cas d’enquêtes visant l’identification d’un ressortissant de pays tiers, la prévention ou la détection d’infractions terroristes, des exceptions pourront être envisagées.​

      Proportionnalité et respect de la vie privée

      Dans un contexte législatif qui considère le respect de la vie privée comme une priorité, le volume de données à caractère personnel enregistré dans EES sera considérablement réduit, soit 26 éléments au lieu des 36 prévus en 2013.

      Il s’agit d’un dispositif négocié auprès du Contrôleur Européen pour la Protection des Données (CEPD) et les autorités nationales en charge d’appliquer la nouvelle réglementation.

      Très schématiquement, les données collectées se limiteront à des informations minimales telles que : nom, prénom, références du document de voyage et visa, biométrie du visage et de 4 empreintes digitales.

      A chaque visite, seront relevés la date, l’heure et le lieu de contrôle frontière. Ces données seront conservées pendant cinq années, et non plus 181 jours comme proposé en 2013.

      Un procédé qui permettra aux gardes-frontières et postes consulaires d’analyser l’historique des déplacements, lors de l’octroi de nouveaux visas.
      ESS : privacy by design

      La proposition de la Commission a été rédigée selon le principe de « respect de la vie privée dès la conception », mieux connue sous le label « Privacy By Design ».

      Sous l’angle du droit, elle est bien proportionnée à la protection des données à caractère personnel en ce que la collecte, le stockage et la durée de conservation des données permettent strictement au système de fonctionner et d’atteindre ses objectifs.

      EES sera un système centralisé avec coopération des Etats Membres ; d’où une architecture et des règles de fonctionnement communes.​

      Vu cette contrainte d’uniformisation des modalités régissant vérifications aux frontières et accès au système, seul le règlement en tant que véhicule juridique pouvait convenir, sans possibilité d’adaptation aux législations nationales.

      Un accès internet sécurisé à un service web hébergé par EU-LISA permettra aux visiteurs des pays tiers de vérifier à tout moment leur durée de séjour autorisée.

      Cette fonctionnalité sera également accessible aux transporteurs, comme les compagnies aériennes, pour vérifier si leurs voyageurs sont bien autorisés à pénétrer dans le territoire de l’UE.

      La biométrie faciale, fer de lance du programme EES

      Véritable remise en question du Code Schengen, EES permettra de relever la biométrie de tous les visiteurs des pays tiers, alors que ceux soumis à visa sont déjà enregistrés dans le VIS.

      Pour les identifiants biométriques, l’ancien système envisageait 10 empreintes digitales. Le nouveau combine quatre empreintes et la reconnaissance faciale.

      La technologie, qui a bénéficié de progrès considérables ces dernières années, s’inscrit en support des traditionnelles empreintes digitales.

      Bien que la Commission ne retienne pas le principe d’enregistrement de visiteurs fiables (RTP), c’est tout comme.

      En effet, quatre empreintes seront encore relevées lors du premier contrôle pour vérifier que le demandeur n’est pas déjà répertorié dans EES ou VIS.

      En l’absence d’un signal, l’autorité frontalière créera un dossier en s’assurant que la photographie du passeport ayant une zone de lecture automatique (« Machine Readable Travel Document ») correspond bien à l’image faciale prise en direct du nouveau visiteur.

      Mais pour les passages suivants, c’est le visage qui l’emporte.

      Souriez, vous êtes en Europe ! Les fastidieux (et falsifiables) tampons sur les passeports seront remplacés par un accès à EES.

      La biométrie est donc le grand gagnant du programme EES. Et plus seulement dans les aéroports comme c’est le cas aujourd’hui.

      Certains terminaux maritimes ou postes frontières terrestres particulièrement fréquentés deviendront les premiers clients de ces fameuses eGates réservées aujourd’hui aux seuls voyageurs aériens.

      Frontex, en tant qu’agence aidant les pays de l’UE et les pays associés à Schengen à gérer leurs frontières extérieures, va aider à harmoniser les contrôles aux frontières à travers l’UE.

      EES et la lutte contre la fraude à l’identité

      Le dispositif EES est complexe et ambitieux dans la mesure où il fluidifie les passages tout en relevant le niveau des contrôles. On anticipe dès aujourd’hui des procédures d’accueil en Europe bien meilleures grâce aux eGates et bornes self-service.

      Sous l’angle de nos politiques migratoires et de la prévention des malveillances, on pourra immédiatement repérer les personnes ne rempliss​​ant pas les conditions d’entrée et accéder aux historiques des déplacements.

      Mais rappelons également qu’EES constituera un puissant outil de lutte contre la fraude à l’identité, notamment au sein de l’espace Schengen, tout visiteur ayant été enregistré lors de son arrivée à la frontière.

      Thales et l’identité : plus de 20 ans d’expertise

      Thales est particulièrement attentif à cette initiative EES qui repose massivement sur la biométrie et le contrôle des documents de voyage.

      En effet, l’identification et l’authentification des personnes sont deux expertises majeures de Thales depuis plus de 20 ans. La société contribue d’ailleurs à plus de 200 programmes gouvernementaux dans 80 pays sur ces sujets.

      La société peut répondre aux objectifs du programme EES en particulier pour :

      - Exploiter les dernières technologies pour l’authentification des documents de voyage, l’identification des voyageurs à l’aide de captures et vérifications biométriques, et l’évaluation des risques avec accès aux listes de contrôle, dans tous les points de contrôle aux frontières.
      - Réduire les coûts par l’automatisation et l’optimisation des processus tout en misant sur de nouvelles technologies pour renforcer la sécurité et offrir davantage de confort aux passagers
      - Valoriser des tâches de gardes-frontières qui superviseront ces dispositifs tout en portant leur attention sur des cas pouvant porter à suspicion.
      - Diminuer les temps d’attente après enregistrement dans la base EES. Un facteur non négligeable pour des frontaliers ou visiteurs réguliers qui consacreront plus de temps à des activités productives !

      Des bornes d’enregistrement libre-service comme des frontières automatiques ou semi-automatiques peuvent être déployées dans les prochaines années avec l’objectif de fluidifier les contrôles et rendre plus accueillant l’accès à l’espace Schengen.

      Ces bornes automatiques et biométriques ont d’ailleurs été installées dans les aéroports parisiens d’Orly et de Charles de Gaulle (Nouveau PARAFE : https://www.thalesgroup.com/fr/europe/france/dis/gouvernement/controle-aux-frontieres).

      La reconnaissance faciale a été mise en place en 2018.

      Les nouveaux sas PARAFE à Roissy – Septembre 2017

      Thales dispose aussi d’une expertise reconnue dans la gestion intégrée des frontières et contribue en particulier à deux grand systèmes de gestion des flux migratoires.

      - Les systèmes d’identification biométrique de Thales sont en particulier au cœur du système américain de gestion des données IDENT (anciennement US-VISIT). Cette base de données biographiques et biométriques contient des informations sur plus de 200 millions de personnes qui sont entrées, ont tenté d’entrer et ont quitté les États-Unis d’Amérique.

      - Thales est le fournisseur depuis l’origine du système biométrique Eurodac (European Dactyloscopy System) qui est le plus important système AFIS multi-juridictionnel au monde, avec ses 32 pays affiliés. Le système Eurodac est une base de données comportant les empreintes digitales des demandeurs d’asile pour chacun des états membres ainsi que des personnes appréhendées à l’occasion d’un franchissement irrégulier d’une frontière.

      Pour déjouer les tentatives de fraude documentaire, Thales a mis au point des équipements sophistiqués permettant de vérifier leur authenticité par comparaison avec les modèles en circulation. Leur validité est aussi vérifiée par connexion à des bases de documents volés ou perdus (SLTD de Interpol). Ou a des watch lists nationales.

      Pour le contrôle des frontières, au-delà de ses SAS et de ses kiosks biométriques, Thales propose toute une gamme de lecteurs de passeports d’équipements et de logiciels d’authentification biométriques, grâce à son portefeuille Cogent, l’un des pionniers du secteur.

      Pour en savoir plus, n’hésitez pas à nous contacter.​

      https://www.thalesgroup.com/fr/europe/france/dis/gouvernement/biometrie/systeme-entree-sortie
      #smart_borders #Thales #overstayers #reconnaissance_faciale #prévention #détection #fraude_à_l'identité #Registered_Traveller_Program (#RTP) #EU-LISA #interface_uniforme_nationale (#IUN) #Contrôleur_Européen_pour_la_Protection_des_Données (#CEPD) #Privacy_By_Design #respect_de_la_vie_privée #empreintes_digitales #biométrie #Frontex #bornes #aéroport #PARAFE #IDENT #US-VISIT #Eurodac #Gemalto

  • Opinion | The Final Frontier Soon May No Longer Belong to All of Us - The New York Times
    https://www.nytimes.com/2022/07/28/opinion/russia-us-outer-space.html

    The Russian government has said that it will‌ withdraw from the International Space Station‌ “after 2024.” Instead of choosing multilateral cooperation, it plans to build its own station and send cosmonauts there to continue space research and exploration.

    Russia’s announcement sounds ominous — particularly given its invasion of Ukraine — but ‌this move, part of a broader trend away from multilateralism in international space law, is but one recent signal of the fraying of international space cooperation. Another was the Artemis Accords, a legal framework designed to potentially regulate future commercial activities in outer space, which was created under the Trump‌ administration and upheld by the Biden ‌‌administration. Such actions threaten multilateralism beyond Earth and portend a future where space may no longer belong, equally, to all people.

    A number of U.N. treaties‌‌ regulate outer space, and ‌strong legal norms ‌bolster those global rules. The foundational agreement is the Outer Space Treaty of 1967, which lays out ‌‌the principles that govern outer space, the moon and other celestial bodies. Signed in the middle of the Cold War, the treaty was a symbol of the triumph of science over politics: States could cooperate in space, even as the prospect of mutual destruction loomed on Earth.

    The symbolic value of the treaty is obvious: Nationality recedes into the background when astronauts are floating in space. But beyond that, it has created standards and practices to prevent environmental contamination of the moon and other celestial bodies. It promotes data sharing, including about the many objects, like satellites and spacecraft, launched into space, which helps to avoid collisions. And its codified norms of the common heritage of mankind, peaceful use and scientific cooperation help preserve multilateralism in the face of states’ derogations.

    But the looming prospect of the commercialization of space has begun to test the limits of international space law. In 2020, NASA, alone, created the Artemis Accords, which challenge the foundational multilateral principles of ‌prior space agreements. These are rules primarily drafted by the United States that other countries are now adopting. This is not collaborative multilateral rule making but rather the export of U.S. laws abroad to a coalition of the willing.

    The accords take the legal form of a series of bilateral treaties with 21 foreign nations, including Australia, Canada, Japan, the U.A.E. and Britain. This is not simply a relic of the antiglobalist rhetoric and policies of the Trump administration. Just two weeks ago, ‌ Saudi Arabia‌ signed the Artemis Accords, during President Biden’s visit.

    Moreover, the accords open up the possibility of mining the moon or other celestial bodies for resources. They create “safety zones” where states may extract resources, though the document states that these activities must be undertaken in accordance with the ‌Outer Space Treaty. Legal experts point out that these provisions could violate the principle of nonappropriation, which prohibits countries from declaring parts of space as their sovereign territory. Others suggest that it is important to get in front of the changing technological landscap‌e, arguing that when mining the moon becomes possible, there should already be rules in place to regulate such activities‌. Failure to do so could result in a ‌‌crisis similar to that around seabed mining‌‌, which is poised to begin even though U.N. rules have yet to be finalized.

    In the end, Russia’s withdrawal from the International Space Station‌ is but one piece of a larger set of fluid issues in space governance. ‌Russia and the United States — powerful, spacefaring states — have taken steps that challenge existing rules and norms. Russia alone cannot dismantle the collective efforts to maintain space as a peaceful zone of scientific research and exploration, but the current system is in trouble and is likely to be replaced with U.S.-made regulations that allow for the future commercialization of space. That future is the real threat to multilateralism and to humanity’s rights to the final frontier.

    #Espace #Communs

  • L’étage principal d’une fusée chinoise va retomber sur Terre de manière incontrôlée
    https://www.lemonde.fr/sciences/article/2022/07/29/l-etage-principal-d-une-fusee-chinoise-va-retomber-sur-terre-de-maniere-inco

    C’est de nouveau le cas avec le lanceur parti le 24 juillet qui, selon les estimations, pourrait retomber sur Terre entre la soirée du samedi 30 juillet et les premières heures du dimanche 31. Ceci dit, une marge d’erreur assez importante, d’une quinzaine d’heures, subsiste car il s’avère difficile de modéliser avec précision le comportement de l’étage principal de cette fusée, un cylindre de 33 mètres de longueur pesant plus de 20 tonnes.

    Trois choses sont certaines : cet étage va retomber ; certains de ses éléments, qui ne se consumeront pas intégralement lors de la rentrée dans l’atmosphère, atteindront le sol ; cela se passera entre le 41e parallèle nord (la latitude de Madrid ou de Naples en Europe) et le 41e parallèle sud qui passe au sud de l’Afrique. Aucun risque pour la France métropolitaine donc, mais cette très vaste zone, qui contient le sud de l’Europe, une immense partie de l’Amérique, tout le continent africain, le sud de l’Asie et la quasi-intégralité de l’Australie, regroupe tout de même 88 % de la population mondiale…

    Plus puissant lanceur chinois, puisqu’il est capable de mettre 25 tonnes sur orbite basse, la Longue Marche dans sa version 5B ne suit pas ce scénario tout simplement parce qu’elle ne compte qu’un seul étage et pas deux (contrairement à la version 5 tout court). Pour remplir sa mission, cet étage principal monte donc à plus de 250 kilomètres d’altitude et se retrouve, de ce fait, lui-même satellisé pendant quelques jours.

    Cela n’empêche pas d’évaluer les risques qu’entraînent ces rentrées incontrôlées. Dans une étude publiée le 11 juillet par Nature Astronomy et qui tombe, si l’on peut dire, à pic, des chercheurs canadiens rappellent tout d’abord que les Chinois ne sont pas les seuls à laisser choir sur Terre des engins spatiaux puisque, en 2016, deux réservoirs appartenant au second étage d’une Falcon-9 de SpaceX, l’entreprise d’Elon Musk, étaient arrivés au sol en Indonésie.

    Ces scientifiques soulignent que, lors des lancements, beaucoup d’éléments plus ou moins gros restent dans l’espace pendant un temps plus ou moins long et créent des dangers lors de leur retombée, soit pour les populations au sol, soit pour les avions de ligne. Selon l’étude, si les pratiques actuelles devaient se poursuivre, elles auraient « une probabilité de 10 % de faire une ou plusieurs victimes sur une décennie ». Les auteurs constatent aussi que les risques d’accident sont plus importants aux faibles latitudes, c’est-à-dire sur le territoire de pays qui… ne lancent pas de fusées.

    Pierre Barthélémy

    #Espace #Communs

  • Le #Conseil_d’Etat enterre l’#espace_Schengen et s’oppose à la #Cour_de_justice_de_l’Union_européenne

    Dans une décision du #27_juillet_2022, le Conseil d’Etat valide une nouvelle fois la prolongation du rétablissement des #contrôles_aux_frontières_intérieures par le gouvernement français, prenant ainsi l’exact contrepied de la position de la Cour de justice de l’Union européenne (#CJUE).

    Alors que, depuis 2015, les autorités françaises prolongent systématiquement tous les 6 mois les contrôles aux frontières intérieures au motif d’une « #menace_persistante » liée au #terrorisme, le Conseil d’Etat, dans sa décision du 27 juillet, se livre à une lecture tronquée de l’arrêt de la CJUE. Pour voler au secours du gouvernement, il s’autorise à réécrire le #droit_européen ignorant délibérément certains développements essentiels apportés par la Cour.

    Ainsi, éludant la définition retenue par la CJUE d’une « nouvelle menace » à savoir, une menace « distincte de celle initialement identifiée », le Conseil d’Etat persiste dans la position qu’il avait adoptée en 2017 et 2019 en considérant qu’une « menace identique mais renouvelée » pourrait suffire à justifier la prolongation des contrôles.

    Pire, le Conseil d’Etat conforte encore le gouvernement en lui permettant d’avance de procéder à des #prolongations sans fin des contrôles aux frontières intérieures, ce que précisément l’arrêt de la CJUE interdit.

    Or, ces contrôles et les pratiques policières qui y sont associées ont pour conséquence des violations quotidiennes des droits des personnes aux frontières pouvant aller jusqu’à provoquer des décès, comme nos organisations le dénoncent inlassablement depuis près de 7 ans.

    Alors qu’il aurait pu et dû mettre un terme à l’illégalité de ces pratiques et faire respecter le principe de #primauté_du_droit_européen, le Conseil d’Etat porte le coup de grâce à la #liberté_de_circulation dans l’espace Schengen.

    https://www.lacimade.org/presse/le-conseil-detat-enterre-lespace-schengen-et-soppose-a-la-cour-de-justice-

    #frontières_intérieures #contrôles_frontaliers #rétablissement #France #justice #migrations #asile #réfugiés #2022 #droit

  • #Simon_Springer : « A un moment donné, il faut juste dire "#fuck !" au #néolibéralisme dont la fonction première est de créer des #inégalités »

    Pour cet activiste du quotidien, lire #Kropotkine et #Reclus, c’est revenir aux sources de la géographie comme de l’#anarchisme. La #géographie_radicale propose de penser toutes les histoires, en s’éloignant du seul point de vue anthropocentrique. Cela inclut l’histoire des animaux, des plantes… Et surtout la prise en compte des #interactions et des #coopérations.

    L’affiche ressemble à s’y méprendre à celle de la tournée d’un groupe de hard rock. Si Simon Springer est bien fan de ce genre musical, les 28 dates du tour d’Europe qu’il a honorées avant l’été ont invité le public non pas à des concerts, mais à des conférences autour de son dernier ouvrage, Pour une géographie anarchiste (Lux éditeur, 2018). Professeur depuis 2012 à l’université de Victoria, au Canada, il rejoindra en septembre l’université de Newcastle, en Australie. Géographe radical, spécialiste de la pensée anarchiste et du Cambodge, Simon Springer se présente comme athée, végan, pacifiste, « straight edge » (sous-culture punk qui bannit la consommation de psychotropes) et « super-papa ». Cet activiste du quotidien revient pour Libération sur la nécessité d’une lutte à petits pas afin d’enrayer toute forme de domination.

    Qu’est-ce qu’est une géographie anarchiste ?

    Les systèmes de hiérarchie et de domination qui structurent nos vies découlent d’un apprentissage. Devenir anarchiste, c’est les désapprendre. J’ai trois enfants, qui détiennent de manière inhérente beaucoup de valeurs anarchistes. Ce sont mes plus grands professeurs. La géographie est un champ très vaste qui va de la géographie physique à la géographie humaine. Si vous revenez à Pierre Kropotkine et Elisée Reclus, aux sources de la géographie comme de l’anarchisme, il n’y a pas de séparation claire. Doreen Massey, une géographe radicale britannique, considère que la géographie raconte l’histoire, les histoires. Il s’agit de penser toutes les histoires collectées, pas uniquement d’un point de vue anthropocentrique. Cela inclut l’histoire des animaux, des plantes, et toutes les interconnexions qui font de la Terre ce qu’elle est.

    On ne conçoit pas l’espace de manière générale, mais de manières particulières, au pluriel. Doreen Massey considère que les lieux forment des constellations, comme un squelette des interconnexions que nous expérimentons. Cet ensemble de relations sociales, politiques et économiques est en évolution permanente. Il y a la grande histoire, et il y a le canevas des petites histoires. Rien n’est figé, accompli.
    En quoi l’anarchisme et ses idées permettent-ils de repenser notre rapport à l’espace et aux histoires des uns et des autres ?

    L’anarchisme est une manière d’être au monde, une question de liberté, d’émancipation. Dès lors qu’il y a une forme de hiérarchie, il y a un positionnement critique à avoir, et pas uniquement au sujet des relations que les humains ont entre eux. La pensée des Lumières a longtemps positionné l’homme au sommet de l’évolution des espèces. Chez Kropotkine et Reclus, dès le XIXe siècle, il s’agit de lui redonner une juste place : non pas supérieur, mais simplement existant aux côtés des autres espèces vivantes. Kropotkine pensait la mutualisation, la collaboration et la réciprocité à l’échelle de l’évolution entière. Afin de s’opposer au darwinisme, interprété comme une nécessaire compétition et la suprématie d’une espèce sur une autre, il souligne qu’un autre pan de la pensée de Darwin met en avant l’interdépendance des êtres vivants. Le processus d’évolution est lié à cela : certaines espèces survivent uniquement en vertu des liens qu’elles ont avec d’autres. Cette perspective permet de réimaginer la notion de survie, en réorientant la lecture de Darwin de la seule compétition à la coopération. L’anarchisme est aussi une question d’association volontaire et d’action directe. La première relève du choix, du libre arbitre, la seconde en découle : nous n’avons pas besoin d’attendre que des leaders élus, qu’une avant-garde, que quelqu’un d’autre nous autorise à repenser nos vies si nous avons envie de le faire. Selon Doreen Massey, il s’agit d’influer sur l’histoire, sur les histoires, pour qu’elles correspondent plus à nos désirs, nos intérêts et nos besoins.
    En quoi cette pensée peut-elle être actuelle ?

    Oppression raciale, violence d’Etat, violence capitalistique : les formes de violence dues aux hiérarchies se multiplient et se perpétuent aujourd’hui. L’anarchisme est beaucoup plus large que le proudhonisme originel. Il ne s’agit pas seulement d’une remise en cause de l’Etat, de la propriété, mais de toutes les formes de domination, en terme de genres, de sexualités, de races, d’espèces. L’anarchisme doit contribuer à forger une autre forme d’imagination, plus large, à mettre en avant les connexions entre les êtres plutôt que de leur assigner des étiquettes.
    Vous avez écrit un pamphlet intitulé « Fuck neoliberalism » (1), littéralement, « emmerdons le néolibéralisme »…

    A un moment donné, il faut juste dire « fuck it ! » [« merde ! », ndlr]. Car on a beau étudier dans le détail le fait que le marché avantage certains et en désavantage d’autres, un grand nombre de gens continueront de ne pas se sentir concernés. Donc il faut dire stop et s’atteler à renverser la tendance. Le capitalisme est fondé sur la domination, sa fonction première est de produire des inégalités. Dans ce système, certains réussissent, les autres restent derrière. En tant qu’universitaires, combien d’articles devrons-nous encore écrire pour dénoncer ses méfaits à tel endroit ou sur telle population ?

    C’est une provocation pour attirer l’attention sur le problème plutôt que de continuer à tourner autour. C’est le texte le plus lu de ma carrière. Il porte un message profondément anarchiste. Or, la réponse à cet article a été massivement positive dans le monde universitaire. Peut-être car le terme d’« anarchisme » n’apparaît jamais. La plupart des gens qui ont intégré des principes anarchistes à leur vie quotidienne ne l’identifient pas nécessairement comme tel. La coopération, la réciprocité, l’aide mutuelle, tout le monde les pratique chaque jour avec ses amis, sa famille. Lancer un jardin partagé, rester critique face à ses professeurs, interroger l’individualisme qui va de pair avec le néolibéralisme, cela fait partie d’une forme d’éthique de la vie en communauté. Nous sommes tous coupables - moi compris - de perpétuer le système. L’un des piliers du néolibéralisme est cette volonté de se focaliser sur l’individu, qui entraîne une forme de darwinisme social, les « tous contre tous », « chacun pour soi ».
    Vous évoquez un activisme de la vie quotidienne. Quel est-il ?

    L’activisme ne se résume pas à être en tête de cortège, prêt à en découdre avec la police. Il passe par des gestes très quotidiens, ce peut être de proposer à vos voisins de s’occuper de leurs enfants un après-midi. A Victoria, il existe un groupe de « mamies radicales » qui tricotent des vêtements pour les sans-abri. Mieux connaître ses voisins, aider quelqu’un à traverser la route, lever les yeux de nos téléphones ou débrancher notre lecteur de musique et avoir une conversation avec les gens dans le bus ou dans la rue : ces choses très simples font peser la balance dans l’autre sens, permettent de court-circuiter l’individualisme exacerbé produit par le néolibéralisme. Si vous vous sentez de manifester contre le G20, très bien, mais il faut également agir au quotidien, de manière collective.

    Une des meilleures façons de faire changer les gens d’avis sur les migrants est de leur faire rencontrer une famille syrienne, d’engager un échange. Frôler leur situation peut être le moyen de réhumaniser les réfugiés. Cela implique d’avoir un espace pour enclencher cette conversation, un lieu inclusif, libre des discours haineux. En s’opposant au nationalisme, l’anarchisme encourage le fait de penser le « non-nationalisme », de regarder au-delà des réactions épidermiques, d’élargir le cercle de nos préoccupations et notre capacité à prendre soin de l’autre, à se préoccuper de l’humanité entière.
    Cet ethos permet-il de lutter contre la violence institutionnelle ?

    Je me considère pacifiste, mais ça ne veut pas dire que les gens ne devraient pas s’opposer, lutter, pratiquer l’autodéfense. Pour moi, l’anarchisme est fondamentalement non-violent - un certain nombre d’anarchistes ne sont pas d’accord avec cela. Un système de règles et de coercition est intrinsèquement violent. L’Etat revendique le monopole de cette violence. Quand des groupes d’activistes, d’anarchistes ou n’importe qui s’opposent à l’Etat, c’est un abus de langage d’appeler cela de la violence. C’est un moyen pour l’autorité de discréditer la dissidence. Si l’Etat revendique le monopole de la violence, acceptons-le en ces termes. La violence est répugnante, vous en voulez le monopole ? Vous pouvez l’avoir. Mais alors n’appelez pas « violence » notre réponse. Le but d’un anarchiste, d’un activiste, ce n’est pas la domination, la coercition, mais la préservation de son intégrité, la création d’une société meilleure, de plus de liberté. L’autodéfense n’est pas de la violence.
    D’une certaine façon, un Black Bloc ne serait pas violent, selon vous ?

    Chaque Black Bloc, dans un contexte donné, peut être motivé par de nombreuses raisons. Mais de manière générale, je ne crois pas que son objectif soit la violence. La première raison pour laquelle le Black Bloc dissimule son visage, c’est parce qu’il ne s’agit pas d’intérêts individuels, mais d’un mouvement collectif. La majorité des médias parle du Black Bloc uniquement en terme de « violence », or c’est d’abord une forme de résistance, d’autodéfense, non pas uniquement pour les individus qui forment à un moment le Black Bloc, mais une autodéfense de la communauté et de la planète sur laquelle nous vivons. Qu’est-ce que va changer, pour une banque, une vitrine brisée, très vite remplacée ? Condamner la violence des Black Blocs, ça permet d’occulter la violence de la police, vouée à la domination, la coercition, la suppression de la liberté de certains individus dans le seul but de préserver la propriété d’une minorité puissante.

    (1) « Fuck le néolibéralisme », revue Acme, 2016, en libre accès sous Creative Commons sur www.acme-journal.org

    https://www.liberation.fr/debats/2018/08/20/simon-springer-a-un-moment-donne-il-faut-juste-dire-fuck-au-neoliberalism

    #géographie_anarchiste #hiérarchie #domination #histoire #histoires #espace #liberté #émancipation #mutualisation #réciprocité #collaboration #darwinisme #compétition #interdépendance #survie #association_volontaire #action_directe #choix #libre_arbitre #violence #imagination #fuck #fuck_it #capitalisme #domination #aide_mutuelle #individualisme #darwinisme_social #chacun_pour_soi #tous_contre_tous #activisme #résistance #non-nationalisme #nationalisme #pacifisme #autodéfense #non-violence #dissidence #monopole_de_la_violence #coercition #Black_Bloc #violence_institutionnelle

    • Pour une géographie anarchiste

      Grâce aux ouvrages de David Harvey, Mike Davis ou même Henri Lefebvre, on connaît aujourd’hui la géographie radicale ou critique née dans le contexte des luttes politiques des années 1960 aux États-Unis et qui a, comme le disait Harvey, donné à Marx « la dimension spatiale qui lui manquait ». Dans ce livre, Simon Springer enjoint aux géographes critiques de se radicaliser davantage et appelle à la création d’une géographie insurrectionnelle qui reconnaisse l’aspect kaléidoscopique des espaces et son potentiel émancipateur, révélé à la fin du XIXe siècle par Élisée Reclus et Pierre Kropotkine, notamment.

      L’histoire de l’humanité est une longue suite d’expériences dans et avec l’espace ; or aujourd’hui, la stase qui est imposée à ces mouvements vitaux, principalement par les frontières, menace notre survie. Face au désastre climatique et humain qui nous guette, il est indispensable de revoir les relations que nous entretenons avec le monde et une géographie rebelle comme celle que défend Springer nous libérerait du carcan de l’attentisme. Il faut se défaire une bonne fois pour toutes des géographies hiérarchiques qui nous enchaînent à l’étatisme, au capitalisme, à la discrimination et à l’impérialisme. « La géographie doit devenir belle, se vouer entièrement à l’émancipation. »

      https://luxediteur.com/catalogue/pour-une-geographie-anarchiste

      #livre

  • Vienne, capitale de l’urbanisme « sensible au genre » | Mediapart
    https://www.mediapart.fr/journal/international/250722/vienne-capitale-de-l-urbanisme-sensible-au-genre#at_medium=custom7&at_camp

    Vienne (Autriche).– Avec ses immeubles peu élevés et ses espaces communs sagement entretenus et arborés, l’ensemble de logements sociaux Frauen Werk Stadt (« Femme, travail, ville ») ressemble à de nombreux autres quartiers d’habitations de la capitale autrichienne. Mais sa construction, achevée en 1997, a représenté une petite révolution. Élaboré par quatre femmes architectes, ce complexe résidentiel a été l’un des premiers projets pilotes intégrant les principes de l’urbanisme dit « sensible au genre ».

    Ici, tout a été conçu pour faciliter les tâches du quotidien : courses, lessive, prise en charge des enfants. Un travail non rémunéré encore effectué en grande partie par les femmes. Ainsi, ont été installés au sein de l’ensemble un supermarché, une crèche, un cabinet médical, une pharmacie. De quoi limiter les déplacements souvent chronophages qu’implique le travail domestique.

    Une dimension également intégrée à l’intérieur des bâtiments : les machines à laver communes n’ont pas été reléguées dans une salle sombre à la cave, comme cela est souvent le cas à Vienne, mais sont situées dans les étages supérieurs qui donnent accès à un toit-terrasse offrant une vue sur tout l’ensemble. Chaque étage dispose d’un local commun de rangement. Les mères peuvent ainsi prendre l’ascenseur avec leur poussette et la laisser devant leur porte, sans avoir à porter enfants et sacs de courses dans les bras. Les cages d’escalier sont larges et éclairées par la lumière naturelle pour inciter les habitant·es à s’arrêter et à discuter, permettant ainsi de créer du lien entre voisin·es et de se rendre éventuellement des services.

    Ça ne remet pas en cause la répartition genrée des tâches domestiques mais c’est déjà ça

    Les parcs publics représentent l’un des exemples les plus aboutis de cette démarche : grâce à une étude sociologique, la municipalité se rend compte que les jeunes filles désertent ces lieux, passé l’âge de dix ans, car elles n’y trouvent plus leur place. En 1999, deux parcs sont alors choisis pour être réaménagés selon des critères de sensibilité au genre : des cages de football sont déplacées pour permettre une utilisation plus diversifiée de la pelouse, des buissons sont enlevés, et l’éclairage est renforcé pour améliorer la visibilité et accroître le sentiment de sécurité, des toilettes publiques sont installées, ainsi que des hamacs qui permettent de se rassembler et de discuter au calme.

    • Vienne, capitale de l’urbanisme « sensible au genre »

      Depuis 30 ans, la capitale autrichienne cherche à assurer un partage équitable de l’espace public entre hommes et femmes. #Aménagement des #parcs, #trottoirs, #éclairage : pionnière de cet urbanisme « sensible au genre », la ville est mondialement reconnue pour sa qualité de vie.

      Avec ses immeubles peu élevés et ses espaces communs sagement entretenus et arborés, l’ensemble de logements sociaux Frauen Werk Stadt (« Femme, travail, ville ») ressemble à de nombreux autres quartiers d’habitations de la capitale autrichienne. Mais sa construction, achevée en 1997, a représenté une petite révolution. Élaboré par quatre femmes architectes, ce complexe résidentiel a été l’un des premiers projets pilotes intégrant les principes de l’urbanisme dit « sensible au genre ».

      Ici, tout a été conçu pour faciliter les tâches du quotidien : courses, lessive, prise en charge des enfants. Un travail non rémunéré encore effectué en grande partie par les femmes. Ainsi, ont été installés au sein de l’ensemble un supermarché, une crèche, un cabinet médical, une pharmacie. De quoi limiter les déplacements souvent chronophages qu’implique le travail domestique.

      Une dimension également intégrée à l’intérieur des bâtiments : les machines à laver communes n’ont pas été reléguées dans une salle sombre à la cave, comme cela est souvent le cas à Vienne, mais sont situées dans les étages supérieurs qui donnent accès à un toit-terrasse offrant une vue sur tout l’ensemble. Chaque étage dispose d’un local commun de rangement. Les mères peuvent ainsi prendre l’ascenseur avec leur poussette et la laisser devant leur porte, sans avoir à porter enfants et sacs de courses dans les bras. Les cages d’escalier sont larges et éclairées par la lumière naturelle pour inciter les habitant·es à s’arrêter et à discuter, permettant ainsi de créer du lien entre voisin·es et de se rendre éventuellement des services.

      Un aspect particulièrement important pour Martina Kostelanik, qui a emménagé dès 1997 dans son appartement, un rez-de-chaussée avec jardin qu’elle compte bien ne jamais quitter : « Quand nous sommes arrivés ici, il n’y avait que des jeunes familles et nous avons maintenu des liens d’amitié, même avec ceux qui ont déménagé. Les enfants ont grandi ensemble et sont toujours en contact. »

      Aujourd’hui retraitée, elle a élevé ses trois enfants à Frauen Werk Stadt, tout en travaillant dans la cantine d’une école : « Ici, c’est très pratique. Il y a deux aires de jeux dans des cours intérieures et on peut laisser les enfants y aller seuls car on peut les surveiller depuis notre jardin. Les voitures ne peuvent pas passer, il n’y a donc aucun danger. Et puis il y a la crèche qui est directement dans l’ensemble, beaucoup d’espaces verts, des endroits pour faire du vélo avec les enfants. Il n’y a pas besoin d’aller ailleurs pour les occuper. C’est super ! »

      Désormais, ses enfants ont grandi et quitté le domicile familial. Comme les appartements sont modulables pour s’adapter aux différentes périodes de la vie, elle a pu facilement faire tomber une cloison qui séparait sa chambre de celle des enfants, afin d’avoir plus d’espace. Son logement ne comprend aucune marche sur laquelle elle pourrait trébucher, le médecin et la pharmacie ne sont qu’à quelques mètres. Dernier aspect important pour la retraitée : le #sentiment_de_sécurité. L’#éclairage a été étudié pour éviter tout recoin sombre, parfois source d’angoisse pour les femmes, et les larges fenêtres des pièces de vie donnent sur les espaces communs pour pouvoir toujours être à portée de regard.

      Après 25 ans à vivre ici « comme dans un village », Martina Kostelanik se dit très satisfaite. Pourtant, quand on lui fait remarquer que cet ensemble a été spécifiquement conçu pour prendre en compte les besoins des femmes, elle sourit et admet qu’elle l’ignorait. C’est tout le #paradoxe de cette approche pour Eva Kail, urbaniste à la mairie de Vienne : « Quand tout fonctionne bien au quotidien, alors ça devient invisible. » Cette experte est l’une des pionnières de l’urbanisme sensible au genre et n’a cessé de convaincre autour d’elle de l’importance de la démarche.

      Une politique initiée dans les années 1990

      En 1991, elle organise une exposition photo retraçant une journée dans la vie de huit femmes à Vienne, une mère célibataire, une étudiante en fauteuil roulant, une cadre… afin de montrer comment s’organise leur quotidien dans l’#espace_urbain. Pour la première fois, des données relatives aux différents #moyens_de_transport sont ventilées par sexe et le constat est sans appel : les automobilistes sont majoritairement des hommes, et les piétons, des femmes. Une réalité sur laquelle personne ne s’était alors penché : « À l’époque, on avait coutume de dire que les responsables de la #planification des #transports étaient des automobilistes blancs de la classe moyenne et ils ont eu une grande influence sur cette politique d’urbanisme », estime Eva Kail.

      La planification des transports était alors principalement centrée sur les trajets en voiture entre le domicile et le travail mais prenait peu en compte les nombreux itinéraires empruntés par les femmes dans leur quotidien. L’exposition permet ainsi de thématiser les problématiques des piéton·nes : largeur des trottoirs, éclairage urbain, temps laissé par les feux tricolores pour traverser. Avec 4 000 visiteurs et visiteuses, l’exposition est un succès et, quelques mois plus tard, la municipalité décide d’ouvrir le Frauenbüro, le « bureau des femmes », pour apporter plus d’attention aux besoins des habitantes. Eva Kail en prend la direction. Un numéro d’urgence joignable 24 heures sur 24 est mis en place, de nombreux projets pilotes, dont Frauen Werk Stadt, sont lancés.

      Les parcs publics représentent l’un des exemples les plus aboutis de cette démarche : grâce à une étude sociologique, la municipalité se rend compte que les jeunes filles désertent ces lieux, passé l’âge de dix ans, car elles n’y trouvent plus leur place. En 1999, deux parcs sont alors choisis pour être réaménagés selon des critères de sensibilité au genre : des cages de football sont déplacées pour permettre une utilisation plus diversifiée de la pelouse, des buissons sont enlevés, et l’éclairage est renforcé pour améliorer la visibilité et accroître le sentiment de sécurité, des toilettes publiques sont installées, ainsi que des hamacs qui permettent de se rassembler et de discuter au calme.

      Résultat : les jeunes filles commencent à utiliser une plus grande partie de ces parcs, même si la municipalité a dû faire face à des critiques qu’elle n’avait pas anticipées : « Il y avait un parc où on avait beaucoup amélioré la visibilité. Des jeunes filles sont venues se plaindre car leur mère pouvait désormais voir de la fenêtre ce qu’elles faisaient en bas et ça ne leur a pas du tout plu ! […] On n’y avait pas pensé ! On aurait dû leur laisser quelques recoins », s’amuse Eva Kail. À partir de ces expériences, des listes de recommandations ont été établies et s’appliquent désormais à l’ensemble des parcs de la capitale.

      #Seestadt, un immense quartier en construction

      Si l’urbanisme sensible au genre a, dans un premier temps, fait l’objet de nombreuses réticences et nécessité un important travail de pédagogie parmi les fonctionnaires de la municipalité, la démarche est aujourd’hui pleinement intégrée à la stratégie de développement de la ville, dirigée de longue date par les sociaux-démocrates. Pour s’en convaincre, direction Seestadt, en périphérie de Vienne. Sur 240 hectares, un nouveau quartier monumental est en train de sortir de terre. Autour d’un lac artificiel, plus de 4 300 logements ont déjà été construits. À terme, aux alentours de 2035, ce quartier devrait accueillir plus de 25 000 habitant·es, ainsi que 20 000 emplois : l’un des projets de développement urbain les plus importants d’Europe.

      Gunther Laher, responsable du suivi du projet pour la municipalité, nous guide dans les allées de cette ville nouvelle avec enthousiasme. Premier signe évident de l’importance accordée à la dimension de genre : les rues, places et parcs portent ici le nom de femmes célèbres. « Avant ce quartier, 6 % des rues de Vienne étaient nommées d’après une femme. On a porté ce chiffre à 14 % », se réjouit le fonctionnaire, pour qui cette décision va au-delà du symbole. « En voyant ces noms, les habitants commencent à s’intéresser à la biographie de ces femmes. Ça contribue à changer les perceptions. »

      Ici, de nombreuses rues sont piétonnes, le dénivelé entre la chaussée et le trottoir n’excède jamais trois centimètres pour faciliter les déplacements avec une poussette ou en fauteuil roulant. Même les commerces, installés le long de la rue Maria-Tusch, ont fait l’objet d’une planification : « Quand on construit un tel quartier, il y a peu d’habitants au début. Pour être sûr qu’ils aient à disposition ce dont ils ont besoin, on ne peut laisser faire le marché privé […]. On loue les boutiques en rez-de-chaussée et on s’assure que pendant dix ans, le local ne puisse être utilisé par un autre secteur d’activité. Le boulanger sera donc toujours un boulanger, le coiffeur toujours un coiffeur », explique Gunther Laher. Ainsi, la municipalité garantit que les habitant·es n’auront pas besoin de courir d’un bout à l’autre de la ville pour faire leurs courses.

      Toutes les politiques de la ville doivent prendre en compte le genre

      Depuis 2006, Vienne a également mis en place un budget sensible au genre (gender budgeting), pendant financier de sa politique d’urbanisme. Chaque département de la mairie doit ainsi s’assurer que ses dépenses contribuent à une amélioration de l’égalité entre les sexes. Si la rénovation d’une rue doit être financée, il faudra se demander quelle place est accordée à la chaussée, donc aux automobilistes, donc majoritairement aux hommes, et quelle place est accordée aux piéton·nes, en s’intéressant par exemple à la largeur des trottoirs.

      Michaela Schatz, responsable du département gender budgeting de la municipalité, se souvient d’une mise en place compliquée : « De nombreux services nous ont dit : “Nous travaillons déjà pour l’ensemble des Viennois.” Il a donc fallu leur montrer qui avait l’usage de telle ou telle prestation. »

      Quinze ans plus tard, la prise de conscience a eu lieu et la démarche, qui s’applique à l’ensemble du budget de la ville, soit 16 milliards d’euros, a permis d’importantes réalisations, selon Michaela Schatz : « Depuis 2009, les enfants de 0 à 6 ans peuvent aller gratuitement à la crèche. […] Une étude a ensuite montré que cette mesure avait eu un impact positif sur le PIB de Vienne. » Le taux d’emploi des mères âgées de 20 à 39 ans avec des enfants en bas âge a ainsi augmenté de 1,5 point sur la période 2007-2013.

      Reste que cette approche globale n’est pas exempte de critiques : à différencier ainsi les besoins, ne risque-t-on pas de renforcer les stéréotypes et d’enfermer les femmes dans un rôle de mère ou de victime ? « On ne peut pas avoir d’influence sur le partage des tâches entre les sexes à travers l’urbanisme. C’est une question de représentations sociales, de rapports de pouvoir au sein d’une relation. Mais on peut faire en sorte que ce travail domestique se fasse dans de bonnes conditions », répond Eva Kail.

      Autre défi : la croissance rapide de la population dans la capitale. Dans ce contexte, la tentation est grande d’aller vers plus d’économies et de faire des compromis sur la qualité des nouveaux logements, notamment sur leur conformité aux critères de sensibilité au genre. Mais cette année encore, Vienne a été élue ville la plus agréable à vivre au monde par l’hebdomadaire anglais The Economist. Parmi les critères déterminants : la qualité des infrastructures ou la diversité des loisirs, des domaines où les critères de sensibilité au genre sont depuis longtemps appliqués.

      https://www.mediapart.fr/journal/international/250722/vienne-capitale-de-l-urbanisme-sensible-au-genre

      #villes #urban_matter #géographie_urbaine #TRUST #master_TRUST #Vienne #Autriche #espace_public #urbanisme_sensible_au_genre #Frauen_Werk_Stadt #travail_domestique #mobilité #mobilité_quotidienne #toponymie #toponymie_féministe #voitures #piétons #commerces #courses #budget_sensible_au_genre #gender_budgeting #égalité #inégalités #espace_public

  • FAO en français sur Twitter : « Pourquoi les astronautes font-ils pousser des #aliments dans l’#espace ? Notre ambassadeur, thom_astro nous explique comment l’équipage aide à lutter contre le changement climatique et à soutenir la sécurité alimentaire mondiale depuis l’espace. 🎙️👉 » / Twitter
    https://twitter.com/FAOenFrancais/status/1546429841896919040

  • Les vocations pour l’usine de l’espace désormais cernées.
    http://www.argotheme.com/organecyberpresse/spip.php?article4332

    Dans l’espace sidéral ce qui peut être fait avec une fusée est bien plus minime que ce qui est possible de réaliser avec toute une infrastructure industrielle. Cela s’arrange avec le besoin de limiter la catastrophe écologique qui indispose la Terre et toute l’humanité qui y habite. #TECHNOLOGIE,_INTERNET,_PERFORMANCES_INCLASSABLES

    / Sciences & Savoir, #Ecologie,_environnement,_nature,_animaux, #espace,_fusée,_exploration,_NASA,_étoiles,_espace,_technologie,_ISS, #technologie,_drone,_citoyen,_USA,_google,_High_Tech, économie

    #Sciences_&_Savoir #économie_

  • Usbek & Rica - Un rover de la NASA découvre un déchet humain sur Mars
    https://usbeketrica.com/fr/article/on-a-pollue-la-terre-on-a-pollue-l-espace-maintenant-on-pollue-mars-un-

    Cette couverture n’est pas le seul débris qui s’est vu larguer par la navette lors de sa descente en février 2021. Un bouclier thermique, un parachute supersonique et une grue aérienne propulsée par une fusée ont subi le même sort, rapporte le média Mashable. En avril, l’hélicoptère Ingenuity – premier engin à avoir effectué un vol sur une autre planète – avait même photographié l’épave d’un parachute orange et blanc recouvert de poussière, la couverture protectrice qui stockait le parachute ainsi que la coque dorsale, retrouvée en morceaux après un plongeon à 125 km/h.

    Si la pollution spatiale a particulièrement fait parler d’elle ces dernières années, les premiers « déchets » abandonnés sur sol extraterrestre datent pourtant des années 1970, lors des premières explorations sur la Lune. Au terme du mythique programme Apollo de la NASA, achevé en 1972, les six équipes d’astronautes ont laissé derrière elles des objets en tout genre : des modules lunaires aux véhicules électriques en passant par des sismomètres, des pelles ainsi que les caméras grâce auxquelles des millions de personnes ont pu admirer les premiers pas sur la Lune depuis leur télévision. Ces objets sont restés là pour une raison : le poids limité des modules de transports spatiaux. « Plus ils en jetaient, plus ils pouvaient ramener de pierres [sur Terre] », explique Stan Starr, directeur adjoint du projet Apollo, à la NASA.

    Problème : ces débris laissés dans l’espace peuvent contaminer des corps planétaires vierges de toute trace humaine, selon l’organisme américain. Pourtant, les États sont tenus de protéger les planètes extraterrestres, rappelle Benjamin Bastida Virgili : « Parmi ces règles, les pays doivent par exemple aseptiser tous les outils spatiaux afin de ne pas apporter de bactéries sur des sols étrangers et potentiellement implanter une vie non-endémique ».

    Face à cette surcharge orbitale, l’ESA a lancé une mission de « nettoyage de l’espace », visant à retirer plusieurs engins spatiaux hors d’usage et à prévenir la création démesurée de nouveaux débris. « On est en train de développer toutes les technologies en vue de cette première mission qui devrait être lancée en 2025, pour enlever un débris vieux de dix ou quinze ans », avance Benjamin Bastida Virgili, qui prend part au projet « Clean Space ».

    Outre ces missions sauvetage, nombreux sont les scientifiques à demander une juridiction de l’espace plus contraignante. C’est notamment le cas de la professeure d’astronomie à l’Université de San Francisco, Aparna Venkatesan, qui a affirmé lors d’un événement organisé par le Musée américain d’histoire naturelle, le mois dernier, que la mise en place de protections contre la pollution de l’environnement spatial nécessiterait de définir l’espace comme un patrimoine commun de la civilisation humaine.

    #Espace #Communs #Pollution

  • La bataille des ambiances
    https://metropolitiques.eu/La-bataille-des-ambiances.html

    « Aseptisée » ou « rebelle » : la #place Sainte-Anne à #Rennes est au cœur de conflits opposant habitants et élus sur son réaménagement. Julien Torchin analyse ici comment, derrière la notion d’« ambiance », sont mobilisés les affects dans la défense ou l’opposition au projet. À Rennes, une série de grands projets lancés ces dix dernières années incarnent la mue du chef-lieu de la région Bretagne en métropole à rayonnement régional dans le paysage architectural (la ville compte 220 500 habitants en 2021 et ses #Terrains

    / #aménagement, Rennes, #ambiances_urbaines, place, #espace_public, #centre-ville

    https://metropolitiques.eu/IMG/pdf/met_torchin.pdf

  • « Ville féministe » de Leslie Kern
    https://topophile.net/savoir/ville-feministe-de-leslie-kern

    Les études urbaines privilégiant le genre sont encore rares, aussi convient-il de saluer cet ouvrage de la géographe Leslie Kern, qui dirige des recherches sur le genre à l’Université Mount Alison au Nouveau-Brunswick. Évitant toute langue de bois, l’auteure rend compte, subjectivement, de sa propre expérience de femme enceinte (où s’asseoir ?), puis de jeune mère... Voir l’article

  • Enfants dans l’espace public : enquête sur une disparition - URBIS le mag
    https://www.urbislemag.fr/enfants-dans-l-espace-public-enquete-sur-une-disparition-billet-642-urbis

    Où sont passés les enfants ? Dans les rues de nos villes, combien en croise-t-on, cartables sur le dos, et rentrant de l’école ? Combien sont-ils à avoir l’autorisation parentale de jouer dans la rue ? De faire quelques courses dans un magasin proche de leur domicile ? Bien peu. Et même, de moins en moins. Clément Rivière, maître de conférences en sociologie à l’université de Lille, s’est penché sur la façon dont les parents du début du 21ème siècle encadrent les pratiques de leurs enfants dans l’espace public. Récemment publié aux Presses universitaires de Lyon, son travail met en lumière les mécanismes à l’œuvre dans la fabrication des « enfants d’intérieur ». De quoi donner à réfléchir aux urbanistes et plus largement, à tous ceux qui travaillent à la conception et à l’aménagement d’espaces publics pour tous.

    #transport #territoire #ville #enfants

  • Les espaces publics, un impensé du #Grand_Paris ?
    https://metropolitiques.eu/Les-espaces-publics-un-impense-du-Grand-Paris.html

    Alors que les espaces publics sont relativement absents des débats sur l’aménagement de la région capitale, cet essai appelle à faire du #Grand_Paris_Express un levier pour transformer conjointement espaces publics et #mobilités dans la profondeur des territoires. Souvent réduits à des enjeux locaux ou techniques, les espaces publics sont un impensé des débats sur l’aménagement du Grand Paris. Les rues, les boulevards et les places demeurent majoritairement modelés pour l’automobile, laissant peu #Essais

    / #temps, #conception, Grand Paris Express, Grand Paris, mobilité, #espace_public

    https://metropolitiques.eu/IMG/pdf/met-enon-fleury-maillot-trevelo.pdf

  • Canada Now Willing to Punish Crimes Committed on the Moon
    https://gizmodo.com/canada-crimes-committed-on-the-moon-1848859299

    More than 50 years ago, Apollo astronauts left 96 bags of their own waste on the surface of the Moon. But they didn’t exactly fear getting hit with a fine for littering, as space—the Moon included—has been a largely lawless region. Canadian law makers are hoping to change that.

    Canada amended its criminal code on Thursday to allow for the prosecution of crimes committed by Canadian astronauts during trips to the Moon or on the lunar surface itself. Foreign astronauts who threaten the life or security of a Canadian astronaut can also be punished by Canadian law, according to broadcaster CBC.

    Canada’s criminal code had already included crimes committed by its astronauts aboard the International Space Station as punishable by law. But the recent amendment now accounts for the Canadian Space Agency’s participation in the upcoming Artemis program, through which NASA intends on sending people back to the Moon’s surface later this decade, and possibly as early as 2025.

    The Artemis 2 mission, in which a crewed Orion capsule will travel to the Moon and back without landing, will include a Canadian astronaut. Canada is also contributing a robotic arm to the Lunar Gateway, a planned outpost in orbit around the Moon. The European Space Agency, as well as Japan’s Aerospace Exploration Agency, are also taking part in the Artemis program.

    As these international collaborations take shape in the midst of an evolving industry, it has become more crucial to reconsider the laws currently in place when it comes to governing space. As it stands, space is loosely governed by the Outer Space Treaty of 1967, which was penned in light of the space race between the U.S. and the Soviet Union. The treaty hasn’t been updated since, and article six of the Outer Space Treaty states that nations will supervise the activities of their citizens in space.

    #Espace #Communs #Loi #Traité_espace

    • Public Spaces and the Material Presence of Empire’s Memory in Italy


      Tuesday, March 1, 2022
      Online Event
      9:10 pm – 11:00 pm CET/GMT+1

      Although Italy’s colonial empire had been small and short-lived, today numerous material traces - street names, monuments, buildings etc. - can be found in Italian public spaces. By marking physical locations on a digital map, the project Postcolonial Italy (https://postcolonialitaly.com) aims at making historical knowledge available to a large audience to stimulate a public debate on Italy’s silenced colonial past. Material traces are not only geographically captured, but also - and this is crucial - historically contextualized. The map intends to recall the manifold connections between Italian public spaces and the colonial and fascist past, which often remains absent from collective memory.

      This event is offered by Bard College, Annandale, as part of the Modernism and Fascism: Cultural Heritage and Memory course in cooperation with Bard College Berlin through Global Modernisms, an OSUN Network Collaborative Course.

      Affiliations: Daphné Budasz (European University Institute, Florence), Markus Wurzer (Max Planck Institute for Social Anthropology, Halle/Saale)

      https://www.bard.edu/dei/events/event/?eid=141160&date=1646187000

      #conférence #colonialisme #impérialisme #passé_colonial #mémoire

  • Cinq ans de contrôles illégaux aux frontières intérieures françaises

    Dans un arrêt du 26 avril 2022 (www.gisti.org/IMG/pdf/jur_cjue_2022-04-26.pdf), la Cour de justice de l’Union européenne (#CJUE) juge qu’en vertu du principe de #liberté_de_circulation au sein de l’#espace_Schengen, un État membre ne peut rétablir des contrôles à ses frontières intérieures pour une durée excédant 6 mois, sauf apparition d’une nouvelle menace, distincte de la précédente. La CJUE juge également que le contrôle d’identité mis en œuvre dans le cadre d’un rétablissement des contrôles aux frontières intérieures excédant cette durée est illégal.

    En France, depuis novembre 2017, les autorités rétablissent systématiquement tous les 6 mois les contrôles aux frontières intérieures au motif d’une « #menace », persistante à leurs yeux, à savoir : une #menace_terroriste et celle liée à des mouvements de populations. A cela est venue s’ajouter, en avril 2020, la #crise_sanitaire.

    Dans son arrêt du #26_avril_2022, relatif à un #contentieux autrichien [1], la CJUE rappelle que le rétablissement des contrôles aux frontières intérieures ne peut être qu’exceptionnel et ne peut en aucun cas s’installer dans la durée au point de devenir la norme, contrairement à la pratique des autorités françaises. Ce faisant, la Cour consacre le #principe_fondamental de la liberté de circulation au sein de l’espace Schengen - et son corollaire, l’interdiction des contrôles aux frontières intérieures - comme « l’une des principales réalisations de l’Union ».

    A la lumière de cet arrêt, l’illégalité de ce maintien prolongé des contrôles aux frontières intérieures françaises est patente. Il en va donc de même des contrôles pratiqués dans ce cadre, que ce soit aux frontières intérieures terrestres, aéroportuaires, ferroviaires ou maritimes de la France.

    Nos associations appellent les autorités françaises à mettre un terme à la #prolongation des contrôles aux frontières intérieures et à cesser ainsi les atteintes quotidiennes aux droits fondamentaux des personnes exilées qui s’y présentent (violences, contrôles aux faciès, non-respect du droit d’asile et des droits de l’enfant, enfermement).

    Le 29 avril 2022

    Associations signataires :

    - Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (Anafé)
    - Gisti
    - La Cimade
    - Médecins du Monde
    - Amnesty International France
    - Ligue des droits de l’Homme (LDH)
    - Syndicat des avocats de France (SAF)
    - Emmaüs Roya
    - Roya citoyenne
    - Tous Migrants
    - Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (ASGI)
    - Etorkinekin-Solidarité Migrants

    –—

    Complément d’information

    L’article 1er du code frontières Schengen (CFS) pose le principe de base à l’œuvre au sein de l’espace Schengen à savoir un espace dans lequel est prévu : « l’absence de contrôle aux frontières des personnes franchissant les frontières intérieures entre les Etats membres de l’Union » tout en établissant « les règles applicables au contrôle aux frontières des personnes franchissant les frontières extérieures des Etats membres de l’Union ».

    Depuis le 13 novembre 2015, le gouvernement français a informé la Commission européenne du rétablissement des contrôles aux frontières intérieures – d’abord en raison de la tenue de la COP 21 – en application des articles 23 et suivants du CFS. Après les attentats de Paris de novembre 2015, l’état d’urgence et la menace terroriste ont été utilisés par les autorités françaises pour justifier le rétablissement des contrôles aux frontières intérieures. L’état d’urgence a pris fin en novembre 2017.

    En parallèle, les autorités françaises ont fait savoir à l’UE qu’elles comptaient prolonger les contrôles aux frontières intérieures pour une nouvelle durée de 6 mois, sur la base des articles 25 et 27 du CFS cette fois-ci. Malgré des actions contentieuses portées par des associations pour dénoncer cette logique persistante et inconventionnelle, le Conseil d’Etat a, dans une décision du 28 décembre 2017 et dans une décision du 16 octobre 2019, validé les décisions des autorités françaises, permettant à ces dernières de renouveler vraisemblablement indéfiniment le rétablissement des contrôles aux frontières intérieures, tout en refusant de transmettre à la Cour de justice de l’Union européenne la question préjudicielle que les associations proposaient de poser afin d’obtenir une interprétation européenne du CFS. Si une plainte a par ailleurs été déposée par l’Anafé et le Gisti devant la Commission européenne à ce sujet, elle demeure toujours pendante et sans réponse.

    Dans ce contexte, les services de la #police_aux_frontières (#PAF) ont rétabli des contrôles des conditions d’entrée sur le territoire, incluant des contrôles d’identité, aux frontières intérieures de la France et remettent aux personnes étrangères qui ne disposent pas des conditions d’entrée sur le territoire, des refus d’entrée en application des articles L. 330-1 à L. 333-5 du code de l’entrée et du séjour des étrangers et du droit d’asile (CESEDA). Or, ces contrôles, le plus souvent discriminatoires, donnent lieu à des procédures de #refus_d’entrée sans respect de la procédure ni des droits des personnes dont le droit d’asile et le droit à la protection pour les mineurs isolés.

    http://www.gisti.org/spip.php?article6797

    #frontières #frontières_intérieures #frontières_internes #contrôles_systématiques #France #Italie #frontière_sud-alpine #contrôles_d'identité

  • How the pandemic is changing home design
    https://www.axios.com/post-pandemic-home-design-open-plan-architecture-4ef06bef-dd4b-457d-a69b-ffda

    What’s next: Dedicated rooms are popping up for video games, golf simulators, Zoom calls or relaxation — so called “Zen rooms.”

    “Metaverse rooms” may be on the horizon, with some designers seeing the need for indoor space where people can wander around in virtual reality, per the Wall Street Journal.

    #jeu_vidéo #jeux_vidéo #immobilier #espace #maison #logement #architecture #pandémie #design #métavers #génération_x

  • #Camille_de_Toledo en conversation avec #Camille_Louis

    Une conversation présentée dans le cadre du cycle « Enquêter, enquêter, mais pour élucider quel crime ?« , une résidence de l’écrivain Camille de Toledo.

    De janvier 2020 à juin 2021, l’École urbaine de Lyon, la Fête du livre de Bron et European Lab ont accompagné Camille de Toledo le temps d’une résidence de création artistique. Camille de Toledo a conçu « la chambre d’enquête », passionnante plongée dans l’esprit de l’auteur de Thésée, sa vie nouvelle (Éditions Verdier), éclairant déploiement plastique de la généalogie d’une œuvre essentielle. Camille de Toledo a également animé un séminaire ouvert qui a interrogé, sous divers angles, ce registre de l’enquête. European Lab 2021 marque la dernière étape de cette résidence et la finalisation de la chambre d’enquête, qui sera présentée au public pendant les trois jours du forum.

    Lors de cette étape de résidence à European Lab, #Camille_de_Toledo invite Camille Louis, philosophe, dramaturge, engagée sur plusieurs terrains de #recherche et d’action, notamment à #Calais et sur l’île grecque de #Lesbos. Ensemble, il et elle exploreront un nouvel âge de l’enquête en #philosophie, qui part des modes d’existences, des territoires en #lutte. La conversation portera sur les formes que peut prendre cette alliance entre discours et pratiques de #terrain, théories et scènes, collectes de matériau (#field_research) et élaboration conceptuelle.

    https://www.youtube.com/watch?v=Apcny7KzRD8


    #expérimentation #recherche-action #engagement #sciences_humaines #rencontre #fragilité #vertige #langue #migrations #sauveur #espace_public #infra-mince #inframince #échelle

    ping @karine4 @isskein

  • À la frontière franco-italienne : un #bricolage du #droit qui contourne l’asile

    Le #droit_d’asile est reconnu par les textes français, européens et internationaux. Pourtant, les personnes qui se présentent à la frontière franco-italienne sont régulièrement refoulées sans pouvoir demander la protection de la France. Pour comprendre cet écart, il faut s’intéresser aux ambiguïtés de notre système juridique.

    https://www.youtube.com/watch?v=nE51SrntoIA&feature=emb_logo

    Depuis le 13 novembre 2015, la France a rétabli les contrôles à ses frontières européennes, également dites « intérieures[1] » (avec l’Italie, l’Espagne, la Belgique, l’Allemagne, le Luxembourg et la Suisse). Cette mesure, exceptionnelle et normalement temporaire, a engendré ce que l’on appelle un nouveau « régime frontière », c’est-à-dire un ensemble de normes et de pratiques qui gouvernent le mouvement des personnes aux confins de l’État. À partir de l’étude de ce nouveau régime à la frontière franco-italienne, nous considérerons l’écart qui peut exister entre le texte juridique et le terrain concernant un droit fondamental comme l’asile. Dans quelle mesure la pratique du droit et son interprétation constituent-elles une marge qui permet aux acteurs étatiques de s’accommoder de certaines règles ?
    Le droit d’asile, un régime juridique transversal

    Il faut d’abord préciser qu’en France le droit d’asile, qui protège les personnes fuyant les risques de persécutions et les conflits armés, est l’objet d’un régime juridique complexe où s’entrelacent le droit national et le droit international. L’asile contemporain est en grande partie issu de la Convention de Genève relative au statut des réfugiés de 1951 et son protocole de 1967[2] qui sont des traités internationaux. Mais une portion considérable des règles de l’asile est élaborée par le droit de l’Union européenne qui forme, à travers de multiples directives et règlements, le régime d’asile européen commun. Ensuite, bien que la Convention européenne des droits de l’homme (CEDH)[3] de 1950 ne prévoie pas directement la protection de l’asile, il est établi qu’elle protège indirectement contre certains refoulements à travers l’obligation qu’elle impose aux États en matière d’interdiction de la torture et de traitements inhumains et dégradants (article 3) et de vie privée et familiale (article 8). Enfin, le droit d’asile est consacré par la Constitution française et inscrit dans le droit français, principalement en transposition du droit de l’Union européenne (droit UE). Le droit d’asile est ainsi finement tissé dans un régime juridique qui mêle le droit international, la CEDH, le droit de l’Union européenne et le droit français, à la fois constitutionnel et commun.
    À la frontière franco-italienne, l’asile en péril

    À la frontière entre la France et l’Italie, force est de constater que le droit d’asile n’est pas pleinement appliqué. L’enquête de terrain réalisée dans la vallée de la Roya et à Briançon et, surtout, l’attention des citoyens frontaliers et le travail d’associations comme Tous Migrants[4], Médecins du Monde[5], l’Anafé[6], Amnesty International[7] — pour n’en citer que quelques-unes — parviennent au même constat : la plupart des personnes migrantes[8] interceptées en France près de la frontière avec l’Italie ne sont pas en mesure de demander l’asile. Cette observation est également partagée par des institutions publiques dans des rapports tels que ceux du Contrôleur général des lieux de privation de liberté[9], de la Commission nationale consultative des droits de l’homme et de la commission d’enquête parlementaire sur les migrations[10]. Les personnes traversent la frontière, arrivent en France et, si elles sont interceptées par la police aux frontières (PAF), seront le plus fréquemment renvoyées en Italie sans examen individuel de leur situation.

    C’est donc la condition de possibilité du droit d’asile qui est ici mise en question : le fait de pouvoir enregistrer une demande afin que celle-ci soit traitée par le système de protection français. Cet aspect essentiel de l’asile — la demande — est pourtant consacré par ce régime juridique transversal que nous évoquions, y compris aux frontières de la France[11]. Comment dès lors expliquer que ce droit fondamental ne soit pas réalisé à la frontière avec l’Italie ? L’on serait tenté de répondre que le droit n’est tout simplement pas appliqué convenablement et qu’il suffit qu’une cour, comme le Conseil d’État, sanctionne cette pratique. Cependant, les juges, déjà saisis de la question, n’ont pas formulé de jugement capable de modifier les pratiques de contrôle éludant le droit d’asile.

    Par ailleurs, les contrôles frontaliers font l’objet d’un discours juridique, c’est-à-dire d’une justification par le droit, de la part des autorités étatiques. Ainsi le problème ne porte-t-il pas sur la non-application du droit mais, précisément, sur la manière dont le droit est interprété et mis en application, sur la direction qui est donnée à la force du droit. Qu’est-ce qui, dans le fonctionnement du droit, rend possible la justification juridique d’une transgression d’un droit fondamental normalement applicable ? Autrement dit, comment les autorités arrivent-elles à échapper à leurs obligations internationales, européennes et, à certains égards, constitutionnelles ?

    Une partie de la réponse à cette question réside en ce que le droit — international, européen, national — est plus malléable qu’on pourrait le penser. En effet, les normes juridiques peuvent parfois être en partie indéterminées dans leur définition et dans leur application. L’on dira que le droit est indéterminé au regard d’une situation lorsque les sources juridiques (les traités, les textes européens, la Constitution, la loi, le règlement, etc.), les opérations légitimes d’interprétation ou le raisonnement juridique qui s’y rapportent sont indéterminés, c’est-à-dire lorsque plus d’une conclusion peut être, a priori, tirée de ces éléments. L’on ajoutera une chose : moins un régime juridique est détaillé, plus il laisse de place aux indéterminations. Or, le régime qui préside aux contrôles à la frontière italienne est dérogatoire au droit commun de l’espace Schengen et il est, à ce titre, très peu développé par les textes. Comment cette malléabilité du droit se déploie-t-elle à la frontière ?
    Constituer la frontière par le détournement des normes

    Tout d’abord, si la question de l’asile se pose à la frontière franco-italienne, c’est parce que celle-ci fait l’objet de contrôles dérogatoires. Selon le droit de l’Union européenne, les États membres ne devraient pas effectuer de vérifications frontalières systématiques. Ils peuvent cependant exceptionnellement réintroduire les contrôles dans le cas d’une « menace grave à l’ordre public ou la sécurité intérieure[12] », et ce, pour une durée maximale de deux ans. Il faut ici souligner deux choses.

    D’une part, la France justifie officiellement ces contrôles par l’existence d’une menace terroriste persistante, bien qu’elle les effectue non pas en raison de la lutte contre le terrorisme, mais principalement aux fins de contrôles des flux migratoires. Or, cet élément n’est pas prévu dans le droit UE comme permettant de justifier le rétablissement des contrôles. Le « Code frontières Schengen », qui détaille les normes européennes en matière de frontière, le rejette même explicitement. Cet état de fait a été reconnu par le directeur des affaires européennes du ministère de l’Intérieur dans le cadre de la commission d’enquête parlementaire sur les migrations. Il s’agit donc du détournement de la finalité et de la rationalité d’une règle européenne.

    D’autre part, la France contrôle ses frontières européennes depuis novembre 2015. En mars 2022, cela fait donc plus de six années qu’une mesure exceptionnelle et temporaire est reconduite. L’argument avancé par le gouvernement et entériné par le Conseil d’État consiste à dire, à chaque renouvellement de cette mesure de contrôle — tous les six mois —, qu’une nouvelle menace terroriste a été détectée. La menace étant « renouvelée », le fondement de la mesure repart de zéro, comme s’il n’y avait aucune continuité dans la rationalité des contrôles depuis 2015. Voilà qu’une norme européenne concernant la sécurité intérieure et le terrorisme est continuellement détournée à des fins de gouvernance des migrations. Ainsi malléable, le droit est mobilisé pour matérialiser la frontière par les contrôles, sans quoi la problématique de l’asile serait inexistante puisque la circulation serait libre comme le prévoit le droit UE.
    Épaissir la frontière par l’innovation normative

    Une fois la frontière concrètement instaurée par les contrôles se pose la question du régime juridique applicable, c’est-à-dire de l’ensemble des règles présidant aux interceptions des personnes. En France, le droit des étrangers comprend deux principaux régimes qui permettent de saisir la régularité ou l’irrégularité de la situation d’une personne étrangère : le régime de l’admission et le régime du séjour. L’admission (X peut-elle être admise en France ?) concerne uniquement les personnes franchissant une frontière extérieure de la France (avec un pays tiers à l’UE). À l’inverse, le régime du séjour (X peut-elle demeurer en France ?) s’applique sur tout le reste du territoire, en dehors des points de passage qui définissent les frontières extérieures. Si la constitution et la saisie de l’irrégularité des étrangers par le droit sont toujours limitatives des libertés des personnes, il faut souligner que le régime de l’entrée est le plus circonscrit des deux en matière de droits fondamentaux tant en théorie qu’en pratique. Le droit de demander l’asile doit être respecté dans les deux cas, mais le régime de l’admission le traduit à travers une procédure plus expéditive comportant moins de garanties.

    Sur le territoire limitrophe de l’Italie, c’est par défaut le régime du séjour qui aurait dû s’appliquer puisqu’il s’agit d’une frontière intérieure, et non celui de l’admission qui ne concerne que les frontières extérieures de la France. Cependant, d’abord de manière irrégulière, puis en adoptant la loi asile et immigration en septembre 2018, le gouvernement a déployé une partie de l’arsenal du régime de l’admission en appliquant des procédures de renvoi expéditives à travers l’émission de refus d’entrée. Chose innovante, cette loi a également étendu cette procédure à toute une zone constituée par une bande de dix kilomètres le long de la ligne frontière. Ainsi, alors que, vis-à-vis des contrôles, le droit UE délimite la frontière à des points de passage, l’innovation française l’épaissit-elle juridiquement à un large espace.
    Au sein de la frontière, bricoler le droit

    Que se passe-t-il au sein de cette frontière épaissie ? D’abord, une controverse juridique, car aux moins deux décisions, de la Cour de justice de l’Union européenne[13] et du Conseil d’État[14], remettent partiellement en question le bien-fondé de l’application des refus d’entrée aux frontières intérieures. Mais surtout, dans cet espace controversé, c’est un véritable bricolage du droit que l’on peut observer.

    Pour l’illustrer, prenons le cas de la privation de liberté. Sur le terrain, l’on constate, lors de la procédure de renvoi, que les personnes sont maintenues dans les locaux de la PAF, notamment à Montgenèvre et à Menton Pont-Saint-Louis[15]. Elles font donc l’objet d’un enfermement non consenti qui constitue une privation de liberté. Pourtant, les règles qui y président ne sont ni celles du régime du séjour ni celles du régime de l’entrée. Autrement dit, le gouvernement a décidé d’appliquer une partie du régime de l’admission — les refus d’entrée, la procédure expéditive — sans pour autant lui faire correspondre son régime de privation de liberté alors même que celle-ci est mise en place. Cet aspect est crucial, car la privation de liberté constitue une restriction grave à de nombreuses libertés fondamentales et est strictement encadrée en France.

    Ce flottement « qualificatoire » est problématique parce que les droits fondamentaux[16] des personnes maintenues ne sont garantis que par des mécanismes spécifiques associés aux régimes de privation de liberté existants. L’absence de catégories claires donne une certaine latitude aux acteurs étatiques à la frontière. Cette ambiguïté neutralise même sérieusement les droits fondamentaux en fragilisant les garanties d’accès aux droits et aux juges. L’on pourrait dire que ce bricolage du droit est parajuridique dans les deux sens du préfixe, c’est-à-dire qui s’articule autour du droit, mais aussi, parfois, contre le droit. Parce qu’il s’agit d’arrangements composites, certains aspects sont parfois invalidés par les juges, mais pas leur économie générale qui en font un mode de gouvernance des migrations dans les marges du droit. Au fond, le maintien d’un régime juridique dérogatoire au droit de l’espace Schengen semble renforcer la capacité de l’État à jouer sur les ambiguïtés du droit. Il déroge ainsi à certains droits fondamentaux et procédures administratives qui devraient s’appliquer en vertu du droit international, européen et national.

    Pour aller plus loin

    Commission nationale consultative des droits de l’homme, 2018. Avis sur la situation des personnes migrantes à la frontière franco-italienne, 19 juin URL : https://www.cncdh.fr/sites/default/files/180619_avis_situation_des_migrants_a_la_frontiere_italienne.pdf
    Charaudeau Santomauro B., 2020. « La condition des migrants sous la réintroduction des contrôles aux frontières : le cas de l’état d’urgence à la frontière franco-italienne », in : Benlolo Carabot M. (dir.), L’Union européenne et les migrations, Bruylant-Larcier, p. 337‑343. URL : https://halshs.archives-ouvertes.fr/hal-03224278
    Anafé, 2019. Persona non grata. Conséquences des politiques sécuritaires et migratoires à la frontière franco-italienne, Rapports d’observations 2017–2018. URL : https://drive.google.com/file/d/15HEFqA01_aSkKgw05g_vfrcP1SpmDAtV/view
    Contrôleur général des lieux de privation de liberté, 2017. Rapport de visite des locaux de la police aux frontières de Menton (Alpes-Maritimes). 2e visite : Contrôle des personnes migrantes à la frontière franco-italienne, 4 au 8 septembre. URL : https://www.cglpl.fr/2018/rapport-de-la-deuxieme-visite-des-services-de-la-police-aux-frontieres-de-ment

    https://www.icmigrations.cnrs.fr/2022/03/10/defacto-032-01
    https://www.icmigrations.cnrs.fr/2022/03/10/defacto-032-01
    #frontière_sud-alpine #frontières #asile #migrations #réfugiés #Alpes #France #Italie #refoulement #push-backs #régime_frontalier #fermeture_des_frontières #vallée_de_la_roya #Briançon #Hautes-Alpes #Alpes_maritimes #PAF #normes_juridiques #espace_Schengen #contrôles_dérogatoires #terrorisme #menace_terroriste #code_frontières_Schengen #temporaire #exception #état_d'urgence #régime_de_l'admission #régime_du_séjour #droits_fondamentaux #bricolage #refus_d'entrée #privation_de_liberté #enfermement

  • Russia’s Ukraine invasion has escalated a brewing battle over space - Los Angeles Times
    https://www.latimes.com/politics/story/2022-04-11/russias-invasion-of-ukraine-has-also-made-it-a-pariah-in-space
    https://ca-times.brightspotcdn.com/dims4/default/93aad60/2147483647/strip/true/crop/3360x1764+0+64/resize/1200x630!/quality/90/?url=https%3A%2F%2Fcalifornia-times-brightspot.s3.amazonaws.

    Space has long been a barometer of the U.S.-Russia relationship. Cold War competition pushed Moscow and Washington toward new human feats in the 1960s, including the U.S. moon landing in 1969. Anxiety over President Reagan’s “Star Wars” defensive weapons program drove arms negotiations in the 1980s that presaged the end of the Soviet Union.

    The 1998 space station agreement — which also includes the European Union, Japan and Canada — signaled a new era of shared advancement in the post-Cold War period. For more than two decades, the jointly operated station has been spinning around Earth.

    That space détente was waning long before Russia invaded Ukraine in February, and the U.S. and its allies targeted Moscow’s space industry in a raft of economic sanctions. For two decades, Russian President Vladimir Putin has pushed for an aggressive expansion of his country’s space weapons program.

    American officials have alleged, starting in 2009, that the Kremlin was developing anti-satellite missiles and more recently an anti-satellite mobile laser.

    Russia launched what it described as an inspector satellite in 2017, prompting deep skepticism from American officials over what they labeled the craft’s “abnormal behavior,” suggesting it may also have a military use. Two years later, Russia placed a satellite within close range of a U.S. spy satellite, prompting concerns of an unintentional confrontation between the two military powers.

    In November, Russia tested a missile that struck a satellite and blasted it into more than 1,500 large pieces of debris, any chunk of which could doom manned and unmanned commercial and military spacecraft, including the crew of the space station, which was forced to take shelter.

    The U.S. and its allies sharply criticized Russia over the test, with Vice President Kamala Harris calling it an “irresponsible act [that] endangered the satellites of other nations as well as the astronauts on the International Space Station.”

    Meanwhile, the Trump and Biden administrations have ratcheted up efforts to counter competition from Russia and China in space. This was underscored by Trump’s decision to start a new branch of the military, the Space Force.

    The new military branch is one of his few legacies that Biden has embraced, with the White House submitting a recent budget request of $24.5 billion for the Space Force, a bump of about 40% over the prior year. That’s almost as much as the $26 billion Biden requested for NASA, which predates Space Force by more than 60 years.

    Those lingering tensions have complicated attempts to rewrite international rules on space debris, and the invasion of Ukraine has led U.S. officials to put on ice any direct talks between Washington and Moscow over space-related issues.

    “We see no need for those discussions while they are in conflict with the Ukrainians,” Eric Desautels, acting deputy assistant secretary of State for emerging security challenges and defense policy, said in a recent interview hosted by the National Security Space Assn., a nonprofit that encourages cooperation between government and industry.

    Desautels said that Russia and China would like a future treaty that constrains the U.S. from placing space-based missile defenses in orbit. One of the biggest stumbling blocks is defining defensive weapons versus those with offensive capabilities. The U.S. argues that commercial actors could be caught up in more restrictive rules, even if their work lacks a military intent.

    Complicating potential negotiations are a raft of economic sanctions imposed on Russia over the Ukraine war. The U.S. has taken intentional aim at the Russian space industry, with Biden vowing on the day of the invasion that U.S. sanctions were designed, in part, at degrading “their aerospace industry, including their space program.”

    The economic crackdown against Russia has prompted a series of threats from its space officials. The head of Russia’s space program, Dmitry Rogozin, tweeted on April 2 in Russian that “the restoration of normal relations between partners in the International Space Station and other joint projects is possible only with the complete and unconditional lifting of illegal sanctions.”

    Even before the Ukraine invasion, Moscow had indicated that it may leave the partnership in the next few years — citing safety concerns with aging metal — as it signs new agreements with China on space exploration and lunar research. The station, which has also become a rental hub for billionaire space tourists, is set to retire by 2030.

    Zhanna Malekos Smith, a senior associate with the Center for Strategic and International Studies, said Russia has created “strategic fog” with its mixed signals over the space station pact. But she pointed to signs of hope, including the March 30 return from the station of American astronaut Mark Vande Hei, who traveled back to Kazakhstan with two cosmonauts — Pyotr Dubrov and Anton Shkaplerov — in a Russian capsule.

    When Shkaplerov handed control of the station to astronaut Thomas Marshburn a day earlier, he said that whatever problems existed on Earth — “in orbit, we are like one crew.”

    West, the researcher with Project Ploughshares, said the invasion of Ukraine has accelerated and reframed many of the conversations around the militarization of space, including the interplay between civilian and government interests. Satellites, in particular, connect so much of the modern world while helping militaries coordinate troop movements and pinpoint missile strikes.

    It’s a dramatic change in mindset compared with a ground war, where “you’re either in a war zone or you’re not,” she said.

    She pointed out that other countries, including Australia, the United Kingdom, France, India, China, Russia and Japan, have moved toward creating more formalized space commands, like Space Force, a recognition that the battlefield has shifted.

    They are all coming to the conclusion that space is not just for exploration. It’s also a new front line.

    #Espace #Communs #Militarisation