• Au cours des premiers jours, l’espoir en l’avenir ne passait pas les murs de la salle... et des toilettes. Et lorsque nous sortions dans la petite cour poussiéreuse, l’espoir s’élargissait un peu jusqu’à englober les murs de la cour. Je regardais la grande cour à travers les grilles du portail et mes espoirs s’élargissaient encore, jusqu’à ce grand arbre aux multiples branches et ses feuilles vertes toutes lisses... Peut-être mes doigts pourront-ils les atteindre demain...

    Lorsque mon cerveau envisageait l’avenir il ne dépassait jamais les murs de la petite et de la grande cour.

    #espoir #avenir #arbre

    Saadawi p. 105

  • Je verrai toujours vos visages

    Depuis 2014, en France, la Justice Restaurative propose à des personnes #victimes et auteurs d’infraction de dialoguer dans des dispositifs sécurisés, encadrés par des professionnels et des bénévoles comme Judith, Fanny ou Michel. Nassim, Issa, et Thomas, condamnés pour vols avec violence, Grégoire, Nawelle et Sabine, victimes de homejacking, de braquages et de vol à l’arraché, mais aussi Chloé, victime de viols incestueux, s’engagent tous dans des mesures de Justice Restaurative. Sur leur parcours, il y a de la #colère et de l’#espoir, des #silences et des #mots, des #alliances et des #déchirements, des prises de conscience et de la #confiance retrouvée… Et au bout du chemin, parfois, la #réparation...

    https://www.youtube.com/watch?v=YecNA3DW334

    #justice #justice_transformative #film

  • Le barche dei migranti diventano un’orchestra. Alla Scala il primo concerto

    Dal legno delle imbarcazioni arrivate a Lampedusa violini, viole, violoncelli e contrabbassi. Il 12 febbraio suoneranno Bach e Vivaldi a Milano, in uno teatri più prestigiosi del mondo

    E alla fine approdano alla Scala di Milano. Sono violini, viole, violoncelli e contrabbassi costruiti con i legni delle barche dei migranti, arrivate a Lampedusa cariche di vite e di speranze, ma anche di morte e di lamenti. È l’Orchestra del Mare, quella che lunedì 12 febbraio suonerà per la prima volta, e lo farà nel teatro più famoso al mondo, con i suoi strumenti ancora verdi e azzurri e gialli come le assi dei gozzi che erano pochi mesi fa. Legni ben diversi dai pregiati abeti e aceri utilizzati nella liuteria, legni crepati, intrisi di gasolio e di salsedine, eppure casse armoniche in grado di suonare Bach e Vivaldi…

    Così come crepate sono le mani che hanno saputo trasformare le barche in orchestra, mani di uomini detenuti nel penitenziario milanese di Opera – i loro nomi sono Claudio, Nicolae, Andrea, Zurab –, diventati liutai sotto la guida di maestri esperti.

    Non poteva allora che chiamarsi Metamorfosi il progetto che ha dato vita a tutto questo, ideato dalla “Casa dello spirito e delle arti”, la fondazione creata nel 2012 per offrire all’umanità scartata un’opportunità di riscatto attraverso la forza inesauribile della bellezza e i talenti che ciascuno ha, anche in un carcere. «L’idea è nata come nella parabola della moltiplicazione dei pani e dei pesci – sorride Arnoldo Mosca Mondadori, presidente della Fondazione –: nel carcere di Opera da dieci anni funzionava la liuteria, dove il maestro liutaio Enrico Allorto e le persone detenute realizzavano i violini da donare ai ragazzini rom che al Conservatorio di musica non potevano permettersi uno strumento. Ma nel dicembre del 2021 portai nel laboratorio quattro legni delle barche di Lampedusa per fare un presepe e loro invece ne fecero un violino. Rimasi stupefatto, la loro idea si poteva moltiplicare, già mi immaginavo un’intera orchestra, poi – dissi loro – suonerà alla Scala».

    L’unico a credere subito a quella follia è stato Andrea, anni di carcere pesante in Tunisia e poi in Italia, nome d’arte Spaccabarche, perché lui e Claudio smontano i gozzi, Nicolae e Zurab li “rimontano” in violini e violoncelli. «Fu Andrea a darmi l’idea di rivolgermi all’allora ministro dell’Interno Luciana Lamorgese e chiedere che quegli scafi, fino a quel momento sotto sequestro per essere polverizzati e poi bruciati, venissero invece dati a noi e da “rifiuti speciali” diventassero memoria viva – continua Mosca Mondadori –. I Tir ne hanno trasportate in carcere un centinaio, così com’erano…».

    «Con all’interno scarpe, biberon, vestiti, salvagenti, tutine da neonato – racconta Andrea “Spaccabarche” –, allora ti chiedi chi era quella gente, se si sono salvati, da quale disperazione dovevano scappare, e rifletti su te stesso: c’è qualcuno che sta molto peggio di me e questo ti dà quel po’ di umiltà che nella vita non fa mai male, anche perché è quella che ti consente di continuare a imparare, quindi di cambiare».

    Metamorfosi, appunto. «Si tratta soprattutto di legni di conifere, che usiamo per il fasciame degli strumenti», spiega Enrico Allorto, che con Carlo Chiesa è il maestro liutaio, «mentre per lo scheletro utilizziamo un altro legno più duro di cui non conosco il nome. Sono alberi africani oppure, chissà, di importazione, non sappiamo quelle barche da dove arrivassero. Ovviamente non hanno la resa dei veri legni di liuteria, ma cerco i pezzi più adatti: i più leggeri per simulare l’abete rosso e i più pesanti per imitare l’acero di cui è fatto il fondo. È chiaro che sono legni difficili, hanno addosso la vernice delle barche, le crepe, i buchi: mentre costruiamo gli strumenti ripariamo i danni, ma c’è una sofferenza in questi difetti e il fatto che riescano comunque a suonare scuote emotivamente. Da quei violini esce un Sos, “non lasciateci morire”, anche i musicisti suonando si commuovono».

    E a suonarli alla Scala saranno alcuni tra i più grandi al mondo: i violoncellisti Mario Brunello e Giovanni Sollima e il violinista francese Gills Apap “dialogheranno” con i tredici strumentisti dell’Accademia dell’Annunciata diretti da Riccardo Doni, mentre l’installazione scenografica sarà un dono di Mimmo Paladino, artista di fama internazionale. «Il suono di questi strumenti viene da lontano: lontano al di là del Mediterraneo, e lontano nel tempo, forse di secoli», commenta Mario Brunello, solista abituato ad esibirsi con le orchestre più prestigiose con il suo prezioso violoncello “Maggini” dei primi del ‘600. «Quel legno che ha attraversato il mare ora suona il Terzo Concerto Brandeburghese di Bach e L’Inverno di Vivaldi, poi una pagina di virtuosismo violinistico come il celebre Preludio di Kreisler o l’affascinante White Man Sleeps di Kevin Volans, compositore sudafricano. Chiude il programma Violoncellos Vibrez di Giovanni Sollima», violoncellista che nei teatri si esibisce con il suo “Francesco Ruggeri” del XVII secolo ed è il compositore italiano contemporaneo più eseguito nel mondo.

    In ouverture lo scrittore Paolo Rumiz, triestino che ha nel sangue la poetica della frontiera e del viaggio, leggerà “La memoria del legno”, testo crudo e tagliente in cui l’albero racconta in prima persona le sue metamorfosi, dalla crescita in Africa come patriarca venerabile abitato dalle anime dei trapassati, a quando viene abbattuto da una scure senz’anima e attraverso il deserto arriva al mare. Lì trova mani delicate che lo trasformano in barca per pescatori. Dimenticato sulla spiaggia, è poi violentato da mani di trafficanti e in mare aperto ode le voci del suo carico umano. All’approdo finale è marchiato a fuoco come corpo del reato e verrebbe bruciato se altre mani delicate non lo trasformassero invece in violini. «L’ho scritto in metrica rigorosamente dispari, endecasillabi e settenari – spiega Rumiz – perché il ritmo pari è quello usato per far marciare gli eserciti». “Voi non mi riconoscerete – comincia l’albero – perché quando sono arrivato puzzavo di vomito e salsedine, ma ora vi racconto la mia storia…”.

    Tutti gli artisti prestano gratuitamente i loro talenti per il progetto Metamorfosi: «L’articolo 27 porta il Vangelo nella Costituzione, dice che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato – ricorda Mosca Mondadori – e niente come un lavoro ricostruisce la dignità delle persone». Tra le carceri di Opera a Milano), Secondigliano a Napoli, Monza e Rebibbia a Roma «diamo lavoro a venti persone con contratti a tempo indeterminato. Le persone cambiano per davvero, ne ho viste passare tante e tutte ce l’hanno fatta grazie al lavoro, sia in carcere che dopo: la misericordia supera i tempi della giustizia». Sembrano sogni, ma sono realtà imprenditoriali che richiedono grande concretezza, «i conti a fine anno devono tornare e ogni mese abbiamo stipendi da pagare, ci sostengono Intesa Sanpaolo e Confcommercio insieme a generose Fondazioni (Cariplo, Peppino Vismara, Santo Versace, Alberto e Franca Riva, Comunità di Monza e Brianza): non sono idee astratte, sono persone, e tu le vedi rinascere».

    Ne sa qualcosa Nicolae, il liutaio che “rimonta” le barche in viole e contrabbassi: «In liuteria mi dimentico di essere in carcere e mi sento utile, se sono in grado di costruire, allora non sono così scarso da non poter fare niente, solo che non ho avuto fortuna né ho trovato i riferimenti giusti nella vita. Non cerco giustificazioni per ciò che ho fatto, dico solo che ho capito che il mondo non è soldi e bella vita, ci sono tante cose piccole che possiamo dare l’uno all’altro – dice accarezzando il pezzo colorato del futuro violino che sta lavorando –. Io do il mio contributo qui dentro, in silenzio, ma poi quando qualcuno suonerà questo violino io spero che muoverà qualcosa nel mondo», assicura commosso. «A rovinarci è la sete di potere, invece la terra è di tutti e alla fine di nessuno: siamo solo di passaggio».

    L’Orchestra del Mare non si ferma qui, presto si aggiungeranno un clavicembalo, percussioni, chitarre, il liuto arabo, vari strumenti del mondo mediterraneo, «tutto ciò che si può costruire con le barche», e magari dopo la Scala arriveranno altri grandi teatri. Dal carcere di Secondigliano escono già mandolini e chitarre, la prima è stata suonata da Sting in persona l’aprile scorso nel carcere napoletano. «Il mio tormento d’amore è sempre stato la necessità di comunicare il mistero dell’Eucarestia, cioè la presenza del Crocefisso e Risorto nell’Ostia – riprende Mosca Mondadori – e questi sono strumenti eucaristici, perché hanno dentro la morte ma anche la speranza, e il loro suono arriva a tutti i cuori, anche se non credenti». Arriverà certamente ai 1.850 spettatori che hanno già fatto il “tutto esaurito” per il 12 febbraio e ai detenuti delle quattro carceri, gli unici che potranno vedere lo spettacolo in streaming nei loro auditorium.

    Solo i detenuti liutai saranno alla Scala ad ascoltare i “loro” strumenti, come fossero figli loro, due addirittura saranno in palco reale assieme al sindaco Beppe Sala, al cardinale Josè Tolentino de Mendonça, prefetto del Dicastero vaticano per la Cultura e l’Educazione, alla vicepresidente del Senato Maria Domenica Castellone, al capo del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) Giovanni Russo, al direttore del carcere di Opera Silvio Di Gregorio, tutti lì alla pari. Il perché lo ha spiegato papa Francesco, per il quale nel 2022 ha suonato il primo violino costruito con le barche, quello del presepe mancato: «Quando entro in carcere mi faccio sempre una domanda: perché loro e non io? Avrei potuto agire peggio di loro», che forse sono stati sfortunati, o deboli, o hanno avuto una famiglia difficile. Aiutare i carcerati, ha ricordato Francesco ai volontari della Casa dello Spirito e delle Arti, «è una delle cose che Gesù dice che ci farà entrare in Cielo, ero carcerato e siete venuti a trovarmi. Ma resta quella domanda: perché loro e non io?».

    È la stessa domanda che vale per chi partì su quelle barche diventate orchestra, fossi nato nella loro guerra, piegato dalla loro miseria, non sarei partito anch’io?, conclude Arnoldo Mosca Mondadori. «Se ci fosse mio figlio su quel gozzo, vorrei che fosse rimpatriato in Libia in un campo di concentramento o pregherei perché venisse accolto con umanità nel Paese in cui è arrivato? Questa è la domanda dirimente che, chiunque noi siamo, dobbiamo onestamente farci. Tutta Metamorfosi si riassume in questo unico interrogativo».

    https://www.avvenire.it/attualita/pagine/se-le-barche-diventano-un-orchestraalla-scala-lo-s
    #mémoire #embarcations #Méditerranée #migrations #réfugiés #naufrages #musique #instruments_de_musique #concert #Lampedusa #Orchestra_del_Mare #bois

    • #Metamorfosi

      Un progetto di progetti per trasformare il dolore in nuova speranza.

      «Metamorfosi» è un progetto della Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti in collaborazione con il Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria e l’Agenzia delle Accise, Dogane e Monopoli.

      Il progetto è reso possibile grazie a Fondazione Cariplo, Intesa Sanpaolo, Fondazione Peppino Vismara, Fondazione della Comunità di Monza e Brianza Onlus.

      Il progetto “Metamorfosi” è stato insignito della Medaglia del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione del 79° Festival del Cinema di Venezia durante il quale è stato proiettato il cortometraggio che racconta il progetto.

      Di fronte alla tragedia contemporanea che vede il Mar Mediterraneo come il più grande cimitero d’Europa e di fronte al dramma a cui stiamo assistendo quotidianamente di milioni di persone in fuga dalla guerra, la Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti ha voluto pensare a un progetto culturale e di conoscenza a cui ha dato il nome di «Metamorfosi».

      “Metamorfosi” è innanzitutto un concetto che vuole richiamare l’attenzione verso ogni persona costretta a fuggire dal proprio Paese a causa di guerre, persecuzioni e fame.

      “Metamorfosi” perché la proposta di porre lo sguardo su questi temi avviene attraverso non solo una metafora, ma una vera e propria metamorfosi: quella del legno dei barconi, trasportati dal molo Favarolo di Lampedusa in alcune carceri italiane, che viene trasformato in strumenti musicali e oggetti di testimonianza di carattere sacro.

      «Metamorfosi» affinché le persone e soprattutto i giovani possano conoscere una realtà, quella dei migranti, che viene spesso rimossa, guardata con indifferenza o affrontata e raccontata in modo ideologico.

      “Metamorfosi” perché a trasformare il legno dei barconi provenienti da Lampedusa in oggetti di speranza sono le persone detenute che vengono coinvolte nel progetto.

      Come nasce l’idea

      L’idea del progetto “Metamorfosi” è nata nel dicembre 2021 quando, all’interno del Laboratorio di Liuteria e Falegnameria nella Casa di Reclusione Milano-Opera, progetto istituito dal 2012, la Fondazione ha chiesto al falegname di Lampedusa Francesco Tuccio, di portare dei legni per costruire dei presepi che, nel tempo della pandemia, potessero essere un segnale di speranza per tutti, credenti e non credenti.

      Presepi dunque realizzati, sotto la guida di Francesco Tuccio, dalle persone detenute con il legno di una tragedia contemporanea.

      Nell’ambito di questa iniziativa, con alcuni dei legni è stato costruito un violino, utilizzando una tecnica risalente al 1500, con la quale in Inghilterra venivano costruite le viole da gamba.

      Il violino realizzato produce un suono che ha stupito musicisti e esecutori per la sua limpidezza.

      Il musicista e compositore Nicola Piovani, quando per primo lo ha ascoltato, ha deciso di scrivere una composizione dal titolo “Canto del legno”, che è stata eseguita davanti al Santo Padre dal primo violino dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Carlo Parazzoli.

      Questo primo violino tratto dal legno dei barconi è stato chiamato “Violino del Mare”.

      La collaborazione con il Ministero dell’Interno e con l’Agenzia delle Accise, Dogane e Monopoli

      Da qui prende spunto la Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti per chiedere all’ex Ministro degli Interni Luciana Lamorgese 60 imbarcazioni provenienti dal molo Favarolo di Lampedusa, affinché potessero essere creati, all’interno della Liuteria del carcere di Opera e di altre liuterie presenti in diverse carceri italiane, strumenti musicali: violini, viole e violoncelli per la nascita di una vera e propria “Orchestra del Mare”.

      Le imbarcazioni, grazie alla collaborazione con ADM, sono state trasportate da Lampedusa all’interno del carcere di Opera.

      Il progetto prevede di far suonare questi strumenti musicali ad orchestre italiane e straniere, portando con essi una cultura della conoscenza, dell’accoglienza e dell’integrazione, attraverso la bellezza e le armonie.

      Nello specifico, nel corso del 2022 sono stati costruiti, dalle persone detenute nelle diverse Case di Reclusione, un secondo violino, una viola e un violoncello; nel corso del 2023 saranno costruiti altri 6 violini e nel corso del 2024 saranno costruiti altri 8 strumenti ad arco.

      A coordinare la formazione e il lavoro delle persone detenute sono esperti liutai, come

      il liutaio Enrico Allorto che sta coordinando la Liuteria nel carcere di Opera.

      Strumenti musicali, Croci e Rosari

      Gli strumenti ricavati dai barconi trasportati nel 2022 da Lampedusa nelle diverse carceri, verranno dunque suonati dalle orchestre che aderiranno al progetto e viaggeranno, come segno di testimonianza, in Italia e all’estero. «L’Orchestra del Mare» è perciò un progetto di adesione e prenderà vita nel momento in cui gli strumenti ricavati dai barconi verranno di volta in volta suonati dalle orchestre che aderiranno al progetto. Un viaggio per testimoniare in Italia e all’estero, attraverso l’armonia, il dramma che vivono quotidianamente migliaia di persone migranti in tutto il mondo. Nel triennio 2022- 2024, insieme agli strumenti musicali che comporranno l’"Orchestra del Mare", nei Laboratori di Liuteria e Falegnameria all’interno delle carceri, verranno costruite migliaia di croci da donare alle scuole italiane. Inoltre, con lo stesso legno dei barconi, nel carcere di Monza e in quello di Rebibbia a Roma e con il coinvolgimento della Casa di Accoglienza Profughi Centro Astalli e l’Opera Cardinal Ferrari di Milano che accoglie persone senzatetto, saranno realizzati rosari che verranno donati al Santo Padre.

      La Rete delle Liuterie e Falegnamerie nelle carceri italiane

      Con l’Agenzia delle Accise, Dogane e Monopoli e il Dap, la Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti nell’agosto 2022 ha firmato un Protocollo per la creazione di una Rete di Liuterie e Falegnamerie nelle carceri italiane al fine di dare al Paese un forte segnale di testimonianza che ponga al centro la cultura e la dignità della persona.

      Ad oggi, le Case di Reclusione coinvolte sono quelle di: Milano- Opera, Monza, Rebibbia e Secondigliano.

      In ogni laboratorio, attraverso la Cooperativa Casa dello Spirito e delle Arti, sono assunte dalle tre alle cinque persone detenute.

      L’obiettivo comune delle diverse Liuterie e Falegnamerie è, dunque, la creazione di strumenti musicali che andranno a comporre l’”Orchestra del Mare” e di oggetti dal forte significato simbolico e sacro come, appunto, croci e rosari.

      I liutai e i falegnami coinvolti nelle diverse carceri restano in comunicazione tra di loro per coordinare il lavoro delle persone detenute in coerenza con gli obiettivi del comune progetto “Metamorfosi”.

      Il percorso immersivo per gli studenti

      “Metamorfosi” è un progetto anche di conoscenza.

      Il percorso proposto alle scuole e alle Università si svolgerà, a partire dal 2023, nella Casa di Reclusione Milano-Opera, dove tre barconi sono stati posti all’interno del carcere formando quella che è stata chiamata la «Piazza del Silenzio». All’interno di questa piazza situata al centro del Carcere, i giovani potranno partecipare ad una visita guidata, con la testimonianza di persone migranti che hanno vissuto personalmente il viaggio sui barconi.
      Questa esperienza potrà essere replicata, a partire dal 2024, anche nelle altre quattro carceri in collaborazione con le scuole e le Università locali.

      I momenti del percorso

      Ciascuna uscita didattico - formativa è suddivisa in diversi momenti.

      Il primo momento è nella “Piazza del Silenzio”: un narratore introdurrà il tema partendo dall’immigrazione del passato, in particolare dal racconto dell’emigrazione italiana e di come la storia si ripeta con i suoi pregiudizi e i suoi luoghi comuni.

      Dopo questo momento introduttivo, è prevista la testimonianza diretta di una persona migrante.
      I ragazzi sono invitati poi a meditare, ognuno in silenzio su un testo diverso, sulle testimonianze scritte da persone migranti tratte dal libro “Bibbia e Corano a Lampedusa” (La Scuola editore).

      I musicisti della Piccola Orchestra dei Popoli (progetto della Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti) accompagnano questo momento suonando gli strumenti realizzati nel Laboratorio, primo tra i quali il “Violino del Mare”.

      Nella seconda parte del percorso, i ragazzi vengono accompagnati nella Liuteria dove possono conoscere le persone detenute mentre lavorano nella costruzione degli strumenti musicali.

      Un ultimo momento del percorso è di carattere teorico e accademico sui temi cardine del progetto a cura del RiRes - Unità di ricerca sulla Resilienza del Dipartimento di psicologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

      Ai ragazzi infine, è richiesto di restituire le loro emozioni, impressioni e riflessioni attraverso uno scritto personale.

      La Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti curerà una pubblicazione che racconterà l’esperienza, i pensieri e le emozioni degli studenti in collaborazione con l’Associazione Francesco Realmonte e il RiRes.

      Protocollo d’intesa tra la Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti e il Museo del Violino di Cremona

      È stato condiviso tra la Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti e il Museo del Violino di Cremona, un protocollo di intesa nel quale uno dei violini prodotti nel carcere di Opera, è entrato nella collezione permanente del Museo del Violino e viene utilizzato presso l’Auditorium del Museo, soprattutto per momenti di natura didattica rivolti alle scuole. In queste occasioni, non solo “il Violino del Mare” viene suonato ma viene anche raccontata la sua storia attraverso il racconto delle guide e le immagini che ne testimoniano la storia.

      https://casaspiritoarti.it/it/progetti/metamorfosi

      #douleur #espoir

  • Un monde différent ne naît pas de Bisounours...

    « Centenaire de la mort de #Lénine : un siècle de #violences et d’#espoirs #révolutionnaires

    Cent ans après sa disparition, Lénine reste l’un des personnages les plus controversés du XXe siècle, continuant de susciter féroce détestation ou nostalgie de l’élan révolutionnaire. Deux récents ouvrages se partagent cette dichotomie sur #Vladimir_Ilitch #Oulianov. (...) »

    #politique #histoire #société #monde #changement #communisme #bolchevisme #révolution #progrès #social #seenthis #vangauguin

    https://www.politis.fr/articles/2024/01/centenaire-de-la-mort-de-lenine-un-siecle-de-violences-et-despoirs-revolutio

  • #Ukraine, #Israël, quand les histoires se rencontrent

    Dans son dernier livre, l’historien #Omer_Bartov revient sur l’histoire de sa famille et de son voyage de la Galicie ukraino-polonaise à Israël, à travers les soubresauts de l’histoire de la première partie du 20e siècle.

    Alors que les atrocités du conflit israélo-palestinien continuent de diviser les étudiants de prestigieux campus américains, l’universitaire Omer Bartov se propose d’analyser la résurgence de l’#antisémitisme dans le monde à la lumière de sa propre #histoire_familiale.

    Un #antisémitisme_endémique dans les campus américains ?

    L’historien Omer Bartov réagit d’abord aux polémiques qui ont lieu au sujet des universités américaines et de leur traitement du conflit israélo-palestinien : “il y a clairement une montée de l’antisémitisme aux États-Unis, comme dans d’autres parties du monde. Néanmoins, il y a aussi une tentative de faire taire toute critique de la politique israélienne. Cette tentative d’associer cette critique à de l’antisémitisme est également problématique. C’est un bannissement des discussions. Les étudiants, qui sont plus politisés que par le passé, prennent part à cette histoire”. Récemment, la directrice de l’Université de Pennsylvanie Elizabeth Magill avait proposé sa démission à la suite d’une audition controversée au Congrès américain, lors de laquelle elle n’aurait pas condamné les actions de certains de ses étudiants à l’encontre d’Israël.

    De Buczacz à la Palestine, une histoire familiale

    Dans son dernier livre Contes des frontières, faire et défaire le passé en Ukraine, qui paraîtra aux éditions Plein Jour en janvier 2024, Omer Bartov enquête sur sa propre histoire, celle de sa famille et de son voyage de la Galicie à la Palestine : “en 1935, ma mère avait onze ans et a quitté #Buczacz pour la #Palestine. Le reste de la famille est restée sur place et quelques années plus tard, ils ont été assassinés par les Allemands et des collaborateurs locaux. En 1995, j’ai parlé avec ma mère de son enfance en Galicie pour la première fois, des grands écrivains locaux comme Yosef Agnon. Je voulais comprendre les liens entre #Israël et ce monde juif qui avait disparu à Buczacz au cours de la #Seconde_Guerre_mondiale”.

    À la recherche d’un monde perdu

    Cette conversation a mené l’historien à consacrer une véritable étude historique à ce lieu et plus généralement à cette région, la #Galicie : “ce monde avait selon moi besoin d’être reconstruit. Ce qui le singularisait, c’était la diversité qu’il accueillait. Différentes communautés nationales, ethniques et religieuses avaient coexisté pendant des siècles et je voulais comprendre comment il s’était désintégré”, explique-t-il. Le prochain livre qu’il souhaite écrire en serait alors la suite : “je veux comprendre comment ma génération a commencé à repenser le monde dans lequel nous avons grandi après la destruction de la civilisation précédente”, ajoute-t-il.

    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/france-culture-va-plus-loin-l-invite-e-des-matins/ukraine-israel-quand-les-histoires-se-rencontrent-9022449
    #multiculturalisme #histoire #crime_de_guerre #crime_contre_l'humanité #génocide #Gaza #7_octobre_2023 #nettoyage_ethnique #destruction #déplacements_forcés #Hamas #crimes_de_guerre #massacre #pogrom #occupation

    • Contes des frontières, faire et défaire le passé en Ukraine

      À nouveau Omer Bartov étudie Buczacz, a ville de Galicie qui servait déjà de point d’ancrage pour décrire le processus du génocide dans Anatomie d’un génocide (Plein Jour 2021). Cette fois, il étudie les perceptions et l’imaginaire que chacune des communautés juive, polonaise et ukrainienne nourrissait sur elle-même, ce a depuis les origines de sa présence dans ce territoire des confins de l’Europe.

      Comment des voisins partageant un sol commun ont-ils élaboré des récits fondateurs de leurs #identités jusqu’à opposer leurs #mémoires ? comment se voyaient-ils les uns les autres, mais également eux-mêmes ; quels #espoirs nourrissaient-ils ? Les #mythes ont ainsi influencé a grande histoire, le #nationalisme, les luttes, et de façon plus intime les espoirs individuels, voire les désirs de partir découvrir un monde plus arge, nouveau, moderne. Ce livre, qui traite de ces récits « nationaux », de a construction de l’identité et de l’opposition qu’elle peut induire entre les différents groupes, apparaît comme une clé de compréhension du passé autant que du présent. Aujourd’hui avec a guerre en Ukraine, sa résonance, son actualité sont encore plus nettes.

      https://www.editionspleinjour.fr/contes-des-fronti%C3%A8res
      #livre #identité

    • Anatomie d’un génocide

      Buczacz est une petite ville de Galicie (aujourd’hui en Ukraine). Pendant plus de quatre cents ans, des communautés diverses y ont vécu plus ou moins ensemble – jusqu’à la Deuxième Guerre mondiale, qui a vu la disparition de toute sa population juive. En se concentrant sur ce seul lieu, qu’il étudie depuis l’avant-Première Guerre mondiale, Omer Bartov reconstitue une évolution polarisée par l’avènement des nationalismes polonais et ukrainien, et la lutte entre les deux communautés, tandis que l’antisémitisme s’accroît.

      À partir d’une documentation considérable, récoltée pendant plus de vingt ans – journaux intimes, rapports politiques, milliers d’archives rarement analysées jusqu’à aujourd’hui –, il retrace le chemin précis qui a mené à la #Shoah. Il renouvelle en profondeur notre regard sur les ressorts sociaux et intimes de la destruction des Juifs d’Europe.

      https://www.editionspleinjour.fr/anatomie-d-un-g%C3%A9nocide

  • Troisième partie : Dení « Enlace Zapatista
    https://enlacezapatista.ezln.org.mx/2023/11/21/troisieme-partie-deni

    Il n’y a pas un mot à retirer de ce communiqué de novembre de Marcos, expliquant l’état d’esprit actuel des zapatistes : voir dans 120 ans.

    C’est drôle, c’est touchant, c’est profond, c’est politique, tout à la fois, comme toujours depuis des années. Il y a des géographies qui ont de la chance d’avoir des révolutionnaires de cette consistance…

    Quelqu’un est en train d’expliquer :

    « Dení est présente ici et elle est, on va dire, la première génération. Dans 20 ans, Denì va avoir une petite fille et lui donnera le nom de « Denilita », elle sera la seconde génération. Denilita, 20 ans plus tard, va concevoir une fille qui s’appellera « Denilitilla », c’est la troisième génération. Denilitilla, arrivée à ses 20 ans, va engendrer une fille qui s’appellera « Denilititilla », ce sera la quatrième génération. Denilititilla, à ses 20 ans, va donner naissance à une petite fille et l’appellera « Denilí », la cinquième génération. « Denilí » à l’âge de 20 ans, aura une fille qui s’appellera « Dení Etcétera », qui sera la sixième génération. « Dení Etcétera », 20 ans plus tard, c’est-à-dire dans 120 ans, aura une fille dont on n’arrive pas à voir le nom, parce que sa naissance est déjà loin dans le calendrier, mais elle est la septième génération. »

    À cet instant intervient le Sous-commandant insurgé Moisés : « Nous devons donc nous battre pour que cette petite fille, qui va naître dans 120 ans, soit libre et soit ce qu’elle a envie d’être. Nous ne sommes donc pas en train de lutter pour que cette petite fille soit zapatiste ou membre d’un parti ou quoi que ce soit d’autre, mais pour qu’elle puisse choisir son chemin, quand elle aura l’âge de le faire. Et pas seulement qu’elle puisse décider librement mais aussi et surtout qu’elle soit responsable de cette décision, c’est-à-dire qu’elle tienne compte du fait que toutes les décisions, ce que nous faisons et ce que nous ne faisons plus, ont des conséquences. Alors, il s’agit pour cette fillette de grandir avec tous les éléments pour prendre une décision et en assumer les conséquences.

    Et donc qu’elle n’accuse pas le système, les mauvais gouvernements, ses parents, sa famille, les hommes, son partenaire (qu’il soit homme, ou femme, ou quoique ce soit), l’école, ses amis. Parce que c’est ça la liberté : pouvoir faire quelque chose sans pression ni obligation, mais en se responsabilisant de ce qu’on a fait, c’est-à-dire en connaissant les conséquences à l’avance. »

    Le SubMoy se retourne vers le désormais défunt SupGaleano, comme pour lui dire « c’est à toi ». Le défunt qui n’est pas encore défunt (mais qui sait déjà qu’il le sera bientôt), prévoit qu’un jour il devra parler de ça à des inconnus et commence :

    « Est-ce que cette Dení puissance N ne dira plus de mal de ces foutus hommes ? Si, elle le fera, ça va de soi. Mais ses arguments ne seront pas qu’ils se sont moqués d’elle, qu’ils l’ont méprisée, qu’ils l’ont agressée, harcelée, violée, frappée, fait disparaître, qu’ils l’ont assassinée, démembrée. Non, ça sera pour des choses et des histoires normales, comme le fait que ce foutu homme pète au lit et que la couverture pue ; ou parce qu’il ne vise pas bien la cuvette des toilettes ; ou parce qu’il rote comme un veau ; ou qu’il achète le maillot de son équipe préférée, qu’il met un short, des chaussettes et des chaussures de foot, pour après s’asseoir et regarder le match en se goinfrant de popcorn avec un max de sauce piquante ; ou qu’il choisit avec un soin tout particulier l’outfit qu’il va porter pendant des dizaines d’années : son tee-shirt préféré, son jogging favori, ses tongs de prédilection ; ou parce qu’il ne lâche pas la télécommande ; ou parce qu’il ne lui dit pas qu’il l’aime, même si elle sait qu’il l’aime, mais c’est pas de trop un rappel de temps en temps. »

    Parmi les personnes qui écoutent, les femmes hochent la tête affirmativement comme pour dire « ça va de soi » ; et les hommes sourient nerveusement.

    […]

    Mais, outre le fait qu’on sent que la terre mère est comme révoltée, comme si elle protestait, il y a bien pire : le monstre, l’Hydre, le capitalisme, qui, comme fou, dérobe et détruit. Il veut maintenant voler ce qui, avant, ne l’intéressait pas et il continue à détruire le peu qu’il reste. Le capitalisme produit maintenant la misère et celles et ceux qui la fuient : les migrants.

    La Pandémie du COVID, qui est toujours en cours, a montré l’incapacité de tout un système à donner une réelle explication et à prendre les mesures nécessaires. Pendant que des millions de gens mouraient, quelques-uns se sont enrichis. D’autres pandémies se profilent déjà et les sciences cèdent la place aux pseudo-sciences et aux charlatanismes transformés en projets politiques de gouvernement.

    […]

    Nous savons bien que ça n’a pas été facile. Et maintenant tout est bien pire, et, nous n’avons pas le choix, nous devons regarder cette petite fille dans 120 ans. En fait, nous devons lutter pour quelqu’un que nous n’allons pas connaître. Ni nous, ni vos enfants, ni les enfants de vos enfants, etc…Et nous devons le faire parce que c’est notre devoir, en tant que zapatistes que nous sommes.

    Beaucoup de malheurs, de guerres, d’inondations, de sécheresses, de maladies sont à venir et, au milieu de l’effondrement, il faut que nous voyions loin. Si actuellement les migrants sont des milliers, bientôt ils seront des dizaines de milliers, et puis des centaines de milliers. Des disputes et des assassinats sont à venir entre frères, entre pères et fils, entre voisins, entre races, entre religions, entre nationalités. Les grandes constructions brûleront et personne ne saura dire pourquoi, ni qui, ni dans quel but. Même si on dirait que ce n’est pas possible, mais si, ça va être pire.

    Mais de la même façon que, quand nous travaillons la terre, déjà avant de semer, nous voyons la tortilla, les tamales, le pozol dans nos maisons, c’est comme ça qu’on doit voir maintenant cette petite fille.

    […]

    P.S.- Chaque bombe qui tombe à Gaza tombe aussi sur les capitales et les principales villes du monde, mais on ne s’en est pas encore rendu compte. Des ruines naîtra l’horreur de la guerre de demain.

    #zapatistes #EZLN #Marcos #espoir #projet #futur #effondrement #liberté

  • Israël : les #colons israéliens qui rêvent de revenir à Gaza - France 24
    https://www.france24.com/fr/vid%C3%A9o/20231031-isra%C3%ABl-les-colons-isra%C3%A9liens-qui-r%C3%AAvent-de-revenir

    En 2005, Ariel Sharon ordonne l’évacuation des 21 #colonies juives de la Bande de Gaza. L’événement est un #traumatisme pour les Israéliens, qui fracture le mouvement du sionisme religieux. Aujourd’hui, ces colons #déracinés vivent en majorité en #Cisjordanie occupée. 20 jours après le début de la guerre, certains nourrissent aujourd’hui l’#espoir d’un retour à Gaza, si le gouvernement décidait de ré-occuper l’enclave, après une invasion terrestre. Reportage Claire Duhamel.

    #france_24 #…

  • Condamnez-vous le Hamas ? Un Palestinien répond

    « Je condamne ma propre naissance de m’avoir fait naître Palestinien, alors que selon bien des gens la Palestine n’existe pas ». Je souhaite diffuser cet admirable texte d’#Abdel_Fattah_Abu_Srour, en réponse à l’injonction à condamner le #Hamas, après le le 7 octobre.

    –—

    Condamnez-vous le Hamas ? Je me condamne

    Abdel Fattah Abu Srour, directeur du centre Al Rowwad dans le camp de réfugiés d’Aida (près de Bethléem)

    Chers amis,

    J’aimerais remercier tous ceux qui m’ont contacté pour m’assurer de leur solidarité et s’enquérir de moi, de ma famille, de ma communauté et de mon peuple. Je suis infiniment reconnaissant envers ceux qui nous soutiennent dans ces temps si difficiles.

    Les journalistes des medias, les interviewers des télés viennent à nous, pointant le doigt vers nous et nous posant sans cesse la même question : condamnez-vous le terrorisme palestinien ? Condamnez-vous le Hamas ?

    Répondons

    Je me condamne vraiment moi-même, je condamne toute mon existence

    Je condamne ma propre naissance dans un camp de réfugiés dans mon propre pays. Comment est-ce que j’ose être un réfugié et vous charger de remettre en question votre humanité ?

    Je condamne ma propre naissance de m’avoir fait naître Palestinien, alors que selon bien des gens la Palestine n’existe pas

    Je condamne mes parents, qui furent déracinés de leurs villages détruits et me donnèrent naissance dans un camp de réfugiés

    Je condamne toute ma vie, avoir grandi, obtenu une éducation, avoir eu des espoirs et des rêves de devenir un grand biologiste, un grand chercheur qui sauverait des vies…, d’être un peintre extraordinaire, un merveilleux photographe, un écrivain talentueux qui inspirerait le monde entier… Rien de ce que j’ai fait ne m’a fait devenir célèbre

    Je me condamne pour clamer et continuer à clamer que je suis un être humain, que je défend mon humanité et ma dignité ainsi que celles des autres… On dirait que je ne suis qu’un animal humain, ou encore moins… que je suis un extraterrestre imaginant qu’il a une place sur cette terre. Comment est-ce que j’ose même penser que je suis un être humain tout comme vous ?

    Je me condamne pour croire que les valeurs et les droits humains nous incluent, nous les extraterrestres… Comment est-ce que j’ose même penser que nous faisons partie de ces valeurs ?

    Je me condamne pour croire au droit international et aux résolutions de l’ONU et à toutes ces déclarations qui disent que : les peuples sous occupation ont le droit légitime de résister par TOUS LES MOYENS. Comment est-ce que j’ose considérer que nous sommes occupés, même par une entité illégale qui est représentée comme l’unique démocratie du Moyen Orient.

    Je vous demande pardon

    Je me condamne pour parler de cette occupation comme d’une entité. Je lis que ce qui définit un état est d’avoir : une constitution, des frontières définies, et une nationalité. Et puisque ce que vous appelez État d’Israël ne possède pas jusqu’à aujourd’hui de constitution, ni de frontières définies, et bien qu’ ils aient voté la loi de Nationalité c’est un pays uniquement pour les Juifs…

    Mais apparemment vous pouvez vous proclamer État sans aucun de ces critères. Pardonnez s’il vous plaît mon ignorance…

    Que puis-je dire… je suis si ignorant…

    Je croyais qu’une victime de viol avait le droit de se défendre. Mais il semble que je me sois trompé… je n’ai pas compris que l’on doive féliciter le violeur et condamner la victime si ou elle oses résister… que il ou elle prend plaisir au viol et en redemande…

    Je croyais qu’être solidaire avec les opprimés était une attitude juste. Erreur encore car je ne devrais jamais m’identifier aux autres peuples opprimés. Il n’y a qu’une entité opprimée au monde et aucune autre.

    Je devrais féliciter les Israéliens pour opprimer les soi-disant Palestiniens… et leur apprendre qui ils sont et quelle est leur valeur aux yeux de la communauté internationale. Que leurs vies sont égales à zéro.

    Alors

    Monde !

    Je suis vraiment désolé

    Je ne me suis pas rendu compte que j’étais induit en erreur et mal informé

    Devrais-je m’excuser ?

    Je m’excuse profondément

    Monde !

    Toutes mes excuses

    Mes parents m’ont toujours dit que je devais soutenir les opprimés et empêcher les oppresseurs de continuer leur oppression

    Je m’excuse

    On m’a dit que je devais soutenir les méchants Sud-Africains noirs contre le gentil système d’apartheid blanc censé les humaniser

    Je m’excuse

    On m’a dit que je devais soutenir les sauvages Amérindiens contre ces merveilleux colonisateurs blancs arrivés pour les civiliser et les débarrasser du fardeau de leurs terres et de leurs propriétés

    On m’a dit de soutenir les Aborigènes retardés d’Australie contre ces extraordinaires colonisateurs britanniques civilisateurs blancs qui vinrent les instruire

    Je m’excuse

    On m’a dit de soutenir les terroristes vietnamiens contre les très civilisés colonisateurs… Français ou Américains qui savaient comment exploiter les pays colonisés et domestiquer leurs habitants.

    Je m’excuse

    On m’a dit de soutenir les Indiens en Inde, les Irlandais, les Ecossais

    les Sud-Américains

    les Cubains,

    Les Espagnols et les Italiens contre les dictatures et les fascistes

    Les Allemands et les Européens contre les nazis

    Les Arabes contre les colonisations française et britanniques

    Les Palestiniens contre l’occupation britannique et sioniste

    On m’a même dit de soutenir les Ukrainiens contre les Russes

    Mes parents m’ont même parlé des pauvres juifs qui arrivèrent en Palestine dans les années 1900..

    Et dans ce temps-là on avait pitié d’eux et on les aidait avec de la nourriture et plus encore…

    Je m’excuse

    On m’a dit de soutenir la résistance de l’opprimé contre l’oppresseur

    Je ne savais rien du droit international et des droits de l’homme

    Je ne savais pas que tout ceci était faux et que c’est juste un mensonge qui convient à certains et pas à d’autres

    Donc

    Monde,

    Laisse-moi me condamner et m’excuser encore et encore…

    Je me condamne pour être ce que je suis

    Je m’excuse d’être Palestinien… D’être né dans un pays que mes parents appellent Palestine…

    Je m’excuse d’être né dans un camp de réfugiés… Dans mon propre pays. Et de n’avoir pu oublier les villages de mes parents qui furent détruits en octobre 1948

    Je m’excuse de n’avoir ni cheveux blonds ni yeux bleus… Bien que certains de mes cousins aient des cheveux blonds et des yeux bleus ou verts

    Je m’excuse de toujours m’identifier comme Palestinien alors qu’on me dénie cette nationalité

    Je m’excuse d’encore appeler mon pays du nom de Palestine bien qu’il ait été émietté en morceaux disjoints… et je ne peux toujours pas l’oublier

    Je m’excuse de pas pouvoir oublier que je suis encore un réfugié dans mon propre pays

    De ne pas avoir jeté la vieille clé rouillée de la maison de mes parents dans leur village détruit

    Je condamne la revendication obstinée de mon droit à revenir aux villages détruits de mes parents

    Comment est-ce que j’ose faire ça ? Comment tous ces Palestiniens obstinés osent-ils revendiquer leur droit au retour ? Nous sommes si aveugles que nous ne pouvons même pas voir les faits sur le terrain après les 75 années d’existence de la seule démocratie du moyen orient

    Je condamne mes parents qui m’ont élevé selon « Celui qui est consumé par la haine perd son humanité »

    Comment n’ont-ils pas osé m’enseigner la haine ?

    Je condamne tout acte de résistance contre l’injustice et l’oppression, l’occupation. Comment osent les opprimés défier les oppresseurs ?

    Je condamne chaque victime de viol ayant résisté au violeur. Ne peux-tu pas simplement ouvrir les jambes et l’accepter ? Comment oses-tu refuser le plaisir du viol ?

    Je condamne les assassinats de tout système terroriste. Les oppresseurs devraient avoir carte blanche pour continuer leur oppression sans avoir à en rendre compte.

    Je condamne ces Palestiniens et leurs supporters… Pourquoi ne peuvent-ils pas juste se taire et accepter que cette occupation illégale est le seul super pouvoir de la région et que lui résister est un acte raciste.

    Je m’excuse réellement auprès de vous tous de ne pas avoir été capable de coexister avec l’oppression… et de n’avoir pas été capable d’accepter de prendre plaisir à la torture, à l’oppression et à l’humiliation. Certains y prennent plaisir… Pourquoi pas moi ?

    Je m’excuse de ne pas accepter l’exil de mon frère, l’emprisonnement de mes frères, de mes cousins, neveux, voisins, et tant d’autres… Je ne m’étais pas rendu compte que c’était pour leur bien, et qu’ils étaient mieux en prison ou en exil que dehors au soleil…

    Je m’excuse de ma stupidité. Je n’ai pas compris vos droits de l’homme et votre droit international. Je pensais que j’étais comme vous autres, et non pas un animal humain. Je m’excuse de mon ignorance… Je ne comprends même pas comment on peut être un animal humain. Je pensais qu’il y avait des êtres humains, et des animaux, bien que certains de ces animaux soient plus humains que les soi-disant humains…

    je m’excuse, je me suis trompé…

    J’ai vu comment vous souteniez des résistances comme l’Ukraine et acclamiez ces combattants pour la liberté. Et combien héroïques étaient ces enfants entraînés pour résister aux Russes et qui pensaient que c’était normal. Je suis vraiment stupide et je m’excuse de ma stupidité. Je devrais aussi condamner la résistance ukrainienne.

    Je le promets, je fêterais l’apartheid, je célébrerais la violations des valeurs et des droits humains.

    Je louerai tous les oppresseurs et les dictateurs

    Je devrais louer tous les violeurs pour qu’ils continuent leurs viols

    Je devrais louer tous les menteurs et les manipulateurs pour leur distorsions des faits et de la vérité

    Je suis vraiment désolé d’avoir tant échoué… Vraiment désolé de n’avoir pas su comment coexister avec ces doubles critères. Comment coexister avec l’occupation, l’oppression, la déshumanisation et en être heureux ?

    Avez-vous un entraînement spécial ? J’aimerais vous rejoindre. Ou plutôt vous pourriez me rejoindre, porter ma peau et me montrer comment je peux être le gentil animal que vous pourriez domestiquer ?

    Ou devrais-je simplement dire, non merci …

    Je ne peux jamais accepter vos ordres et votre chantage

    Je ne peux jamais accepter que les opprimés s’habituent à l’oppression et coexistent avec l’oppresseur tant que l’oppression durera

    Nous n’oublierons pas… Nous nous souviendrons

    Nous n’oublierons pas le silence, l’hypocrisie, les ordres et le chantage

    Nous n’oublierons pas ceux qui ont élevé la voix et se sont levés pour ce qui est juste

    Nous n’oublierons rien

    Vous pouvez continuer à nous pousser au désespoir et nous continuerons à faire épanouir l’espoir

    Vous pouvez continuer à promouvoir la mort… Nous continuerons à promouvoir la vie

    Vous continuerez à faire le pire… Nous continuerons à faire le meilleur

    https://blogs.mediapart.fr/dominique-natanson/blog/221023/condamnez-vous-le-hamas-un-palestinien-repond
    #condamnation #réponse #7_octobre_2023 #Palestine #Israël #humanité #dignité #excuses #résistance #réfugiés_palestiniens #torture #oppression #humiliation #droit_international #animal_humain #animaux #viol #coexistence #oppression #silence #hypocrisie #chantage #désespoir #espoir #à_lire

  • #Tiohtiá:ke [#Montréal]

    Elie Mestenapeo, un jeune Innu de la Côte-Nord, au #Québec, a tué son père alcoolique et violent dans une crise de rage.
    Il a fait 10 ans de prison.
    À sa sortie, rejeté par les siens, il prend la direction de Montréal où il rejoint rapidement une nouvelle communauté : celle des Autochtones #SDF, invisibles parmi les invisibles.
    Il y rencontre les jumelles innuk Mary et Tracy, Jimmy le Nakota qui distribue des repas chauds au square Cabot, au cœur de la ville, mais aussi Mafia Doc, un vieil itinérant plus ou moins médecin qui refuse de quitter sa tente alors que Montréal plonge dans le froid polaire…

    Dans ce roman plein d’humanité, Michel Jean nous raconte le #quotidien de ces êtres fracassés, fait d’#alcool et de #rixes, mais aussi de #solidarité, de #poésie et d’#espoir.

    https://www.seuil.com/ouvrage/tiohtia-ke-montreal-michel-jean/9782021538878
    #livre #peuples_autochtones #canada #invisibilité

  • #Kythira, October 5, 2023: A trip back to the EU border where many lost their loved ones a year ago.

    They wanted to thank the local people of Kythira who, without thinking of the danger to their own lives, rescued a total of 80 people on October 5, 2022.
    People who otherwise would certainly not be alive. Together, some survivors and family members came together to hold a memorial ceremony on the beach of Diakofti, the place where the night of 5.10.2022 will remain forever present for all.

    “October 05 remains an indelible date for all of us. That night two boats capsized in Greece waters, one of them just off the island of Kythira. The people on the boats were fleeing war and terror – filled with longing for a safe future. Here in this place, very close to the harbor, the boat crashed into a rockface. The wind was strong, the waves high, and it was night. Many inhabitants of the island came and tried to save the people by any means possible. They saved 80 people with their efforts. However, at least 15 people lost their lives that night.

    When the tragedy became known to the relatives of those onboard, those who could made their way to Kythira. In this time of shock and loss, survivors and relatives met there, as well as initiatives in solidarity and people willing to help.
    Some of the dead could be found in the water. They were identified, transported to Kalamatas hospital, and then buried in Komotini. Others are still missing a year later. The survivors have been housed in inhumane camps and are fighting for their residence permits to live safe life.

    Since October 2022, we – some of the survivors and relatives remained in contact. In March 2023, we remembered what happened in #Erfurt with an evening called “#A_Sea_Full_of_Tears.” More than 200 people created space for mourning, pain and remembrance, but also for courage and hope. It was
    possible to feel the presence of those who are no longer with us. In this touching atmosphere, the idea of returning to Kythira became more concrete.

    We gathered here in Kythira with everyone to mourn and commemorate the lost. We keep alive the memory of the people who died in the sea. We also come angry at the European borders that killed them, and continue to kill. We come with the desire to build another future in solidarity and without
    borders. It is our resistance.”

    At the beginning of the Memorial, Shuja and Sultana told the story of how we all came together and introduced the speeches of the survivors and family members.
    Khadijah, who lost her dearest husband Abdul Wase Ahmadi that night, began by expressing her discomfort. She said,
    “I stand here wanting to tell you so many words. But the waves behind me make me sad and I can’t find
    the words. The last words from my husband were: who will save us here? You came and saved us, endangering your own lives. We are here to thank you. To embrace you. We are a family now. We will never forget you. Thank you!”

    Zameer, who lost his mother, sister, and brother, stood with his back to the
    sea, which became their graves:
    “I lost my whole family here, in this sea, but you saved me. I wanted to say thank you. When I leave Kythira, I will be leaving my family here with you. Please take care of them.”

    With the heartbreaking statements from the survivors, more than 100 people came to commemorate that night and the dead together with them. The ceremony on 5.10.23 was touching.
    In the days before the Memorial, the 25 travellers to Kythira, including 12 survivors and family members of missing people and their supporters from Hamburg, Erfurt, Munich, and Athens, among others, had daily conversations and meetings with the people who saved them that night:

    There was Dimitris, who took his uncle’s crane and stood on the edge of the abyss with it, saving Khadijah, Hussein, Masih and many others from certain
    death.
    Kostas, who also played the clarinet at the Memorial, who with others were able to pull up many people with ropes, their strength coming from their hands and will power.
    The vice mayor and volunteer firefighter who unobtrusively made everything
    possible everywhere.

    The firefighter Spyros, who with two of his colleagues, rappelled down the dangerous slope with his private equipment to give instructions to people how to be pulled up with the rope.
    Everyone who spent the next few days cooking, bringing clothes, healing wounds, comforting worries, answering questions for the survivors and for the many relatives who immediately came from abroad. They were comforted in their difficult time and helped through the bureaucracy.
    Many of the survivors who could not travel with us listened to a live stream on October 5 and were thus also present. Some had written their own speeches and sent voice messages.

    An elderly lady in black sat on a chair on the beach for the whole two hours and listened attentively as all the speeches in Dari were translated into German and Greek. Four coast guard officers, a priest, a teacher with his little students, many of the people who supported the days with whatever
    they had – all could not believe that the people had come back, had the strength to return to Kythira and embraced them even more in their hearts.

    The day before the Memorial, the survivors had invited all those who had saved them to an Afghan meal in Karavas. It is a beautiful village in the island’s north with a valley, a river and a spring named Amir Ali. Here, in this sheltered place, many were able to embrace and share stories and pain for
    the first time. Many of the locals said that they do not talk to anyone about this night, they do not want to burden anyone in their families, but constantly the images flash in their minds. Now through this trip they had finally found others again with whom they can share the painful experiences.

    “I don’t take off my sunglasses and you understand why,” said Giannis.
    And the other Giannis, the cook who after rescuing people still opened the kitchen of his restaurant and cooked whatever he had so that the survivors would have something to eat says: “Solidarity is a big cooking pot. Allilegii ine ena tsoukali.”

    We promise to never forget those who lost their lives on these borders. We think always of those in Lampedusa and so many other places who are thinking of their loved ones whose lives ended at these deadly borders. We have paused for a moment and now we will move forward together. To tear down the borders and build another world of welcome.

    http://kithira.w2eu.net/2023/10/14/kythira-october-5-2023

    #mémoire #commémoration #Grèce #naufrage #migrations #réfugiés #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #5_octobre_2022 #ceux_qui_restent #survivants #deuil #courage #espoir #colère #résistance #frontières #mémorial #solidarité

  • #Judith_Butler : Condamner la #violence

    « Je condamne les violences commises par le #Hamas, je les condamne sans la moindre réserve. Le Hamas a commis un #massacre terrifiant et révoltant », écrit Judith Butler avant d’ajouter qu’« il serait étrange de s’opposer à quelque chose sans comprendre de quoi il s’agit, ou sans la décrire de façon précise. Il serait plus étrange encore de croire que toute #condamnation nécessite un refus de comprendre, de #peur que cette #compréhension ne serve qu’à relativiser les choses et diminuer notre #capacité_de_jugement ».

    Les questions qui ont le plus besoin d’un #débat_public, celles qui doivent être discutées dans la plus grande urgence, sont des questions qui sont difficiles à aborder dans les cadres existants. Et même si l’on souhaite aller directement au cœur du sujet, on se heurte à un cadre qui fait qu’il est presque impossible de dire ce que l’on a à dire. Je veux parler ici de la violence, de la violence présente, et de l’histoire de la violence, sous toutes ses formes. Mais si l’on veut documenter la violence, ce qui veut dire comprendre les #tueries et les #bombardements massifs commis par le Hamas en Israël, et qui s’inscrivent dans cette histoire, alors on est accusé de « #relativisme » ou de « #contextualisation ». On nous demande de condamner ou d’approuver, et cela se comprend, mais est-ce bien là tout ce qui, éthiquement, est exigé de nous ? Je condamne les violences commises par le Hamas, je les condamne sans la moindre réserve. Le Hamas a commis un massacre terrifiant et révoltant. Telle a été et est encore ma réaction première. Mais elle n’a pas été la seule.

    Dans l’immédiateté de l’événement, on veut savoir de quel « côté » sont les gens, et clairement, la seule réaction possible à de pareilles tueries est une condamnation sans équivoque. Mais pourquoi se fait-il que nous ayons parfois le sentiment que se demander si nous utilisons les bons mots ou comprenons bien la situation historique fait nécessairement obstacle à une #condamnation_morale absolue ? Est-ce vraiment relativiser que se demander ce que nous condamnons précisément, quelle portée cette condamnation doit avoir, et comment décrire au mieux la ou les formations politiques auxquelles nous nous opposons ?

    Il serait étrange de s’opposer à quelque chose sans comprendre de quoi il s’agit, ou sans la décrire de façon précise. Il serait plus étrange encore de croire que toute condamnation nécessite un refus de comprendre, de peur que cette compréhension ne serve qu’à relativiser les choses et diminuer notre capacité de jugement. Mais que faire s’il est moralement impératif d’étendre notre condamnation à des #crimes tout aussi atroces, qui ne se limitent pas à ceux mis en avant et répétés par les médias ? Quand et où doit commencer et s’arrêter notre acte de condamnation ? N’avons-nous pas besoin d’une évaluation critique et informée de la situation pour accompagner notre condamnation politique et morale, sans avoir à craindre que s’informer et comprendre nous transforme, aux yeux des autres, en complices immoraux de crimes atroces ?

    Certains groupes se servent de l’histoire de la violence israélienne dans la région pour disculper le Hamas, mais ils utilisent une forme corrompue de raisonnement moral pour y parvenir. Soyons clairs. Les violences commises par #Israël contre les Palestiniens sont massives : bombardements incessants, assassinats de personnes de tous âges chez eux et dans les rues, torture dans les prisons israéliennes, techniques d’affamement à #Gaza, expropriation radicale et continue des terres et des logements. Et ces violences, sous toutes leurs formes, sont commises sur un peuple qui est soumis à un #régime_colonial et à l’#apartheid, et qui, privé d’État, est apatride.

    Mais quand les Groupes Solidarité pour la Palestine de Harvard (Harvard Palestine Solidarity Groups) publient une déclaration disant que « le régime d’apartheid est le seul responsable » des attaques mortelles du Hamas contre des cibles israéliennes, ils font une erreur et sont dans l’erreur. Ils ont tort d’attribuer de cette façon la #responsabilité, et rien ne saurait disculper le Hamas des tueries atroces qu’ils ont perpétrées. En revanche, ils ont certainement raison de rappeler l’histoire des violences : « de la #dépossession systématique des terres aux frappes aériennes de routine, des #détentions_arbitraires aux #checkpoints militaires, des séparations familiales forcées aux #assassinats ciblés, les Palestiniens sont forcés de vivre dans un #état_de_mort, à la fois lente et subite. » Tout cela est exact et doit être dit, mais cela ne signifie pas que les violences du Hamas ne soient que l’autre nom des violences d’Israël.

    Il est vrai que nous devons nous efforcer de comprendre les raisons de la formation de groupes comme le Hamas, à la lumière des promesses rompues d’Oslo et de cet « état de mort, à la fois lente et subite » qui décrit bien l’existence des millions de Palestiniens vivant sous #occupation, et qui se caractérise par une #surveillance constante, la #menace d’une détention sans procès, ou une intensification du #siège de #Gaza pour priver ses habitants d’#eau, de #nourriture et de #médicaments. Mais ces références à l’#histoire des Palestiniens ne sauraient justifier moralement ou politiquement leurs actes. Si l’on nous demandait de comprendre la violence palestinienne comme une continuation de la violence israélienne, ainsi que le demandent les Groupes Solidarité pour la Palestine de Harvard, alors il n’y aurait qu’une seule source de #culpabilité_morale, et même les actes de violence commis par les Palestiniens ne seraient pas vraiment les leurs. Ce n’est pas rendre compte de l’autonomie d’action des Palestiniens.

    La nécessité de séparer la compréhension de la violence omniprésente et permanente de l’État israélien de toute justification de la violence est absolument cruciale si nous voulons comprendre quels peuvent être les autres moyens de renverser le #système_colonial, mettre fin aux #arrestations_arbitraires et à la #torture dans les prisons israéliennes, et arrêter le siège de Gaza, où l’eau et la nourriture sont rationnés par l’État-nation qui contrôle ses frontières. Autrement dit, la question de savoir quel monde est encore possible pour tous les habitants de la région dépend des moyens dont il sera mis fin au système colonial et au pouvoir des colons. Hamas a répondu de façon atroce et terrifiante à cette question, mais il y a bien d’autres façons d’y répondre.

    Si, en revanche, il nous est interdit de parler de « l’#occupation », comme dans une sorte de Denkverbot allemand, si nous ne pouvons pas même poser le débat sur la question de savoir si le joug militaire israélien sur la région relève du #colonialisme ou de l’#apartheid_racial, alors nous ne pouvons espérer comprendre ni le passé, ni le présent, ni l’avenir. Et beaucoup de gens qui regardent le carnage dans les médias sont totalement désespérés. Or une des raisons de ce #désespoir est précisément qu’ils regardent les #médias, et vivent dans le monde sensationnel et immédiat de l’#indignation_morale absolue. Il faut du temps pour une autre #morale_politique, il faut de la patience et du courage pour apprendre et nommer les choses, et nous avons besoin de tout cela pour que notre condamnation puisse être accompagnée d’une vision proprement morale.

    Je m’oppose aux violences que le Hamas a commises, et ne leur trouve aucune excuse. Quand je dis cela, je prends une position morale et politique claire. Je n’équivoque pas lorsque je réfléchis sur ce que cette condamnation implique et présuppose. Quiconque me rejoint dans cette position se demande peut-être si la condamnation morale doit reposer sur une compréhension de ce qui est condamné. On pourrait répondre que non, que je n’ai rien besoin de connaître du Hamas ou de la Palestine pour savoir que ce qu’ils ont fait est mal et pour le condamner. Et si l’on s’arrête là, si l’on se contente des représentations fournies par les médias, sans jamais se demander si elles sont réellement utiles et exactes, et si le cadre utilisé permet à toutes les histoires d’être racontées, alors on se résout à une certaine ignorance et l’on fait confiance aux cadres existants. Après tout, nous sommes tous très occupés, et nous n’avons pas tous le temps d’être des historiens ou des sociologues. C’est une manière possible de vivre et de penser, et beaucoup de gens bien-intentionnés vivent effectivement ainsi, mais à quel prix ?

    Que nous faudrait-il dire et faire, en revanche, si notre morale et notre politique ne s’arrêtaient pas à l’acte de condamnation ? Si nous continuions, malgré tout, de nous intéresser à la question de savoir quelles sont les formes de vie qui pourraient libérer la région de violences comme celles-ci ? Et si, en plus de condamner les crimes gratuits, nous voulions créer un futur dans lequel ce genre de violences n’aurait plus cours ? C’est une aspiration normative qui va bien au-delà de la condamnation momentanée. Pour y parvenir, il nous faut absolument connaître l’histoire de la situation : l’histoire de la formation du Hamas comme groupe militant, dans l’abattement total, après Oslo, pour tous les habitants de Gaza à qui les promesses de gouvernement autonome n’ont jamais été honorées ; l’histoire de la formation des autres groupes palestiniens, de leurs tactiques et de leurs objectifs ; l’histoire enfin du peuple palestinien lui-même, de ses aspirations à la liberté et au #droit_à_l’autodétermination, de son désir de se libérer du régime colonial et de la violence militaire et carcérale permanente. Alors, si le Hamas était dissous ou s’il était remplacé par des groupes non-violents aspirant à la #cohabitation, nous pourrions prendre part à la lutte pour une Palestine libre.

    Quant à ceux dont les préoccupations morales se limitent à la seule condamnation, comprendre la situation n’est pas un objectif. Leur indignation morale est à la fois présentiste et anti-intellectuelle. Et pourtant, l’indignation peut aussi amener quelqu’un à ouvrir des livres d’histoire pour essayer de comprendre comment un événement comme celui-ci a pu arriver, et si les conditions pourraient changer de telle sorte qu’un avenir de violence ne soit pas le seul avenir possible. Jamais la « contextualisation » ne devrait être considérée comme une activité moralement problématique, même s’il y a des formes de contextualisation qui sont utilisées pour excuser ou disculper. Est-il possible de distinguer ces deux formes de contextualisation ? Ce n’est pas parce que certains pensent que contextualiser des violences atroces ne sert qu’à occulter la violence ou, pire encore, à la rationaliser que nous devrions nous soumettre à l’idée que toute forme de contextualisation est toujours une forme de #relativisme_moral.

    Quand les Groupes Solidarité pour la Palestine de Harvard disent que « le régime d’apartheid est le seul responsable » des attaques du Hamas, ils souscrivent à une conception inacceptable de la responsabilité morale. Il semble que pour comprendre comment s’est produit un événement, et ce qu’il signifie, il nous faille apprendre l’histoire. Cela veut dire qu’il nous incombe tout à la fois d’élargir la perspective au-delà de la terrible fascination du moment et, sans jamais nier l’horreur, de ne pas laisser l’#horreur présente représenter toute l’horreur qu’il y a à représenter, et nous efforcer de savoir, de comprendre et de nous opposer.

    Or les médias d’aujourd’hui, pour la plupart d’entre eux, ne racontent pas les horreurs que vivent les Palestiniens depuis des décennies, les bombardements, les tueries, les attaques et les arrestations arbitraires. Et si les horreurs des derniers jours ont pour les médias une importance morale plus grande que les horreurs des soixante-dix dernières années, alors la réaction morale du moment menace d’empêcher et d’occulter toute compréhension des #injustices_radicales endurées depuis si longtemps par la Palestine occupée et déplacée de force.

    Certains craignent, à juste titre, que toute contextualisation des actes violents commis par le Hamas soit utilisée pour disculper le Hamas, ou que la contextualisation détourne l’attention des horreurs perpétrées. Mais si c’est l’horreur elle-même qui nous amenait à contextualiser ? Où commence cette horreur et où finit-elle ? Si les médias parlent aujourd’hui de « guerre » entre le Hamas et Israël, c’est donc qu’ils proposent un cadre pour comprendre la situation. Ils ont, ainsi, compris la situation à l’avance. Si Gaza est comprise comme étant sous occupation, ou si l’on parle à son sujet de « prison à ciel ouvert », alors c’est une autre interprétation qui est proposée. Cela ressemble à une description, mais le langage contraint ou facilite ce que nous pouvons dire, comment nous pouvons décrire, et ce qui peut être connu.

    Oui, la langue peut décrire, mais elle n’acquiert le pouvoir de le faire que si elle se conforme aux limites qui sont imposées à ce qui est dicible. S’il est décidé que nous n’avons pas besoin de savoir combien d’enfants et d’adolescents palestiniens ont été tués en Cisjordanie et à Gaza cette année ou pendant toutes les années de l’occupation, que ces informations ne sont pas importantes pour comprendre ou qualifier les attaques contre Israël, et les assassinats d’Israéliens, alors il est décidé que nous ne voulons pas connaître l’histoire des violences, du #deuil et de l’indignation telle qu’est vécue par les Palestiniens.

    Une amie israélienne, qui se qualifie elle-même d’« antisioniste », écrit en ligne qu’elle est terrifiée pour sa famille et pour ses amis, et qu’elle a perdu des proches. Et nous devrions tous être de tout cœur avec elle, comme je le suis bien évidemment. Cela est terrible. Sans équivoque. Et pourtant, il n’est pas un moment où sa propre expérience de l’horreur et de la perte de proches ou d’amis est imaginé comme pouvant être ce qu’une Palestinienne éprouve ou a éprouvé de son côté après des années de bombardement, d’incarcération et de violence militaire. Je suis moi aussi une Juive, qui vit avec un #traumatisme_transgénérationnel à la suite des atrocités commises contre des personnes comme moi. Mais ces atrocités ont aussi été commises contre des personnes qui ne sont pas comme moi. Je n’ai pas besoin de m’identifier à tel visage ou à tel nom pour nommer les atrocités que je vois. Ou du moins je m’efforce de ne pas le faire.

    Mais le problème, au bout du compte, n’est pas seulement une absence d’#empathie. Car l’empathie prend généralement forme dans un cadre qui permette qu’une identification se fasse, ou une traduction entre l’expérience d’autrui et ma propre expérience. Et si le cadre dominant considère que certaines vies sont plus dignes d’être pleurées que d’autres, alors il s’ensuit que certaines pertes seront plus terribles que d’autres. La question de savoir quelles vies méritent d’être pleurées fait partie intégrante de la question de savoir quelles sont les vies qui sont dignes d’avoir une valeur. Et c’est ici que le #racisme entre en jeu de façon décisive. Car si les Palestiniens sont des « #animaux », comme le répète Netanyahu, et si les Israéliens représentent désormais « le peuple juif », comme le répète Biden (englobant la diaspora juive dans Israël, comme le réclament les réactionnaires), alors les seules personnes dignes d’être pleurées, les seules qui sont éligibles au deuil, sont les Israéliens, car la scène de « guerre » est désormais une scène qui oppose les Juifs aux animaux qui veulent les tuer.

    Ce n’est certainement pas la première fois qu’un groupe de personnes qui veulent se libérer du joug de la #colonisation sont représentées comme des animaux par le colonisateur. Les Israéliens sont-ils des « animaux » quand ils tuent ? Ce cadre raciste de la violence contemporaine rappelle l’opposition coloniale entre les « civilisés » et les « animaux », qui doivent être écrasés ou détruits pour sauvegarder la « civilisation ». Et lorsque nous rappelons l’existence de ce cadre au moment d’affirmer notre condamnation morale, nous nous trouvons impliqué dans la dénonciation d’une forme de racisme qui va bien au-delà de l’énonciation de la structure de la vie quotidienne en Palestine. Et pour cela, une #réparation_radicale est certainement plus que nécessaire.

    Si nous pensons qu’une condamnation morale doive être un acte clair et ponctuel, sans référence à aucun contexte ni aucun savoir, alors nous acceptons inévitablement les termes dans lesquels se fait cette condamnation, la scène sur laquelle les alternatives sont orchestrées. Et dans ce contexte récent qui nous intéresse, accepter ce cadre, c’est reprendre les formes de #racisme_colonial qui font précisément partie du problème structurel à résoudre, de l’#injustice intolérable à surmonter. Nous ne pouvons donc pas refuser l’histoire de l’injustice au nom d’une certitude morale, car nous risquerions alors de commettre d’autres injustices encore, et notre certitude finirait par s’affaisser sur un fondement de moins en moins solide. Pourquoi ne pouvons-nous pas condamner des actes moralement haïssables sans perdre notre capacité de penser, de connaître et de juger ? Nous pouvons certainement faire tout cela, et nous le devons.

    Les actes de violence auxquels nous assistons via les médias sont horribles. Et dans ce moment où toute notre attention est accaparée par ces médias, les violences que nous voyons sont les seules que nous connaissions. Je le répète : nous avons le droit de déplorer ces violences et d’exprimer notre horreur. Cela fait des jours que j’ai mal au ventre à essayer d’écrire sans trouver le sommeil, et tous les gens que je connais vivent dans la peur de ce que va faire demain la machine militaire israélienne, si le #discours_génocidaire de #Netanyahu va se matérialiser par une option nucléaire ou par d’autres tueries de masse de Palestiniens. Je me demande moi-même si nous pouvons pleurer, sans réserve aucune, pour les vies perdues à Tel-Aviv comme pour les vies perdues à Gaza, sans se laisser entraîner dans des débats sur le relativisme et sur les #fausses_équivalences. Peut-être les limites élargies du deuil peuvent-elles contribuer à un idéal d’#égalité substantiel, qui reconnaisse l’égale pleurabilité de toutes les vies, et qui nous porte à protester que ces vies n’auraient pas dû être perdues, qui méritaient de vivre encore et d’être reconnues, à part égale, comme vies.

    Comment pouvons-nous même imaginer la forme future de l’égalité des vivants sans savoir, comme l’a documenté le Bureau de la coordination des affaires humanitaires des Nations unies, que les militaires et les colons israéliens ont tué au minimum 3 752 civils palestiniens depuis 2008 à Gaza et en Cisjordanie, y compris à Jérusalem-Est. Où et quand le monde a-t-il pleuré ces morts ? Et dans les seuls bombardements et attaques d’octobre, 140 enfants palestiniens ont déjà été tués. Beaucoup d’autres trouveront la mort au cours des actions militaires de « #représailles » contre le Hamas dans les jours et les semaines qui viennent.

    Ce n’est pas remettre en cause nos positions morales que de prendre le temps d’apprendre l’histoire de la #violence_coloniale et d’examiner le langage, les récits et les cadres qui servent aujourd’hui à rapporter et expliquer – et interpréter a priori – ce qui se passe dans cette région. Il s’agit là d’un #savoir_critique, mais qui n’a absolument pas pour but de rationaliser les violences existences ou d’en autoriser d’autres. Son but est d’apporter une compréhension plus exacte de la situation que celle proposée par le cadre incontesté du seul moment présent. Peut-être d’autres positions d’#opposition_morale viendront-elles s’ajouter à celles que nous avons déjà acceptées, y compris l’opposition à la violence militaire et policière qui imprègne et sature la vie des Palestiniens dans la région, leur droit à faire le deuil, à connaître et exprimer leur indignation et leur solidarité, à trouver leur propre chemin vers un avenir de liberté ?

    Personnellement, je défends une politique de #non-violence, sachant qu’elle ne peut constituer un principe absolu, qui trouve à s’appliquer en toutes circonstances. Je soutiens que les #luttes_de_libération qui pratiquent la non-violence contribuent à créer le monde non-violent dans lequel nous désirons tous vivre. Je déplore sans équivoque la violence, et en même temps, comme tant d’autres personnes littéralement stupéfiées devant leur télévision, je veux contribuer à imaginer et à lutter pour la justice et pour l’égalité dans la région, une justice et une égalité qui entraîneraient la fin de l’occupation israélienne et la disparition de groupes comme le Hamas, et qui permettrait l’épanouissement de nouvelles formes de justice et de #liberté_politique.

    Sans justice et sans égalité, sans la fin des violences perpétrées par un État, Israël, qui est fondé sur la violence, aucun futur ne peut être imaginé, aucun avenir de #paix_véritable – et je parle ici de paix véritable, pas de la « #paix » qui n’est qu’un euphémisme pour la #normalisation, laquelle signifie maintenir en place les structures de l’injustice, de l’inégalité et du racisme. Un pareil futur ne pourra cependant pas advenir si nous ne sommes pas libres de nommer, de décrire et de nous opposer à toutes les violences, y compris celles de l’État israélien, sous toutes ses formes, et de le faire sans avoir à craindre la censure, la criminalisation ou l’accusation fallacieuse d’antisémitisme.

    Le monde que je désire est un monde qui s’oppose à la normalisation du régime colonial israélien et qui soutient la liberté et l’autodétermination des Palestiniens, un monde qui réaliserait le désir profond de tous les habitants de ces terres de vivre ensemble dans la liberté, la non-violence, la justice et l’égalité. Cet #espoir semble certainement, pour beaucoup, impossible ou naïf. Et pourtant, il faut que certains d’entre nous s’accrochent farouchement à cet espoir, et refusent de croire que les structures qui existent aujourd’hui existeront toujours. Et pour cela, nous avons besoin de nos poètes, de nos rêveurs, de nos fous indomptés, de tous ceux qui savent comment se mobiliser.

    https://aoc.media/opinion/2023/10/12/condamner-la-violence

    ici aussi : https://seenthis.net/messages/1021216

    #à_lire #7_octobre_2023 #génocide

    • Palestinian Lives Matter Too: Jewish Scholar Judith Butler Condemns Israel’s “Genocide” in Gaza

      We speak with philosopher Judith Butler, one of dozens of Jewish American writers and artists who signed an open letter to President Biden calling for an immediate ceasefire in Gaza. “We should all be standing up and objecting and calling for an end to genocide,” says Butler of the Israeli assault. “Until Palestine is free … we will continue to see violence. We will continue to see this structural violence producing this kind of resistance.” Butler is the author of numerous books, including The Force of Nonviolence: An Ethico-Political Bind and Parting Ways: Jewishness and the Critique of Zionism. They are on the advisory board of Jewish Voice for Peace.

      https://www.youtube.com/watch?v=CAbzV40T6yk

  • #Guerre #Israël - #Hamas : l’engrenage infernal

    Une #catastrophe_humanitaire se déroule sous nos yeux dans la bande de Gaza tandis qu’Israël bombarde l’enclave et prépare une #riposte_militaire. Nos invités ont accepté d’échanger dans notre émission « À l’air libre » alors que cette guerre les touche. Ou les terrasse.

    Les invités :
    #Nadav_Lapid, réalisateur ;
    #Karim_Kattan, écrivain ;
    #Jonathan_Hayoun, réalisateur ;
    #Rony_Brauman, médecin, essayiste.

    https://www.youtube.com/watch?v=Z0OWMbWxhpg


    https://www.mediapart.fr/journal/international/171023/guerre-israel-hamas-l-engrenage-infernal

    #Gaza #7_octobre_2023 #à_lire #à_voir #vidéo
    #désespoir #désastre #impuissance #inquiétude #préoccupation #émotions #rage #médias #couverture_médiatique #couverture_politique #staus_quo #question_palestinienne #pogrom #mots #bombardements #eau #électricité #essence #réfugiés #déplacés_internes #IDPs #destruction #siège #catastrophe #Nakba #nouvelle_Nakba #évacuation #nourriture #famine #déportation #humiliation #paix #justice #droit_international #communauté_internationale #déshumanisation #sentiment_de_sécurité #sécurité #insécurité #apartheid #colonisation #nettoyage_ethnique #1948 #territoires_occupés #système_d'apartheid #double_régime_juridique #occupation_militaire #colonisation_civile #transferts_forcés_de_population #stratégie_de_désespoir #no_futur #actes_désespérés #lucidité #courage #étonnement #responsabilité #rationalisation #espoir #impasse #choc_électrique #trahison #traumatisme #terreur #cauchemar #cauchemar_traumatique #otages #libération_des_otages #guerre #autodestruction #suicide_national

    • Opinion. “Il est peu probable que l’Occident donne indéfiniment un blanc-seing à Israël”
      https://www.courrierinternational.com/article/opinion-il-est-peu-probable-que-l-occident-donne-indefiniment

      Les massacres commis par le Hamas dans le sud d’#Israël semblent avoir fait basculer les opinions publiques occidentales dans un soutien indéfectible à Tel-Aviv, estime ce journaliste israélien. Mais, à mesure que la situation des Palestiniens s’aggravera à #Gaza et en #Cisjordanie, ce soutien pourrait s’amenuiser.

      Le massacre de plus de 1 000 civils israéliens et l’enlèvement de dizaines d’autres servent désormais de base efficace à la diplomatie israélienne. Des pans importants des opinions publiques occidentales ont été révulsés par les tueries du 7 octobre et ont basculé. Mais pour combien de temps ?
      Pour le journaliste Amos Harel, du quotidien israélien de gauche Ha’Aretz, “il est peu probable que l’Occident donne indéfiniment un blanc-seing à Israël. L’État juif sait que la fenêtre d’action qui s’offre à lui n’est pas illimitée. Comme par le passé, il est difficile de synchroniser horloge militaire et horloge politique.”

      Pis, estime Amos Harel, deux États parmi les plus vieux pays arabes signataires d’un traité de paix avec Israël, l’#Égypte en 1979 et la #Jordanie en 1994, craignent de faire les frais de la contre-offensive israélienne, d’autant plus que la population du royaume hachémite est majoritairement d’origine palestinienne.
      “Jusqu’ici, cette dernière s’est montrée loyale envers Amman. Mais est-ce que cela durera indéfiniment ?”

      Enfin, la couverture médiatique de l’opération du #Hamas et de ses suites a relégué au second plan un autre problème : la Cisjordanie est également en proie aux violences. Près de 50 Palestiniens ont été tués la semaine dernière par des soldats israéliens et des colons juifs d’extrême droite.
      “La vraie menace réside en Cisjordanie, et il n’est pas certain que, malgré les slogans lancés par l’#extrême_droite présente au gouvernement, les #diplomaties_occidentales y soutiennent une répression israélienne d’une ampleur de Bouclier défensif [lancée par Ariel Sharon en avril 2002], qui avait vu Tsahal écraser et réoccuper les zones administrées par l’Autorité palestinienne”, soit 39 % des territoires autonomes #palestiniens de Cisjordanie.

  • Abirsabir. La sfida al regime delle frontiere

    Nagi Cheikh Ahmed, giornalista mauritano emigrato in Italia dal 2016, e Gustavo Alfredo García Figueroa, sociologo venezuelano emigrato in Italia dal 2018, in quanto soggetti migranti e razzializzati, hanno viaggiato lungo la frontiera alpina tra l’Italia e la Francia per condurre una ricerca collaborativa tra l’Università degli Studi di Padova e Radio Melting Pot chiamata “nuovi immaginari politici e solidarietà antirazzista” (1).

    La ricerca evidenzia sia i processi di razzializzazione delle persone in transito su questo confine, e sia le esperienze di solidarietà che nascono tra i soggetti razzializzati e con le altre persone con background migratorio che operano sulla frontiera. Lo scopo è quello di rendere visibile il loro protagonismo che contrasta la violenza strutturale delle frontiere e delle politiche migratorie dell’UE con pratiche di solidarietà, resistenza e sfida in questo spazio complesso, poroso, senz’altro ostile con le persone del sud globale.

    Un podcast in cui gli autori parlano della politica migratoria dell’Unione europea basata sul razzismo strutturale, l’esternalizzazione dei confini e il loro controllo, ma allo stesso tempo andando oltre a tutto ciò; in cui si raccontano le esperienze di solidarietà e resistenza di giovani nordafricani che provano, anche al prezzo di mettere a rischio la vita, a sfidare l’esistenza dei confini.

    (1) La collaborazione di ricerca nasce all’interno del progetto di interesse nazionale PRIN-MOBS che indaga la produzione di nuovi immaginari politici attraverso le pratiche della solidarietà antirazzista con i migranti. La Responsabile Scientifica dell’unità locale è la prof.ssa Annalisa Frisina, Associata di Sociologia presso il Dip. FISPPA dell’Università di Padova

    https://www.meltingpot.org/2023/06/abirsabir-la-sfida-al-regime-delle-frontiere/#

    #Abirsabir (à partir de la min 2’38) :

    «Parola in arabo che esprime l’idea di una persona che viaggia con l’intenzione di non residere in un luogo fisso ma di attraversare un altro paese transitando in un paese o diversi paesi in cui non ha nessun legame concreto. E per fare questo viaggio praticamente non ha nulla addosso, niente da portare, niente da usare per il suo percorso. Abisabir, il #passante, si caratterizza per essere una persona leggera, con poco carico, veloce, silenzioso, che cammina molto e dorme poco.»

    –-> ajouté à la métaliste sur les #mots de la migration :
    https://seenthis.net/messages/414225
    #vocabulaire #terminologie #passant

    #podcast #audio #frontières #migrations #réfugiés #asile #frontière_sud-alpine #France #Italie #racialisation #solidarité #violence_structurelle #résistance #Hautes-Alpes #Val_de_Suse #obstacles #rêve #parcours_migratoire #itinéraire_migratoire #danger #route_des_Balkans #Balkans #espoir #maraudeurs #maraudes

    • L’informazione di Blackout. La voce di chi passa il confine alpino tra Italia e Francia

      Una ricerca collaborativa tra l’Università degli Studi di Padova e Radio Melting Pot ha portato #Nagi_Cheikh_Ahmed, giornalista mauritano in Italia dal 2016, e Gustavo Alfredo Garcìa Figueroa, sociologo venezuelano emigrato in Italia nel 2018, ad attraversare la frontiera posta sullo spartiaque alpino tra Italia e Francia per raccogliere le testimonianze di chi è costretto a passare illegamente questo confine.

      “La ricerca evidenzia sia i processi di razzializzazione delle persone in transito su questo confine, e sia le esperienze di solidarietà che nascono tra i soggetti razzializzati e con le altre persone con background migratorio che operano sulla frontiera. Lo scopo è quello di rendere visibile il loro protagonismo che contrasta la violenza strutturale delle frontiere e delle politiche migratorie dell’UE con pratiche di solidarietà, resistenza e sfida in questo spazio complesso, poroso, senz’altro ostile con le persone del sud globale.”

      Questa è la descrizione che si può trovare sul sito di Melting Pot Europa, dove è stato pubblicato il primo frutto della ricerca: il podcast Abir Sabir. La sfida al regime delle frontiere.

      Ne abbiamo parlato con uno degli autori, Nagi Cheikh Ahmed.

      https://radioblackout.org/2023/07/la-voce-di-chi-passa-il-confine-alpino-tra-italia-e-francia

  • Mort de #Nahel : « Ils sont rattrapés par le réel »

    #Ali_Rabeh, maire de #Trappes, et #Amal_Bentounsi, fondatrice du collectif Urgence, notre police assassine, reviennent dans « À l’air libre » sur la mort de Nahel, 17 ans, tué par un policier à Nanterre, et les révoltes qui ont suivi dans de nombreuses villes de France.

    https://www.youtube.com/watch?v=euw03owAwU8&embeds_widget_referrer=https%3A%2F%2Fwww.mediapart.fr%2

    https://www.mediapart.fr/journal/france/290623/mort-de-nahel-ils-sont-rattrapes-par-le-reel
    #violences_policières #banlieues #quartiers_populaires #naïveté

    • « #Emmanuel_Macron ne comprend rien aux banlieues »

      Ali Rabeh, maire de Trappes (Yvelines), a participé à l’Élysée à la rencontre entre le chef de l’État et quelque 200 maires, le 4 juillet, pour évoquer la révolte des quartiers populaires. Il dénonce sans langue de bois l’incapacité du Président à comprendre ce qui se joue dans les banlieues et son manque de perspectives pour l’avenir.

      Vous avez été reçu mardi 4 juillet à l’Élysée par le président de la République avec des dizaines d’autres maires. Comment ça s’est passé ?

      Ali Rabeh : Le Président a fait une introduction très courte pour mettre en scène sa volonté de nous écouter, de nous câliner à court terme, en nous disant à quel point on était formidable. Puis ça a viré à la #thérapie_de_groupe. On se serait cru aux #alcooliques_anonymes. Tout le monde était là à demander son petit bout de subvention, à se plaindre de la suppression de la taxe d’habitation, de la taille des LBD pour la police municipale ou de l’absence du droit de fouiller les coffres de voiture… Chacun a vidé son sac mais, à part ça et nous proposer l’accélération de la prise en charge par les #assurances, c’est le néant. La question primordiale pour moi n’est pas de savoir si on va pouvoir réinstaller des caméras de surveillances en urgence, ou comment réparer quelques mètres de voiries ou des bâtiments incendiés. Si c’est cela, on prend rendez-vous avec le cabinet du ministre de la Ville ou celui des Collectivités territoriales. Mais ce n’est pas du niveau présidentiel.

      Quand on parle avec le président de la nation, c’est pour cerner les #causes_structurelles du problème et fixer un cap afin d’éviter que ça ne se reproduise. Et là-dessus on n’a eu #aucune_réponse, ni #aucune_méthode. Il nous a dit qu’il avait besoin d’y réfléchir cet été. En fait, Emmanuel Macron voulait réunir une assemblée déstructurée, sans discours commun. Il a préféré ça au front commun de l’association #Ville_&_Banlieue réunissant des maires de gauche et de droite qui structurent ensemble un discours et des #revendications. Mais le Président refuse de travailler avec ces maires unis. Il préfère 200 maires en mode grand débat qui va dans tous les sens, parce que ça lui donne le beau rôle. En réalité, on affaire à des #amateurs qui improvisent. Globalement ce n’était pas à la hauteur.

      Le Président n’a donc rien évoqué, par exemple, de l’#appel_de_Grigny ou des nombreuses #propositions déjà faites par le passé sur les problématiques liées aux #banlieues et qui ne datent quand même pas d’hier ?

      Non. Il a fait du « Macron » : il a repris quelques éléments de ce qu’on racontait et il en fait un discours général. Il avait besoin d‘afficher qu’il avait les maires autour de lui, il nous a réunis en urgence pendant que les cendres sont brûlantes, ce qu’il a refusé de faire avant que ça n’explose. Et ce, malgré nos supplications. Pendant des mois, l’association Ville & Banlieue a harcelé le cabinet de Mme Borne pour que soit convoqué un Conseil interministériel des villes conformément à ce qu’avait promis le Président. Cela ne s’est jamais fait. Macron n’a pas tenu sa parole. On a eu du #mépris, de l’#arrogance et de l’#ignorance. Il n’a pas écouté les nombreuses #alertes des maires de banlieue parce qu’il pensait que nous étions des cassandres, des pleureuses qui réclament de l’argent. C’est sa vision des territoires. Elle rappelle celle qu’il a des chômeurs vus comme des gens qui ne veulent pas travailler alors qu’il suffirait de traverser la route. Emmanuel Macron n’a donc pas vu venir l’explosion. Fondamentalement, il ne comprend rien aux banlieues. Il ne comprend rien à ce qu’il s’est passé ces derniers jours.

      A-t-il au moins évoqué le #plan_Borloo qu’il a balayé d’un revers de main en 2018 ?

      Je m’attendais justement à ce qu’il annonce quelque chose de cet acabit. Il ne l’a pas fait. Il a fait un petit mea-culpa en disant qu’à l’époque du rapport Borloo, sur la forme il n’avait pas été adroit mais il affirme que la plupart des mesures sont mises en œuvre. Il prétend, tout content de lui, qu’il y a plus de milliards aujourd’hui qu’hier et que le plan Borloo est appliqué sans le dire. C’était #grotesque. J’aurais aimé qu’il nous annonce une reprise de la #méthode_Borloo : on fait travailler ensemble les centaines de maires et d’associatifs. On se donne six mois pour construire des propositions actualisées par rapport au rapport Borloo et s’imposer une méthode. Lui a dit : « J’ai besoin de l’été pour réfléchir. » Mais quelle est notre place là-dedans ?

      Dans ses prises de paroles publiques, le Président a fustigé la #responsabilité des #parents qui seraient incapables de tenir leurs enfants. Qu’en pensez-vous ?

      Qu’il faut commencer par faire respecter les mesures éducatives prescrites par les tribunaux. Pour ces mamans qui n’arrivent pas à gérer leurs enfants dont certains déconnent, les magistrats imposent des éducateurs spécialisés chargés de les accompagner dans leur #fonction_parentale. Or, ces mesures ne sont pas appliquées faute de moyens. C’est facile après de les accabler et de vouloir les taper au porte-monnaie mais commençons par mettre les moyens pour soutenir et accompagner les #familles_monoparentales en difficulté.

      Le deuxième élément avancé ce sont les #réseaux_sociaux

      C’est du niveau café du commerce. C’est ce qu’on entend au comptoir : « Faut que les parents s’occupent de leur môme, faut les taper aux allocs. Le problème ce sont les réseaux sociaux ou les jeux vidéo… » Quand on connaît la réalité c’est un peu court comme réponse. On peut choisir d’aller à la simplicité ou on peut se poser la question fondamentale des #ghettos de pauvres et de riches. Pour moi l’enjeu c’est la #mixité_sociale : comment les quartiers « politique de la ville » restent des quartiers « #politique_de_la_ville » trente ans après. Or personne ne veut vraiment l’aborder car c’est la montagne à gravir.

      Vous avez abordé cette question lors de votre intervention à l’Élysée. Comment le Président a-t-il réagi ?

      Il a semblé réceptif quand j’ai évoqué les ghettos de riches et les #maires_délinquants qui, depuis vingt-deux ans, ne respectent pas la #loi_SRU. Il a improvisé une réponse en évoquant le fait que dans le cadre des J.O, l’État prenait la main sur les permis de construire en décrétant des opérations d’intérêt national, un moyen de déroger au droit classique de l’#urbanisme. Il s’est demandé pourquoi ne pas l’envisager pour les #logements_sociaux. S’il le fait, j’applaudis des deux mains. Ça serait courageux. Mais je pense qu’il a complètement improvisé cette réponse.

      En ce moment, on assiste à une #répression_judiciaire extrêmement ferme : de nombreux jeunes sans casier judiciaire sont condamnés à des peines de prison ferme. Est-ce de nature à calmer les choses, à envoyer un message fort ?

      Non. On l’a toujours fait. À chaque émeute, on a utilisé la matraque. Pareil pour les gilets jaunes. Pensez-vous que la #colère est moins forte et que cela nous prémunit pour demain ? Pas du tout. Que les peines soient sévères pour des gens qui ont mis le feu pourquoi pas, mais ça ne retiendra le bras d’aucun émeutier dans les années qui viennent.

      Vous avez été dans les rues de Trappes pour calmer les jeunes. Qu’est-ce qui vous a marqué ?

      La rupture avec les institutions est vertigineuse. Elle va au-delà de ce que j’imaginais. J’ai vu dans les yeux des jeunes une véritable #haine de la police qui m’a glacé le sang. Certains étaient déterminés à en découdre. Un jeune homme de 16 ans m’a dit « Ce soir on va régler les comptes », comme s’il attendait ce moment depuis longtemps. Il m’a raconté des séances d’#humiliation et de #violence qu’il dit avoir subies il y a quelques mois de la part d’un équipage de police à #Trappes. Beaucoup m’ont dit : « Ça aurait pu être nous à la place de Nahel : on connaît des policiers qui auraient pu nous faire ça. » J’ai tenté de leur dire qu’il fallait laisser la justice faire son travail. Leur réponse a été sans appel : « Jamais ça ne marchera ! Il va ressortir libre comme tous ceux qui nous ont mis la misère. » Ils disent la même chose de l’#impunité des politiques comme Nicolas Sarkozy qui, pour eux, n’ira jamais en prison malgré ses nombreuses condamnations. Qui peut leur donner tort ?

      Il se développe aussi un discours politique extrêmement virulent sur le lien de ces #violences_urbaines avec les origines supposément immigrées des jeunes émeutiers. Qu’en pensez-vous ?

      Quand Robert Ménard a frontalement dit, dans cette réunion des maires, que le problème provenait de l’#immigration, le président de la République n’a pas tiqué. Une partie de la salle, principalement des maires LR, a même applaudi des deux mains. Il y a un #glissement_identitaire très inquiétant. Culturellement, l’extrême droite a contaminé la droite qui se lâche désormais sur ces sujets. Ces situations demandent de raisonner pour aller chercher les causes réelles et profondes du malaise comme l’absence d’#équité, la concentration d’#inégalités, d’#injustices, de #frustrations et d’#échecs. C’est beaucoup plus simple de s’intéresser à la pigmentation de la peau ou d’expliquer que ce sont des musulmans ou des Africains violents par nature ou mal élevés.

      Comment ces discours sont-ils perçus par les habitants de Trappes ?

      Comme la confirmation de ce qu’ils pensent déjà : la société française les déteste. Dans les médias, matin, midi et soir, ils subissent continuellement des #discours_haineux et stigmatisant de gens comme Éric Zemmour, Marine le Pen, Éric Ciotti, etc. qui insultent leurs parents et eux-mêmes au regard de leur couleur de peau, leur religion ou leur statut de jeune de banlieue. Ils ont le sentiment d’être les #rebuts_de_la_nation. Quotidiennement, ils ont aussi affaire à une #police qui malheureusement contient en son sein des éléments racistes qui l’expriment sur la voie publique dans l’exercice de leur métier. Ça infuse. Les jeunes ne sont pas surpris de l’interprétation qui est faite des émeutes. En réalité ils l’écoutent très peu, parce qu’ils ont l’habitude d’être insultés.

      D’après vous, que faut-il faire dans l’#urgence ?

      Il faut arrêter de réfléchir dans l’urgence. Il faut s’engager sur une politique qui change les choses sur dix à quinze ans. C’est possible. On peut desserrer l’étau qui pèse sur les quartiers en construisant des logements sociaux dans les villes qui en ont moins. Moi, je ne demande pas plus de subventions. Je veux que dans quinze à vingt ans, on me retire les subventions « politique de la ville » parce que je n’en aurai plus besoin. C’est l’ambition qu’on doit porter.

      Et sur le court terme ?

      Il faut envoyer des signaux. Revenir sur la loi 2017 car cela protégera les policiers qui arrêteront de faire usage de leurs armes à tort et à travers, s’exposant ainsi à des plaintes pour homicide volontaire, et cela protégera les jeunes qui n’auront plus peur de se faire tirer comme des lapins. Il faut aussi engager un grand #dialogue entre la police et les jeunes. On l’a amorcé à Trappes avec le commissaire et ça produit des résultats. Le commissaire a fait l’effort de venir écouter des jeunes hermétiquement hostiles à la police, tout en rappelant le cadre et la règle, la logique des forces de l’ordre. C’était très riche. Quelques semaines plus tard le commissaire m’a dit que ses équipes avaient réussi une intervention dans le quartier parce que ces jeunes ont calmé le jeu en disant « on le connaît, il nous respecte ». Il faut lancer un #cercle_vertueux de #dialogue_police-population, et #jeunesse en particulier, dans les mois qui viennent. La police doit reprendre l’habitude de parler avec sa population et être acceptée par elle. Mettons la police autour de la table avec les jeunes, les parents du quartier, des éducateurs, les élus locaux pour parler paisiblement du ressenti des uns et des autres. Il peut y avoir des signaux constructifs de cet ordre-là. Or là on est dans la culpabilisation des parents. Ça ne va pas dans le bon sens.

      https://www.politis.fr/articles/2023/07/emmanuel-macron-ne-comprend-rien-aux-banlieues
      #Macron #ignorance

    • Entre Emmanuel Macron et les banlieues, le #rendez-vous_manqué

      En 2017, le volontarisme du chef de l’Etat avait fait naître des #espoirs dans les #quartiers_populaires. Malgré la relance de la #rénovation_urbaine, le rejet du plan Borloo comme son discours sur le #séparatisme l’ont peu à peu coupé des habitants.

      Il n’y a « pas de solution miracle ». Surtout pas « avec plus d’argent », a prévenu le chef de l’Etat devant quelque 250 maires réunis à l’Elysée, mardi 4 juillet, sur l’air du « trop, c’est trop » : « La santé est gratuite, l’école est gratuite, et on a parfois le sentiment que ce n’est jamais assez. » Dans la crise des violences urbaines qui a meurtri 500 villes, après la mort du jeune Nahel M. tué par un policier, le président de la République a durci le ton, allant jusqu’à rappeler à l’ordre des parents. Une méthode résumée hâtivement la veille par le préfet de l’Hérault, Hugues Moutouh, sur France Bleu : « C’est deux claques, et au lit ! »

      L’urgence politique, dit-on dans le camp présidentiel, est de rassurer une opinion publique encore sous le choc des destructions et des pillages. « Une écrasante majorité de Français se raidit, avec une demande d’autorité forte, confirme Brice Teinturier, directeur général délégué d’Ipsos. Déjà sous Sarkozy, l’idée dominait qu’on en faisait trop pour les banlieues. Les dégradations réactivent cette opinion. Emmanuel Macron est sur une crête difficile à tenir. »

      Ce raidissement intervient sur fond de #fracture territoriale et politique. « L’opposition entre la France des quartiers et celle des campagnes nous revient en pleine figure. Si on met encore de l’argent, on accentuera la fracture », pense Saïd Ahamada, ex-député de la majorité à Marseille. « Les gens en ont ras le bol, ils ne peuvent plus entendre que ces quartiers sont abandonnés », abonde Arnaud Robinet, maire de Reims, qui abrite sept #quartiers_prioritaires_de_la_politique_de_la_ville (#QPV), et membre du parti d’Edouard Philippe.

      (#paywall)

      https://www.lemonde.fr/politique/article/2023/07/06/entre-emmanuel-macron-et-les-banlieues-le-rendez-vous-manque_6180759_823448.

  • Pourquoi les #services_publics sont pris pour #cible

    Médiathèques, écoles ou centres sociaux ont été pris pour cibles dans la nuit du 28 au 29 juin dans différentes villes de France. À l’éternelle question de savoir pourquoi, les sciences sociales apportent des réponses de plus en plus précises depuis les émeutes de 2005.

    À chaque affrontement entre forces de l’ordre et jeunes des #quartiers_populaires, après chaque nuit de #soulèvement_urbain, une question revient parmi les observateurs mais aussi les habitant·es : pourquoi s’en prendre aux #équipements_publics qui offrent encore quelques #services sur des territoires le plus souvent déshérités en la matière ?

    Derrière cette interrogation se loge aussi une question plus souterraine : qu’y a-t-il dans la tête des #jeunes qui affrontent la police, mettent le feu ou défoncent des vitrines ? Les sciences sociales ont largement travaillé la question, particulièrement depuis les émeutes de 2005, et montrent qu’il est impossible de voir dans ces gestes le simple #nihilisme, voire le #banditisme auxquels certaines voix voudraient les réduire.

    Une réponse préliminaire à la question oblige à commencer par passer au tamis ce que signifient « #services » ou « #équipements » publics dans un contexte de #révoltes et de #tensions_urbaines. S’en prendre à un commissariat au lendemain du meurtre d’un adolescent par un policier, ou même à une mairie qui a autorité sur une partie des forces de l’ordre, n’a pas nécessairement la même signification que s’en prendre à une école, un CCAS (centre communal d’action sociale), une salle des fêtes ou une bibliothèque...

    Un second préliminaire contraint aussi de rester prudent, au-delà même de la nature des institutions visées, sur ce qu’elles peuvent représenter, et dont la signification peut rester opaque ou confuse. Un des jeunes ayant participé aux ateliers d’écriture organisés par l’écrivain et éducateur Joseph Ponthus dans une cité de Nanterre affirmait ainsi, à propos des émeutes de 2005 : « On a commencé par discuter de ce qu’il fallait pas brûler. Pas les voitures des gens, pas l’école, pas le centre commercial. On voulait s’attaquer à l’État. » De manière symptomatique, alors même que la volonté de s’en prendre à l’État est affirmée, l’école, pourtant l’institution publique qui maille l’ensemble du territoire, est mise de côté…

    Cela dit, et bien qu’il soit encore trop tôt pour mesurer l’ampleur du soulèvement actuel et répertorier ou cartographier précisément ce à quoi il s’attaque, il semble bien que les #équipements_publics soient particulièrement visés.

    Le seul ministère de l’éducation nationale a ainsi dénombré jeudi « une cinquantaine de structures scolaires impactées à des degrés divers » par les incidents survenus après la mort de #Nahel, aboutissant à la fermeture d’une « dizaine » d’entre elles, principalement dans les académies de Versailles, de Créteil et de Lille.

    Pour le sociologue Sebastian Roché, il y aurait même une distinction à faire à ce sujet entre aujourd’hui et l’automne 2005. Interrogé sur France Info jeudi 29 juin, il jugeait en effet que la révolte actuelle « était beaucoup plus tournée vers les #institutions_publiques », tandis que les émeutes de 2005 auraient en priorité visé « beaucoup plus les voitures », même si des attaques contre des institutions publiques – gymnases, crèches, bibliothèques – s’étaient alors produites.

    Le #livre sans doute le plus précis sur le sujet a été publié aux éditions Presses de l’Enssib en 2013 par le sociologue Denis Merklen et s’intitule Pourquoi brûle-t-on des bibliothèques ? (lire l’entretien que Mediapart avait conduit avec lui sur le sujet à l’occasion du dixième anniversaire des émeutes de 2005 : https://www.mediapart.fr/journal/france/021115/pourquoi-les-emeutiers-s-attaquent-aux-equipements-publics). Le chercheur y montrait qu’environ 70 bibliothèques avaient été incendiées en France entre 1996 et 2013, et que 2005 ne constituait pas une scène inédite ou inaugurale.

    Toutefois, soulignait #Denis_Merklen à propos de ces attaques commises envers les institutions publiques, « leur interprétation a changé après les émeutes qui ont eu lieu en France cette année-là, sûrement comme conséquence de l’ampleur de la mobilisation. Auparavant, elles étaient perçues comme des actes irrationnels, nihilistes, on parlait alors de “#violences_urbaines” et pas encore d’émeutes. Pourquoi s’attaquer à une école maternelle ou à un gymnase ? Pourquoi les bénéficiaires détruisaient-ils ce qui leur était destiné ? Ce n’était pas compréhensible. La plupart des lectures en faisaient la manifestation d’un déficit, voire d’une absence de #socialisation_politique. »

    Cette interprétation « nihiliste » demeure active dans certains secteurs de la société et du champ politique. Elle est propre à une manière de regarder les #marges de la ville-centre comme une zone peuplée de populations « ensauvagées », incapables de respecter le #bien_commun ou même de distinguer leur propre intérêt.

    Le sociologue et anthropologue #Jérôme_Beauchez, professeur à l’université de Strasbourg, a tout récemment retracé l’histoire longue de ce regard négatif dans un livre intitulé Les Sauvages de la civilisation. Regards sur la Zone, d’hier à aujourd’hui, publié par les éditions Amsterdam l’an dernier.

    Toutefois, même lorsque n’est pas entonné le refrain de la nécessaire remise en ordre d’un monde prétendument décivilisé à coups de renforts policiers, de couvre-feux ou d’états d’urgence, la dimension politique des attaques contre les institutions politiques demeure encore parfois déniée. Lorsque les institutions publiques visées sont des écoles ou des centres d’action sociale, mais aussi quand ceux qui les visent n’appartiennent pas à des organisations référencées et sont en outre le plus souvent cagoulés et racisés.

    À l’inverse, lorsque le mouvement poujadiste s’en était pris à des centres des impôts, lorsque des militants de la FNSEA ont attaqué manu militari des préfectures ou lorsque des marins-pêcheurs ont incendié le Parlement régional de Bretagne en février 1994, la dimension politique du geste a été immédiatement lue comme telle. Ce n’est donc pas la violence en elle-même qui distinguerait le bon grain politique de l’ivraie et de l’ivresse émeutières.

    Pour Denis Merklen, le ciblage des institutions publiques lors d’épisodes de #soulèvements_urbains est bien de nature politique, et même en quelque sorte au carré. « Aujourd’hui, affirme-t-il, les chercheurs en sciences sociales – sociologues, politistes, anthropologues – sont d’accord pour y voir au contraire un geste éminemment politique. Pourquoi cela ? Parce que les personnes vivant dans les quartiers populaires, plus que les autres, sont en contact permanent avec des institutions publiques pour résoudre les problèmes de leur vie quotidienne. S’en prendre à elles est une manière de signifier ce face-à-face. Ce n’est pas un déficit de #politisation, mais un changement dans la #politicité_populaire – c’est-à-dire de la manière de faire de la politique par les catégories populaires – par la #territorialisation des #conflits_sociaux. »

    Pour le sociologue, les émeutiers manifestent ainsi « le conflit dans lequel ils sont pris quotidiennement. Aux guichets des administrations, lieu principal des interactions, les #exclusions et les difficultés d’accès prennent la forme d’un #mépris fortement ressenti ».

    L’anthropologue #Alain_Bertho, professeur émérite à l’université Paris VIII, a consacré une grande partie de son travail aux #émeutes_urbaines, en France et à l’étranger, pour comprendre la mondialisation de ce vocabulaire de la protestation et en repérer les formes nationales ou locales. Il en a tiré deux ouvrages, Le Temps des émeutes, publié chez Bayard en 2009, puis Les Enfants du chaos, paru à La Découverte en 2016.

    Dans ces deux ouvrages, le chercheur insiste, lui aussi, pour prendre en compte la dimension politique des émeutes, précisément quand celle-ci est parfois occultée par le fait que ces soulèvements n’empruntent pas les voies de la politique institutionnelle, ni celles de la geste révolutionnaire qui vise les lieux incarnant le pouvoir en majesté, et non un gymnase ou l’antenne d’un centre de sécurité sociale.

    Il y a eu un débat en 2005, nous expliquait Alain Bertho au moment du soulèvement des « gilets jaunes », « sur la question de savoir si ces émeutes étaient un mouvement politique, proto-politique ou apolitique. La réponse que m’ont donnée ceux qui avaient alors brûlé des voitures est restée gravée dans ma tête : “Non, ce n’est pas politique, mais on voulait dire quelque chose à l’État.” Comment dire de façon plus claire que la politique partisane et parlementaire, à leurs yeux, ne servait à rien pour dire quelque chose à l’État ? ».

    Dans ce même entretien, Alain Bertho insistait également sur la nécessité d’être « attentif au répertoire d’action qu’est le langage de l’émeute », faisant une distinction notamment entre les émeutes avec et sans #pillage.

    Dans ce répertoire d’action en réalité pluriel de l’émeute, parfois masqué par les images répétitives des fumées et des affrontements, les attaques visant des équipements publics tiennent une place spécifique et paradoxale.

    Cependant, le #paradoxe n’est sans doute pas seulement celui qui se formule d’ores et déjà à large échelle, dans des micro-trottoirs se demandant pourquoi certains jeunes attaquent des institutions censées les et leur servir, ou même dans la bouche de chercheurs, à l’instar de #Sebastian_Roché jugeant, toujours sur France Info, qu’on assiste en ce moment à un « #désespoir que les populations retournent contre elles-mêmes ».

    Il réside aussi dans ce que souligne Denis Merklen, à savoir que, pour les personnes vivant dans les quartiers populaires, « les #services_publics sont leur seul recours pour leurs besoins les plus élémentaires, liés à l’éducation, à la santé, au transport, au logement, à l’énergie et à la culture. Quasiment tous les aspects de leur vie quotidienne sont entre les mains d’institutions publiques. C’est une situation paradoxale, car cela tient aussi à la solidité et à la pénétration de notre État social qui assure tant bien que mal des filets solides de protection ».

    Ces filets de protection sont certes moins nombreux et solides aujourd’hui qu’il y a dix ans, en raison du délitement des services publics, mais il n’en reste pas moins qu’une spécificité des soulèvements urbains en France, par rapport à d’autres pays, est de viser les institutions publiques, en partie parce qu’il existe – ou existait – encore un #espoir en leur effectivité et efficacité.

    C’est en tout cas ce qui ressortait de l’ouvrage codirigé par les sociologues #Hugues_Lagrange et #Marco_Oberti l’année suivant les émeutes de 2005, intitulé Émeutes urbaines et protestations et publié aux Presses de Sciences Po. Le livre collectif proposait notamment une comparaison entre les situations italienne et britannique en rappelant que la société française se « caractérise par un État centralisé, de puissants services publics, une référence forte à la laïcité, une immigration ancienne liée à une histoire coloniale et à une décolonisation douloureuses ».

    Pour les directeurs de cet ouvrage, la comparaison internationale des protestations urbaines conduisait à un « étrange paradoxe. La plus grande efficacité de la société française à lutter contre les inégalités sociales et à assurer une meilleure protection sociale produit simultanément un fort sentiment d’#exclusion, surtout dans les quartiers populaires et immigrés les plus ségrégués ».

    D’autant qu’à lire Hugues Lagrange et Marco Oberti, les Français, contrairement aux Britanniques, étaient « équipés de lunettes construites pour ne pas voir cette #ségrégation_ethnique ». Une situation largement liée à une pensée de la République et une #organisation_territoriale de ses services publics qui, à force de vouloir être « #colour_blind », s’avèrent aveugles aux #discriminations_ethnoraciales que leurs propres institutions publiques peuvent pourtant reproduire.

    C’est évidemment le cas avec cette institution particulière qu’est la #police, comme l’avait déjà montré le sociologue #Didier_Fassin dans son ouvrage La Force de l’ordre, qui explorait le #racisme présent à l’intérieur de certaines unités de la #BAC en particulier et l’éloignement croissant entre les #forces_de_l’ordre et les habitant·es des quartiers populaires de façon plus générale.


    Mais c’est aussi vrai d’institutions qui ont, au contraire, tenté de réduire la distance entre les institutions et les populations auxquelles elles s’adressent. Concernant le cas particulier des #bibliothèques, Denis Merklen notait ainsi qu’elles « ont fait un immense travail de réflexion autocritique. Elles ont renouvelé leurs approches ; elles se sont ouvertes ».

    Mais, poursuivait-il, elles ne peuvent, pas plus qu’aucun service public pris isolément, « résoudre les problèmes économiques et sociaux qui se posent dans ces quartiers », en raison « de la situation catastrophique du marché du travail » qui fait que « beaucoup d’habitants ne peuvent plus compter sur leur salaire » et n’ont plus que les services publics – et non plus les employeurs - comme interlocuteurs de leur situation sociale. Ce qui peut amener à détruire une salle des fêtes plutôt que séquestrer un patron…

    https://www.mediapart.fr/journal/culture-et-idees/290623/pourquoi-les-services-publics-sont-pris-pour-cible
    #quartiers_populaires #France #émeutes #sciences_sociales #SHS #ressources_pédagogiques #banlieues #violence
    ping @cede

    • « Pourquoi ont-ils brûlé les écoles ? »

      Pourquoi s’attaquer à l’école, laquelle est le plus grand symbole de l’égalité, un sanctuaire du savoir
      Et, c’est gratuit ! Ils se pénalisent eux-mêmes !
      Comme ils sont bêtes et barbares dans les quartiers !

      Si c’était plus compliqué  ?

      L’école est sans doute la première institution marquant les jeunesses populaires (des banlieues) en appliquant une domination, une ségrégation, une violence.
      Sûrement même avant celle de la police.
      Derrière un idéal et des valeurs théoriques, on ne peut nier l’effet de l’école.

      Quand l’école transforme l’inégalité sociale en inégalités scolaires, quand l’école humilie les familles et les élèves.
      Quand on forme des ghettos scolaires et que l’école n’offre pas de bonnes perspectives.

      La gauche quinoa ne comprend pas
      « il faut s’attaquer aux méchantes banques qui ont refusé mon deuxième crédit ! »
      Mais, l’école est aussi un lieu d’exclusion et de répression pour une partie de la population.

      Dans
      « Quand les banlieues brûlent Retour sur les émeutes de novembre 2005. »

      Laurent Ott écrit un texte assez intéressant.
      J’ai le pdf si besoin.

      Une école qui brûle ce n’est pas bien. Je le précise quand même.
      Mais, ce n’est sans doute pas un acte qui sort de nulle part et qui peut s’expliquer calmement.
      Sans l’encourager, je précise encore.

      https://www.cairn.info/quand-les-banlieues-brulent--9782707152176-page-126.htm

      https://twitter.com/Banlieuedeprof/status/1674813901874114560

    • Pourquoi les émeutiers s’en prennent-ils aux services publics ?

      À chaque émeute urbaine que la France connaît depuis maintenant près de quatre décennies, les symboles de l’État et les équipements collectifs semblent concentrer la colère d’une partie de la jeunesse des quartiers concernés. Cette situation suscite d’autant plus d’interrogations que des moyens significatifs ont été consacrés à la rénovation des banlieues françaises dans le cadre de la politique de la ville, en particulier depuis le début des années 2000. Cet article apporte des éléments de réponses à ce paradoxe apparent, en montrant que le besoin de participation et de reconnaissance des habitants reste peu pris en compte par les pouvoirs publics et explique largement le ressentiment d’une frange de la population.

      https://www.cairn.info/revue-francaise-d-administration-publique-2017-3-page-631.html

    • Emeutes urbaines : « Ce qu’elles révèlent, ce n’est pas tant l’échec de la politique de la ville que celui de toutes les politiques publiques »

      Les crédits de la #politique_de_la_ville ont toujours été limités et ne compensent pas l’inégale allocation des budgets affectés au logement, à l’emploi, à la santé ou à la sécurité, qui s’opère au détriment des quartiers défavorisés, rappelle le sociologue #Renaud_Epstein, dans une tribune au « Monde ».

      Depuis le début des années 1980, les vagues émeutières embrasant les quartiers populaires s’accompagnent de controverses interprétatives enflammées dans les médias. Les explications proposées ont varié au fil du temps, mais un argument traverse les décennies qui semble faire consensus chez tous les commentateurs : l’émeute marquerait l’échec de la politique de la ville. La politique ainsi mise en cause a pourtant connu d’importantes évolutions au cours des quarante dernières années, le plus souvent à la suite d’épisodes émeutiers. Si échec de la politique de la ville il y a, ce n’est pas la même politique qui a échoué au début des années 1990, en 2005 ou aujourd’hui.

      Le jugement d’échec semble d’autant plus incontestable en 2023 que l’Etat aurait mobilisé, depuis une quinzaine d’années, des budgets considérables pour les quartiers populaires. Les annonces récurrentes d’un nouveau « plan banlieue » ont pu donner crédit à cette idée d’une politique de la ville richement dotée. Bien que ces annonces soient le plus souvent restées des annonces, elles ont ouvert la voie à la dénonciation des « milliards pour les banlieues », au profit de populations qui ne le mériteraient pas.

      Portée par des entrepreneurs de fracture sociale, cette critique a été d’autant plus ravageuse qu’elle s’est prolongée par une mise en concurrence des souffrances territoriales, opposant les quartiers défavorisés des métropoles et une « France périphérique » aux contours flous mais dont la couleur est claire. Les premiers bénéficieraient d’une discrimination positive, au détriment des villes moyennes, des espaces périurbains et des territoires ruraux, dont les populations sont pourtant durement affectées par les recompositions industrielles et la précarisation de l’emploi, les politiques d’austérité et les fermetures de services publics, ainsi que par l’augmentation du coût de la vie.

      La critique de l’inefficacité se mue alors en une mise en cause de la légitimité même de la politique de la ville, illustrée par cette formule qui fait florès à l’extrême droite : on déshabille la « France périphérique » pour habiller celle qui vit de l’autre côté du périph.

      (#paywall)

      https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/07/06/emeutes-urbaines-ce-qu-elles-relevent-ce-n-est-pas-tant-l-echec-de-la-politi

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  • Avant qu’il ne passe à l’acte, l’errance du réfugié syrien à #Annecy

    L’assaillant de l’#attaque au couteau d’Annecy a été mis en examen pour « tentatives d’assassinats » et « rébellion avec armes ». Pour l’heure, ses motivations restent sans explication. Depuis quelques mois, ce réfugié syrien chrétien venu de Suède passait ses nuits dans une rue du centre-ville et ses journées près du lac. De nombreux témoins décrivent un homme marginalisé, « calme » et « discret ».

    Les caméras des chaînes de télévision ont défilé, au lendemain du drame, rue Royale à Annecy, attirant les regards des curieux venus se promener ou faire des achats. C’est ici, sous le porche d’un immeuble situé entre deux magasins de vêtements, que l’assaillant de l’attaque au couteau ayant blessé six personnes, dont quatre enfants en bas âge, jeudi au Pâquier, avait ses habitudes à la nuit tombée. Le jour de l’attaque, les forces de l’ordre sont venues en nombre pour interroger les commerçant·es et habitant·es du secteur.

    « On le voyait tous les soirs et il avait ses rituels, il venait à 19 heures à la fermeture », confie le responsable d’un magasin situé en face de l’immeuble. L’homme se couchait sur des cartons et disposait d’un sac de couchage, poursuit-il, mettait ses écouteurs dans les oreilles avant de s’endormir, assez tôt. Le commerçant se dit encore « choqué » de savoir qu’il a pu commettre une telle horreur la veille. « Il était très propre. Je n’ai jamais remarqué un comportement étrange. Je me suis demandé plusieurs fois comment il en était arrivé là car il avait l’air jeune. »

    En fin de matinée, Paul*, un habitant de l’immeuble, peine toujours à croire que le sans-abri de 32 ans qui dormait en bas de chez lui et avec lequel il avait des « échanges cordiaux » ait pu commettre l’innommable. Alors qu’il rentre à son domicile, il raconte l’avoir vu chaque soir sous ce porche, depuis l’hiver dernier. Il décrit un homme « assez poli et très discret », solitaire, souvent sur son téléphone. « Il était respectueux, ne laissait pas ses affaires traîner et gardait l’endroit propre. Je ne l’ai jamais vu alcoolisé ou drogué, il ne montrait aucun signe religieux. »

    Lorsqu’il lui arrivait de ressortir après 19 h 30 ou 20 heures, le réfugié syrien dormait déjà. « [Le matin], je pense qu’il partait assez tôt car il n’était plus là quand je partais au boulot. » Constatant qu’il ne venait là que pour dormir, Paul était persuadé qu’il était en parcours d’insertion, voire qu’il travaillait. « Il s’entretenait, aussi. Il se brossait les dents et recrachait l’eau dans la bouche d’égouts, se coupait les ongles… » Parmi tous les sans-abris présents dans le quartier, lui était « celui qui ne faisait pas de bruit ». Son acte en est d’autant plus incompréhensible. « On est complètement sous le choc, c’est glaçant », confie-t-il en précisant avoir un petit enfant.
    Repéré par de nombreux habitants

    L’un des voisins de Paul a tenté de créer du lien avec le réfugié syrien chrétien venu de Suède. Il savait qu’il avait une famille là-bas. « On savait qu’il était en demande d’asile. Mais si on laisse les gens sept mois à la rue, si on ne s’en occupe pas, c’est une machine à drames… Surtout pour des personnes ayant un passé en Syrie, qui viennent potentiellement avec des traumatismes », estime Paul sans pour autant justifier l’acte de l’assaillant.

    Thierry, un habitant d’Annecy, partage lui aussi son incompréhension face à l’horreur. Son père avait repéré l’homme depuis une dizaine de jours, sur le secteur du Pâquier en journée, tout comme les patrons de location de pédalos situés au bord du lac ou les vendeurs de glaces postés près du pont des Amours. « Mon père est cycliste et emprunte ce trajet un jour sur deux, il l’a vu à chaque fois. Il était assis sur un banc avec son sac, il regardait en direction du lac. Il se lavait dans le lac. » Encore en état de choc, ce dernier a préféré ne pas témoigner.

    Il aurait éprouvé une forme de culpabilité à n’avoir pas agi. Mais pour quoi faire ? Signaler un homme dont le comportement n’était pas problématique ? « Il s’est posé beaucoup de questions, s’étonnant d’être parfois arrêté et contrôlé à vélo et lui pas. » La folie humaine ne doit pas « nous diviser », ajoute Thierry, et un acte comme celui-ci ne doit pas remettre en cause « notre accueil des réfugiés ». Il suggère la création d’une brigade spécialisée au sein de la police municipale, qui serait chargée des personnes en situation de rue et irait à leur rencontre.

    « On ne peut pas attendre que ces gens viennent à nous puisqu’ils sont isolés. Leur état psychologique fait parfois qu’ils se replient sur eux-mêmes. Il faut des capacités d’écoute pour créer du lien », dit encore Thierry. Une tendance que confirme Bertrand de Fleurian, délégué départemental de l’Ordre de Malte et chef de maraudes à Annecy, qui a lui aussi repéré l’homme syrien lors de distributions au centre-ville. Ce dernier ne figurait pas parmi leurs « habitués », mais une aide lui avait été proposée lors de différentes maraudes.

    « Il ne voulait jamais rien, il répondait de manière calme et polie le soir bien qu’il dormait parfois. » Certains refusent le contact, soit parce qu’il y a un problème « psy », soit parce qu’ils reçoivent déjà de l’aide en journée. « Dans ces cas-là, poursuit Bertrand, on n’insiste pas, on repasse le lendemain. » A-t-il été pris par un coup de folie ?, s’interroge-t-il. « On pouvait difficilement s’attendre à un tel acte venant de ce profil. » D’autres associations venant en aide aux sans-abris, comme les Suspendus d’Annecy, n’ont pas croisé sa route.
    Précarité matérielle et déclassement social

    Pour l’heure, les raisons et la motivation de la terrible attaque de jeudi matin restent sans explication. Alors que sa garde à vue s’achevait samedi 10 juin, le réfugié syrien a été mis en examen pour « tentatives d’assassinats » et « rébellion avec armes » après avoir été déféré devant deux juges d’instruction, a annoncé la procureure de la République, Line Bonnet-Mathis. L’homme, qui a également été présenté à un juge des libertés et de la détention samedi matin, a été placé en détention provisoire.

    La garde à vue du réfugié syrien n’a pas permis d’en savoir davantage sur son mobile, l’intéressé se montrant très agité et peu coopératif avec les enquêteurs. On en sait toutefois un peu plus sur son parcours depuis le dépôt de sa demande d’asile en France, en novembre 2022.

    Reconnu réfugié en Suède depuis dix ans, où il a une femme et un enfant, il aurait quitté le pays après avoir essuyé deux refus pour une demande de naturalisation. Libre de circuler dans l’espace Schengen, il serait passé par l’Italie et la Suisse avant de gagner la France, et aurait déposé une nouvelle demande d’asile à Grenoble, bien qu’on en ignore encore le motif. « Il y a un côté un peu bizarre » à cela, a souligné le ministre de l’intérieur, Gérald Darmanin, sur BFMTV. Le 4 juin, sa demande a été jugée irrecevable.

    Karine Gatelier, anthropologue chargée d’action recherche dans l’association Modus Operandi (Modop), tente de « comprendre pourquoi, à un moment donné, des personnes se saisissent de [la] violence ». Elle envisage qu’après dix ans en Suède, l’assaillant ait pu ensuite être projeté dans une précarité matérielle et un déclassement social très forts. Un phénomène courant pour les demandeurs et demandeuses d’asile.

    « On leur réserve une certaine misère », analyse celle qui est aussi bénévole auprès de l’association Accueil demandeurs d’asile (ADA) à Grenoble. « Cette misère ne correspond pas à la vie qu’ils et elles avaient au pays. On observe depuis plusieurs années que la santé mentale des personnes en demande d’asile se dégrade, des rapports d’associations en témoignent. Et le suivi est très insuffisant. »

    Non-hébergement, interdiction de travail, perte d’autonomie, allocation pour demandeur d’asile en deçà du seuil de pauvreté qui n’est pas toujours versée… Même avec une prise en charge, de nombreux acteurs pointent souvent une forme de « contrôle social », qui limite les mouvements et la prise de décision des demandeurs d’asile.

    Pour Nicolas*, un travailleur social dans la demande d’asile, les réfugiés survivent parfois à la rue après avoir vécu la route de l’exil, les violences physiques et sexuelles, la torture ou l’esclavagisme, charriant des séquelles non soignées, et font un « grand plongeon dans la précarité », confrontés à un système administratif particulièrement complexe. « On peut voir des cas de dépression chronique ou de décompensation. »

    Que la réponse à leur demande de protection soit positive ou négative, les réactions peuvent varier : « Je compare souvent ça à un examen, avec un enjeu encore plus fort. Après avoir tout donné, le corps relâche et n’a plus d’énergie. Et s’il y a des fragilités psychiques chez quelqu’un, c’est là qu’elles s’expriment. » En cas de rejet, détaille-t-il, il peut y avoir beaucoup d’incompréhension, un fort sentiment de rejet, un gros passage à vide ou une remise en question du parcours.

    Dans le cas du réfugié syrien ayant commis l’attaque au couteau, Nicolas estime que les mois passés en situation de rue ont pu avoir une incidence sur son état physique et mental. « Il n’est jamais rentré dans le dispositif national d’accueil, ce qui montre un déficit lié au nombre de places d’hébergement. Les hommes isolés sont davantage laissés à la rue. » Selon la mère de l’assaillant, qui s’est confiée à l’AFP, celui-ci souffrait d’une « grave dépression » et ses échecs pour obtenir un passeport suédois avaient aggravé son état. Au moment du drame, il n’était « ni sous l’emprise de stupéfiant ni sous l’emprise d’alcool », a indiqué la procureure d’Annecy.

    Cela étant dit, tous ceux qui obtiennent un hébergement n’iront pas « forcément bien », poursuit Nicolas. « Ça reste un élément favorisant pour qu’ils aillent mieux. Mais le morcellement du parcours, la pression du système d’asile, la rupture avec la communauté de vie ou la non-prise en compte de besoins essentiels sont autant de facteurs qui peuvent jouer. » Cela pourrait être le cas, songe-t-il, du réfugié soudanais ayant tué deux personnes en avril 2020 lors d’un attentat à Romans-sur-Isère – le mobile terroriste avait été retenu. « Il allait bien jusqu’à ce qu’il se retrouve isolé, loin de ses amis. Il voulait aussi que sa femme puisse le rejoindre mais la procédure était trop longue. »
    D’autres exilés en situation d’errance à Annecy

    Vendredi après-midi, avenue du Stand à Annecy, un groupe de quatre jeunes Afghans patientent devant les bureaux de la Structure de premier accueil des demandeurs d’asile (Spada), gérée par la Fédération des œuvres laïques, mandatée par l’État pour cette mission. Les portes restent closes et pourtant, personne ne bouge. Ils disent avoir appris à « attendre » ; ce mot qui revient sans cesse lorsqu’ils réclament leur droit à l’hébergement ou l’état d’avancement de leur dossier.

    Depuis jeudi et l’attaque au couteau, ils sont inquiets. « Ce qu’il a fait est si terrible, on a peur que les gens n’aiment plus les réfugiés à cause de ça. De tels actes vont rendre la vie des immigrés très difficile en France », soupire l’un d’eux. À 28 ans et après avoir fui l’Afghanistan, il reconnaît du bout des lèvres survivre dans la rue, dormant dans les parcs ou la gare à la nuit tombée. « Que peut-on faire ? » Sa demande d’asile est toujours en cours.

    « Moi, c’est pareil », lâche son voisin, honteux, plongeant ses grands yeux verts dans le vide. Un troisième a vu sa demande d’asile définitivement rejetée. « Pas de logement, pas de travail, pas d’allocation, pas de papiers », résume-t-il.

    Non loin de là, en fin d’après-midi, Erwin, Junior et leurs amis tuent le temps, près de leur tente, en face du canal. Ils auraient préféré, disent-ils, que l’assaillant vienne les attaquer eux plutôt que les enfants. « C’est une grande faiblesse de s’en prendre à des gamins. On ne cautionne pas ça. »

    La veille, une bénévole du quartier est venue les prévenir que des groupes d’extrême droite se réuniraient à Annecy dans la soirée. « Donc on dort dans notre tente la nuit et ils peuvent venir nous faire du mal, juste parce qu’ils généralisent et qu’ils sont racistes », déplore Erwin. L’un de leurs amis, qui se surnomme Tupac, déboule complètement ivre.

    « Tous les jeunes isolés ici deviennent des légumes parce que les autorités refusent de les aider », commente son voisin, originaire de Seine-Saint-Denis, qui a tout perdu après un divorce. « Aujourd’hui, quelqu’un arrive et va bien, demain il rigole tout seul dans la rue. » Pour Junior, ancien mineur non accompagné pris en charge par l’Aide sociale à l’enfance qui leur rend visite régulièrement, les gens « pètent un câble » parce qu’ils sacrifient tout ce qu’ils ont pour fuir leur pays. « Ils viennent en Europe et espèrent y avoir une certaine vie, mais ils se retrouvent à la rue, sans travail. Ils ne s’attendent pas à ça. »

    Ilham, une ancienne bénévole de la Ligue des droits de l’homme (LDH) d’Annecy, confirme que « de nombreuses personnes » sont en situation d’errance dans la ville, y compris des femmes avec enfants contraintes de vivre dans la rue. Elle est le contact de référence pour les demandeurs et demandeuses d’asile et réfugié·es, et bien qu’elle ait cessé ses activités auprès de la LDH, beaucoup de jeunes continuent de l’appeler en cas d’ennui. Elle confirme un déficit de places d’hébergement et de prise en charge pour ce public.

    Près de la gare en fin de journée, des réfugiés soudanais et érythréens partagent le même sentiment. Arrivé à Paris en 2018, Muhammad* a vécu dans la rue avant d’être réorienté par la préfecture vers la Haute-Savoie. Il explique avoir dû affronter le racisme. « Je demandais aux gens en anglais de m’aider, ils s’éloignaient de moi comme s’ils avaient peur. Leur chien avait plus de valeur que moi. »

    Il rencontre une assistante sociale qui mélange les papiers des uns et des autres parce qu’elle les confond. « J’ai mis quatre ans à avoir mes papiers. Et dès le départ, ils ont fait une erreur sur mon âge, me donnant dix ans de moins, ce qui m’a posé des problèmes pour tout. »

    Mais surtout, il désespère de ne pas pouvoir subvenir aux besoins de sa femme et de son fils coincés en Égypte, faute d’autorisation de travail jusqu’à l’obtention de son statut de réfugié. « Ça m’a rongé l’esprit. Tu ajoutes à ça le stress et le racisme, il y a de quoi te rendre fou. » Il dit avoir appris le français seul – « qu’est-ce qu’on peut faire avec 50 heures dispensées par l’Office français de l’immigration et de l’intégration ? » – et travailler là où il le peut : BTP, peinture, restauration… Aujourd’hui, le trentenaire fait aussi du bénévolat auprès de la LDH et d’une association qui vient en aide aux personnes âgées.

    Repenser à tout ce qu’il a traversé lui « serre le cœur », dit-il en arabe. Il espère pouvoir avancer sereinement, mais ne cache pas cette forme de ressentiment à l’égard d’un État qui a tout fait pour lui faire comprendre qu’il n’était pas le bienvenue. « On est venus légalement ici. Il y a des lois. S’ils ne veulent plus de ces lois, qu’ils les retirent, et on partira. »

    Muhammad dit avoir tout quitté – une belle villa, un hôtel dont il était propriétaire, un travail et des proches – pour fuir un dictateur et recouvrer la liberté qu’il chérissait tant. « Liberté, égalité, fraternité ; c’est uniquement sur le papier », regrette-t-il. Il ignore pourquoi l’auteur de l’attaque au couteau a agi ainsi. Lui et ses amis ne l’avaient jamais croisé. Mais, insiste-t-il, « il faut s’occuper des gens ».

    https://www.mediapart.fr/journal/france/100623/avant-qu-il-ne-passe-l-acte-l-errance-du-refugie-syrien-annecy

    #réfugiés #asile #migrations #marginalisation #précarisation #SDF #migrerrance #attaque_au_couteau #déclassement_social #précarité_matérielle #violence #misère #santé_mentale

    • Drame d’Annecy : une ville face au venin de la #xénophobie

      L’attaque de six personnes, dont quatre enfants, par un réfugié syrien à Annecy a libéré la parole raciste. Ciblée, la Ligue des droits de l’homme est contrainte d’annuler son prochain événement. Le maire écologiste #François_Astorg, également menacé parce que métis, annonce à Mediapart qu’il a porté plainte.

      Trois jours après le drame, Annecy a vécu, dimanche 11 juin, son moment « cathartique », résume son maire écologiste François Astorg. À l’appel de la municipalité, plusieurs milliers de personnes, dont beaucoup de familles, se sont rassemblées dans le calme sur l’esplanade du Pâquier, à quelques encablures du parc de jeu où un réfugié syrien de 31 ans, qui vivait seul et dans la rue depuis plusieurs mois, a blessé six personnes le 8 juin.

      Ses victimes – quatre enfants en bas âge et deux septuagénaires, de quatre nationalités différentes – sont toujours hospitalisées, mais leur pronostic vital n’est plus engagé. L’assaillant, qui n’a fourni aucune explication à son geste à ce jour, a lui été mis en examen samedi pour « tentatives d’assassinat » et « rébellion avec armes », et placé en détention provisoire.

      « On avait besoin de se retrouver, de mettre les mots sur ce qui s’est passé, de se parler, et aussi d’affirmer la ligne dans laquelle on compte avancer demain », synthétise François Astorg, après avoir proclamé un discours sobre et fortement applaudi. Sur scène, le maire était entouré de représentants des autorités civiles et militaires, mais aussi de personnels municipaux et d’anonymes intervenus sur les lieux du drame.

      Après avoir dénoncé la « barbarie » et la « lâcheté » de l’acte « inqualifiable » commis jeudi, l’élu s’est adressé à la foule : « Votre inquiétude, je la ressens, je la partage […], mais il n’y a pas d’autre réponse que la #communion, la #solidarité et l’#espoir. Pas d’autre choix que de bâtir plutôt qu’haïr. » Il a aussi invité la population à ce que la « vie reprenne ses droits ». Le festival international du film d’animation, événement culturel majeur dont la séance inaugurale a été décalée de quelques heures, va justement ouvrir ses portes dès lundi sur le site du Pâquier.

      Depuis jeudi, la ville était suspendue au sort des victimes, dont l’état de santé s’est amélioré au fil des jours, mais aussi imprégnée d’une atmosphère inhabituelle dans cet écrin calme et bourgeois de 135 000 habitant·es. François Astorg lui-même, élu en 2020 à la tête d’une alliance baroque entre Europe Écologie-Les Verts (EELV) et La République en marche (LREM), a été la cible d’attaques racistes auxquelles il n’avait jamais été confronté depuis son accession à la mairie.

      La raison ? Il est métis – sa mère est sénégalaise – et défend des positions – pourtant consensuelles – rappelant qu’Annecy est une terre d’accueil. Suffisant pour déchaîner la fachosphère, qui l’insulte et l’intimide massivement depuis trois jours. « J’ai vu ces attaques, mais le plus dur, cela reste ce qu’il s’est passé avec les enfants. D’avoir vu ces gamins dans le parc … Ça, c’est le plus prenant », recentre François Astorg, encore ému par la scène à laquelle il a été confronté en se rendant sur place juste après l’attaque.

      Le maire s’avoue toutefois « dégoûté » par les menaces qu’il reçoit depuis. « Je ne vais pas dire que j’ai l’habitude du racisme, mais quand même… Cela me rappelle quand j’étais à Paris, pendant les années Pasqua », ajoute l’élu, né il y a soixante-deux ans en Seine-Saint-Denis. Craignant une agression physique, il a porté plainte contre plusieurs auteurs de menaces en ligne. « La police a ouvert une enquête. » Sa fille est aussi été injuriée sur les réseaux sociaux. « Ma fille, ça, ça me… », lâche François Astorg, la gorge nouée, sans finir sa phrase.

      La présidente de l’agglomération violemment prise à partie

      Les attaques contre le maire et sa famille ont provoqué des débats, jusqu’au sein de sa propre majorité municipale. Faut-il y répondre à chaud, au risque d’amplifier les menaces ? Ou alors passer à autre chose, au risque de les banaliser ?

      La présidente de l’agglomération, l’ancienne députée LREM Frédérique Lardet, alliée de François Astorg, admet s’interroger sur le sujet. « On sait qu’il y a un soutien en interne, il n’y a pas de sujet là-dessus. Mais on s’est posé la question vendredi soir de ce qu’il fallait faire publiquement, en se disant qu’il fallait aussi faire attention aux réseaux sociaux, à ne pas justement alimenter les propos racistes », indique-t-elle à Mediapart.

      Elle aussi a d’ailleurs été violemment prise à partie après l’attaque. Son tort ? Avoir annoncé qu’il s’agissait d’un « acte isolé », et être une femme. « J’ai immédiatement reçu des tas d’insultes, témoigne-t-elle. Des “grosse salope”, “grosse pute”. Mon collaborateur m’a dit : “Il faut retirer le message [sur ses réseaux sociaux]”. Je lui ai répondu : “Non, ce qu’il faut retirer, ce sont les insultes.” » Depuis, l’élue dit faire « très attention à [elle] » : « Je regarde autour de moi, je vérifie que je ferme bien la porte chez moi. Cela ne m’était jamais arrivé avant, même quand j’étais députée. Je n’avais jamais eu peur. »

      Frédérique Lardet, « Annécienne pure souche » de 56 ans, reconnaît aussi avoir beaucoup hésité à intervenir dans les médias après l’attaque. « Pour moi, c’était trop intrusif, et j’avais peur que l’on pense que je voulais utiliser la situation à mon profit. » Mais rapidement, « on m’a donné un coup de pied aux fesses », indique la présidente de l’agglomération : « Il y avait une dissonance complète entre ce que l’on vivait et ce brouhaha dans les médias et sur les réseaux sociaux, avec des partis politiques qui dès la première heure se sont jetés comme des corbeaux sur ce drame. »

      « Je me suis dit que mon rôle était de remettre les choses en place », précise encore Frédérique Lardet. Depuis, la présidente de l’agglomération reconnaît être « perdue » face à un drame pour lequel elle estime qu’il est à ce stade complexe de tirer des conclusions. « En tant qu’élus, on n’a pas toujours les réponses non plus, justifie-t-elle. Je sais bien que ce n’est pas toujours entendable pour pas mal de personnes, mais c’est la réalité. »

      Les besoins de réponse simple et immédiate, associé à un discours de haine, Sabine*, Annécienne de 31 ans, en a été témoin dès les premiers moments après l’annonce du drame. Cette travailleuse sociale, qui effectuait des maraudes auprès de réfugié·es isolé·es il y a quelques années, se trouvait dans un bus de la ville quand l’information a commencé à circuler.

      « Il y avait plein d’ados qui regardaient les vidéos. Et au milieu, des adultes qui ne se connaissaient pas mais qui disaient fort : “Jusqu’où ça va aller ?!’’, “Jusqu’où on va les laisser ?!” » Un autre élément l’a stupéfaite : « On ne savait pas que le gars n’était pas musulman, mais dans les discussions, il l’était forcément. C’était automatique, on ne se pose même pas la question. » Sabine observe alors la scène : « Je me suis dit : “Là, maintenant, dans ce bus, on est en train de créer du racisme de toutes pièces…” »

      Deux heures plus tard, elle se retrouve dans une salle d’attente d’un cabinet médical. « Deux femmes, la soixantaine, partent dans un monologue sur l’immigration et sur le fait que le réfugié n’avait rien à faire là… J’ai eu beau dire que ça n’avait rien à voir, elles n’ont pas compris, elles ne s’imaginaient même pas que je ne puisse pas être d’accord. »

      D’après Sabine, « personne ne [lui] aurait parlé comme ça avant ». Ces dernières années, avec l’élection d’un écologiste dans un territoire historiquement à droite, elle « avai[t] même l’impression qu’on prenait le chemin inverse ici, d’autant que c’est une ville avec une grande mixité ». « Là, une brèche a été ouverte, je pense que ça va être très compliqué ensuite », craint-elle, en anticipant des conséquences néfastes pour les réfugié·es.

      Cette inquiétude est renforcée par le traitement médiatique de l’affaire. « Après l’attaque d’Annecy : le droit d’asile en question », titrait en une, dimanche, Le JDD (groupe Lagardère, bientôt absorbé par le groupe Vivendi de Bolloré), interview de l’ancien ministre de l’intérieur (1997-2000) Jean-Pierre Chevènement à la clé.

      « Pour moi, c’est vingt ans de travail qui s’écroulent », tranche également Yves La Barbera, 70 ans. Ce retraité, ancien directeur de la MJC (maison des jeunes et de la culture) d’un quartier d’Annecy, est toujours engagé dans la vie culturelle de la cité. « On travaille au cœur d’un quartier, on œuvre pour le vivre ensemble, on avance pas à pas, on réussit… Et puis, avec un drame comme ça, c’est le repli. Tout le monde a peur, c’est dramatique », déplore-t-il.
      Un climat inquiétant

      En relevant que l’extrême droite « fait 20 % [aux élections] dans des quartiers difficiles », Yves La Barbera sent qu’un « certain racisme s’est installé » ces dernières années. « Cet événement ne va faire que l’exacerber », considère-t-il, en se fiant aux réactions depuis jeudi. « Même des gens que je côtoie ont besoin de se défouler. Cela ne va pas se calmer tout de suite, c’est un traumatisme qui va s’installer. »

      Plus inquiétante encore, selon lui, est l’apparition de manifestant·es identitaires ces derniers temps. Après une première manifestation non déclarée le 18 mai — une première dans la ville —, des néonazis se sont également mobilisés, dès le soir de l’attaque. Les militants gravitent autour du « syndicat des fleuristes », à Annecy (en référence à la fleur de lys royaliste), mais aussi d’Edelweiss (Chambéry), comme l’a révélé Street Press, ou de groupuscules genevois ou lyonnais.

      Deux femmes du collectif d’extrême droite Nemesis se sont rendues à Annecy pour afficher dans l’aire de jeu, dès jeudi après-midi, des pancartes, dont l’une disait : « Ouvrir les frontières, c’est fermer nos cercueils. » Le soir, près de 50 personnes ont pris part à une manifestation identitaire.

      Yves La Barbera avoue son incrédulité face à ce phénomène : « Qu’est-ce que ça veut dire tout ça à Annecy ? C’est une ville tranquille. J’espère que c’est un mouvement extrêmement minoritaire qui ne va pas se développer, mais c’est aussi une petite graine qui peut pousser. »

      Au local de la Ligue des droits de l’homme (LDH) personne n’avait vu les signes avant-coureurs d’un tel climat. « Je les ai vus jeudi soir, leur regard, tous bodybuildés, des nazis sortis de la dernière guerre mondiale… C’est du jamais-vu. On savait qu’il y avait l’ultradroite mais on n’y était pas confronté », affirme Josette Tardivelle. La présidente de l’antenne locale de la LDH relève juste qu’il « y a eu beaucoup de collages du temps de la campagne de Zemmour ».

      Le représentant local de Reconquête, Vincent Lecaillon, ancien chef de fil du Rassemblement national (RN), est élu au conseil régional. Jeudi après-midi, il a vécu son heure de gloire en prenant à partie la première ministre Élisabeth Borne lors de son déplacement à la préfecture de Haute-Savoie.

      Depuis l’attaque, la LDH d’Annecy est prise à partie sur les réseaux sociaux, après un tweet du militant identitaire Damien Rieu ayant repéré l’organisation d’un apéro solidaire, le 19 juin, pour les mineurs étrangers isolés. « Ça faisait un moment qu’on l’avait annoncé, et ça ne posait de problème à personne », relève Josette Tardivelle. Mais après le drame, le sujet devient inflammable.

      Sur les réseaux sociaux, les messages pleuvent : « Je pense qu’il va falloir passer au stade suivant avec ces collabos », « À vos armes citoyens, faut éliminer ces associations qui font venir avec nos impôts nos assassins », « Les fils de pute, c’est immonde, c’est honteux, provocateur. Ils jubilent. Profitez-en bien ça ne va pas durer. On va s’occuper de vous. Avec précision, ciblé, et détermination nationale »…

      « Les gens ne se cachent même pas, certains le font avec leur photo, leur nom », s’étonne Josette Tardivelle, en faisant défiler sur son portable les messages archivés. Décision est alors rapidement prise en interne d’annuler l’événement. « On ne veut pas aller au clash avec ces gens-là et se mettre en danger », justifie la présidente. L’apéro sera organisé plus tard, avec une autre affiche, « plus neutre », ou même « en faisant passer l’information par téléphone ». « Effectivement, reconnaît la présidente de la LDH, cela signifie que l’on cède, et que leur méthode marche. »

      https://www.mediapart.fr/journal/france/110623/drame-d-annecy-une-ville-face-au-venin-de-la-xenophobie
      #racisme #extrême_droite #récupération #menace #syndicat_des_fleuristes #Edelweiss #Nemesis #néo-nazis

  • Le Business du bonheur

    De la légendaire Lise Bourbeau à la reine du rangement Marie Kondo, en passant par la star du développement personnel Tony Robbins, le bonheur est une industrie qui fait des millionnaires. C’est aussi une idéologie : le culte de l’optimisme, de la résilience et de la performance individuelle. Mais alors que la consommation d’antidépresseurs ne cesse d’augmenter et que les burn-out se multiplient dans nos sociétés, que cache cette obsession contemporaine pour le bonheur ?

    https://www.film-documentaire.fr/4DACTION/w_fiche_film/66144
    #film #documentaire #film_documentaire
    #développement_personnel #management #positivité #bonheur #psychologie_positive #choix #marché #coaching #individualisme #science_du_bonheur #Martin_Seligman #psychanalyse #Freud #thérapie_comportementale #optimisme #pessimisme #espoir #forces_Clifton #Don_Clifton #leadership #volontarisme #self-help #protestantisme #la_recherche_du_bonheur #recherche_du_bonheur #self-made_man #méritocratie #responsabilité_individuelle #inégalités #agency (#pouvoir_d'agir) #USA #Etats-Unis #libéralisme #éducation_positive #émotions #psychologie_sociale #team-building #cache-misère #travail #chief_happiness_officer #volonté #convivialité #docilité #happiness_economics #Richard_Layard #center_of_economic_performance (#CED) #bien-être_individuel #David_Cameron #programmes_d'activation_comportementale #chômage #rapport_Stiglitz #Gallup #adaptation #privatisation_de_la_souffrance

  • Voyage au Chili : La constitution d’un espoir
    https://radioparleur.net/2022/07/27/chili-constitution-espoir

    Fin 2019, les manifestations de « l’Estallido Social » secouaient le Chili. 3 ans plus tard, la colère a abouti sur un mouvement politique inédit avec l’élection de Gabriel Boric et la création d’une assemblée constituante qui doit remplacer le texte actuel rédigé sous la dictature. Le nouveau gouvernement de gauche, limité par l’héritage de Pinochet, place […] L’article Voyage au Chili : La constitution d’un espoir est apparu en premier sur Radio Parleur.

    • Stanze – di Gianluca e Massimiliano De Serio – Videoinstallazione – Italia 2010

      Il diritto d’asilo calpestato, poesia civile sulle tracce delle “catene poetiche” della tradizione orale somala. E i muri, e le vicende, dell’ex caserma La Marmora di via Asti, a Torino, autentica «centrifuga» simbolica della storia d’Italia.

      «Quanto è sconnessa la terra sotto i miei piedi,/ quanto è vasta la sabbia,/ andavo avanti sballottato e dappertutto le dune si moltiplicavano».

      «Mi hanno preso le impronte, non sono più come i miei coetanei./ Mi hanno reso povero in tutto, sono senza prospettiva di vita qui in via Asti./ Chi ci ha respinto ci ha fatto restare sul marciapiede in mezzo a una strada, ci ha relegato a dormire lungo i muri./ Ci obbligano a tornare indietro,/ non possono capire che il trattato di Dublino è il colonialismo: a chi possiamo denunciarlo?».

      In Stanze si respira la vertigine deserto, si intuisce la fatica del viaggio. Si ascolta una madre che teme per il figlio emigrato. Si sente sotto i piedi la lastra nera del mare. Si impara che cosa sia il bisogno di fuggire da una terra invivibile, ma anche la disillusione per essere finiti in un Paese diverso da come lo si sognava. Si diventa testimoni della miseria e dell’indifferenza vissuti in Italia. E si è inchiodati alla denuncia: «Gli italiani non hanno mantenuto la promessa fatta», quella di un’accoglienza che dia un minimo di sostanza al diritto d’asilo concesso sulla carta.

      Nato come videoinstallazione, Stanze è stato girato con un gruppo di giovani rifugiati somali che sono stati “ospiti” degli spogli locali dell’ex caserma La Marmora di via Asti, a Torino. Le riprese, senza luce artificiale, si sono svolte in un’unica giornata ma la preparazione è durata mesi, in collaborazione con la mediatrice culturale e scrittrice Suad Omar. In questo «film di parola e non di azione» (è la definizione dei fratelli De Serio) gli attori, a turno, narrano le loro storie per circa un’ora, fermi davanti alla camera da presa, in versi somali con sottotitoli in italiano.

      La forma recupera e riattualizza il genere della “catena poetica” (una serie di liriche collegate fra loro, strumento di dibattito pubblico e politico nella tradizione orale della Somalia). Mentre, nei contenuti, la cronaca e la testimonianza si fanno poesia civile, con un’asprezza senza tempo che ricorda a tratti i salmi più scabri e le denunce più dure dei profeti dell’Antico Testamento.

      Una parte dei testi proposti dal gruppo di giovani rifugiati non si limitano alla situazione del diritto d’asilo ma “interpretano” anche la storia dell’ex caserma La Marmora, decifrando in quelle mura «una vera e propria centrifuga della storia italiana», come ricorda l’associazione di “mutuo soccorso cinematografico” Il Piccolo Cinema di Torino: «Fondata durante il primo periodo coloniale italiano nel corno d’Africa, la caserma è poi diventata sede, durante il fascismo, della Guardia nazionale repubblicana e vi si sono consumate torture e fucilazioni dei partigiani prigionieri». Da qui la ripresa in Stanze (stanze come strofe poetiche, stanze di mattoni) di alcuni stralci degli atti del processo che, nel 1946, vide alla sbarra alcuni fascisti che “lavorarono” in via Asti. Ancora Il Piccolo Cinema: «Nel film gli ex abitanti della caserma, attraverso un percorso di sdoppiamento storico ed esistenziale, si fanno carico della nostra stessa storia e delle sue mancanze».

      Prodotto per la prima edizione del “Premio Italia Arte Contemporanea” del Maxxi di Roma, Stanze ha ottenuto la menzione speciale della giuria «per l’uso innovativo del linguaggio filmico nel rappresentare la condizione umana di sofferenza e di oppressione che attraversa la nostra storia».

      Alcune scene e una presentazione del video da parte di Gianluca e Massimiliano De Serio sono presenti su You Tube: https://www.youtube.com/watch?v=GvWW0Ui7Nr0

      Il sito Internet dei fratelli De Serio è: www.gmdeserio.com
      https://viedifuga.org/stanze

    • Intervista a Gianluca e Massimiliano De Serio - Quella stanza fuori dall’Africa

      Quella stanza fuori dall’Africa Teresa Macri ROMA Incontro con i gemelli De Serio, menzione speciale della giuria per il Premio Italia Arte Contemporanea al Maxxi. «Abbiamo girato un film-catena poetica che recupera la tradizione orale somala, prima dell’avvento della scrittura. Nel nostro caso, la narrazione orchestrata dalla poetessa Suad Omar è declinata da alcuni rifugiati politici che interpretano le loro storie di esiliati» Gianluca e Massimiliano De Serio con il mediometraggio Stanze, si sono aggiudicati una menzione speciale da parte della giuria e una passione smodata da parte del pubblico. Sarebbe stato un esemplare epilogo se, nel catastrofico crinale italiano come quello che stiamo attraversando, la giuria avesse inviato un chiaro segno politico puntando sul loro film che riesce a coagulare paradigma storico, displacement, soggettività e funzione del linguaggio poetico attraverso i racconti di alcuni politici somali in Italia. Comunque sia i fratelli De Serio (Torino, 1978) sono stati appena premiati alla 28ma edizione di Torino Film Festival con il documentario Bakroman sui ragazzi di strada del Burkina Faso. Fin dal 1999, i gemelli indagano senza tregua e senza alcun rigurgito ideologico sui temi dell’identità culturale, «negoziata», fluida e in divenire nell’epoca tardo-capitalista, sui conflitti tra urbanità e minoranze etniche che stanno ridefinendo le nostre società occidentali. La loro è una ricerca «etica», indirizzata sullo scontro degli spazi sociali e sul disagio dell’estetica, nei confronti della politica. Una ricerca in con-trotendenza con l’immaginario simulacra-le così ripercorso dalla loro stessa I-Generation. Ragione dei numerosissimi riconoscimenti internazionali ricevuti finora: Nastro d’Argento per il miglior cortometraggio (2004), il festival di Edimburgo (2006), Oberhausen (2006), Stoccarda (2005), Vendó me (2005 e 2006) e, come miglior film italiano, per tre anni consecutivi al Tff. L’asserzione dell’artista Francis Alys «a volte fare qualcosa dl poetico può diventare politico e a volte fare qualcosa dl politico può diventare poetico» sembra descrivere li vostro film. Come è nata e si è sviluppata l’idea dl «Stanze»? Poesia e politica non sono per forza estranee. Al contrario. Cosl come l’estetica può veicolare un contenuto etico, il rapporto fra le due sfere deve essere il più coerente possibile. In particolare, Stanze è un lavoro che si sviluppa in entrambe le direzioni. E un film/catena poetica che recupera la tradizione orale somala prima dell’avvento della scrittura. La poesia era lo strumento di discussione etica e politica della società somala, con essa si creavano catene poetiche attraverso le quali si dibatteva: venivano apprese a memoria dalla società e servivano per un dibattito pubblico, sublimato dalla bellezza e dal rigore della metrica. Nel nostro caso, le poesie, create sotto la maestria della poetessa Suad Omar, sono declinate da un gruppo di rifugiati politici che interpretano le loro storie di esiliati e si fanno carico della nostra storia e delle nostre mancanze.
      «Stanze» è centrato sulle forme di potere autoritarie: dal colonialismo italiano In Africa al fascismo del ventennio fino all’attuale stato dl diritto discrezionale... Il film è un lento scivolare dalla diaspora dei somali all’inadeguatezza del nostro paese nell’accoglierli secondo le regole internazionali. Progressivamente, i rifugiati arrivano ad interpretare stralci del processo, del 1946 nella caserma di via Asti di Torino, in cui vennero condannate alcune guardie nazionali repubblicane fasciste, colpevoli di sevizie, di torture e uccisioni di numerosi partigiani (tutti amnistiati, creando in questo modo un vuoto storico e giudiziario). I somali, figli indiretti della nostra storia e delle colpe coloniali e fasciste e oggi rifiutati dalla nostra società, prendono la voce dei testimoni del processo, attuando una sorta di sdoppiamento storico ed esistenziale che incolpa prima di tutto l’Italia e ne riempie il vuoto morale e politico. I luoghi di ogni «stanza poetica» sono alcune sale della tremenda caserma di via Asti, che paradossalmente è stata un provvisorio posto di accoglienza di centinaia di rifugiati politici somali nel 2009, alcuni dei quali protagonisti del film. Lo sradicamento del soggetto post-coloMale è al centro delle vostre analisi sia In «Zakarla» che in «Stanze». In ciò conta molto l’humus torinese dove vivete? Torino è una città che ha visto nascere i movimenti di potere, ma anche di protesta e di avanguardia in Italia. E un luogo di spe:
      * rimentazione sociale dove si cerca di supplire alle mancanze del govemo in materia di rifugiati politici. Molte delle nostre storie nascono e si creano nel nostro quartiere o nella nostra città. Qui ha sede il Centro Studi Africani, dove ha avuto inizio la ricerca per realizzare Stanze. Il presidente, ora purtroppo scomparso, era Mohamed Aden Sheickh, ex ministro somalo che è stato sei anni in cella di isolamento sotto la dittatura di Siad Barre ed è a lui e ai rifugiati politici che dedichiamo il lavoro. Grazie a lui abbiamo incontrato Abdullahi, Suad Omar e tutti i rifugiati politici protagonisti. La necessità dl ritornare su accadimenti passati della storia Italiana (come II film dl Martone "Nol credevamo») è un meccanismo dl presa di coscienza del presente attraverso una di logica della memoria? Il nostro è un tentativo di creare una nuova immagine del presente, fuori da ogni formato e da ogni cliché, capace di farsi carica di significato e di aprirsi a riflessioni future e a ri-letture del passato, sotto una nuova estetica e rinnovati punti di vista. Stanze, per esempio, parte dalle storie della diaspora presente, dalle torture in Libia e dai respingimenti, dai non diritti dei rifugiati, che si perpetuano tutti i giorni tra Africa e Italia, fin dentro il nostro stesso paese. Questa diaspora ha radici profonde e interpella la nostra storia più nera, sconosciuta o opportunisticamente dimenticata, quella del colonialismo, degli eccidi in Somalia da parte degli italiani, delle colpe dei fascisti, mai pagate fino in fondo come ci insegna via Asti. C’è nella vostra ricerca una attenzione alla struttura metrica che stabilisce anche Il ritmo del film. II riferimento è alla catena poetica dl Stanze», alla rima del rappers in «Shade ? Da anni onnai lavoriamo sul tentativo, di volta di volta diverso, di creare una «nuova oralità». La trilogia dedicata a Shade era un lungo flusso di coscienza in freestyle, che abbandonava le classiche regole del genere per farsi nuova parola e immagine, icona, memoria di se stessa. In Stanze abbiamo spazializzato il suono, lo abbiamo reso scultura, capace di riflettersi su un’immagine aderente al concetto di catena poetica e in grado di farsi bella, perfetta, ipnotica, sia nella metrica e nel suono, ma anche nei colori e nelle luci. Solo così crediamo si possa restituire la dignità e il coraggio di mettersi in gioco dei nostri protagonisti: ognuno con i suoi strumenti, in un dialogo continuo che si fa scambio, dialettica, alleanza.
      PREMIO ITALIA ARTE Rossella Biscotti presenta il suo «Processo» dopo il 7 aprile L’artista Rossella Biscotti è la vincitrice della prima edizione del Premio Italia Arte Contemporanea, curato da Bartolomeo Pietromarchi e organizzato dal Mani per sostenere e promuovere l’arte italiana rigosamente under 40. «II Processo», realizzato dalla Biscotti (Molfetta, 1978, ma vive in Olanda) consta in una installazione molto formale di architetture residuali in cemento armato ispirate alla conversione logistica subita dalla razionalista palestra della scherma realizzata da Luigi Moretti al Foro Italico in aula bunker durante i processi politici degli anni di piombo, tra cui quelli legati al caso Moro. Parallelamente e più pregnantemente un audio, disseminato nel museo, invia le registrazioni del famoso processo .7 Aprile». A colpire la giuria è stata «l’intensità del lavoro e il forte legame che l’artista ha saputo costruire fra l’architettura del museo e quella dell’opera». L’installazione sarà acquisita dal Marci e verrà pubblicata una monografia dell’artista. Tre gli altri finalisti in lizza: Rosa Barba (Agrigento, 1972) con il suo museo nascosto» nei depositi; Piero Golia (Napoli 1974) che cerca di confondere lo spettatore spostando continuamente il punto di vista, e i gemelli De Serio, menzione speciale per il loro mediometraggio «Stanze».

      https://archive.ph/Ob2nj#selection-68.0-68.2

    • Italy’s De Serio Brothers on CineMart-Selected Colonial-Era Drama ‘Prince Aden’ (EXCLUSIVE)

      Gianluca and Massimiliano De Serio, the Italian directing duo best known internationally for their Locarno premiere “Seven Acts of Mercy,” are developing a colonial-era drama that they’re presenting during the Rotterdam Film Festival’s CineMart co-production market.

      “Prince Aden” begins in 1935, when a 16-year-old Somali boy passes the test to become a dubat, a soldier in the Italian army that has invaded Ethiopia on the orders of Mussolini. Aden Sicré is sent to the frontlines, but after being injured on his first day of service he’s forced to return home – where he is unexpectedly hailed as a war hero by the Fascist regime.

      Five years later, Aden is recruited to take part in a recreation of the daily life of an African village at the newly built Mostra d’Oltremare exhibition center in Naples. But when Italy enters the Second World War, the “human zoo” suddenly closes, stranding Aden and the other African inhabitants for three years as Allied bombs destroy the city around them.

      Inspired by the book “Partigiani d’Oltremare,” by the Italian historian Matteo Petracci, the film follows the unexpected turns in the years after, as Aden and other African fighters play a pivotal role in the partisan struggle against fascism in Europe, and the would-be shepherd is hailed as the film’s titular prince.

      “Prince Aden” sheds light on an “unknown story” that helped shape the course of Italy in the 20th century, according to Gianluca. Yet it’s a story that’s become increasingly relevant against the backdrop of modern-day Europe.

      “We found that this story is not so far from those of thousands of young people who leave their homeland and come to Italy and Europe to find a new life today,” he said. “There is a kind of mirror” with current events.

      Massimiliano said that “this story is a contemporary story, not only a story of our recent past,” which reflects how events between the colonial era and the present day are connected.

      “We need to talk about not only our origin [as colonizers and fascists], but also we need to talk about the importance of Africa to our story, and also the importance of the Italian story to the African one,” he added. “The film will not only be a film about colonialism, because everything starts from there, but also about post-colonialism.”

      The De Serio Bros. addressed similar topics in their 2010 film installation “Stanze” (Rooms) (pictured), which looked at issues of colonialism, post-colonialism and their consequences on the condition of migrants today.

      Central to “Prince Aden” will be an interrogation of the ways in which the Fascist regime exploited the image of its young African hero for its own purposes. The brothers will also examine the role played by the Mostra d’Oltremare, as well as the Italian film industry, in promoting the propaganda of the Fascist government, raising questions of how history is staged and narratives framed.

      It’s a timely subject in an era when previously marginalized voices across the world are struggling to reclaim their own stories. Massimiliano noted how an increasing number of young Italian writers, artists and musicians with African roots have in recent years begun to produce art that echoes their own experiences as second- and third-generation Italians.

      However, he said, “there is not a real debate in Italy’s culture about our colonialism and the ashes of this colonialism after the ‘60s” similar to how the Black Lives Movement has cast fresh light on race history in the U.S.

      That lack of accountability or reflection extends to cinema, which “didn’t really face up to colonialism” after the fall of the fascist regime, Massimiliano said. That, in turn, has had a profound effect on Italian culture today.

      “Cinema works with images. It gives visibility to something, and it hides something else,” said Gianluca. “For us, cinema is a responsibility…. It’s a choice. It’s close to the work of archaeologists: going under the surface and looking for pieces of our identity that are hidden not only in the past, also in the present.”

      The De Serio Brothers’ debut feature, “Seven Acts of Mercy,” made a splash on the festival circuit after premiering in competition in Locarno in 2011. The brothers later premiered in the Venice Film Festival in 2016 with the documentary “River Memories,” about one of the largest shanty towns in Europe. Two years ago, they bowed “The Stonebreaker,” starring “Gomorrah’s” Salvatore Esposito, in the festival’s Venice Days strand.

      “Prince Aden” is produced by Alessandro Borrelli for La Sarraz Pictures. As the filmmakers search for potential co-producing partners during CineMart, Massimiliano stressed that their film is inherently a “European project” that is “important for Europe.”

      “We are the doors of Europe in the Mediterranean today,” he said, “and I think that this project could be a way for Europe to understand better the European roots that are not only the European, Christian roots, but also the roots of our tragic and somehow also beautiful links [and] violent links with Africa. The film will be violent and tender at the same time.”

      https://variety.com/2022/film/global/rotterdam-cinemart-de-serio-brothers-prince-aden-1235167410

    • La macabra storia dell’ex Caserma La Marmora di Torino

      Ormai in disuso, la vecchia Caserma La Marmora dal ’43 al ’45 fu luogo di detenzione e di tortura, dove persero la vita molti italiani.

      Al giorno d’oggi, al civico numero 22 di via Asti a a Torino si trova l’ex #Caserma_Dogali, ora Caserma La Marmora.

      La struttura militare fu il centro di terribili atti di tortura e fucilazione durante il Secondo conflitto mondiale.

      Alle origini, la caserma di via Asti divenne la sede di un Reggimento di fanteria.

      Costruita dal 1887 al 1888, il progetto della struttura fu opera del capitano del Genio, #Giuseppe_Bottero.

      Inizialmente, all’inaugurazione si scelse il nome di caserma “Dogali” di Torino (solo in futuro poi prenderà il nome “La Marmora”).

      Questa denominazione in particolare, richiama l’infausta battaglia di Dogali, la quale ebbe luogo in corrispondenza della costruzione dell’edificio.

      Al tempo, il corpo si spedizione italiano era impegnato nel Corno d’Africa, in Eritrea, per portare avanti le pretese coloniali del governo #Depretis.

      Risaputa è la sconfitta dell’esercito italiano, che proprio durante la battaglia di Dogali del 26 gennaio del 1887 venne piegato da un’impensabile esercito etiope.

      La disfatta coprì di vergogna l’Italia agli occhi delle potenze mondiali.

      In seguito, il ministro Depretis diede le dimissioni a distanza di poche settimane.

      Indubbiamente, il catastrofico evento generò clamore in tutta la penisola.

      Nel capoluogo piemontese si prese la decisione di intitolare una via con il nome del tenente colonnello Tommaso De Cristoforis, casalese di origini che perse la vita durante la campagna africana.

      Mentre, invece la nuova caserma prese il nome dell’infima battaglia.

      Come primo impiego militare, si ospitarono al suo interno due reggimenti di fanteria.

      Mentre dal luglio del 1912, fu sede del comando del Battaglione Aviatori della neo-aeronautica militare italiana.

      Nel 1920, su richiesta dell’Alto Comando militare, la caserma ospitò un reggimento di Bersaglieri, il IV.

      Mentre l’anno successivo cambiò nome, diventando Caserma “La Marmora”, in onore di #Alfonso_La_Marmora, generale e politico de Regno di Sardegna, ideatore dell’unità dei bersaglieri.

      Purtroppo, nel 1943 la Caserma La Marmora divenne il centro di terribili avvenimenti.

      Dopo l’armistizio dell’ 8 settembre 1943, i partigiani, grazie all’appoggio degli alleati, misero a ferro e fuoco il Piemonte.

      Così si decise di riconvertire la caserma come quartier generale dell’#Ufficio_Politico_Investigativo (l’#Upi).

      Sotto la gestione della #Guarda_Nazionale della neo-nata #Repubblica_Sociale.

      Il nuovo incarico era quello di reprimere ed eventualmente annichilire ogni forma di lotta clandestina partigiana, con ogni maniera necessaria.

      Nelle camere della caserma, sotto il comando del colonnello #Giovanni_Cabras e del maggiore #Gastone_Serloreti, si rinchiudevano e si interrogavano i partigiani catturati.

      Gli interrogatori venivano portati avanti attraverso spietate torture psicologiche e fisiche.

      Che si concludevano con la fucilazione o con la deportazione in Germania dei ribelli, in accordo con i nazisti.

      Tra la notte del 27 e del 28 gennaio però, un’incursione partigiana, comandata da #Livio_Scaglione, riuscì ad occupare la caserma e liberare i prigionieri.

      Con la fine della guerra, l’ex struttura militare cadde inevitabilmente nella desuetudine, che continua fino ai giorni nostri.

      Tuttavia nel 1962, in ricordo degli eroi che persero la vita, venne posta una lapide nella caserma, esattamente nel luogo in cui avvennero le esecuzioni.

      https://mole24.it/2021/05/05/la-macabra-storia-dellex-caserma-la-marmora-di-torino
      #partisans

  • #Déclarations sur les migrants : #Gianni_Infantino est un “profiteur déguisé en missionnaire”

    L’instance dirigeante du #football mondial et son président sont dans la tourmente après avoir suggéré qu’une #Coupe_du_monde tous les deux ans donnerait de “l’#espoir” aux Africains et les dissuaderait de traverser la Méditerranée. La presse internationale décrit une organisation prête à tout pour amasser les billets, quitte à feindre l’humanisme.

    Des propos au mieux "lunaires", au pire "scandaleux", versant même dans le "racisme". Le président de la Fédération internationale de football association (FIFA), Gianni Infantino, a créé la #polémique après sa prise de parole devant le Conseil de l’Europe à Strasbourg, mercredi 26 janvier.

    L’Italo-Suisse présentait son projet pour le "#futur_du_football" dont le point central est l’organisation de la Coupe du monde tous les deux ans - l’événement sportif phare se tient actuellement tous les quatre ans. À la fin d’un discours d’une quinzaine de minutes, le patron du football mondial a suggéré qu’une telle réforme donnerait de "l’espoir" aux Africains, et les découragerait de traverser la Méditerranée.

    Nous devons trouver des solutions pour impliquer le monde entier. Nous devons donner de l’espoir aux Africains pour qu’ils ne soient plus obligés de traverser la Méditerranée pour trouver, peut-être, une meilleure vie ou, plus probablement, la mort en mer. Nous devons offrir des #opportunités et de la #dignité."

    Le caractère scabreux de cet argument n’a pas échappé à la presse africaine. "En quoi jouer la Coupe du monde tous les deux ans inciterait les enfants de l’Afrique à rester sur leur continent ??", interroge le site algérien spécialisé La Gazette du Fennec, avançant que Gianni Infantino déguise sa recherche du profit sous un vernis philanthropique.

    Pour promouvoir une Coupe du monde tous les deux ans, Gianni Infantino, président de la #FIFA, est capable de tout. Jusqu’à lâcher des arguments lunaires qu’on peut référer aux temps des empereurs qui pensaient qu’organiser des jeux suffisait pour distraire Rome. Ainsi, pour le patron de la FIFA, un mondial biennal résoudrait les problèmes en #Afrique. Rien que ça."

    Un raisonnement aussi décalé a suscité les moqueries du quotidien britannique I. "Que ferions-nous sans grands maîtres du #sport blancs et dans la force de l’âge nous dispensant leur sagesse de comptoir ?? La solution aux problèmes du monde ?? Mais c’est davantage de #foot, bien sûr ?!" Poursuivant sur un ton ironique, le journaliste se demande si la FIFA serait prête à organiser les prochaines coupes du monde dans des zones de guerre, et même à déplacer son siège à Juba au Soudan du Sud ou à Tripoli en Libye. En conclusion, le titre invite à "laisser le soin de réfléchir à des gens sérieux, pas à des profiteurs déguisés en missionnaires".

    Du côté du site espagnol Público, le faux pas de Gianni Infantino prête plus à la colère qu’à l’ironie. Dans un texte particulièrement acerbe, l’auteur évoque un état d’esprit caractéristique du #complexe_de_supériorité européen hérité de l’histoire. "Le #paternalisme aux relents colonialistes et racistes d’Infantino reflète ce qu’est l’Europe, ni plus, ni moins. La façon dont le Vieux continent s’arroge le rôle de tuteur de l’Afrique alors que tout ce qu’il veut en réalité, c’est l’exploiter et la saigner jusqu’à la dernière goutte, est intolérable."

    Conscient de l’indignation générée par les propos de son patron, la FIFA a communiqué via ses réseaux sociaux, affirmant que ceux-ci avaient été mal interprétés et sortis de leur contexte. "S’il y avait davantage d’#opportunités disponibles, y compris en Afrique mais pas seulement, cela permettrait aux gens d’en profiter dans leur propre pays. Il s’agissait d’un commentaire généraliste qui n’était pas directement lié à la possibilité d’organiser une Coupe du monde tous les deux ans."

    https://www.courrierinternational.com/revue-de-presse/football-declarations-sur-les-migrants-gianni-infantino-est-u

    #dissuasion #migrations #asile #réfugiés #racisme

    ping @isskein @cede @karine4

  • #Subtil_béton

    Zoé est lycéenne lorsque le mouvement social devient insurrectionnel. À force d’assassinats et de disparitions, la révolte est écrasée par le régime. Les révolutionnaires se dispersent alors que l’autoritarisme se renforce.

    Subtil Béton n’est pas l’histoire de cette #insurrection, mais de ce qui reste après la défaite. Colères et tendresses se mêlent en de multiples tentatives pour reconstruire #espoirs et #solidarités.


    https://subtilbeton.org
    #roman_d'anticipation #carte #cartographie_littéraire #fiction #roman_collectif #livre

    signalé par @karine4

    ping @reka

  • #Bigger_Than_Us

    Depuis 6 ans, Melati, 18 ans combat la pollution plastique qui ravage son pays l’Indonésie. Comme elle, une génération se lève pour réparer le monde. Partout, adolescents et jeunes adultes luttent pour les droits humains, le climat, la liberté d’expression, la justice sociale, l’accès à l’éducation ou l’alimentation. La dignité. Seuls contre tous, parfois au péril de leur vie et sécurité, ils protègent, dénoncent, soignent les autres. La Terre. Et ils changent tout. Melati part à leur rencontre à travers le globe. Elle veut comprendre comment tenir et poursuivre son action. Des favelas de Rio aux villages reculés du Malawi, des embarcations de fortune au large de l’île de Lesbos aux cérémonies amérindiennes dans les montagnes du Colorado, Rene, Mary, Xiu, Memory, Mohamad et Winnie nous révèlent un monde magnifique, celui du courage et de la joie, de l’engagement pour plus grand que soi. Alors que tout semble ou s’est effondré, cette jeunesse nous montre comment vivre. Et ce qu’être au monde, aujourd’hui, signifie.

    https://biggerthanus.film
    #film #résistance #film_documentaire #jeunesse #espoir #documentaire