• The pact kills : l’istituzionalizzazione della fine del diritto d’asilo nell’UE

    Un documento dell’Associazione #Open_Your_Borders di Padova sul nuovo patto europeo sulla migrazione e l’asilo.

    Il 10 aprile il Parlamento europeo ha approvato il Nuovo Patto sulla Migrazione e l’Asilo, frutto di un lungo negoziato cominciato nel 2020 tra Parlamento, Consiglio e Commissione.

    Prima di entrare in vigore, dovrà essere votato anche dal Consiglio dell’UE, l’organo in cui risiedono i rappresentanti dei governi dei 27 stati membri, la cui votazione è attesa entro la fine di aprile.

    In sintesi, questo Nuovo Patto prevede una serie di riforme del sistema di gestione dei flussi migratori e della richiesta di protezione internazionale nel territorio dell’Unione Europea e, in particolare, raccoglie al suo interno dieci proposte di legge che vanno brutalmente a rafforzare l’approccio securitario della ormai consolidata “fortezza Europa”, costituita dalle 27 nazioni, sulle 43 + 7 dell’Europa geografica.

    È evidente che i tempi e i contenuti di questa mossa hanno chiare motivazioni elettoralistiche in vista delle elezioni Europee, con il riposizionamento dei vari partiti nazionali in funzione sia della propria affermazione locale che della futura riaggregazione in probabili inedite coalizioni. Infatti “il Patto” è stato approvato trasversalmente con 301 voti favorevoli, 269 contrari e 51 astensioni.

    La coalizione di centrodestra governativa guidata da Giorgia Meloni è risultata non omogenea, con lo spostamento di Fratelli d’Italia (attualmente all’opposizione in Europa) a favore e con la Lega che ha confermato il proprio voto contrario, probabilmente perché considera la linea adottata troppo moderata e poco sovranista.

    Con motivazioni opposte, si sono schierati contrari anche il PD (che è organico dell’attuale maggioranza in UE) e il Movimento 5 stelle.

    Si rincorrono i toni trionfalistici per la “decisione storica” presa, dipinta come “un enorme risultato per l’Europa”, “un solido quadro legislativo su come affrontare la migrazione e l’asilo nell’Unione europea” e per una fantomatica e propagandistica “vittoria italiana” sottolineata da Meloni, nonostante il tanto criticato Regolamento di Dublino (per cui è il paese di primo ingresso l’unico responsabile di esaminare le richieste di protezione internazionale e di gestire e trattenere al suo interno le persone migranti) sia stato di fatto rafforzato.

    Noi, in questa giornata buia per il diritto d’asilo europeo e per la libertà di movimento internazionale, vediamo solo un consolidamento di pratiche di violazione dei diritti umani, che sono già attuate e condivise da parecchio tempo, sia alle frontiere che nei territori degli Stati dell’Unione Europea, in vista di quello che si prospetta come un inasprimento e allargamento del conflitto mediorientale e di una sempre maggiore instabilità di tutta l’area del Sahel (testimoniato da 7 colpi di Stato in pochi anni e dalla guerra solo apparentemente interna in Sudan che continua nell’indifferenza generale) dove si stanno giocando gli interessi egemonici in Africa dei due blocchi politici ed economici contrapposti, con Stati Uniti e Francia su tutti da un lato, e paesi Brics (Russia, Cina, India, ecc.) dall’altro.

    Con l’Unione Europa dal peso politico inconsistente tra le due parti e i suoi Stati membri che si percepiscono (erroneamente) come meta di approdo per tutti i movimenti di fuga delle popolazioni, i confini esterni dell’Unione diventano in primis la rappresentazione materiale da blindare assolutamente a scopo preventivo.

    Di seguito, analizziamo nello specifico le nuove norme per noi più critiche e problematiche.
    1) Procedure accelerate e sommarie per la richiesta di protezione internazionale

    Il Nuovo Patto divide in maniera importante i percorsi di richiesta di protezione internazionale, con l’applicazione di una procedura accelerata e generalizzata basata soprattutto sulla provenienza geografica legata alla classificazione dei cosiddetti “Stati sicuri” e non sulla storia individuale delle persone.

    Il testo prevede che tali procedure accelerate – che dovrebbero durare al massimo 12 settimane – siano svoltedirettamente nelle zone di frontiera, con il trattenimento di migliaia di persone in centri di detenzione posizionati ai confini degli Stati dell’Unione Europea.

    Lo svolgimento dell’esame approssimativo delle richieste sulla base della nazionalità porterà quindi ad un aumento generalizzato delle espulsioni, limitando la possibilità di richiesta di asilo, in violazione del principio internazionale del non respingimento, ma anche, ad esempio, al diritto alle cure mediche e al ricongiungimento familiare.

    Il criterio basato sullo Stato di provenienza è già stato eccezionalmente usato per velocizzare l’ingresso e l’integrazione diffusa delle persone rifugiate ucraine – però limitato a donne, bambin* e anzian*. Tale applicazione, causata dal conflitto Russia-Ucraina, che evidentemente ci tocca da vicino sia per posizione geografica che etnica, ha però contestualmente escluso l’evacuazione di tutti gli altri “non bianchi” presenti in quel territorio per motivi di lavoro, di studio o in transito migratorio. Anche per questo motivo, utilizzare solamente il criterio di provenienza geografica di origine senza considerare le specificità delle persone nelle procedure accelerate è funzionale alla negazione dell’asilo, in quanto arbitraria e strumentale da parte degli Stati.
    2) Un nuovo regolamento di screening (ovvero l’esercizio della bio-politica)

    Le persone richiedenti asilo non possono scegliere se seguire una procedura tradizionale (che richiede molti mesi) o accelerata, ma vengono divisi e indirizzati in base al loro profilo, stilato attraverso un nuovo e uniforme regolamento di screening obbligatorio inserito nell’Eurodac, creando così una enorme banca dati comune: questa “procedura di frontiera” preliminare, da farsi entro 7 giorni dall’arrivo, comprende identificazione, raccolta dei dati biometrici, controlli sanitari e di sicurezza, controllo di eventuali trasferimenti e precedenti, il tutto a partire dai 6 anni di età. Questa procedura sarà adottata principalmente per le persone richiedenti asilo che per qualche motivo vengono considerati un “pericolo” per i paesi dell’Unione, per coloro che provengono dai paesi considerati “sicuri” e per chi proviene da paesi che, anche per altri motivi, hanno un tasso molto basso (sotto il 20 per cento) di domande d’asilo accolte.
    3) Introduzione del concetto di “finzione del non ingresso”

    Il patto introduce il concetto di “finzione giuridica di non ingresso”, secondo il quale le zone di frontiera sono considerate come non parte del territorio degli Stati membri. Questo interessa in particolare l’Italia, la Grecia e la Spagna per gli sbarchi della rotta mediterranea, mentre sono più articolati “i confini” per la rotta balcanica. Durante le 12 settimane di attesa per l’esito della richiesta di asilo, le persone sono considerate legalmente “non presenti nel territorio dell’UE”, nonostante esse fisicamente lo siano (in centri di detenzione ai confini), non avranno un patrocinio legale gratuito per la pratica amministrativa e tempi brevissimi per il ricorso in caso di un primo diniego (e in quel caso rischiano anche di essere espulse durante l’attesa della decisione che li riguarda). In assenza di accordi con i paesi di origine (come nella maggioranza dei casi), le espulsioni avverranno verso i paesi di partenza.

    Tale concetto creadelle pericolose “zone grigie” in cui le persone in movimento, trattenute per la procedura accelerata di frontiera, non potranno muoversi sul territorio né tantomeno accedere a un supporto esterno. Tutto questo in spregio del diritto internazionale e della tutela della persona che, sulla carta, l’UE si propone(va) di difendere.
    4) L’istituzione di un meccanismo di “solidarietà obbligatoria” e l’esternalizzazione dei confini

    All’interno di una narrazione in cui le persone in movimento sono un onere da cui gli Stati Europei cercano di sottrarsi, viene istituito un meccanismo di “accettazione obbligatoria” di ricollocamento e trasferimento delle persone migranti, ma solo in caso di non precisate impennate di arrivi. Gli Stati potranno però scegliere se “accettare” un certo numero di migranti o, in alternativa all’accoglienza, fornire supporto operativo al paese d’arrivo, inviando del personale o mezzi, oppure pagare una quota di 20mila euro per ogni richiedente che si rifiutano di accogliere, da versare in un fondo comune dell’Unione Europea.

    I soldi versati in questo fondo comune, oltre a poter essere redistribuiti tra i paesi di frontiera (come l’Italia), potranno essere utilizzati per sostenere e finanziare «azioni nei paesi terzi o in relazione ad essi che hanno un impatto diretto sui flussi migratori verso l’UE» ossia paesi, come Libia e Tunisia da cui le persone migranti partono per raggiungere l’Europa.

    Un meccanismo disumanizzante e che trasforma le persone e le garanzie dei diritti umani in merci barattabili con un compenso economico destinabile a rafforzare i confini ancora più esternamente.

    Un ulteriore sviluppo è dato dalla delocalizzazione della zona di frontiera, attraverso la creazione di hotspot al di fuori dei confini nazionali, come nel caso dei futuri centri italiani in Albania.

    L’adozione di questo Nuovo Patto – non ancora definitivo, si ricorda – dimostra come i valori di accoglienza e “integrazione” e il diritto alla libertà di movimento, previsto dall’art. 12 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, vengano sgretolati di fronte ad una sempre più marcata diffidenza, chiusura e difesa della sovranità nazionale.

    Con la recrudescenza dei nazionalismi negli Stati Europei e la loro incapacità di agire con una lungimiranza alternativa e una visione decolonializzata nello scacchiere geopolitico, la tutela degli individui e della dignità umana viene “semplicemente” sostituita da inquietanti concetti privi di senso legati alla purezza della nazione e dell’etnia e alla difesa, in modalità securitaria e repressiva, della patria e della tradizione, che si traducono in istituzionalizzazione e normalizzazione dell’agire violento ai confini della UE e in una crescente esternalizzazione della frontiera attraverso il respingimento delle persone razzializzate nell’ultimo Paese di partenza, con l’intento dichiarato di voler scoraggiare la mobilità verso l’Europa.

    https://www.meltingpot.org/2024/04/the-pact-kills-listituzionalizzazione-della-fine-del-diritto-dasilo-nell
    #pacte #asile #migrations #réfugiés #droit_d'asile #procédure_accélérée #pays_sûrs #rétention #frontières #rétention_aux_frontières #screening #Eurodac #procédure_de_frontière #biométrie #fiction_juridique #zones_frontalières #solidarité_obligatoire #externalisation #relocalisation

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    ajouté à la métaliste sur #Pacte_européen_sur_la_migration_et_l’asile :
    https://seenthis.net/messages/1019088

    ajouté à la métaliste autour de la Création de zones frontalières (au lieu de lignes de frontière) en vue de refoulements :
    https://seenthis.net/messages/795053

  • Depardieu, Jacquot, Doillon... Le monde du cinéma face à ses démons – La Tribune
    https://www.latribune.fr/culture-lifestyle/depardieu-jacquot-doillon-le-monde-du-cinema-face-a-ses-demons-990262.html

    En arrière-plan des révélations d’abus sexuels, la filière cherche des façons plus sereines de vivre les tournages. Enquête.

    Certains smokings vont rester au placard. Des cinéastes ou des acteurs n’ont pas reçu leur carton d’invitation pour la 49e cérémonie des Césars, le 23 février à l’Olympia : l’Académie vient de déclarer que, « dans l’hypothèse d’une mise en examen ou d’une condamnation judiciaire d’un(e) participant(e) à un film éligible pour des faits de violence, notamment à caractère sexiste ou sexuel », la personne « ne ferait l’objet d’aucune mise en lumière ». En clair : plus d’invitation - ni de prix - pour ceux dont le comportement a été mis en cause.

    Alors que le mouvement MeToo prend une nouvelle ampleur depuis le témoignage de Judith Godrèche, dont l’histoire d’emprise rappelle celle de Vanessa Springora sous la coupe de l’écrivain Gabriel Matzneff, il semblerait que la peur ait changé de camp. Ce sont désormais les auteurs présumés des abus sexuels qui font profil bas : la série Alphonse de Nicolas Bedos, qui sera jugé en 2024 pour « agression sexuelle en état d’ivresse », est sortie en catimini sur Prime Video en 2023 ; Philippe Caubère, signataire de la tribune défendant Gérard Depardieu, vient d’être mis en examen pour agression sexuelle et viol sur deux mineures et corruption de mineur sur une troisième victime ; Roman Polanski n’aurait pas trouvé de distributeur pour The Palace, son prochain film... Alors que Benoît Jacquot, 77 ans, et Jacques Doillon, 79 ans, nient les faits qui leur sont reprochés, on ne sait pas ce qu’il adviendra de leurs prochains films : CE2, de Jacques Doillon, sur le thème du harcèlement scolaire, est annoncé sur les écrans fin mars et Belle, de Benoît Jacquot, avec Guillaume Canet et Charlotte Gainsbourg, est en postproduction.

    Si les icônes déchues protestent contre le non-respect de la présomption d’innocence et les excès de la « cancel culture », l’affaire Depardieu a marqué un véritable tournant : « Après la tribune soutenant Gérard Depardieu, la contre-tribune signée par des gens du métier au sens large, des producteurs aux techniciens, a montré que nous vivions un moment de bascule : il faut maintenant que les conditions de tournage changent, que l’on comprenne que l’art ne justifie pas tous les comportements, analyse Manuel Alduy, directeur du cinéma à France Télévisions. Nous sommes ainsi sortis de ce cas particulier pour dénoncer le côté systémique de ces agissements. »

    La fracture entre les deux camps est pourtant toujours béante, même chez les dirigeants politiques : à la suite du reportage de Complément d’enquête, la ministre de la Culture d’alors, Rima Abdul-Malak, avait estimé que Depardieu faisait « honte à la France » tandis qu’Emmanuel Macron redoutait une « chasse à l’homme ». Dans le milieu du cinéma, on voit déjà plus loin. Manuel Alduy, lui, a décidé de suspendre temporairement la diffusion des films dans lesquels l’acteur tient un rôle phare. « Il ne s’agit pas de censurer ni d’effacer quelqu’un, insiste-t-il. Les films sont des œuvres collectives, il serait injuste pour l’ensemble des équipes de ne plus jamais les diffuser. On va le faire dans des contextes différents : pour l’anniversaire de la mort de François Truffaut en 2024, nous programmerons bien sûr Le Dernier Métro, avec Depardieu. »

    Une formation obligatoire
    Ce changement de mentalité est impulsé par une jeune génération de cinéastes pour qui il n’est plus question de se taire : « L’omerta est en train de prendre fin, estime Marine Francen, coprésidente de la SRF (Société des réalisatrices et réalisateurs de films) et membre du Collectif 50/50, qui milite pour la parité, l’égalité et la diversité au cinéma. Contrairement aux excès américains, où l’on blackliste quelqu’un à la moindre suspicion, le mouvement en France se fait lentement mais en profondeur. La parole d’Adèle Haenel a été un vrai tournant et il y a maintenant un effet générationnel : les jeunes, plus sensibles à ce sujet, sont plus radicaux dans leur envie de tourner la page. » En 2021, un groupe de travail a été constitué à la SRF, pour réfléchir sur les attitudes à adopter : « Quelque chose est vraiment en train de changer dans la manière d’aborder le rapport au plateau, à l’équipe et aux comédiens, précise Marine Francen, convaincue que d’autres figures connues feront l’objet d’autres plaintes. Ça peut déstabiliser ceux qui pensent encore qu’un réalisateur est tout-puissant sur un plateau : ils sont aujourd’hui beaucoup moins à l’aise pour agir n’importe comment au nom de leur film... ou de leur névrose. »

    De nouveaux outils apparaissent à tous les échelons, afin de prévenir et repérer les violences du casting au tournage. Pour lutter contre le harcèlement, Rima Abdul-Malak a demandé en janvier au CNC (Centre national du cinéma) de rendre « obligatoire une formation pour l’ensemble de l’équipe au début de chaque tournage de film ». Un nouveau métier est également né : le coordinateur d’intimité, qui s’assure que les acteurs et actrices d’une scène d’amour sont bien en accord avec ce qu’on leur demande de faire. « Une coordinatrice d’intimité m’a demandé ce que j’étais "prête à accepter" et m’a montré des protections, des sortes de cache-sexe à coller sur soi comme dans les films porno, raconte l’actrice Maud Wyler. Mais il faudrait aussi parler au reste de l’équipe de tournage, souvent plus gênée par ces scènes intimes que je ne le suis moi-même ! »

    Très impliquée dans les états généraux du cinéma, Maud Wyler fait aussi partie de l’ADA (Association des acteur·ices), un nouvel organisme fondé par l’actrice Ariane Labed, entre autres, qui s’était insurgé contre la sélection de Johnny Depp et Catherine Corsini, tous deux visés par des accusations de harcèlement au Festival de Cannes 2023. C’est la première fois qu’une association fédère des comédiens et rend possible cette solidarité : « D’habitude nous sommes très peu ensemble, habitués à être représentés par nos agents, poursuit-elle. Mais nous voulions nous rassembler et échanger. J’étais abasourdie par le harcèlement raconté par les jeunes actrices. »

    Qui peut prévenir les cas de harcèlement sur un plateau ? Quels protocoles peuvent protéger un tournage ? La responsabilité incombe aux premiers concernés : les producteurs. « Nous savons aujourd’hui que nos responsabilités sont immenses, nous prenons le sujet très au sérieux, estime Marc Missonnier, producteur, entre autres, du Consentement. Nous nous retrouvons dans des positions où nous devons jouer le rôle à la fois de juge, de policier, d’arbitre, d’employeur et de protecteur des gens qui travaillent pour nous - et c’est bien normal. Mais les productions sont souvent de petites structures, fragiles économiquement, qui ne peuvent pas se permettre d’arrêter un film. »

    Le temps judiciaire, plus long, n’est pas celui du cinéma : chaque heure étant comptée, la production doit prendre des décisions immédiates sur des affaires complexes. Le cas s’est posé de façon abrupte pendant le tournage de Je le jure, film réalisé par Samuel Theis, par ailleurs acteur dans Anatomie d’une chute. Après une soirée en marge du tournage, un technicien a préféré quitter le film, avant de porter plainte contre le réalisateur pour viol. Ivre pendant la soirée, le jeune homme a avancé qu’il doutait avoir pu exprimer son consentement dans le moment intime qu’ils ont partagé ensemble. La productrice du film, Caroline Bonmarchand, a appris l’histoire le lendemain. « Le tournage se passait très bien, c’était comme un coup de tonnerre dans un ciel sans nuages, précise-t-on à la production. La productrice a tout de suite consulté le livre blanc du Collectif 50/50, appelé des producteurs qui avaient connu cette situation, ouvert le dialogue avec toute l’équipe... Car le pire, c’est l’omerta. Il a été décidé de mettre en place un système qui permette à ceux qui ne souhaitent plus interagir avec le réalisateur de le faire. » Samuel Theis a fini le tournage à l’écart du plateau, avec sa première assistante et sa scripte et, lorsqu’il devait venir diriger les acteurs, les techniciens étaient prévenus en amont. « C’est une solution, mais elle reste imparfaite car il faut à la fois respecter la parole de ce jeune homme et la présomption d’innocence du réalisateur, c’est irréconciliable, poursuit la production. C’est compliqué d’imaginer des solutions pour nous épauler. Il y a deux chemins : l’édiction de règles et l’option de la médiation, au cas par cas. » D’autres, sous couvert d’anonymat, estiment que la question cruciale est : « Est-ce qu’on considère dans ce genre de cas qu’un film fait par 150 personnes est voué à mourir, ou a-t-il le droit de vivre ? »

    Reste la question des mœurs, qu’aucune règle ne saurait dompter rapidement. Et l’étrange adage selon lequel les souffrances causées au nom de l’art seraient plus acceptables que d’autres. Depuis la naissance du cinéma, les exemples de comportements répréhensibles sont hélas nombreux. En 1972, sur le plateau du Dernier Tango à Paris, l’actrice Maria Schneider a même été agressée sexuellement devant l’objectif par Marlon Brando, sur une idée du réalisateur Bernardo Bertolucci, qui cherchait sa « réaction spontanée ». Une scène sans consentement dont elle ne s’est jamais remise. « Le problème de fond est le même depuis toujours, c’est celui du pouvoir et donc des rapports de domination, estime l’acteur Swann Arlaud, nommé aux Césars pour Anatomie d’une chute, dans la catégorie meilleur acteur dans un second rôle.

    Si nous en sommes venus à des situations de "tribunal populaire" qui ne sont pas souhaitables, c’est parce qu’il est trop rare que les coupables d’abus sexuels soient condamnés. C’est aussi un métier où l’on accepte de dépasser certaines limites au nom d’une recherche artistique : certains acteurs aiment se mettre en danger, d’autres pas. Alors, qui définit la limite ? »

    D’autres regrettent que MeToo n’ait pas ouvert un débat sur le métier de comédien(ne) : « Nous sommes vulnérables, car nous devons être choisi(e) s dans des castings, estime Maud Wyler. Ce métier est lié au pouvoir et à la séduction. Un agent m’a dit un jour que je faisais peur aux réalisateurs ! J’ai compris que c’était parce que je ne flatte ni le réalisateur ni le producteur et qu’une aventure amoureuse avec moi n’est donc pas possible... Mais c’est historique, dans le métier : Molière a eu une histoire avec une mère puis sa fille ; même Depardieu ou Delon ont été gigolos à leurs débuts. »

    Changer le rapport de force sur un plateau ; éviter les mises à l’écart sur la base de rumeurs ; prévenir les abus... Autant de dossiers ouverts pour un cinéma plus serein mais jamais idéal, selon un producteur qui veut rester anonyme : « Considérer qu’il existera un jour une société parfaite dans laquelle il n’y aura que des films "purs", où il n’y aura plus jamais aucun problème... c’est une belle utopie ou une belle angoisse. Surtout, ça n’existe pas. »

    Charlotte Langrand

    • Il termine par la conclusion qui était la rengaine contre la gauche : l’idéalisme loin des réalités du monde. Et puis, je fatigue des attaques contre la cancel culture, tant mieux si il y a renversement. Pour une fois qu’est tentée une protection en amont et une prise en compte de la victime plutôt que continuer à glorifier les ordures d’agresseurs, éviter ainsi l’isolement de la victime et son auto évincement du groupe, ici de la secte cinéma, … oui hein, parce ce que 80% des films raconte quoi ? des histoires dites d’amour et de violence à n’en plus finir qui la plupart ne font que renforcer et entériner les agressions sexistes et sexuelles, l’hétéronorme et sa morale suffocante, le droit pour les femmes de séduire jusqu’à 25 ans avec l’assurance de leur disparition des écrans après, celui de ne pas avoir de sexe en dehors d’un truc qui ressemble de près ou de loin au mariage, l’obligation du rêve d’amour parfait et sa fidélité en bandoulière en écho au prince charmant et à un cadavre sous verre. Et pour les hommes, la liberté des héros violents et populaires jusqu’à leur mort.
      Il est bien temps que ça bouge, sortons les couteaux et nos caméras :)

      [EDIT]
      Ah tiens, en écho à ce que j’écrivais ici sur le cadavre de la femme :
      https://madame.lefigaro.fr/celebrites/cinema/helene-frappat-judith-godreche-n-a-jamais-donne-son-consentement-et-

      Q : Tout cela remet aussi en question la tradition de l’artiste et de sa muse…

      Hélène Frappat : Laquelle s’ancre dans une mythologie très française issue du mouvement romantique, dans la société ultra-bourgeoise du XIXe siècle où tous les droits ont été retirés aux femmes. Cette période historique réactionnaire a mythifié le modèle de la muse, de l’éternel féminin, de la morte amoureuse, où l’on est face à une femme muette, objectifiée et littéralement valorisée en tant que cadavre.

      https://seenthis.net/messages/1041301

    • Existe-t-il un index des (nombreux) films où le pitch ressemble peu ou prou à des explications sur comment un adulte mâle va poser son empreinte sexuelle sur un·e mineur·e, ou une jeune femme ?
      Sentiment que dans les années 80/90 les Auteurs de la culture française, ces cinéastes et ces chanteurs s’étaient comme entendu pour nous noyer sous un flot de productions de ce type. #fictions_imposées

      Je renote ici Péril en la demeure 1984 https://seenthis.net/messages/1019184

      et Brainwashed - Le sexisme au cinéma
      https://seenthis.net/messages/1015789

  • « #Anatomie_d’une_chute » et la question de l’#interprétation du #récit

    « Vous ne contextualisez pas, vous délirez sur un détail ! »
    « Un roman n’est pas la vie, un auteur n’est pas un personnage ! »
    « Mais un auteur peut exprimer ses idées par ses personnages ! »

    Des bribes d’un cours de licence de lettres ? Des débats lors d’un colloque littéraire ? Non ! Il s’agit de certains échanges entre les personnages du film Anatomie d’une chute de Justine Triet, palme d’or du dernier Festival de Cannes, qui met en scène le procès de l’écrivaine Sandra Voyter, accusée d’avoir tué son mari Samuel.

    On pourrait penser que ces échanges sont irréalistes. Mais la littérature s’invite parfois dans des procès bien réels : dans Histoire de la violence, Edouard Louis relate, de manière autobiographique, un épisode traumatique (une agression physique et un viol). Lors du procès, son avocat a renvoyé, dans sa plaidoirie, au récit de l’écrivain, alors que l’avocate de l’accusé a déclaré qu’Edouard Louis « avait confondu son roman avec la réalité ». La procureure elle, a appelé à trouver une « vérité judiciaire » et non « littéraire ».

    La manière dont le film de Justine Triet traite la question du couple, du genre, de l’innocence et de la culpabilité a été abondamment commentée. Mais une autre question irrigue le film : celle de l’interprétation du récit littéraire (les deux protagonistes du couple étant, l’une écrivaine à succès, l’autre aspirant écrivain), notamment lorsque ce récit joue sur certaines marges troubles, entre fiction et non-fiction, représentation artistique et fidélité mimétique au réel et lorsqu’il se confronte à d’autres récits, qui ont leurs propres critères de cohérence, de validité, de recevabilité : le récit juridique, mais aussi le récit journalistique, le récit psychanalytique, le récit médical, le récit d’expert, etc.

    Chaque catégorie peut par ailleurs se décliner en une multitude de récits : les récits des avocats comme ceux des experts peuvent être diamétralement opposés, par exemple. Le passage d’une langue à l’autre dans le film – de l’anglais au français et vice-versa – nous fait d’ailleurs littéralement entendre cette polyphonie.

    L’autofiction, ou l’art de brouiller les limites entre fiction et réalité

    « What do you want to know ? » (« Que voulez-vous savoir ? ») demande, au tout début du film, Sandra à l’étudiante venue l’interroger. Elle veut savoir ce qui relève de la réalité et de la fiction dans les écrits de Sandra Voyter, et si l’écrivaine pense qu’on ne peut inventer, créer, qu’à partir de la réalité. Or la production littéraire de Sandra se situe dans un genre qu’on peut appeler l’autofiction.

    Le terme a été employé pour la première fois en 1977 par l’écrivain et critique Serge Doubrovsky (pour qualifier son récit, Fils). Il mêle ce qu’on pourrait croire a priori opposé : l’autobiographie et la fiction. L’autofiction est en effet un récit inspiré par la vie de l’autrice ou de l’auteur du récit, mais un récit qui se permet de romancer, d’imaginer, qui ne veut pas se plier aux critères de sincérité, d’authenticité, de conformité aux faits qu’on associe souvent à l’autobiographie traditionnelle (et au « pacte autobiographique » tel qu’il a été défini par Philippe Lejeune).

    Le terme autofiction a donné lieu à de multiples définitions et à de multiples critiques, comme l’a montré le chercheur Philippe Gasparini. Il n’est notamment pas aisé de le distinguer du roman autobiographique comme l’a résumé Sylvie Jouanny, on peut distinguer deux tendances : l’une, référentielle, qui repose sur l’homonymie entre narrateur/narratrice, auteur/autrice et personnage et qui considère que « l’autofiction est un roman qui traite de la réalité, fût-ce dans le recours à la fiction », l’autre, fictionnelle, qui défend « la fiction plus que l’autobiographie » et s’intéresse au travail de « fictionnalisation de soi » (cette fictionnalisation pouvant remettre en cause l’homonymie entre narrateur/narratrice, auteur/autrice et personnage).

    Dans Anatomie d’une chute, il est admis que Sandra Voyter écrit de l’autofiction en s’inspirant des éléments de sa vie (notamment l’accident de son fils, mais aussi ses relations avec son père). Lorsque l’étudiante, au début du film, essaie de distinguer ce qui est réel de ce qui est inventé, Sandra esquive et déplace le sujet de la conversation. Mais, tout au long du film, elle va devoir répondre aux questions de la police, de ses avocats, avant et pendant le procès.

    Elle va devoir parler d’elle, de ses livres, et chaque élément de son discours va être disséqué, chacun des mots prononcés (ou échappés, comme lorsque l’étudiante appelle l’accusée par son prénom durant le procès) va être analysé comme on pourrait le faire dans une explication de texte.
    « Alors, on va vraiment entrer dans un débat littéraire ? »

    C’est lorsqu’un des livres de Sandra est brandi au procès, malgré les protestations d’une des avocates de la défense (« On ne juge pas des livres, on juge des faits ») qu’on se retrouve au cœur de questions débattues dans le monde de la recherche et de la critique littéraires.

    Reprenons les échanges entre l’accusation et la défense et la manière dont ces débats incarnent différentes manières de lire l’œuvre littéraire.

    Les questions posées sont fondamentales dès qu’il s’agit d’interpréter une œuvre littéraire : qui parle ? (le personnage ou l’auteur/l’autrice ?) Peut-on comprendre le sens d’un extrait (d’un livre ou d’un enregistrement – celui de la dispute du couple –) sans le mettre en rapport avec un contexte plus large ? Qui décide du sens d’un texte (la personne qui produit le discours ? Celle qui le reçoit ?)

    L’accusation veut lire l’extrait d’un livre de Sandra Voyter, qui raconte les pensées d’un personnage qui éprouve le désir de tuer. L’accusation établit clairement un lien mimétique entre ce passage et la mort de Samuel : Sandra aurait préfiguré dans son roman son désir de tuer.

    Pour la défense, c’est inacceptable : « Vous ne contextualisez pas ! Vous délirez sur un détail » ! L’extrait n’est pas contextualisé, il ne s’agit que d’un personnage secondaire, qui d’ailleurs ne passe pas à l’acte. Même dans le régime du texte littéraire, il ne s’agit que d’un fantasme, pas d’un fait. La défense reproche à l’accusation de surinterpréter en faisant d’un passage secondaire le cœur du livre – ce à quoi l’accusation répond que la défense avait également relevé ce passage, ce qui voudrait dire qu’elle le considérait bien comme significatif.

    La défense insiste : il faut distinguer l’autrice du personnage. Le point de vue du personnage n’engage pas l’autrice. Il existe une différence entre le monde de la fiction (du personnage) et celui de la réalité (de l’autrice).

    L’accusation se justifie alors sur ce dernier point : « Les livres de Sandra Voyter font partie du procès, elle y met son existence, notamment son couple ». Les livres de l’accusée appartiennent au récit de soi, d’inspiration autobiographique, on peut donc faire cette adéquation entre personnage et autrice puisqu’il ne s’agit pas de fiction.

    Pour la défense, il ne s’agit pas d’autobiographie, mais d’autofiction, un genre qui se permet de réintroduire de la fiction dans l’écriture de soi. La défense essaie de ridiculiser la lecture de la littérature comme mimétique de la réalité (« Vous allez nous dire que Stephen King est un serial killer ? »), l’accusation la justifie (« La femme de Stephen King n’a pas été retrouvée morte ! »)
    La littérature ou le jeu avec les limites

    Par rapport au trouble suscité par le récit littéraire, l’enregistrement de la dispute entre Sandra et son mari semble pouvoir constituer un récit fiable. Mais en réalité cette dispute se révèle être, comme le dit l’avocat de la défense, un « document ambigu » tout aussi ambigu que le texte de Sandra Voyter, pour deux raisons.

    D’une part, comme le texte cité par l’accusation, l’enregistrement n’est qu’un extrait, qu’un moment de la relation entre deux personnes et ne peut représenter toute leur vie. Sandra Voyter le dit : l’enregistrement n’est pas la réalité, car il n’est qu’une partie de la réalité – tout comme elle dit au psychanalyste, joué par le metteur en scène Wajdi Mouawad, qui rapporte le récit de ses sessions avec Samuel : « Mais ce que vous dites n’est qu’une petite partie de la situation globale ». Il s’agit bien de leurs échanges, de leurs mots, de leurs voix, mais ce n’est pas eux – tous leurs êtres, la somme de leurs échanges, de leurs interactions, de leurs corps : on ne peut jamais saisir l’entièreté d’un être ni d’une relation.

    D’autre part, alors qu’on croit a priori, avec cet enregistrement, être à coup sûr dans le domaine de la réalité, des faits (et non de la fiction et de la représentation) on apprend, via l’avocat de la défense, que Samuel enregistrait des moments de sa vie et les retranscrivait, qu’il cherchait à faire de « l’autofiction » (le mot est prononcé) en s’inspirant de la méthode de son épouse. On pense ici à différentes productions de littérature contemporaine qui donnent une part de plus en plus importante à des documents matériels : Annie Ernaux, qui retranscrit son journal intime (dans Se perdre ou Je ne suis pas sortie de ma nuit), qui introduit des reproductions de photographies dans ses livres (tout comme Édouard Louis), Neige Sinno qui reproduit dans Triste Tigre les articles de presse parlant de son enfance et de l’arrestation de son beau-père pour viol.

    On pense plus généralement aux productions, qui se développent depuis les années 1960, que la chercheuse Marie-Jeanne Zenetti appelle, après l’écrivain Magnus Enzensberger, des factographies. Les factographies cherchent une nouvelle manière de dire le réel en captant des images, des sons, des discours. Elles peuvent se manifester formellement par des compilations de notes, des retranscriptions, des reproductions d’archives. Dans ces récits à l’« écriture enregistreuse », il s’agit de « jouer au document et avec le document » comme le dit Marie-Jeanne Zenetti.

    L’enregistrement fait par Samuel Voyter n’est-il pas aussi un objet littéraire ? La défense se demande ainsi si Samuel n’aurait pas provoqué la dispute pour avoir de la matière pour son livre. L’ordre traditionnel (la littérature qui vient après la vie, retranscrit la vie, représente la vie) est inversé : il y aurait d’abord la littérature (l’envie d’écrire, la mise en scène) et ensuite la vie. On retrouve les propos tenus par Sandra Voyter dans un ancien entretien : « Mon travail, c’est de brouiller les pistes pour que la fiction détruise le réel » et le commentaire des journalistes : « On a l’impression que ça vient de ses livres, qu’elle l’a déjà écrit ».

    Dernier récit et dernier doute du film : lorsque l’enfant du couple, Daniel, fait le récit de son trajet avec son père, pour emmener leur chien chez le vétérinaire. Il rapporte les propos de Samuel, qui aurait filé une métaphore entre l’état du chien et le sien, pour préparer son fils à sa mort prochaine. « Ce récit est extrêmement subjectif » déclare l’accusation. S’agit-il d’une interprétation ? D’une invention ? Ou Daniel se met-il lui aussi à pratiquer l’autofiction ?
    Anatomie d’une chute ou les mises en abyme du récit

    En filmant le public du procès, la réalisatrice met en abyme notre situation de spectatrices et spectateurs : nous regardons le public qui regarde le procès, ce public qui frémit à l’annonce d’un éventuel rebondissement – tout comme nous. Le film nous renvoie à nos attentes et nos projections sur le type de récit que nous avons envie de voir (ou d’entendre, ou de lire…)

    Ainsi, dans une émission de débat télévisé de deuxième partie de soirée représentée dans le film – sur laquelle tombe Sandra Voyter en zappant – la question de sa culpabilité ou de son innocence n’est plus liée aux faits, mais, plus cyniquement (ou d’un point de vue plus littéraire ?) à l’intérêt de l’un ou l’autre récit : « L’idée d’une écrivaine qui assassine son mari est tellement plus intéressante que celle d’un prof qui se suicide ».

    D’un côté, les émois potentiellement romanesques du couple, le lien dangereux entre fiction et non-fiction, de l’autre la mort banale d’un homme qui a échoué en tant qu’écrivain. La conclusion judiciaire du procès a l’air d’entériner le second récit (le suicide), puisque Sandra est acquittée, mais c’est bien le premier récit (la femme coupable) qui est interrogé et mis en scène. Parce que c’est ce que le public (le public du procès, le public du film) voulait voir ?

    « Je crois qu’il y a eu trop de mots dans ce procès et j’ai plus rien à dire », déclare Sandra Voyter aux journalistes à la sortie du tribunal. De fait, on parle beaucoup dans Anatomie d’une chute (nous avons pu commenter le film dans cet article en ne parlant quasiment que de dialogue verbal, sans mentionner les autres manifestations du langage cinématographique !) – jusqu’au silence final de Sandra : la multitude des récits n’aboutit pas à une vérité proclamée, mais à l’indicible, à l’invérifiable, à l’opacité (ce qui est devenu quasiment un topos romanesque). Se refuser à toute conclusion rassurante, est-ce une déconstruction du récit traditionnel… ou une variation sur un type de récit dont nous avons déjà l’habitude, un récit ouvert, un récit réflexif, un récit qui joue sur la mise en abyme de lui-même, bref le récit d’un film littéraire ?

    https://theconversation.com/anatomie-dune-chute-et-la-question-de-linterpretation-du-recit-2158

    #procès #justice #littérature #vérité #fiction #non-fiction #cohérence #validité #recevabilité #récit_juridique #polyphonie #réalité #autofiction #Serge_Doubrovsky #factographies

  • #ateliers #Solarpunk-UPLOAD : c’est parti !
    https://framablog.org/2024/01/16/ateliers-solarpunk-upload-cest-parti

    — De quoi ? Qu’est-ce que c’est que ce truc ? — Si vous avez raté le début, l’article qui explique le contexte et le cahier des charges de participant⋅es a été publié hier ici… Mais déjà les participations sont lancées sur … Lire la suite­­

    #Communs_culturels #UPLOAD #Ccompiègne #cours #étudiant⋅es #Fictions #LowTech #mastodon #UTC

  • L’Inexploré - Pierre Legendre
    https://www.youtube.com/watch?v=8zkdFbCeRLU

    Pierre Legendre, à l’écart du brouhaha médiatique et des idéologies à la mode, a tracé patiemment, sur plus de soixante ans, le chemin de l’anthropologie dogmatique. Il est revenu, en la maison qui l’a accueilli dans ses premières années d’étude des manuscrits médiévaux, l’École des chartes, pour livrer « à la jeunesse désireuse des lois » le suc de son labeur.

    Dans le droit fil de « De la Société comme texte » (2001) et en résonance avec ses conférences données au Japon en 2004 « Ce que l’Occident ne voit pas de l’Occident », dans un style dépouillé, Pierre Legendre découvre ce qui fait tenir debout, enlacés, l’humain et la société. Quel meilleur guide que Piero della Francesca pour ouvrir nos yeux à l’invisible ?

    https://arsdogmatica.com

    #chrétienté #anthropologie_dogmatique #langue #institution #civilisation #montage #scène #individu #personne #fiction #Piero_della_Francesca #principe_de_réalité #religion #ritualité #pacte_dogmatique #faille_institutionnelle #modernité #droit_naturel #droit_romain #occident #papauté #activisme_juridique #contrat #protestantisme #universalisme_politique #impératif_libéral #révolution_protestante #révolutions #Europe #narration_totémique #chorégraphie #logiques_contraires #tiers-terme

  • Opinion | Who Was the Real ‘Shaved Woman of Chartres’ ? - The New York Times
    https://www.nytimes.com/2023/11/25/opinion/simone-touseau-france-occupation.html

    Est-ce que la fiction peut tordre l’histoire quand elle s’appuie sur des faits réels ?

    The photograph, “The Shaved Woman of Chartres,” with the young Ms. Touseau at its center, was understood for a long time as a document of the brutal purges that took place during the liberation of France at the end of World War II. Extrajudicial punishments were carried out all over the country, including shaving the heads of women suspected of sleeping with the enemy.

    The truth was more complex. Historians were slow to take an interest in the wartime collaboration and resistance of women, but in the early 2000s, a groundbreaking work by Fabrice Virgili described how many women who were shaved in the purges were being punished not for their intimate relationships with Germans but for denunciations or working for the Germans.

    Eventually we got a clearer picture of Ms. Touseau, too. In 2011 two historians, Gérard Leray and Philippe Frétigné, established that she was a Nazi sympathizer before the war started. She scribbled swastikas in the pages of notebooks she kept as early as the mid-1930s, admired National Socialism and claimed that France “needs someone like Hitler.” Fluent in German, she worked as a translator for the occupying forces and became a member of the nationalist Parti Populaire Français. She was accused of denouncing four neighbors who were deported to the Mauthausen concentration camp, two of whom never returned. The crime, which would have been punishable by death, was not proved, but Mr. Leray told me that he is adamant that she played at least some part in it.

    This August a new, fictionalized portrait of Ms. Touseau was published in France, in the shape of a novel, “Vous Ne Connaissez Rien de Moi” (“You Know Nothing About Me”), by Julie Héraclès, which renders Ms. Touseau, renamed Grivise, as a woman scorned.

    In the novel Simone falls in love with Pierre, who is young and handsome and from a bourgeois family. He sexually assaults Simone, and when she falls pregnant, he abandons her to join the Resistance, leaving her to have an illegal abortion on her own.

    Simone’s desire for revenge drives her to start working as a translator for the Nazis. She begins a relationship with a German officer, Otto, then falls in love with him. After he is injured on the Eastern Front, she joins the Parti Populaire Français to get a transfer to Germany to be with him, with little consideration for the political implications.

    The Simone of the novel has a Jewish friend, lies to the Gestapo to help a member of the Resistance, is “revulsed” by the practice of reporting neighbors and gives food to a little Jewish girl — all “highly implausible facts,” Mr. Leray told me.

    It makes for gripping reading, and the novel was on numerous award lists and won the Stanislas Prize for best first novel. Critics praised it as impressive and audacious, and readers shared their enthusiasm for it — “a beautiful love story,” a “real immersion in Simone’s life,” a story “that shows us that people are never angels or demons but a tangle of good and bad,” several wrote in online reviews.

    But the book has also been the subject of criticism on the question of what fiction can allow itself when it comes to this part of history.

    Ms. Héraclès told me in a phone interview that she was surprised by the debate. Her agenda was not to redeem Ms. Touseau, she said, but “to explore the human condition” by trying to imagine “how a young woman can commit criminal acts.”

    The novel has an epigraph: “I’ve never seen a saint or a bastard. Nothing is all black and white; it’s the gray that wins. Men and their souls, it’s all the same.” But relegating Ms. Touseau to the role of a sentimental being buffeted by history does not enrich our understanding of her. It strips her of agency and impoverishes our sense of history at the same time.

    The shaved woman of Chartres was a driven, ideological woman whom painstaking historical scholarship had liberated from our simplistic understanding of her. At any given time, people are a tangle of good and bad, and it is the prerogative of fiction to mold bare facts for artistic ends. But now fiction has put her back in the limited, familiar role of sacrificial mother that she inhabited in Capa’s photo and the world’s imagination.

    Perhaps we prefer her there, rather than contemplating her and others’ complicity in evil.

    #Fiction #Ecriture #Chartre #Robert_Capa #Collaboration

  • Le féminisme ludique de Fifi Brindacier - Chroniques critiques
    http://www.zones-subversives.com/2022/07/le-feminisme-ludique-de-fifi-brindacier.html

    La traduction française de Fifi Brindacier propose une version édulcorée et assagie. « Une anarchiste en camisole de force », ironise Christina Heldner. La narration foisonnante se réduit à un pauvre petit récit d’aventures linéaires. La version française subit de nombreuses coupes. « Et de se demander, vraiment, quel intérêt pouvaient bien avoir ces livres dont on avait censuré toute la puissance, toute la liberté, tout le plaisir », interroge Christine Aventin. L’éditeur Hachette estime que la bonne moralité doit régner sur la littérature jeunesse. Il censure les passages dans lesquels Fifi manque de respect à l’autorité, mais aussi la créativité des histoires qu’elle invente. Ce qui révèle la dimension subversive et politique de la fiction.

    Fifi est devenue un personnage incontournable avec des adaptations pour la télé, le cinéma, la comédie musicale, le jeu vidéo, le musée ou le parc d’attractions. Mais le texte original semble le plus souvent oublié. Ce qui permet de lisser les aspects transgressifs du personnage. « Déminage idéologique, transformation de la loser en outsider, et ré-insertion dans les lois du marché », déplore Christine Aventin.

    Le personnage de Fifi est créé par Astrid Lindgren dans le cadre de la « Bibliothèque rose ». Les livres destinés à la jeunesse se distinguent entre ceux réservés aux garçons et ceux qui s’adressent aux filles. Mais Fifi remet en cause ce cadre conformiste. Fifi émerge donc dans la niche culturelle la plus mineure et la moins légitime : celle de l’édition pour enfants réservée aux filles. « Choisir la créativité comme mode d’action et faire des zones les plus dominées de la culture populaire un terrain privilégié de la lutte politique », propose Christine Aventin.

    https://cdn.kobo.com/book-images/300f7dc5-6aa5-48de-aa9e-f57d0909ca22/353/569/90/False/feminispunk-1.jpg

    #féminisme #fiction #littérature #livre

  • Oltre le sigle, la detenzione amministrativa si diffonde nelle procedure in frontiera e cancella il diritto di asilo ed i diritti di difesa

    1.Malgrado le pause indotte dal maltempo, continuano, e continueranno, gli arrivi dalla Tunisia e dalla Libia, e si avvicina il collasso del sistema di accoglienza già minato dai decreti sicurezza di Salvini e dal Decreto “Cutro” (legge n.50/2023). Il governo Meloni con un ennesimo decreto sicurezza, ma se ne attende un’altro per colpire i minori stranieri non accompagnati,” al fine di rendere più veloci i rimpatri”, cerca di raddoppiare i CPR e di creare di nuovi centri di detenzione amministrativa vicino ai luoghi di frontiera, meglio in località isolate, per le procedure accelerate destinate ai richiedenti asilo provenienti da paesi di origine “sicuri”. La legge 50 del 2023 (già definita impropriamente “Decreto Cutro”) prevede che il richiedente asilo, qualora sia proveniente da un Paese di origine sicuro, e sia entrato irregolarmente, possa essere trattenuto per 30 giorni, durante la procedura accelerata di esame della domanda di asilo presentata alla frontiera, al solo scopo di accertare il diritto ad entrare nel territorio dello Stato.

    Sul concetto di paese terzo “sicuro” non c’è ancora un accordo a livello europeo. Le conclusioni del Consiglio dei ministri dell’interno dell’Unione Europea riuniti a Lussembugo lo scorso 8 giugno sono state propagandate come una vittoria della linea tenuta dal governo Meloni proprio su questo punto, ma le previsioni della legge 50/2023, in materia di trattenimento ed espulsioni, non hanno ottenuto quella “copertura europea” che il governo italiano sperava. Per questo motivo sulle “scelte detentive” più recenti del governo Meloni con riferimento ai richiedenti asilo potrebbe intervenire prima la Commissione europea e poi la Corte di giustizia dell’Unione europea. Come sta già avvenendo per la previsione “manifesto”, di dubbia applicabilità, della garanzia finanziaria introdotta dalla legge 50 del 2023 e specificata dal Decreto legge 19 settembre 2023, n. 124, contenente Disposizioni urgenti in materia di politiche di coesione, per il rilancio dell’economia nelle aree del Mezzogiorno del Paese, nonche’ in materia di immigrazione. Una garanzia finanziaria che assieme ad altri requisiti, come la disponibilità di alloggio e documenti validi, potrebbe evitare il trattenimento amministrativo dei richiedenti asilo provenienti da paesi di origine sicuri. Secondo Amnesty International,“Si tratta di un provvedimento illegale. Non è pensabile che persone in fuga dal proprio paese possano disporre in Italia di un alloggio o di un conto in banca e quindi attivare una polizza fideiussoria. Subordinare la libertà delle persone richiedenti asilo a condizioni di fatto impraticabili configura una misura per porre coloro che arrivano in Italia automaticamente in detenzione. La detenzione automatica è arbitraria e vietata dal diritto internazionale”.

    Dunque, ciascun caso dovrà essere esaminato singolarmente, come adesso precisa la Commissione europea sull’ultimo “escamotage propagandistico” inventato dal Governo Meloni, la garanzia finanziaria che dovrebbero prestare (attraverso fideiussione) i richiedenti asilo provenienti da paesi di origine sicuri., Come se riuscissero ad avere immediatamente, subito dopo lo sbarco, la disponibilità finanziaria e i documenti di identità necessari per stipulare il contratto di fideiussione, Una norma manifesto, odiosa ma inapplicabile, dietro la quale si nascondono procedure accelerate che abbattono il diritto di asilo e rendono solo cartacee le garanzie di difesa, anche per il ricorso generalizzato alle videoconferenze, e per le difficoltà per i difensori, che vogliano davvero assolvere al loro ruolo, di ottenere tempestivamente la documentazione relativa al richiedente asilo che devono assistere in sede di convalida o per un ricorso contro la decisione di rigetto della domanda.

    2. Di fronte al fallimento delle politiche migratorie del governo Meloni, dopo l’annuncio, da parte dell’ennesimo Commissario all’emergenza, di un piano nazionale per la detenzione amministrativa, al fine di applicare “procedure accelerate in frontiera” in centri chiusi, dei richiedenti asilo, se provengono da paesi di origine definiti “sicuri”. si richiamano una serie di decreti ministeriali che hanno formato una apposita lista che non tiene conto della situazione attuale in gran parte dell’Africa, soprattutto nella fascia subsahariana, dopo lo scoppio della guerra civile in Sudan e il rovesciamento in Niger del governo sostenuto dai paesi occidentali. Non si hanno ancora notizie certe, invece, dei nuovi centri per i rimpatri (CPR) che si era annunciato sarebbero stati attivati in ogni regione italiana. Le resistenze delle amministrazioni locali, anche di destra, hanno evidentemente rallentato questo progetto dai costi enormi, per l’impianto e la gestione.

    I rimpatri con accompagnamento forzato nei primi sette mesi dell’anno sono stati soltanto 2.561 (+28,05%) rispetto ai 2.000 dello scorso anno. Nulla rispetto ad oltre 100.000 arrivi ed a oltre 70.000 richieste di asilo, conteggiati proprio il 15 agosto, quando il Viminale dà i suoi numeri, esibendo quando conviene le percentuali e lasciando nell’ombra i dati assoluti. Ed oggi i numeri sono ancora più elevati, si tratta non solo di numeri ma di persone, uomini, donne e bambini lasciati allo sbando dopo lo sbarco, che cercano soltanto di lasciare il nostro paese prima possibile. Per questo il primo CPR targato Piantedosi che si aprirà a breve potrebbe essere ubicato a Ventimiglia, vicino al confine tra Italia e Francia, mentre Svizzera ed Austria hanno già annunciato un inasprimento dei controlli di frontiera.

    La prima struttura detentiva entrata in attività lo scorso primo settembre, per dare applicazione, ancora chiamata “sperimentazione”, alle procedure accelerate in frontiera previste dal Decreto “Cutro”, è ubicata nell’area industriale tra i comuni confinanti di Pozzallo e Modica. dove da anni esiste un centro Hotspot, nella zona portuale, che opera spesso in modalità di “centro chiuso”, nel quale già da tempo è stata periodicamente limitata la libertà personale degli “ospiti”. Si tratta di una nuova struttura da 84 posti nella quale vengono rinchiusi per un mese coloro che provengono da paesi di origine definiti “sicuri”, prima del diniego sulla richiesta di protezione che si dà come scontato e del successivo tentativo di rimpatrio con accompagnamento forzato, sempre che i paesi di origine accettino la riammissione dei loro cittadini giunti irregolarmente in Italia. Le informazioni provenienti da fonti ufficiali non dicono molto, ma la natura detentiva della struttura e i suoi costi sono facilmente reperibili on line.

    In Sicilia si prevede anche l’apertura di “strutture di transito”, già appaltate, come quella che dovrebbe sorgere a Porto Empedocle, dove l’area di transito, che verrà ulteriormente potenziata, resta provvisoria, fino a quando non verrà realizzato l’hotspot a valle di contrada Caos a Porto Empedocle che sarà, come quello di Lampedusa, gestito dalla Croce Rossa. Altre “sezioni chiuse” per richiedenti asilo provenienti da paesi ritenuti “sicuri”, per cui si prevede un rimpatrio “veloce” potrebbero essere attivate nei centri Hotspot di Pozzallo e Lampedusa. Mentre i richiedenti asilo provenienti da paesi di origine “sicuri,” in caso di arrivi massicci e di indisponibilità di posti negli Hotspot, potrebbero finire anche nei centri di permanenza per i rimpatri, come i famigerati lager di Pian del Lago (Caltanissetta) e di Trapani (MIlo), da anni spazi di trattamenti disumani, di tentativi di fuga e di abusi sulle persone trattenute. Se non si tratta di annientamento fisico (Vernichtung), ma ci sono stati anche i morti, si può documentare in molti casi l’annientamento psichico degli “ospiti”, che dopo il diniego, in caso di mancato rimpatrio, potrebbero passare mesi su mesi rinchiusi in queste strutture, magari sotto psicofarmaci, come coloro che sono sottoposti al rimpatrio con accompagnamento forzato, tra i richiedenti asilo denegati che non abbiano fatto ricorso con effetto sospensivo o lo abbiano visto respingere.

    La normativa europea impone invece il rilascio delle persone trattenute nei centri di detenzione quando è evidente che non ci sono più prospettive di rimpatrio forzato nel paese di origine (Direttiva rimpatri 2008/115/CE, art.15.4), per la mancata collaborazione degli Stati di origine che non effettuano i riconoscimenti e non forniscono i documenti di viaggio.

    Altri “centri chiusi” potrebbero essere attivati a Messina (probabilmente nei locali del Centro di accoglienza ubicato all’interno della vecchia e fatiscente Caserma Gasparro) fantasiosamente denominato “CIPSI”, Centro di primo soccorso ed identificazione, ed a Catania, dove si sono recentemente sperimentate diverse strutture provvisorie, “tensostrutture”, nelle quali i potenziali richiedenti asilo, che diventano tali con la semplice manifestazione di volontà, anche prima della formalizzazione della domanda da parte delle autorità di polizia, sono stati trattenuti per giorni in condizioni di totale privazione della libertà personale, in assenza di convalida giurisdizionale.

    3. Il fallimento del sistema italiano dei centri di detenzione amministrativa è ormai documentato da anni, e sarà ancora più evidente con l’aumento dei termini di trattenimento fino a 18 mesi (12 per i richiedenti asilo).

    Con riguardo ai nuovi centri di detenzione per richiedenti asilo provenienti da paesi di origine “sicuri” non sembra eludibile una rigorosa verifica della legittimità del trattenimento in sede di convalida del giudice ordinario, e non del giudice di pace, come invece sembrerebbe prevedere la legge 50/2023 (ingiustamente definita ancora oggi “Decreto Cutro), trattandosi di richiedenti asilo che chiedono di fare valere un loro diritto fondamentale, e deve essere prevista una completa base legale con la indicazione precisa delle modalità di trattenimento -che ancora manca- conformi alla normativa europea (Direttiva procedure 2013/32/UE e Direttiva Accoglienza 2013/33/UE). Rimane a tale riguardo una grave violazione del principio di legalità in materia di misure detentive, che la Corte Costituzionale non ha ancora rilevato.

    In ogni caso il trattenimento amministrativo non può essere finalizzato esclusivamente al’esame della domanda di protezione, o per accertare il diritto all’ingresso nel territorio, come sembrerebbe affermare la legge 50/2023, perchè proprio nelle circostanze di limitazione della libertà personale che si riscontrano nei centri “chiusi” risulta più difficile avere contatti con organizzazioni che difendono i diritti umani e raccogliere prove per dimostrare la fondatezza della propria richiesta. Dal tenore della legge sembrerebbe che le strutture detentive riservate ai richiedenti asilo provenienti da paesi di origine ritenuti “sicuri” siano strutture extra-territoriali, come se le persone trattenute non avessero ancora fatto ingresso nel territorio nazionale, circostanza che legittimerebbe l’aggiramento dei principi costituzionali e delle Convenzioni internazionali. Si tratta invece di luoghi che non possono sottrarsi alla giurisdizione italiana, unionale e internazionale dove i diritti e le garanzie non possono essere riconosciuti solo sul piano formale per venire poi negati nelle prassi applicate dalle autorità di polizia. Dunque è il tempo delle denunce e dei ricorsi, mentre l’opinione pubblica sembra ancora rimanere ostaggio delle politiche della paura e dell’odio. Fondamentale l’accesso civico agli atti e la possibilità di ingresso di giornalisti ed operatori umanitari indipendenti, se occorre con gruppi di parlamentari, in tutti i centri in cui si pratica la detenzione amministrativa.

    4. Vanno comunque garantiti diritti di informazione ed accesso alle procedure ordinarie, e quindi nel sistema di centri aperti di accoglienza (CAS, SAI, CPSA) per tutti i richiedenti asilo che adducano a supporto della domanda gravi motivi di carattere personale, pure se provengono da paesi terzi ritenuti sicuri.

    L’ACNUR dopo una generale considerazione positiva delle procedure accelerate in frontiera, soprattuto nei casi in cui appare maggiormente probabile l’esito positivo della domanda di protezione, “Raccomanda, tuttavia, di incanalare in procedura di frontiera (con trattenimento) solo le domande di protezione internazionale che, in una fase iniziale di raccolta delle informazioni e registrazione, appaiano manifestamente infondate.
    In particolare, la domanda proposta dal richiedente proveniente da un Paese di origine sicuro non deve essere incanalata in tale iter quando lo stesso abbia invocato gravi motivi per ritenere che, nelle sue specifiche circostanze, il Paese non sia sicuro. Si sottolinea, a tal fine, la centralità di una fase iniziale di screening, volta a far emergere elementi utili alla categorizzazione delle domande (triaging) e alla conseguente individuazione della procedura più appropriata per ciascun caso”.

    I piani sui rimpatri “veloci” del governo Meloni non sono dunque applicabili su vasta scala, presentano caratteri fortemente discriminatori, ed avranno costi umani ed economici insostenibili. Se si spera negli accordi bilaterali e nel sostegno di Frontex, si dovrà comunque fare i conti con i ricorsi ai Tribunali in Italia ed in Europa, e con un ulteriore aggravamento delle crisi di legittimazione dei governi africani che accettano lo scambio della propria gente con una manciata di denaro.

    Una particolare attenzione dovrà rivolgersi alle persone vulnerabili per età, salute, genere e orientamento sessuale, ma anche per le ferite o per le torture subite durante il transito in Libia o in Tunisia. Una serie di condizioni che potrebbero di per sè legittimare il riconoscimento di uno status di protezione, a prescindere del paese di origine dal quale si è partiti.

    In ogni caso, dopo le decisioni di diniego da parte delle Commissioni territoriali, che potrebbero essere orientate da indirizzi politici, dovranno garantirsi tempi di esecuzione delle misure di allontanamento forzato che non cancellino la portata sostanziale del diritto al ricorso.

    Gli accordi bilaterali, come quelli con l’Egitto e la Tunisia, che prevedono procedure “semplificate”di rimpatrio, magari in aeroporto, senza la compiuta identificazione individuale,e senza un diritto effettivo di ricorso, vanno sospesi.

    Il provvedimento giudiziale che convalida la proroga del trattenimento deve contenere l’accertamento della sussistenza delle ragioni addotte a sostegno della richiesta (Cass. n. 5200/2023). Non si può continuare oltre con le decisioni di rigetto”fotocopia” o con le espulsioni ed i respingimenti con accompagnamento forzato adottati prima della convalida giurisdizionale. I termini di trattenimento amministrativo in assenza di una convalida giurisdizionale sono inderogabili. Come si rilevava al tempo dei centri di prima accoglienza e soccorso (CPSA) e dei Centri Hotspot, lo stesso vale oggi per i “centri di transito” e per i centri per richiedenti asilo provenienti da paesi di origine ritenuti “sicuri”, nelle more delle procedure accelerate in frontiera.

    Occorre ricordare che la Corte Europea dei diritti dell’Uomo, proprio con riferimento a cittadini tunisini, nel dicembre 2016, nel caso Khlaifia e altri c. Italia, e poi ancora quest’anno, nel caso J.A. c.Italia, ha condannato il nostro Paese per violazione, tra gli altri motivi, dell’articolo 5 della Convenzione per aver trattenuto per un periodo prolungato persone appena arrivate in Italia, senza una base legale e senza la possibilità di ricorso. Con riferimento alle nuove strutture detentive che il governo Meloni si accinge ad aprire, resta da verificare il rispetto dei principi affermati dalla Corte di Strasburgo e dei diritti fondamentali, a partire dal diritto di asilo costituzionale, sanciti dalla Costituzione italiana. Sarà anche l’occasione per verificare la legittimità costituzionale di molte disposizioni del decreto “Cutro” che, fin dalla entrata in vigore del provvedimento, hanno evidenziato sotto questo profilo gravi criticità, prima ancora che riuscissero ad avere concreta applicazione.

    https://www.a-dif.org/2023/09/26/oltre-le-sigle-la-detenzione-amministrativa-si-diffonde-nelle-procedure-in-fr

    #rétention #détention_administrative #frontières #migrations #asile #réfugiés #CPR #Italie #procédures_accélérées #pays_sûrs #pays_d'origine_sûrs #decret_Cutro #decreto_Cutro #garantie_financière #5000_EUR #5000_euros #decreto_Sud #Modica #Sicile #Porto_Empedocle #Messina #centres_fermés

    • Turning the Exception into the Rule

      Assessing Italy’s New Border Procedure

      Having promised its electorate a strong stance towards immigration, in January 2023 Italy’s new government adopted a reform that heavily curtailed immigrant rights to speed up return procedures. However, between September and October, several judgments issued by the Catania Tribunal declared it in violation of EU law (https://www.asgi.it/wp-content/uploads/2023/09/NON-CONVALIDA1.pdf). In particular, when requested to review the detention of asylum applicants, the judges found the new Italian asylum border procedure contrary to the Procedures Directive 2013/32 (https://eur-lex.europa.eu/legal-content/en/TXT/?uri=celex%3A32013L0032) and the Reception Conditions Directive 2013/33 (https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=celex%3A32013L0033).

      The judgments led to a backlash, with PM Meloni and other members of the government accusing them of being politically motivated. One minister even published a video on social media showing a judge of the Catania Tribunal taking part in a pro-migrant rights demonstration in 2018, thus accusing her of partiality.

      Such political attacks (https://www.associazionemagistrati.it/doc/4037/lanm-sul-caso-catania.htm) must always be condemned, for they pose a significant threat to judicial independence and thus Italian democracy. Yet, they are particularly unwarranted given that the Catania Tribunal’s judges were correct in finding the new Italian border procedures incompatible with EU law.

      Detention as the Rule for Asylum Seekers

      The 2023 reform (https://www.normattiva.it/atto/caricaDettaglioAtto?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2023-03-10&atto.codice) of Italy’s asylum system included the introduction of an accelerated border procedure which allows for the detention (https://www.questionegiustizia.it/articolo/la-bestia-tentacolare) of asylum seekers „exclusively to determine the applicant’s right to enter the territory“ (Art. 6 bis, Law Decree 142/2015).

      This new procedure is applied when an asylum application is made „at the border or in a transit zone“ by a person who either a) evaded or attempted to evade border controls, or b) hails from a safe country of origin, which were determined by a Ministerial Decree in 2019 (https://www.esteri.it/mae/resource/doc/2019/10/decreto_paesi_sicuri.pdf), later updated in 2023 (https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2023/03/25/23A01952/sg).

      Another Ministerial Decree (https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2019/09/07/19A05525/sg) identified the „border and transit zones“ where the border procedure can be used, without providing a clear definition of these concepts nor explaining the distinction between them. Instead, it lists 16 provinces where the procedure applies (Trieste, Gorizia, Cosenza, Matera, Taranto, Lecce, Brindisi, Caltanissetta, Ragusa, Syracuse, Catania, Messina, Trapani, Agrigento, Cagliari, and South Sardinia).

      Finally, the law specifies that asylum seekers are to be detained unless they submit a passport (or equivalent document) or provide a financial guarantee of € 4,938.00 (https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2023/09/21/23A05308/sg). This amount was allegedly calculated with reference to the cost of suitable accommodation, repatriation, and minimum means of subsistence. The sum can be provided through a bank guarantee or an insurance policy, but solely by the asylum seekers themselves, not by third parties.

      [voir aussi: https://seenthis.net/messages/1018093]

      Following a recent increase in migrant flows from Tunisia, the Italian authorities extensively relied on the new border procedure to detain several Tunisian citizens on the ground that they come from a “safe country of origin” (https://www.questionegiustizia.it/rivista/articolo/la-protezione-dei-cittadini-stranieri-provenienti-da-cd-paesi-sic). However, on September 29 (https://www.asgi.it/wp-content/uploads/2023/09/NON-CONVALIDA1.pdf) and October 8 (https://www.questionegiustizia.it/data/doc/3650/2023-tribunale-catania-8-10-2023-non-convalida-oscurato.pdf), the Catania Tribunal issued a series of similar rulings in which it annulled the detention orders because they were in conflict with EU law. In the following sections, we analyze and expand the three main arguments advanced by the Tribunal, showing that they were largely correct in their findings that the new Italian border procedure exceeds what is permissible under EU law.

      The ‘Border’ under EU Law

      The first argument made by the Catania Tribunal regards the correct initiation of a border procedure. According to the judge, the procedure was not applied „at the border“, as understood by EU law (Art. 43 Directive 2013/32). Indeed, the applicants arrived and made their asylum application in Lampedusa (province of Agrigento) but the detention was ordered several days later in Pozzallo (Ragusa province) when the applicants were no longer „at the border.“ Because the border procedure (involving detention) was utilized at a later stage and in a different place, it was not appropriately initiated.

      In support of the Catania Tribunal’s conclusion, we should recall that Article 43 the Procedures Directive requires a spatial and temporal link between the border crossing and the activation of the border procedure (https://eur-lex.europa.eu/legal-content/en/TXT/?uri=celex%3A32013L0032). Although the Directive does not define the terms „border“ or „transit zone“, it clearly distinguishes these areas from other „locations in the proximity of the border or transit zone“ (Article 43(3)), where applicants can be exceptionally accommodated but never detained. The distinction between the border and other places in its vicinity suggests that the procedure provided for in Art. 43 can only be applied in narrow and well-defined areas or in pre-identified transit zones (such as the Hungarian transit zones examined by the Court in FMS and Commission v Hungary).

      Other EU law instruments support this narrow interpretation of the “border” concept. Regulation 1931/2006 defines a „border area“ as a delimited space within 30 km from the Member State’s border. In the Affum case, the Court also called for a narrow interpretation of the spatial concept of „border.“ There, the Court clarified that the Return Directive allows Member States to apply a simplified return procedure at their external borders in order to „ensure that third-country nationals do not enter [their] territory“ (a purpose which resonates with that of Art. 8(3)(c) Reception Directive). However, such a procedure can only be applied if there is a „direct temporal and spatial link with the crossing of the border“, i.e. „at the time of the irregular crossing of the border or near that border after it has been crossed“ (par. 72).

      By contrast, under the Italian accelerated procedure, the border has blurred contours. The new procedure, relying on the “#fiction_of_non-entry” (https://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/STUD/2020/654201/EPRS_STU(2020)654201_EN.pdf), can be carried out not only „at“ the border and in transit zones or in areas territorially „close“ to the border, but in entire provinces in southern and northern Italy. This far exceeds the narrow definition of border or border area derived from EU law.

      The Regulation of Detention under EU Law

      The second argument of the Catania Tribunal turned on the lack of motivation for the detention orders. The applicants were detained solely because they were from Tunisia, did not submit a valid passport nor pay the bail. As such, the orders lacked any case-by-case assessment of the applicant’s individual circumstances, and they did not apply the proportionality and necessity principles, as prescribed by EU law under art. 8(2) Directive 2013/33 and art. 52 and 6 of the Charter.

      Indeed, even if a border procedure is correctly initiated, Italy’s new provisions on the detention of asylum seekers do not meet the requirements of Article 8(2) of the Reception Directive. According to the CJEU, this authorizes asylum seekers‘ detention “only where, following an assessment carried out on a case-by-case basis, that is necessary” and where other less coercive measures cannot be applied effectively. (ex multis, FMS, par. 258; VL, par. 102; M.A., par. 82).

      Italy’s norms contain no reference to the principles of necessity and proportionality nor to the need for a case-by-case assessment (Art. 6 bis D. Lgs. 142/2015). In so far as the Italian provisions allow for an automatic application of detention whenever the border procedure is activated, they are incompatible with Art. 8(2) of the Reception Directive. In light of the primacy and direct effect of EU law, Italian public authorities are required to give direct application to the principles of proportionality and necessity and to carry out an individual assessment, even if not directly foreseen by Italian law.
      The Possibility of Bail

      Finally, the Catania Tribunal argued that the financial guarantee to avoid detention is contrary to EU law. The Tribunal observed that the guarantee is not used as an alternative measure to detention, but rather as an ‚administrative requirement‘ that, if not complied with, leads to detention. According to the judge, this renders it incompatible with Articles 8 and 9 of the Reception Directive 2013/33 which “preclude[s] an applicant for international protection being placed in detention on the sole ground that he or she is unable to provide for his or her needs.”(at 256).

      As rightly noted by Savino, EU law does not prohibit the use of financial guarantees; to the contrary, Article 8(4) mentions it as a legitimate alternative to detention. However, both scholars and the European Asylum Agency maintain that the guarantee shall be proportionate to the means of the applicant in order to avoid discriminatory effects. The EUAA Guidelines on asylum seeker detention further specify that:

      “the amount should be tailored to individual circumstances, and therefore be reasonable given the particular situation of asylum seekers, and not so high as to lead to discrimination against persons with limited funds. Any failure to be able to do so resulting in detention (or its continuation), would suggest that the system is arbitrary.”

      It is doubtful whether the financial guarantee in its current legal design can be considered an “effective” alternative to detention (Art.8(4)). Its high amount (€4,938.00) and procedural requirements make it practically impossible for asylum applicants to rely upon it. In particular, they are required to deposit the sum upon arrival, through a bank guarantee or an insurance policy, which are concretely impossible for them to obtain. Moreover, the financial guarantee is the only alternative to detention provided by the new Italian law, while migrants detained under other circumstances can rely upon more alternative measures.

      Taken together, it means that the measure is designed in a discriminatory way and is neither effective nor proportionate.

      Concluding Thoughts

      Several aspects of the new law foresee a system in which the border procedure is systematically applied, rendering detention the rule, instead of the exception. This follows from the geographic expansion of the “borders areas and transit zones”, the automatic (indiscriminate) application of the safe country of origin concept, the lack of a proportionality assessment, and the practical impossibility of applying the only alternative measure foreseen.

      More and more Italian courts are annulling detention orders, on the grounds that the Italian border procedure is in conflict with EU law. While the Italian government considers this an unacceptable form of judicial activism, this blog has shown that the judges’ concerns are well-founded.

      Member States’ courts are “EU law judges”, they must give precedence to EU law and general principles and set aside any incompatible national law. The recent personal attacks against some of the judges show that the government struggles to come to terms with this thick form of judicial review which takes seriously European and human rights standards.

      https://verfassungsblog.de/turning-the-exception-into-the-rule
      #exception #justice #détention #rétention #détention_administrative #décret #procédure_accélérée #garantie_financière #5000_EUR #chantage #caution #decreto_Cutro #décret_Cutro #5000_euros #tribunal_de_Catane #procédure_frontière #directive_procédures #zone_de_transit #proximité #distance #zone_frontalière #directive_retour #frontière_extérieure #fiction_de_non-entrée

      –-

      La partie sur les frontières ajouté à cette métaliste autour de la Création de zones frontalières (au lieu de lignes de frontière) en vue de refoulements :
      https://seenthis.net/messages/795053

  • Immigration : une autre voie est possible, nécessaire, urgente

    « Ne pas accueillir », et « empêcher les gens d’arriver » : à l’heure où, par la voix de #Gérald_Darmanin, la France s’illustre encore dans le #repli, le #rejet et le manquement à ses obligations éthiques et légales les plus élémentaire, il apparait urgent de déverrouiller un débat trop longtemps confisqué. Quelques réflexions alternatives sur la « #misère_du_monde » et son « #accueil », parce qu’on ne peut plus se rendre complice de cinq mille morts chaque année.

    « Ne pas accueillir », et « empêcher les gens d’arriver » : à l’heure où, par la voix de Gérald Darmanin, la France s’illustre encore dans le repli, le rejet et le manquement à ses obligations éthiques et légales les plus élémentaires, et alors que s’annonce l’examen parlementaire d’un projet de loi plus brutal et liberticide que jamais, signé par le même Darmanin, il apparait urgent de déverrouiller un débat trop longtemps confisqué. C’est ce à quoi s’efforce Pierre Tevanian dans le texte qui suit. Dans la foulée de son livre « On ne peut pas accueillir toute la misère du monde ». En finir avec une sentence de mort->, co-signé l’an passé avec Jean-Charles Stevens, et à l’invitation de la revue Respect, qui publie le 21 septembre 2023 un numéro intitulé « Bienvenue » et intégralement consacré à l’accueil des migrants, Pierre Tevanian a répondu à la question suivante : de quelle politique alternative avons-nous besoin ? De son article intitulé « Repenser l’accueil, oser l’égalité », le texte qui suit reprend les grandes lignes, en les développant et en les prolongeant.

    *

    Lorsqu’en juillet 2022 nous mettions sous presse notre ouvrage, « On ne peut pas accueillir toute la misère du monde ». En finir avec une sentence de mort, l’association Missing Migrants recensait 23801 morts en méditerranée pour la décennie passée, ainsi que 797 morts aux frontières Nord et Est de la « forteresse Europe ». Un an plus tard, l’hécatombe s’élève à 20 089 morts en méditerranée et 1052 au Nord et à l’Est [Chiffres produits le 20 septembre 2023]. Soit 5340 vies de plus en un an, fauchées par une politique concertée qui, adossée à ce simple dicton sur la « misère du monde », s’arroge insolemment le monopole de la « raison » et de la « responsabilité ».

    C’est de là qu’il faut partir, et là qu’il faut toujours revenir, lorsqu’on parle d’ « immigration » et de « politique d’immigration ». C’est à ce « reste » consenti de la « gestion » technocratique des « flux migratoires » que nous revenons constamment, opiniâtrement, dans notre livre, afin de ré-humaniser un débat public que cinq décennies de démagogie extrémiste – mais aussi de démagogie gouvernante – ont tragiquement déshumanisé.

    L’urgence est là, si l’on se demande quelle politique alternative doit être inventée, et tout le reste en découle. Il s’agit de libérer notre capacité de penser, mais aussi celle de sentir, de ressentir, d’être affectés, si longtemps verrouillées, intimidées, médusées par le matraquage de ce dicton et de son semblant d’évidence. Ici comme en d’autres domaines (les choix économiques néolibéraux, le démantèlement des services publics et des droits sociaux), le premier geste salutaire, celui qui détermine tous les autres mais nécessite sans doute le principal effort, est un geste d’émancipation, d’empowerment citoyen, de sortie du mortifère « TINA » : « There Is No Alternative ».

    Le reste suivra. L’intelligence collective relèvera les défis, une fois libérée par ce préalable nécessaire que l’on nomme le courage politique. La question fatidique, ultime, « assassine » ou se voulant telle : « Mais que proposez-vous ? », trouvera alors mille réponses, infiniment plus « réalistes » et « rationnelles » que l’actuel « pantomime » de raison et de réalisme auquel se livrent nos gouvernants. Si on lit attentivement notre livre, chaque étape de notre propos critique contient en germe, ou « en négatif », des éléments « propositionnels », des pistes, voire un « programme » alternatif tout à fait réalisable. On se contentera ici d’en signaler quelques-uns – en suivant l’ordre de notre critique, mot à mot, du sinistre dicton : « nous » - « ne pouvons pas » - « accueillir » - « toute » - « la misère du monde ».

    Déconstruire le « nous », oser le « je ».

    Tout commence par là. Se re-subjectiver, diraient les philosophes, c’est-à-dire, concrètement : renouer avec sa capacité à penser et agir, et pour cela s’extraire de ce « on » tellement commode pour s’éviter de penser (« on sait bien que ») mais aussi s’éviter de répondre de ses choix (en diluant sa responsabilité dans un « nous » national). Assumer le « je », c’est accepter de partir de cette émotion face à ces milliers de vies fauchées, qui ne peut pas ne pas nous étreindre et nous hanter, si du moins nous arrêtons de l’étouffer à coup de petites phrases.

    C’est aussi se ressouvenir et se ré-emparer de notre capacité de penser, au sens fort : prendre le temps de l’information, de la lecture, de la discussion, de la rencontre aussi avec les concernés – cette « immigration » qui se compose de personnes humaines. C’est enfin, bien entendu, nourrir la réflexion, l’éclairer en partant du réel plutôt que des fantasmes et phobies d’invasion, et pour cela valoriser (médiatiquement, politiquement, culturellement) la somme considérable de travaux scientifiques (historiques, sociologiques, démographiques, économiques, géographiques [Lire l’Atlas des migrations édité en 2023 par Migreurop.]) qui tous, depuis des décennies, démentent formellement ces fantasmagories.

    Inventer un autre « nous », c’est abandonner ce « nous national » que critique notre livre, ce « nous » qui solidarise artificiellement exploiteurs et exploités, racistes et antiracistes, tout en excluant d’office une autre partie de la population : les résidents étrangers. Et lui substituer un « nous citoyen » beaucoup plus inclusif – inclusif notamment, pour commencer, lorsqu’il s’agit de débattre publiquement, et de « composer des panels » de participants au débat : la dispute sur l’immigration ne peut se faire sans les immigré·e·s, comme celle sur la condition féminine ne peut se faire sans les femmes.

    Ce nouveau « nous » devra toutefois être exclusif lui aussi, excluant et intolérant à sa manière – simplement pas avec les mêmes. Car rien de solidement et durablement positif et inclusif ne pourra se construire sans un moment « négatif » assumé de rejet d’une certaine composante de la « nation française », pour le moment « entendue », « comprise », excusée et cajolée au-delà de toute décence : celle qui exprime de plus en plus ouvertement et violemment son racisme, en agressant des migrant·e·s, en menaçant des élu·e·s, en incendiant leurs domiciles. Si déjà l’autorité de l’État se manifestait davantage pour soutenir les forces politiques, les collectifs citoyens, les élus locaux qui « accueillent », et réprimer celles qui les en empêchent en semant une véritable terreur, un grand pas serait fait.

    Reconsidérer notre « impuissance »… et notre puissance.

    Nous ne « pouvons » pas accueillir, nous dit-on, ou nous ne le pouvons plus. L’alternative, ici encore, consisterait à revenir au réel, et à l’assumer publiquement – et en premier lieu médiatiquement. La France est la seconde puissance économique européenne, la sixième puissance économique du monde, et l’un des pays au monde – et même en Europe – qui « accueille », en proportion de sa population totale, le moins de réfugié·e·s ou d’étranger·e·s. Parmi des dizaines de chiffres que nous citons, celui-ci est éloquent : 86% des émigrant·e·s de la planète trouvent refuge dans un pays « en développement ». Ou celui-ci : seuls 6,3% des personnes déplacées trouvent refuge dans un pays de l’Union européenne [Ces chiffres, comme les suivants, sont cités et référencés dans notre livre, « On ne peut pas accueillir toute la misère du monde ». En finir avec une sentence de mort, op. cit.].

    Reconsidérer notre puissance, c’est aussi, on l’a vu, se rendre attentif au potentiel déjà existant : publiciser les initiatives locales de centres d’accueil ou de solidarités plus informelles, dont il est remarquable qu’elles sont rarement le fait de personnes particulièrement riches. C’est aussi défendre cette « puissance d’accueil » quand elle est menacée par des campagnes d’extrême droite, la valoriser au lieu de la réprimer. C’est donc aussi, très concrètement, abroger l’infâme « délit de solidarité » au nom duquel on a persécuté Cédric Herrou et tant d’autres. Aucun prétexte ne tient pour maintenir ce dispositif « performatif » (qui « déclare » l’accueil impossible, par l’interdit, afin de le rendre impossible, dans les faits). « Filières mafieuses », sur-exploitation des travailleurs sans-papiers, « marchands de sommeil » : tous ces fléaux sociaux pourraient parfaitement être combattus avec un arsenal légal délesté de ce sinistre « délit de solidarité » : le Droit du travail, le Droit du logement, et plus largement tout l’appareil pénal qui réprime déjà toute forme de violence, d’extorsion et d’abus de faiblesse.

    Repenser l’accueil, oser l’égalité.

    Si notre livre combat le rejet et valorise la solidarité, il critique pourtant la notion d’accueil ou celle d’hospitalité, telle qu’elle est mobilisée dans notre débat public. Pour une raison principalement : en entretenant la confusion entre le territoire national et la sphère domestique, le paradigme de l’hospitalité encourage les paniques sociales les plus irrationnelles (à commencer par le sentiment d’ « invasion »), mais aussi les régressions autoritaires les plus nocives (ce fameux « On est chez nous ! », qui assimile les étranger·e·s, fussent-ils ou elles titulaires d’un logement qui leur est propre, d’un bail ou d’un titre de propriété, à des intrus qui nous placent en situation de « légitime défense »). Ce qui est ainsi évacué du débat, c’est ni plus ni moins qu’un principe constitutionnel : le principe d’égalité de traitement de toutes et tous sur le territoire d’une république démocratique. Plusieurs dispositifs légaux, ici encore, seraient à abroger, parce qu’ils dérogent à ce principe d’égalité : la « double peine » , les « emplois réservés » – sans parler de la citoyenneté elle-même, qui gagnerait à être, comme dans la majorité des pays européens, ouvertes au moins partiellement aux résident·e·s étranger·e·s.

    Enfin, bien en deçà de ces mesures tout à fait réalisables, une urgence s’impose : avant de se demander si l’on va « accueillir », on pourrait commencer par laisser tranquilles les nouveaux arrivants. À défaut de les « loger chez soi », arrêter au moins de les déloger, partout où, avec leurs propres forces, à la sueur de leur front, ils ou elles élisent domicile – y compris quand il s’agit de simples tentes, cabanons et autres campements de fortune.

    Repenser le « tout », assumer les droits indivisibles

    Là encore la première des priorités, celle qui rend possible la suite, serait une pédagogie politique, et avant cela l’arrêt de la démagogie. Car là encore tout est connu, établi et documenté par des décennies de travaux, enquêtes, rapports, publiés par des laboratoires de recherche, des institutions internationales – et même des parlementaires de droite [Nous citons dans notre ouvrage ces différents rapports.].

    Il suffirait donc que ce savoir soit publicisé et utilisé pour éclairer le débat, en lieu et place de l’obscurantisme d’État qui fait qu’actuellement, des ministres continuent de mobiliser des fictions (le risque d’invasion et de submersion, le « coût de l’immigration », mais aussi ses effets « criminogènes ») que même les élus de leurs propres majorités démentent lorsqu’ils s’attèlent à un rapport parlementaire sur l’état des connaissances en la matière. Nous l’avons déjà dit : à l’échelle de la planète, seules 6,3% des personnes déplacées parviennent aux « portes de l’Europe » – et encore ce calcul n’inclut-il pas la plus radicale des « misères du monde », celle qui tue ou cloue sur place des populations, sans possibilité aucune de se déplacer. Cette vérité devrait suffire, si l’on osait la dire, pour congédier toutes les psychoses sur une supposée « totalité » miséreuse qui déferlerait « chez nous ».

    À l’opposé de cette « totalité » factice, prétendument « à nous portes », il y a lieu de repenser, assumer et revendiquer, sur un autre mode, et là encore à rebours de ce qui se pratique actuellement, une forme de « totalité » : celle qui sous-tend l’universalité et l’indivisibilité des droits humains, et du principe d’égalité de traitement : « tout » arrivant, on doit le reconnaître, a droit de bénéficier des mêmes protections, qu’il soit chrétien, juif ou musulman, que sa peau soit claire ou foncée, qu’il vienne d’Ukraine ou d’Afghanistan. Le droit d’asile, les dispositifs d’accueil d’urgence, les droits des femmes, les droits de l’enfant, le droit de vivre en famille, les droits sociaux, et au-delà l’ensemble du Droit déjà existant (rappelons-le !), ne doit plus souffrir une application à géométries variables.

    Il s’agit en l’occurrence de rompre, au-delà des quatre décennies de « lepénisation » qui ont infesté notre débat public, avec une tradition centenaire de discrimination institutionnelle : cette « pensée d’État » qui a toujours classé, hiérarchisé et « favorisé » certaines « populations » au détriment d’autres, toujours suivant les deux mêmes critères : le profit économique (ou plus précisément le marché de l’emploi et les besoins changeants du patronat) et la phobie raciste (certaines « cultures » étant déclarées moins « proches » et « assimilables » que d’autres, voire franchement « menaçantes »).

    Respecter la « misère du monde », reconnaître sa richesse.

    Il n’est pas question, bien sûr, de nier la situation de malheur, parfois extrême, qui est à l’origine d’une partie importante des migrations internationales, en particulier quand on fuit les persécutions, les guerres, les guerres civiles ou les catastrophes écologiques. Le problème réside dans le fait de réduire des personnes à cette appellation abstraite déshumanisante, essentialisante et réifiante : « misère du monde », en niant le fait que les migrant·e·s, y compris les plus « misérables », arrivent avec leurs carences sans doute, leurs traumas, leurs cicatrices, mais aussi avec leur rage de vivre, leur créativité, leur force de travail, bref : leur puissance. Loin de se réduire à une situation vécue, dont précisément ils et elles cherchent à s’arracher, ce sont de potentiels producteurs de richesses, en tant que travailleurs et travailleuses, cotisant·e·s et consommateurs·trices. Loin d’être seulement des corps souffrants à prendre en charge, ils et elles sont aussi, par exemple, des médecins et des aides-soignant·es, des auxiliaires de vie, des assistantes maternelles, et plus largement des travailleurs et des travailleuses du care – qui viennent donc, eux-mêmes et elles-mêmes, pour de vrai, accueillir et prendre en charge « notre misère ». Et cela d’une manière tout à fait avantageuse pour « nous », puisqu’ils et elles arrivent jeunes, en âge de travailler, déjà formé·es, et se retrouvent le plus souvent sous-payé·es par rapport aux standards nationaux.

    Là encore, la solution se manifeste d’elle-même dès lors que le problème est bien posé : il y a dans ladite « misère du monde » une richesse humaine, économique notamment mais pas seulement, qu’il serait intéressant de cultiver et associer au lieu de la saboter ou l’épuiser par le harcèlement policier, les dédales administratifs et la surexploitation. L’une des mises en pratique concrète de ce virage politique serait bien sûr une opération de régularisation massive des sans-papiers, permettant (nous sommes là encore en terrain connu, éprouvé et documenté) de soustraire les concerné·e·s des « sous-sols » de l’emploi « pour sans-papiers », véritable « délocalisation sur place », et de leur donner accès aux étages officiels de la vie économique, ainsi qu’au Droit du travail qui le régit.

    Il y a enfin, encore et toujours, ce travail de pédagogie à accomplir, qui nécessite simplement du courage politique : populariser le consensus scientifique existant depuis des décennies, quelles que soit les périodes ou les espaces (états-unien, européen, français, régional), concernant l’impact de l’immigration sur l’activité et la croissance économique, l’emploi et les salaires des autochtones, l’équilibre des finances publiques, bref : la vie économique au sens large. Que ces études soient l’oeuvre d’institutions internationales ou de laboratoires de recherche, elles n’ont cessé de démontrer que « le coût de l’immigration » est tout sauf avéré, que les nouveaux arrivant·e·s constituent davantage une aubaine qu’une charge, et qu’on pourrait donc aussi bien parler de « la jeunesse du monde » ou de « la puissance du monde » que de sa « misère ».

    Redevenir moraux, enfin.

    Le mot a mauvaise presse, où que l’on se trouve sur l’échiquier politique, et l’on devrait s’en étonner. On devrait même s’en inquiéter, surtout lorsque, comme dans ce « débat sur l’immigration », il est question, ni plus ni moins que de vies et de morts. Les ricanements et les postures viriles devraient s’incliner – ou nous devrions les forcer à s’incliner – devant la prise en considération de l’autre, qui constitue ce que l’on nomme la morale, l’éthique ou tout simplement notre humanité. Car s’il est à l’évidence louable de refuser de « faire la morale » à des adultes consentants sur des questions d’identité sexuelle ou de sexualité qui n’engagent qu’elles ou eux, sans nuire à autrui, il n’en va pas de même lorsque c’est la vie des autres qui est en jeu. Bref : l’interdit de plus en plus impérieux qui prévaut dans nos débats sur l’immigration, celui de « ne pas culpabiliser » l’électeur lepéniste, ne saurait être l’impératif catégorique ultime d’une démocratie saine.

    Pour le dire autrement, au-delà de la « misère » que les migrant·e·s cherchent à fuir, et de la « puissance » qu’ils ou elles injectent dans la vie économique, lesdit·es migrant·e·s sont une infinité d’autres choses : des sujets sociaux à part entière, doté·e·s d’une culture au sens le plus large du terme, et d’une personnalité, d’une créativité, irréductible à toute appellation expéditive et englobante (aussi bien « misère » que « richesse », aussi bien « charge » que « ressource »). Et s’il n’est pas inutile de rappeler tout le potentiel économique, toute l’énergie et « l’agentivité » de ces arrivant·e·s, afin de congédier les fictions anxiogènes sur « l’invasion » ou « le coût de l’immigration », il importe aussi et surtout de dénoncer l’égoïsme sordide de tous les questionnements focalisés sur les coûts et les avantages – et d’assumer plutôt un questionnement éthique. Car une société ne se fonde pas seulement sur des intérêts à défendre, mais aussi sur des principes à honorer – et il en va de même de toute subjectivité individuelle.

    Le réalisme dont se réclament volontiers nos gouvernants exige en somme que l’on prenne en compte aussi cette réalité-là : nous ne vivons pas seulement de pain, d’eau et de profit matériel, mais aussi de valeurs que nous sommes fiers d’incarner et qui nous permettent de nous regarder dans une glace. Personne ne peut ignorer durablement ces exigences morales sans finir par le payer, sous une forme ou une autre, par une inexpugnable honte. Et s’il est précisément honteux, inacceptable aux yeux de tous, de refuser des soins aux enfants, aux vieillards, aux malades ou aux handicapé·e·s en invoquant leur manque de « productivité » et de « rentabilité », il devrait être tout aussi inacceptable de le faire lorsque lesdit·es enfants, vieillards, malades ou handicapé·e·s viennent d’ailleurs – sauf à sombrer dans la plus simple, brutale et abjecte inhumanité.

    https://blogs.mediapart.fr/pierre-tevanian/blog/220923/immigration-une-autre-voie-est-possible-necessaire-urgente

    #complicité #Pierre_Tevanian #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #migrations #réfugiés #asile #déshumanisation #There_is_no_alternative (#TINA) #alternative #courage_politique #intelligence_collective #raison #réalisme #re-subjectivation #émotion #fantasmes #phobie #invasion #fantasmagorie #nationalisme #résidents_étrangers #nous_citoyen #racisme #xénophobie #impuissance #puissance #puissance_d’accueil #délit_de_solidarité #solidarité #extrême_droite #performativité #égalité #hospitalité #paniques_sociales #principe_d'égalité #double_peine #emplois_réservés #citoyenneté #hébergement #logement #pédagogie_politique #fictions #obscurantisme_d'Etat #droits_humains #égalité_de_traitement #lepénisation #débat_public #discrimination_institutionnelle #discriminations #déshumanisation #richesse #régularisation #sans-papiers #économie #morale #éthique #humanité #agentivité #potentialité_économique #valeurs
    #ressources_pédagogiques

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    • « On ne peut pas accueillir toute la misère du monde » : la vraie histoire de la citation de #Michel_Rocard reprise par #Macron

      Le président de la République a cité, dimanche 24 septembre, la célèbre phrase de Rocard. L’occasion de revenir sur une déclaration à laquelle on a souvent fait dire ce qu’elle ne disait pas.

      C’est à la fois une des phrases les plus célèbres du débat politique français, mais aussi l’une des plus méconnues. Justifiant la politique de fermeté vis-à-vis des migrants arrivés à Lampedusa, Emmanuel Macron a déclaré hier : « On a un modèle social généreux, et on ne peut pas accueillir toute la misère du monde. »

      https://twitter.com/TF1Info/status/1706009131448983961

      La citation est un emprunt à la déclaration de Michel Rocard. La droite aime à citer cette phrase, ce qui est une manière de justifier une politique de fermeté en matière d’immigration en citant un homme de gauche. Tandis que la gauche a souvent tendance à ajouter que le Premier ministre de François Mitterrand avait ajouté un volet d’humanité en rappelant que la France devait aussi « prendre sa part » (ou « s’y efforcer »), et donc que sa formule, loin d’être un appel à la fermeture des frontières, était en réalité un appel à l’accueil.

      En réalité, comme Libération l’avait expliqué en détail il y a quelques années, les choses sont moins simples. Contrairement à ce que la gauche aime dire, cette déclaration de Michel Rocard n’était, initialement, pas vraiment humaniste, et était invoquée par le responsable socialiste pour justifier la politique draconienne vis-à-vis de l’immigration du gouvernement d’alors.

      On retrouve la trame de cette formule dans un discours prononcé le 6 juin 1989 à l’Assemblée nationale (page 1 797 du document) : « Il y a, en effet, dans le monde trop de drames, de pauvreté, de famine pour que l’Europe et la France puissent accueillir tous ceux que la misère pousse vers elles », déclare ce jour-là Michel Rocard, avant d’ajouter qu’il faut « résister à cette poussée constante ». Il n’est nullement question alors d’un quelconque devoir de prendre part à cet afflux.

      A l’époque, le climat est tendu sur la question de l’immigration. L’exclusion d’un collège de Creil de trois élèves musulmanes ayant refusé d’ôter leur foulard a provoqué, en octobre 1989, un vif débat national. En décembre, le FN écrase la législative partielle de Dreux. Les discours sur l’immigration se durcissent. Celui du PS n’échappe pas à la règle, d’autant que la gauche se voit reprocher d’être revenue sur les lois Pasqua. François Mitterrand déclare dans une interview à Europe 1 et Antenne 2, le 10 décembre 1989, que le « seuil de tolérance » des Français à l’égard des étrangers « a été atteint dans les années 70 ». Se met en place le discours qui va être celui du PS pendant quelques années. D’un côté, une volonté affichée de promouvoir l’intégration des immigrés réguliers en place (c’est en décembre 1989 qu’est institué le Haut Conseil à l’intégration). De l’autre côté, un objectif affirmé de verrouiller les flux migratoires, avec un accent mis sur la lutte contre l’immigration clandestine, mais pas seulement. Dans la même interview à France 2 et Europe 1, Mitterrand explique ainsi que le chiffre de « 4 100 000 à 4 200 000 cartes de séjour » atteint selon lui en 1982 ne doit, « autant que possible, pas être dépassé ».

      C’est dans ce contexte, le 3 décembre 1989, que Michel Rocard prononce la formule qui restera dans les mémoires. Michel Rocard est l’invité d’Anne Sinclair dans l’émission Sept sur sept sur TF1. Il précise la nouvelle position de la France en matière d’immigration et le moins qu’on puisse dire c’est que ses propos sont musclés. La France se limitera au respect des conventions de Genève, point final, explique-t-il : « Nous ne pouvons pas héberger toute la misère du monde. La France doit rester ce qu’elle est, une terre d’asile politique […] mais pas plus. […] Il faut savoir qu’en 1988 nous avons refoulé à nos frontières 66 000 personnes. 66 000 personnes refoulées aux frontières ! A quoi s’ajoutent une dizaine de milliers d’expulsions du territoire national. Et je m’attends à ce que pour l’année 1989 les chiffres soient un peu plus forts. »

      Après l’émission, Michel Rocard décline la formule à l’envi lors de ses discours les mois suivants, pour justifier de sa politique d’immigration. Le 13 décembre 1989, il déclare ainsi à l’Assemblée nationale : « Puisque, comme je l’ai dit, comme je le répète, même si comme vous je le regrette, notre pays ne peut accueillir et soulager toute la misère du monde, il nous faut prendre les moyens que cela implique. » Et précise les moyens en question : « Renforcement nécessaire des contrôles aux frontières », et « mobilisation de moyens sans précédent pour lutter contre une utilisation abusive de la procédure de demande d’asile politique ».

      Il la répète quelques jours plus tard, le 7 janvier 1990, devant des socialistes d’origine maghrébine réunis à l’occasion d’un colloque sur l’immigration. « J’ai beaucoup réfléchi avant d’assumer cette formule. Il m’a semblé que mon devoir était de l’assumer complètement. Aujourd’hui je le dis clairement. La France n’est plus, ne peut plus être, une terre d’immigration nouvelle. Je l’ai déjà dit et je le réaffirme, quelque généreux qu’on soit, nous ne pouvons accueillir toute la misère du monde », martèle-t-il devant un parterre d’élus pas très convaincus. Avant de conclure : « Le temps de l’accueil de main-d’œuvre étrangère relevant de solutions plus ou moins temporaires est donc désormais révolu. » Le reportage de France 2 consacré au colloque insiste sur le silence qui s’installe alors dans l’auditoire, avec un gros plan sur le visage dubitatif de Georges Morin, en charge du Maghreb pour le PS et animateur des débats.

      Le Premier ministre recycle son élément de langage dans un discours sur la politique d’immigration et d’intégration prononcé dans l’hémicycle le 22 mai 1990 : « Nous ne pouvons pas – hélas – soulager toutes les misères de la planète. » Le gouvernement reprendra aussi à son compte la petite phrase rocardienne, à l’image de Lionel Stoléru, secrétaire d’Etat auprès du Premier ministre chargé du Plan, qui, face à Jean-Marie Le Pen sur la Cinq le 5 décembre 1989, déclare : « Le Premier ministre a dit une phrase simple, qui est qu’on ne peut pas héberger toute la misère du monde, ce qui veut dire que les frontières de la France ne sont pas une passoire et que quel que soit notre désir et le désir de beaucoup d’êtres humains de venir nous ne pouvons pas les accueillir tous. Le problème de l’immigration, c’est essentiellement ceux qui sont déjà là… » On retrouve le double axe de la politique que revendique le gouvernement : effort pour intégrer les immigrés qui sont présents et limitation au maximum de toute nouvelle immigration.

      Il faudra attendre le 4 juillet 1993 pour une rectification tardive de Michel Rocard, en réaction à la politique anti-immigration de Charles Pasqua, raconte Thomas Deltombe, auteur d’un essai sur l’islamophobie dans les médias, dans un article du Monde diplomatique : « Laissez-moi lui ajouter son complément, à cette phrase », déclare alors Rocard dans Sept sur sept. « Je maintiens que la France ne peut pas accueillir toute la misère du monde. La part qu’elle en a, elle prend la responsabilité de la traiter le mieux possible. »

      Trois ans plus tard, dans une tribune publiée dans le Monde du 24 août 1996 sous le titre « La part de la France », l’ex-Premier ministre assure que sa formule a été amputée et qu’elle s’accompagnait à l’époque d’un « [la France] doit en prendre fidèlement sa part ». Ce qu’il répète dans les pages de Libé en 2009, affirmant ainsi que sa pensée avait été « séparée de son contexte, tronquée, mutilée » et mise au service d’une idéologie « xénophobe ». Pourtant, cette seconde partie — censée contrebalancer la fermeté de la première — reste introuvable dans les archives, comme le pointait Rue89 en 2009. Une collaboratrice de Michel Rocard avait alors déclaré à la journaliste : « On ne saura jamais ce qu’il a vraiment dit. Lui se souvient l’avoir dit. En tout cas, dans son esprit, c’est ce qu’il voulait dire. Mais il n’y a plus de trace. On a cherché aussi, beaucoup de gens ont cherché mais on n’a rien. »

      Quelques années plus tard, en 2013, le chroniqueur de France Inter Thomas Legrand (désormais à Libération) a reposé la question à Michel Rocard, qui a alors assuré avoir retrouvé le texte d’un discours prononcé en novembre 1989 lors du cinquantenaire de la Cimade (Comité inter-mouvement auprès des évacués) . C’est là, affirme le Premier ministre, que la phrase aurait été prononcée. Voici ce que Rocard dit avoir déclaré : « La France ne peut pas accueillir toute la misère du monde, raison de plus pour qu’elle traite décemment la part qu’elle ne peut pas ne pas prendre. » Sauf que le verbatim de son discours n’a jamais été publié. Le site Vie publique ne donne qu’un résumé très sommaire de son intervention (« mise en cause du détournement du droit d’asile et importance de la rigueur dans l’admission des réfugiés »).

      Mais que ces mots aient été, ou pas, prononcés, devant la Cimade, ne change rien au fait qu’entre 1989 et 1990, la phrase a bien été assénée par Michel Rocard sans cette seconde partie, comme une justification de sa fermeté vis-à-vis de l’immigration. Et non comme un encouragement à l’accueil des immigrés.

      https://www.liberation.fr/checknews/on-ne-peut-pas-accueillir-toute-la-misere-du-monde-la-vraie-histoire-de-l
      #Emmanuel_Macron

  • La #propriété_foncière, une fiction occidentale

    Dans la région de la #Volta, la #propriété du #sol n’existe pas, la terre n’est pas l’objet de transactions marchandes mais de #partages. D’où vient alors que, dans nos sociétés, nous considérions comme parfaitement légitime ce droit à s’approprier une partie du territoire ?

    #Danouta_Liberski-Bagnoud propose ici un ouvrage d’anthropologie qui entend produire une réflexion générale sur ce que l’on a pris l’habitude d’appeler en sciences sociales, que ce soit en géographie, en anthropologie générale ou en sociologie, « l’#habiter », notion qui renvoie à la façon dont les sociétés se rapportent à l’espace et y composent un monde. Cette notion permet d’éviter toute forme de caractérisation trop précise du rapport des êtres humains à leur lieu de vie.

    On comprend assez vite que ce qui intéresse l’auteure est de mettre en question la centralité et l’universalité de l’#appropriation_privative et des fonctionnements de #marché qui se sont imposées au monde entier à partir des pays industrialisés façonnés par les pratiques commerçantes. Bien qu’elle s’appuie sur les données ethnologiques recueillies sur son terrain, la #région_de_la_Volta (fleuve qui traverse le Burkina-Faso, le Ghana, le Mali, le Bénin, la Côte d’Ivoire et le Togo), l’auteure propose une réflexion large sur la propriété foncière et, plus généralement, sur le rapport que les sociétés humaines entretiennent avec la terre.

    L’essentiel de sa thèse consiste à contester à la fois les institutions internationales dans leur effort pour imposer la #propriétarisation des #terres au nom d’une conception occidentalo-centrée du #développement, et ceux qui parmi les anthropologues ont pu chercher des formes de propriété dans des communautés humaines où ce concept n’a, en réalité, aucune signification. Elle nous invite ainsi, par la comparaison des pratiques, à une réflexion sur nos tendances ethnocentriques et à penser d’autres types de rapport avec la terre que le rapport propriétaire.

    L’ordre dévastateur du marché

    L’auteure montre que les perspectives de #développement_économique par la propriétarisation et la #marchandisation du #foncier telles qu’elles ont pu être portées par les institutions internationales comme la #Banque_mondiale, loin d’aboutir aux perspectives d’amélioration souhaitées, ont conduit plutôt à une forme de « #deshabitation du monde » :

    "Le forçage en terre africaine de la #propriété_privée (autrefois dans les pas de la colonisation, aujourd’hui dans ceux de l’#accaparement_des_terres, de l’#agro-business et de la #spéculation) emporte avec lui toute la violence du rapport déterritorialisé au sol qu’édicte le concept même de propriété privée." (p. 144)

    On peut faire remonter les racines de l’idéologie qui justifie ces politiques à la période moderne en Europe avec #John_Locke qui développa une nouvelle conception de la propriété, les physiocrates qui firent de la terre la source de la richesse et enfin avec le développement de l’#économie_capitaliste qui achève de constituer la terre en une « simple marchandise » (p. 49).

    Dans ce cadre, la thèse de l’anthropologue Alain Testart fait notamment l’objet d’une longue discussion. Celui-ci entendait montrer, contre la croyance défendue par Morgan, par exemple, dans l’existence d’un #communisme_originel, que la plupart des sociétés traditionnelles connaissaient des formes d’appropriation privative et d’aliénation des terres. L’auteure montre, au contraire, que le concept même de propriété est absent des terrains qui sont les siens et qu’interpréter l’habiter des populations de l’aire voltaïque sous le prisme de la propriété privée revient à trahir et à travestir la façon dont elles vivent et parlent de leur rapport à l’espace et à la terre. En réalité, « il ne fait aucun doute que le rapport au sol d’une communauté villageoise [de cette région] est fondé sur le #partage (et le don) de la terre et l’interdit de la vendre » (p. 189). Aussi, face au « forçage du concept moderne de propriété privée » (p. 111), qui est largement le fait d’une approche occidentalo-centrée, l’auteure propose de faire entendre la voix alternative des sociétés voltaïques.

    Le conflit des fictions fondatrices

    Plus généralement, l’auteure reproche à bien des anthropologues d’avoir tendance à projeter des représentations qui leur appartiennent sur les sociétés qu’ils étudient. Pensons aux notions d’animisme ou de perspectivisme qui sont appliquées aux sociétés non européennes, alors même que ces notions ne sont pas endogènes. Y compris les anthropologues qui discutent et relativisent les catégories occidentales comme l’opposition nature-culture continuent de leur accorder un rôle structurant, quand ils cherchent, dans les sociétés non européennes, la façon dont celles-ci se dessinent d’une tout autre manière.

    Au contraire, une approche comparatiste qui englobe nos représentations « conduit au ras des mots et des gestes, dans le détail des pratiques rituelles et ordinaires […] permet le décentrement épistémologique à l’encontre de la métaphysique occidentale » (p. 94). Il s’agit de revenir aux modes d’habiter pour ce qu’ils sont en les comparant aux nôtres, mais sans jamais les confondre, afin de ne pas en biaiser l’analyse par l’usage de concepts qui leur seraient extérieurs et les feraient voir à partir de fictions fondatrices qui ne sont pas les leurs.

    Dans ce cadre méthodologique, le droit de propriété privée foncière relève, selon l’auteure, des fictions juridiques fondatrices proprement occidentales qui ont été importées dans les pays africains avec la colonisation. Or ceux qui voient la terre comme quelque chose qui serait disponible à l’appropriation privative n’ont pas conscience « qu’il s’agit d’une fiction, bien étrange en réalité, car de toute évidence, un terrain n’est pas un objet qui circule, mais un espace indéménageable » (p. 153). Une telle fiction permet de faire comme s’il était possible de séparer un pan de territoire de l’ensemble auquel il appartient, et de le faire circuler par l’échange marchand. Or « la #fiction_économique de la terre marchandise, source de profits financiers, ainsi que la #fiction_juridique d’une terre comme bien privatisable qui est venue la renforcer et la relayer, font assurément figure d’étrangeté hors de la matrice symbolique qui les a engendrées » (p. 260).

    L’existence des fictions juridiques fondatrices manifeste le fait que dans toutes les sociétés « la réalité succombe pour être reconstruite de façon légale » (p. 142). Ainsi « l’agir rituel façonne la réalité, il la (re)construit d’une façon légale, bref, il l’institue » (p. 142). Le monde du rite, comme le monde légal fait « comme si » la réalité était le décalque fidèle de la représentation que l’on s’en fait, alors qu’elle n’en est que l’ombre projetée. Or, comme Polanyi l’a déjà montré, la propriété privée de la terre est une fiction fondatrice des sociétés de marché, mais n’a rien d’universel. À l’inverse, les sociétés de l’aire voltaïque disposent de leurs propres fictions pour déterminer leur rapport à la terre ; or « rares sont les études sur le foncier qui ne recourent pas à des modèles, des théories et des concepts forgés dans l’histoire sédimentée des sociétés occidentales pour analyser les ‘pratiques’ du Sud, en les détachant des systèmes de pensée qui les pénètrent » (p. 210).

    La souveraineté d’une terre inappropriable

    Aussi l’auteure reproche-t-elle à beaucoup d’anthropologues qui ont travaillé sur les sociétés africaines d’avoir projeté des représentations fabriquées en occident sur les sociétés qu’ils étudiaient et aux institutions internationales d’imposer comme une vérité universelle ce qui n’est qu’une fabrication particulière.

    Pour contrer ces tendances théoriques et politiques, l’auteure se concentre sur la figure des « #gardiens_de_la_Terre » qui sont des dignitaires dont le rôle est de délimiter et d’attribuer des terrains aux familles. Du fait du pouvoir qui est le leur, certains ont voulu décrire cette institution dans le cadre des fictions juridiques européo-centrées en les présentant comme des souverains modernes ou des propriétaires éminents à l’image des seigneurs médiévaux. Face à cela, Danouta Liberski-Bagnoud montre que ces « gardiens de la Terre » n’en sont ni les propriétaires ni les souverains, ils sont, en réalité, garants de son #inappropriabilité et, ce faisant, sont au service de sa #souveraineté propre :

    "Dans les sociétés voltaïques […], les hommes n’exercent aucune souveraineté sur la Terre, mais ils sont les sujets de la souveraineté que la Terre exerce sur eux. La Terre n’appartient à personne d’autre qu’à elle-même, nul organe supérieur ne la commande, sa souveraineté ni ne se délègue ni ne se partage entièrement. Cette fiction que construisent les rites et les mythes fonde le régime de partage de la terre. Partage éphémère, non inscrit dans la durée d’un rapport de force, qui tient la durée d’une vie humaine, et répond ainsi à un principe d’#équité, car il empêche toute entreprise qui viserait à l’accumulation de portions de terre, au détriment du reste de la collectivité." (p. 321)

    Cependant, il faut se garder de faire de la Terre une souveraine au sens occidental d’une personnalité juridique qui pourrait imposer sa volonté en dernière instance, parce que ce n’est pas une personne.

    La Terre n’est ni une personne ni un bien (p. 285). Dans les sociétés voltaïques, la Terre est la source intarissable de la vie dans laquelle toute vie doit trouver sa place, et c’est en ce sens qu’elle exerce son pouvoir sur les hommes. La Terre apparaît comme l’instance qui anime le rapport aux espaces qu’elle contient : le village, la brousse, les lieux sacrés, la délimitation de nouveaux espaces voués à la culture sont autant de lieux qui ne peuvent exister qu’avec l’accord de la terre. Le rôle des « gardiens de la Terre » est alors d’assurer l’#harmonie entre l’ordre de la Terre et ceux qui veulent y trouver place. La Terre, dans ce cadre, ne saurait être un bien, elle « n’appartient qu’à elle-même » et son inappropriabilité apparaît comme « la condition d’un mode de l’habiter en commun » (p. 374-375).

    Cette #représentation éloignée de la fiction juridique d’une terre envisagée comme un bien séparable du territoire auquel elle appartient dépend de « la fiction rituelle qui construit la terre comme si elle était la figure de l’autorité suprême, garante du noyau des interdits fondamentaux qui permettent aux sociétés de tenir ensemble » (p. 327-328). En ce sens, la Terre, conçue comme une instance, supporte, ordonne et fait vivre le corps commun de la société et doit être distinguée de la terre conçue comme un simple fonds ; la deuxième est incluse, dépend et ne peut être comprise sans la première. Cette distinction permet ainsi d’opérer un retour critique sur notre civilisation qui aurait ainsi oublié le souci de la Terre dans des fictions qui poussent au contraire à des processus qui favorisent la #déshabitation.

    Le geste théorique comparatiste qu’opère Danouta Liberski-Bagnoud permet de prendre un peu de distance à l’égard de nos représentations en nous montrant qu’il peut exister des rapports à la terre sans propriété privée. Ces autres formes de l’habiter produisent d’autres manières de s’approprier la terre non captatrices et ouvertes sur le #commun. Ce faisant, le geste théorique opéré dans l’ouvrage permet de réfléchir, sous un angle anthropologique, à la notion de fiction juridique beaucoup travaillée en droit, en exhibant ce que nos institutions contiennent d’artifices à la fois factices et producteurs de réalité sociale. Il met ainsi en évidence ce que Castoriadis avait nommé l’institution imaginaire des sociétés. Sur ce plan l’ouvrage, dont bien des formulations sont très évocatrices, revêt toute sa pertinence. Il permet d’ouvrir les horizons d’un autre rapport possible à la Terre sans pour autant laisser croire que les sociétés voltaïques seraient plus authentiques ou plus proches de la nature. Elles entretiennent seulement un rapport autre à la nature qui n’a pas besoin du mythe de la #domination du monde et des choses et qui ne la réduit pas à un ensemble de ressources utiles à exploiter. Le grand intérêt de l’ouvrage réside dans l’usage spéculatif qui est fait de la comparaison étroitement menée entre le rapport occidental à une terre de plus en plus déshabitée avec les formes de l’habiter des peuples de la Volta. Il y a, certes, un risque d’idéalisation, mais, à l’issue de la lecture, on se dit qu’à l’aune des résultats spéculatifs qu’il permet d’obtenir, il mérite d’être couru.

    https://laviedesidees.fr/Liberski-Bagnoud-souverainete-terre
    #livre

    • La Souveraineté de la Terre. Une leçon africaine sur l’habiter

      Les sociétés industrielles ne peuvent plus aujourd’hui s’ériger en modèle de développement. Avant même de détruire, pour l’ensemble des peuples, les équilibres environnementaux, elles se sont engagées dans une forme de déshabitation du monde qui compromet le maintien des formes humanisées de la vie. Sur cette question fondamentale, les systèmes de pensée qui ont fleuri au Sud du Sahara nous apportent un éclairage indispensable – et des pistes de réflexion. Ils nous offrent une leçon précieuse sur une notion marginalisée dans le Droit occidental, mais centrale dans ces systèmes  : l’inappropriable.
      La Terre y est en effet placée hors de tout commerce. Envisagée comme une instance tierce, libre et souveraine, garante des interdits fondamentaux, elle n’appartient qu’à elle-même. Forgée au creuset du rite, cette conception organise toute la vie de la communauté et le partage du sol. Elle est par là même contraire à nos fictions juridiques et économiques qui permettent d’agir comme si la terre était une marchandise circulant entre propriétaires privés, et qui ont pour effet de nous déterritorialiser. Aussi, elle permet un autre mode d’habiter le monde. Cet ouvrage entend montrer quelques voies offertes par des sociétés africaines pour repenser le rapport à la Terre et redonner dès lors un futur aux générations à venir.

      https://www.seuil.com/ouvrage/la-souverainete-de-la-terre-danouta-liberski-bagnoud/9782021515572

  • La propriété foncière, une #fiction occidentale
    https://laviedesidees.fr/Liberski-Bagnoud-souverainete-terre

    Dans la région de la Volta, la propriété du sol n’existe pas, la terre n’est pas l’objet de transactions marchandes mais de partages. D’où vient alors que, dans nos sociétés, nous considérions comme parfaitement légitime ce droit à s’approprier une partie du territoire ? À propos de : Danouta Liberski-Bagnoud, La souveraineté de la terre. Une leçon africaine sur l’habiter, Seuil

    #Philosophie #propriété
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/202306_terre.docx
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/20230621_terre.pdf
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/20230621_terre.docx

  • La #France si tous les glaciers venaient à fondre !


    https://i.imgur.com/JOt8Vmm.jpg

    La carte poursuit un scénario fictif mais elle saisit la gorge : face au réchauffement climatique, bien des lieux, même sous des scénarios optimistes, seront bousculés, surement noyés.

    https://twitter.com/DamDeville/status/1669951766819946496

    #cartographie #visualisation #changement_climatique #scénario #scénario_fictif #fiction

    ping @visionscarto

  • Les distractions d’un réplicant - Jeu de Paume
    https://jeudepaume.org/palm/les-distractions-d-un-replicant-blade-runner

    Que se passe-t-il toutefois quand nous songeons à l’alliage entre l’humain et la machine ? À un âge où les questions relatives à l’intelligence artificielle, associée ou pas à des corps automatisés, soulèvent toujours plus de problèmes liés à l’organisation d’un commun au quotidien, le cinéma de science-fiction offre parfois des aperçus suggestifs sur le surgissement de la distraction dans un agencement homme-machine. C’est notamment le cas dans Blade Runner (1982) de Ridley Scott, adapté du roman de Philip K. Dick, Les androïdes rêvent-ils de moutons électriques ? (1968). Dans ce film, les « réplicants » sont des robots physiquement très ressemblants aux humains, conçus par Eldon Tyrell. Tyrell est le seul à pouvoir les reprogrammer pour qu’ils aient une vie plus longue que les quatre ans d’existence qu’il leur a attribués. Pourquoi cela ? Pour éviter que les réplicants, utilisés pour des travaux extrêmement durs dans de lointaines colonies martiennes, s’humanisent, et en s’humanisant possiblement se retournent contre leur créateur. Ce qu’ils feront une fois revenus sur Terre, et sans que Tyrell n’ait pu leur accorder davantage d’années à vivre.

    Trouvaille issue d’une recherche largement inspirée par ce seen :

    https://seenthis.net/messages/1003832

    #xenobots #replicant #blade_runner #Philip_K._Dick #fictions

    • Tu as aussi cette référence :-)

      Réplicateurs (Stargate) — Wikipédia
      https://fr.wikipedia.org/wiki/R%C3%A9plicateurs_(Stargate)

      Les Réplicateurs sont au départ présents sous la forme de robots ressemblant à des crabes mécaniques à quatre pattes. Ces crabes sont construits uniquement à partir de blocs élémentaires métalliques dont les dimensions sont de l’ordre du centimètre. Ils tirent leur nom du fait qu’ils se nourrissent de tout ce qu’ils trouvent pour se répliquer (métaux par exemple). Cela fait qu’ils sont capables de se reproduire très rapidement. Contrairement aux êtres vivants organiques, ils assimilent les propriétés du matériau qu’ils mangent sans le transformer : un Réplicateur « répliqué » à partir d’un alliage ferreux peut donc être corrodé par l’eau de mer. Certains évoluent en un stade supérieur. Ils ressemblent à de grands insectes ailés telles les reines dans une ruche. Ils remplissent alors les fonctions de commandement et de réplication mais de façon plus intense. Les Réplicateurs leur obéissent et acheminent vers eux des matériaux pour la réplication, de même qu’ils les protègent coûte que coûte.

  • Bernard Noël au micro d’Alain Veinstein, en 2010, dans l’émission « Du jour au lendemain », à l’occasion de la parution du tome 1 de ses oeuvres rassemblées chez P. O. L. : « Les Plumes d’Éros » — recueil de textes sur l’amour (composés sur plus de 50 ans). https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/les-nuits-de-france-culture/bernard-noel-les-plumes-d-eros-est-une-tranche-d-oeuvres-et-une-tranche- #Bernard_Noël #représentation #aliénation #fiction #écriture

    … est frappant le fait que, dès qu’il y a expression — ce que nous faisons quand nous écrivons, quand nous signons, et quand nous parlons après tout —, il y a transfert de l’intimité vers l’extérieur, mais pas séparation — c’est cela qui est extraordinaire. S’il y avait séparation, évidemment, ce serait détachement, alors qu’il y a en permanence communication entre le dedans et le dehors. Et transfert de l’un vers l’autre. Et c’est d’ailleurs ce qui rend dangereux le monde dans lequel nous vivons, parce qu’il n’y a pas de solution de continuité entre « le visuel » et le mental, « le visuel » peut occuper le mental. C’est ce que fait la télévision par exemple. Et « le visuel » qui occupe le mental l’occupe au sens le plus vieux du terme, le plus violent, le plus militaire du terme. De telle sorte que le lieu de la pensée est remplacée par le lieu de la représentation, qui va manipuler le pensée…
    -- On n’a plus nos yeux pour voir…
    -- On n’a plus nos yeux pour voir, parce que nos yeux sont occupés par le flux. C’est pour ça qu’il faut que l’image bouge.
    […]
    -- C’est par les yeux que passe l’amour. Un jour quelqu’un m’a donné une leçon : il m’a expliqué qu’au fond il y avait deux manières de faire l’amour : les yeux ouverts ou les yeux fermés. Les yeux ouverts, c’est un jeu ; les yeux fermés, c’est une fusion — le but, disons.
    […]
    -- Il y a un texte de 1986, intitulé Le Nu, dans lequel vous dites que la beauté n’est pas dans le monde, mais dans les yeux.
    -- Oui, c’est ce que je pense pense profondément : ce sont les yeux qui font que les choses sont belles. Nous n’avons pas les yeux vides, nos yeux sont aussi notre culture. Notre culture, elle est là : immédiate. Les yeux au fond possède un langage qui fait que le monde nous est représenté d’une certaine façon. Quand je pense à la beauté, évidemment, je pense toujours maintenant à Mallarmé qui dit que « nous sommes les formes éphémères de la matière, mais ayant eu la capacité sublime d’inventer la beauté ». Evidemment la beauté est un mensonge, mais lui parle de « glorieux mensonge ». Cette expression me plait beaucoup. Nos illusions sont de « glorieux mensonges ». Ça nous rend maîtres de nos illusions.
    -- Un « glorieux mensonge », c’est une fiction ?
    -- Oui, une fiction. Mais une fiction réalisée. C’est cela qui est étrange aussi. Puisque la fiction, lorsqu’elle est menée jusqu’au bout, avec obstination, finalement elle devient une réalité. C’est une chose qui m’a surpris, en écrivant des récits — des récits qui n’ont aucun soucis de réalisme bien sûr —, comment des récits peuvent avoir des effets de réalité. Les effets de réalité sont finalement une possibilité de l’écriture, à condition de la pratiquer avec un parfait détachement, de la pratiquer que pour elle-même. [Ce] qui veut dire la pratiquer avec assez d’abandon pour perdre la maitrise qu’elle semblera avoir. Ce qui m’étonne c’est qu’après coup elle a l’air d’avoir été maîtrisée alors qu’elle ne l’était absolument pas. Par exemple, tous ces récits sont écrits — une vielle expression à laquelle je n’avait pensé — « au fil de la plume ». Sans maîtrise, sans plan.
    -- En s’abandonnant à Éros.
    -- En s’abandonnant à Éros, peut-être, oui. […] Le Dieu qui reste. Ou du moins celui qui reste, quand tous les autres ont été déplumés, si je puis dire.

    https://products-images.di-static.com/image/bernard-noel-oeuvres/9782846823494-475x500-2.webp

  • Voici une nouvelle que je traînais depuis un bon moment, que j’ai repris en début d’année. Ça parle de bouche à oreille, de musique et de domination...
    Chaque partie est placée sous l’égide d’un album de post-punk des années 80 (en gros).
    Voici le premier chapitre : Another music in a different kitchen des Buzzcocks.
    En cliquant sur le nom du groupe vous ouvrirez un lien vers l’un des morceaux de l’album.

    Bonne lecture :)

    #sf #fiction #postpunk
    https://portapluma.blogspot.com/2022/09/metaphormose-chapitre-1.html

  • Quand la vérité s’arme de mensonge
    https://laviedesidees.fr/Gunther-Anders-La-Catacombe-de-Molussie.html

    À propos de : Günther Anders, La Catacombe de Molussie, L’échappée. “Moi aussi, je suis la vérité”, “la vérité rend libre”, tels sont les deux mensonges que doit concéder toute #résistance. Dans son roman écrit contre Mein Kampf, inédit jusqu’en 1992 et tout juste traduit en français, Anders met en scène les conditions limites de la lutte et enseigne sa complexité.

    #Philosophie #vérité #nazisme #corruption #fiction #idéologie
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/20220715_anders.pdf
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/20220715_anders.docx

  • Arte innove avec un film tourné et diffusé en direct le soir de la présidentielle
    https://creapills.com/jour-de-gloire-arte-elections-presidentielles-20220420

    Le 24 avril prochain aura lieu le second tour de l’élection présidentielle française opposant le Président sortant, Emmanuel Macron, à la candidate du Rassemblement National, Marine Le Pen. À cette occasion, la chaîne de télévision ARTE réalisera une expérience inédite auprès des téléspectateurs puisqu’elle proposera une fiction tournée et diffusée en direct et dont l’émotion finale dépendra des résultats.

    Ce concept insolite a été imaginé par les réalisateurs Jeanne Frenkel et Cosme Castro. Intitulée “Jour de Gloire”, la fiction mettra en lumière deux frères, dont les idéaux politiques sont diamétralement opposés, qui se retrouvent après le décès de leur mère dans leur village natal du Lot-et-Garonne. Cependant, la fin n’existe pas encore… puisqu’elle dépendra effectivement du résultat de l’élection présidentielle annoncé à 20h ce dimanche soir.

    #Création #Fiction #Élection #télévision

  • Pas de règles d’équilibre : L’impression vertigineuse d’une légère vibration de l’air

    http://liminaire.fr/palimpseste/article/pas-de-regles-d-equilibre

    Sur la plage. Le soleil vient de se lever. Brumes estivales. Houle au loin. Vent violent, assourdissant. Brusques rafales. Les vagues soulevées par les bourrasques de vent. Marée montante. Lendemain de fête. Fatigue de la nuit passée, à traîner de café en café. Dans la moiteur émolliente des vapeurs d’alcool, le souvenir diffus des danses débridées, des étreintes inachevées, des baisers volés, les échos de la musique surgissent par bribes inattendues. Costume blanc défraîchi, froissé, ensablé. Du mal à garder les yeux ouverts. À comprendre la scène qui se déroule en retrait, mystérieuse, incompréhensible. (...) #Livre / #Lecture, #Ecriture, #Langage, #Fiction, #Cinéma, #MonBeauSouci, ❞

  • Usbek & Rica - « Les théories du complot empruntent à la logique des jeux vidéo »
    https://usbeketrica.com/fr/article/les-theories-du-complot-empruntent-a-la-logique-des-jeux-video

    On peut définir les théories du complot comme le rejet des versions communément admises d’événements historiques ou d’actualité, et la tentative de démonstration que ces événements sont le fruit de l’action dissimulée et planifiée d’un groupe caché. Bien qu’elles recouvrent des courants très différents et disparates, ces théories retiennent souvent des explications mono-causales pour expliquer la marche du monde, en voyant partout les indices d’une manipulation de grande ampleur.

    Pour le game designer Eric Viennot, ces théories empruntent largement aux mécaniques de jeu en réalité alternée dans lesquels fiction et réalité se mélangent et où les joueurs doivent utiliser le monde qui les entoure pour solutionner les énigmes et défis proposées. Albert Moukheiber, docteur en neurosciences, psychologue et fondateur de l’association Chiasma revient avec lui sur les mécaniques ludiques du complotisme.

    #Complotisme #Infox #JeuVidéo #Fiction #Réalité #Théorie #Réflexion #EMI

  • #Rebecca_Mott : Le langage de la prostitution demeure à écrire
    https://tradfem.wordpress.com/2022/01/08/le-langage-nest-pas-ecrit

    On y trouve pas de lien avec le racisme, ni avec le fait que les femmes sont des citoyens de seconde zone.
    C’est le langage de l’oppresseur qui prétend être opprimé.
    C’est pourquoi je cherche et je me bats pour trouver d’autres façons d’explorer le langage – en particulier pour exprimer le traumatisme complexe avec lequel doivent vivre les femmes sorties de ce commerce.
    Je m’inspire personnellement d’une utilisation éclectique du langage et du vocabulaire.
    J’accède au langage des arts visuels de l’Occident et aux manières de voir indigènes.
    Je puise au langage de la fiction aux narratrices peu fiables. Je cherche l’inspiration dans les contes de fées et les nouvelles d’horreur classiques.
    J’écoute le langage de la rue, j’écoute les enfants.

    Version originale : https://rmottjourney.wordpress.com/2022/01/05/language-is-unwritten
    Traduction : TRADFEM
    #violences_masculines #exploitation_sexuelle #système_prostitutionnel #fiction #

  • #Subtil_béton

    Zoé est lycéenne lorsque le mouvement social devient insurrectionnel. À force d’assassinats et de disparitions, la révolte est écrasée par le régime. Les révolutionnaires se dispersent alors que l’autoritarisme se renforce.

    Subtil Béton n’est pas l’histoire de cette #insurrection, mais de ce qui reste après la défaite. Colères et tendresses se mêlent en de multiples tentatives pour reconstruire #espoirs et #solidarités.


    https://subtilbeton.org
    #roman_d'anticipation #carte #cartographie_littéraire #fiction #roman_collectif #livre

    signalé par @karine4

    ping @reka

  • « Don’t Look Up » : regarder Netflix en attendant la fin du monde ?
    https://www.contretemps.eu/dont-look-up-netflix-capitalisme-technologie

    Anne-Lise Melquiond est l’autrice d’Apocalypse Show, quand l’Amérique s’effondre, sorti le 7 septembre 2021 chez Playlist Society. Elle analyse pour Contretemps le film « Don’t Look Up : Déni cosmique » d’Adam McKay : une implacable critique du capitalisme technophile contemporain produite par l’un de ses étendards, la principale multinationale de l’industrie culturelle plateformisée, Netflix ; mais une critique dont les mouvements populaires sont presque absents et qui nous laisse sans horizon de transformation sociale et d’émancipation, autrement dit sans espérance.

    Don’t Look Up, superproduction de Netflix sorti le 24 décembre 2021 avec un casting impressionnant où Jennifer Lawrence et Leonardo DiCaprio incarnent deux astronomes, un professeur et sa doctorante qui découvrent une immense comète large d’une dizaine de kilomètres dont la trajectoire se dirige vers la Terre. Elle devrait s’écraser dans exactement six mois et 14 jours causant la destruction totale de la planète. Après avoir vérifié moult fois leurs calculs, les deux astronomes vont tenter d’alerter les plus hautes instances politiques ainsi que l’opinion publique sur cette apocalypse imminente en espérant que tout sera tenté pour détourner la comète de sa trajectoire.

    Ici, l’humanité sera moins victime de la comète fatale que de son incapacité à envisager son futur. La catastrophe n’est donc pas tant la comète, véritable métaphore du réchauffement planétaire, notre comète à nous, que la gestion politique de cette menace. Le réalisateur Adam McKay témoigne là d’une époque qui a choisi de négliger jusqu’au plus court terme. La crise sanitaire du Covid est une preuve supplémentaire de cette incurie.

    De ce point de vue, le film est une critique âpre et mordante de la politique américaine où la Présidente, une Trump au féminin est prête à tout envisager, y compris les grosses comètes, sous un angle purement électoraliste. Elle explique aux astronautes qu’elle « enchaine les réunions « fin du monde » depuis des années. Effondrement économique, danger nucléaire, gaz d’échappement, robot fou, sécheresse, épidémie, extraterrestres, surpopulation, trou dans l’ozone », et n’a pas que ça à faire vu qu’elle est empêtrée dans un scandale dans l’élection d’un juge à la Cour Suprême. La Présidente semble plus préoccupée par son destin politique que par la destruction de la planète...

    #capitalisme, #catastrophe, #culture, #écologie, #médias, #Netflix, #réchauffement-climatique

  • I’m a climate scientist. Don’t Look Up captures the madness I see every day | Peter Kalmus | The Guardian
    https://www.theguardian.com/commentisfree/2021/dec/29/climate-scientist-dont-look-up-madness
    https://i.guim.co.uk/img/media/a11ad0f31f23adf37d11d0c2d2e7b78836992013/0_24_3500_2101/master/3500.jpg?width=1200&height=630&quality=85&auto=format&fit=crop&overlay-ali

    he movie Don’t Look Up is satire. But speaking as a climate scientist doing everything I can to wake people up and avoid planetary destruction, it’s also the most accurate film about society’s terrifying non-response to climate breakdown I’ve seen.

    • Yep, j’ai vu le film l’autre jour, et je l’ai trouvé étonnamment très pertinent (il faut juste oublier le fait qu’il est très américano-centré, mais c’est pas le plus important). Ça paraît à la fois complètement grossi et caricatural… et étrangement plausible avec des déjà-vu issus du réel…

      Dans le film, tant que le désastre n’est pas fatalement visible, rien ne se passe.

      Et ça recoupe aussi donc avec l’actu Covid. C’est d’autant plus flagrant que la connaissance scientifique pour se protéger du Covid est bien plus simple à appréhender / comprendre et à appliquer que pour ce qui concerne le climat, et malgré cela ça reste la fête du slip (spéciale dédicace aux anti-masques particulièrement…), alors même que les effets du Covid sont visibles, rapides, dévastateurs / dramatiques.

      Alors évidemment chercher à endiguer le réchauffement / dérèglement du climat, même après toutes ces années de de connaissances et consensus scientifique sur le sujet, ça parait tellement… loin…

      Et au moins, le film le montre sans passer par quatre chemins.

      #climat #film #science #politique #ignorance #dont_look_up

      But this isn’t a film about how humanity would respond to a planet-killing comet; it’s a film about how humanity is responding to planet-killing climate breakdown.

      We live in a society in which, despite extraordinarily clear, present, and worsening climate danger, more than half of Republican members of Congress still say climate change is a hoax and many more wish to block action, and in which the official Democratic party platform still enshrines massive subsidies to the fossil fuel industry; in which the current president ran on a promise that “nothing will fundamentally change”, and the speaker of the House dismissed even a modest climate plan as “the green dream or whatever”; in which the largest delegation to Cop26 was the fossil fuel industry, and the White House sold drilling rights to a huge tract of the Gulf of Mexico after the summit; in which world leaders say that climate is an “existential threat to humanity” while simultaneously expanding fossil fuel production; in which major newspapers still run fossil fuel ads, and climate news is routinely overshadowed by sports; in which entrepreneurs push incredibly risky tech solutions and billionaires sell the absurdist fantasy that humanity can just move to Mars.

      After 15 years of working to raise climate urgency, I’ve concluded that the public in general, and world leaders in particular, underestimate how rapid, serious and permanent climate and ecological breakdown will be if humanity fails to mobilize.

    • Vu aussi et la mécanique (politique, médiatique...) paraît criante de vérité.

      Jusqu’à DiCaprio qui passe tout le film a essayer d’éveiller la conscience des gens et qui, dans la vraie vie, avait réservé sa place de touriste spacial https://www.lepoint.fr/people/un-vol-dans-l-espace-avec-leonardo-dicaprio-vendu-1-million-de-dollars-26-05 (j’ai pas bien compris s’il en était revenu ou pas, l’info semble dater)

    • lourd. sur la dénégation -non pas en haut mais en bas - je recommande vivement l’article paru il y a un an maintenant : Dénégation et radicalité, ou quand le Chat Botté réduit l’ogre en souris... qui aurait pu être prescrit en guise de premier secours à bien des gauchos, anars, totos, syndicalistes, gilets jaunes...
      https://seenthis.net/messages/849453

      léger. le film est longuet et le refus de tout réalisme permet une étonnante coexistence chez ces dividus dirigeants de bêtise absolue, d’infantilisme, de dénégation et de cynisme instrumental et manipulateur (or même pour diriger « mal », il faut prévoir, savoir), sans homogénéité ni contradiction. c’est surprenant (si ce nest pas juste la manière usuelle à réinventer à chaque fois de laisser de la liberté au spectateur)
      le film est pas bon, ni réellement drôle, maisl’écho avec Trump, et les autres, et avec la gestion de la pandémie, le rapport science/gouvernement reste bienvenu