• Il nuovo volto del #water_grabbing e la complicità della finanza

    Fondi pensione e società di private equity investono sulla produzione di colture di pregio, dai piccoli frutti alle mandorle, che necessitano abbondanti risorse idriche. Il ruolo del fondo emiratino #Adq che ha acquisito l’italiana #Unifrutti.

    Per osservare più da vicino il nuovo volto del water grabbing bisogna andare nella regione di Olmos, nel Nord del Perù, dove il Public sector pension investment board (Psp), uno dei maggiori gestori di fondi pensionistici canadesi (con un asset di circa 152 miliardi di dollari) ha acquistato nel 2022 un’azienda agricola di 500 ettari specializzata nella coltivazione di mirtilli. Un investimento finalizzato a sfruttare il boom della produzione di questi piccoli frutti, passata secondo le stime della Banca Mondiale dalle 30 tonnellate del 2010 alle oltre 180mila del 2020: quantità che hanno fatto del Paese latino-americano il secondo produttore mondiale dopo gli Stati Uniti.

    Nella regione di Olmos l’avvio di questa coltivazione intensiva è stato reso possibile grazie a un progetto idrico, costato al governo di Lima oltre 180 milioni di dollari, per deviare l’acqua dal fiume Huancabamba verso la costa e migliorare la produzione agricola locale. “Ma il progetto non ha ottenuto i risultati annunciati”, denuncia il report “Squeezing communities dry” pubblicato a metà settembre 2023 da Grain, una Ong che lavora per sostenere i piccoli agricoltori nella loro lotta per la difesa dei sistemi alimentari controllati dalle comunità e basati sulla biodiversità. Chi ha realmente beneficiato del progetto, infatti, sono state le grandi realtà agroindustriali. “Quasi tutta l’acqua convogliata dalle Ande va alle aziende di recente costituzione che producono avocado, mirtilli e altre colture che vengono vendute a prezzi elevati all’estero -continua Grain-. Il progetto, finanziato con fondi pubblici, ha avuto pochi benefici per la popolazione ma ha creato una fonte di profitti per le aziende che hanno accesso libero e gratuito all’acqua e i loro investitori”.

    I protagonisti di questa nuova forma di water grabbing sono fondi pensione, società di private equity e altri operatori finanziari che si stanno muovendo in modo sempre più aggressivo per garantirsi le abbondanti risorse idriche necessarie alla produzione di colture di pregio. A differenza del passato, però, non cercano più di acquisire enormi superfici di terre coltivabili.

    “L’accesso all’acqua è sempre stato un fattore cruciale -spiega ad Altreconomia Delvin Kuyek, ricercatore di Grain e autore dello studio-. Ma negli ultimi anni abbiamo osservato un nuovo modello: investimenti in colture come mirtilli, avocado o mandorle che richiedono meno terra rispetto al grano o alla soia, ma quantità molto maggiori di acqua. A guidare l’investimento, in questo caso, è proprio la possibilità di accedere ad abbondanti risorse idriche per mettere sul mercato prodotti che permettano di generare un ritorno economico importante”. Una forma di sfruttamento che Grain paragona all’estrazione di petrolio: si pompa acqua da fiumi o falde fino all’esaurimento, senza preoccuparsi degli impatti sull’ambiente o dei bisogni della popolazione locale. Gli operatori finanziari, infatti, non prevedono di sviluppare attività produttive sul lungo periodo ma puntano a ritorno sui loro investimenti entro 10-15 anni. Un’altra caratteristica di questi accordi, è che tendono a realizzarsi in località in cui l’acqua è già scarsa o in via di esaurimento.

    Negli ultimi anni il fondo pensionistico canadese ha acquistato direttamente o investito in società che gestiscono piantagioni di mandorle in California, di noci in Australia e California. Mentre in Spagna, attraverso la controllata Hortifruit, è diventato uno dei principali produttori di mirtilli nella regione di Huelva (nel Sud-Ovest del Paese) dove si concentra anche la quasi totalità della coltivazione di fragole spagnole, destinata per l’80% all’export.

    In Perù nel 2020 sono stati prodotte 180mila tonnellate di mirtilli. Numeri che fanno del Paese latinoamericano il secondo produttore mondiale dopo gli Stati Uniti. Nel 2010 erano solo 30

    Tutto questo sta avendo effetti devastanti sulle falde che alimentavano le zone umide della vicina riserva di Doñana, ricchissimo di biodiversità e patrimonio Unesco: un riconoscimento oggi messo a rischio proprio dall’eccessivo sfruttamento idrico. Lo studio “Thirty-four years of Landsat monitoring reveal long-term effects of groundwater abstractions on a World heritage site wetland” pubblicato ad aprile 2023 sulla rivista Science of the total environment, evidenzia come tra il 1985 e il 2018 il 59,2% della rete di stagni sia andata perduta a causa delle attività umane. “Il problema è collegato anche alla produzione di frutti rossi che ha iniziato a diffondersi a partire dagli anni Ottanta, grazie alla presenza di condizioni climatiche ottimali e a un suolo sabbioso”, spiega ad Altreconomia Felipe Fuentelsaz del Wwf Spagna. Ma la crescita del comparto ha portato a uno sfruttamento eccessivo delle falde, da cui viene prelevata troppa acqua rispetto al tempo che necessitano per rigenerarsi. L’organizzazione stima che nel corso degli anni siano stati scavati più di mille pozzi illegali: “L’80% dei produttori rispetta le norme per l’utilizzo delle risorse idriche, ma il restante 20%, che equivale a circa duemila ettari di terreno, pompa acqua senza averne diritto”, puntualizza Fuentelsaz.

    Questa nuova forma di water grabbing interessa diversi Paesi: dal Marocco (dove il settore agro-industriale pesa per l’85% sul consumo idrico nazionale) al Messico dove è attiva la società di gestione Renewable resources group. Secondo quanto ricostruito da Grain, nel 2018 ha acquisito centomila ettari di terreni agricoli in Messico, Stati Uniti, Cile e Argentina, nonché diritti idrici privati negli Stati Uniti, in Cile e in Australia, generando rendimenti annuali superiori al 20% per i suoi investitori, che comprendono fondi pensione, di private equity e compagnie di assicurazione.

    Tra le società indicate nel report di Grain figura anche Adq, il fondo sovrano degli Emirati Arabi Uniti, che negli ultimi anni ha effettuato importanti investimenti nel comparto agro-alimentare: attraverso la sua controllata Al Dahra ha acquistato terreni in Egitto, Sudan e Romania. Nel 2020 ha acquisito il 45% di Louis Dreyfus Company, una delle quattro principali aziende che controllano il mercato globale del commercio agricolo. E nel 2022 ha comprato la quota di maggioranza di Unifrutti group, società italiana specializzata nella produzione e nella commercializzazione di frutta fresca con oltre 14mila ettari di terreni tra Cile, Turchia, Filippine, Ecuador, Argentina, Sudafrica e Italia.

    Unifrutti group ha sede fiscale a Cipro, uno dei Paesi dell’Unione europea a fiscalità agevolata che garantiscono vantaggi alle società che vi hanno sede. Ma a sfruttare i benefici sono anche oligarchi russi colpiti dalle sanzioni dopo l’annessione russa della Crimea nel 2014 e inasprite a seguito dell’invasione dell’Ucraina nel febbraio 2022. A rivelarlo l’inchiesta “Cyprus confidential” pubblicata a novembre dal Consorzio internazionale di giornalisti investigativi (Icij)

    “Questi investimenti hanno un doppio obiettivo -spiega ad Altreconomia Christian Henderson, esperto di investimenti agricoli nel Golfo e docente presso l’Università di Leiden nei Paesi Bassi- da un lato, sono orientate a trarre profitto dal commercio internazionale e dalle materie prime. In secondo luogo, si preoccupano di garantire la sicurezza alimentare. Queste due logiche in qualche modo sono intrecciate tra loro, in modo da rendere la sicurezza alimentare redditizia per gli Emirati Arabi Uniti. C’è poi un altro elemento: penso che i Paesi del Golfo siano piuttosto preoccupati dal fatto di essere visti come ‘accaparratori’ di terra. In questo modo, invece, possono affermare di aver effettuato un semplice investimento sul mercato”.

    Fondata dall’imprenditore Guido De Nadai nel 1948 ad Asmara come compagnia di import/export di frutta e verdura, oggi Unifrutti group è una realtà globale “che produce in quattro diversi continenti e distribuisce in oltre 50 Paesi” si legge sul sito. Trecento tipologie di prodotti commercializzati, 14mila ettari di terreni (di proprietà o in gestione) e 12mila dipendenti sono solo alcuni numeri di una realtà che ha ancora la propria sede principale a Montecorsaro, in provincia di Macerata, dove si trova il domicilio fiscale di Unifrutti distribution spa. La società è controllata da Unifrutti international holdings limited, con sede fiscale a Cipro, Paese a fiscalità agevolata. Con l’ingresso di Adq come socio di maggioranza sono cambiati anche i vertici societari: il 13 novembre 2023, ha assunto l’incarico di amministratore delegato del gruppo Mohamed Elsarky che ha alle spalle una carriera ventennale come Ceo per società del calibro di Kellog’s Australia e Nuova Zelanda e Godiva chocolatier e come presidente di United biscuits del gruppo Danone. Mentre Gil Adotevi, chief executive officer per il settore “Food and agriculture” del fondo emiratino Adq, ricopre il ruolo di presidente del consiglio di amministrazione: “Mentre il Gruppo si avvia verso un nuovo entusiasmante capitolo di crescita -ha dichiarato- siamo certi che la guida e la leadership di Mohamed porteranno l’azienda a realizzare i suoi ambiziosi piani”.

    Nel 2021 il gruppo ha commercializzato circa 620mila tonnellate di prodotti (in primo luogo banane, uva, mele, pere, limoni e arance) registrando un fatturato complessivo di 720 milioni di dollari (in crescita del 2% rispetto al 2020) e un margine operativo lordo di 78 milioni. Una performance estremamente positiva che “si è verificata nonostante le numerose sfide che hanno caratterizzato il perimetro operativo del gruppo a partire dalle condizioni climatiche avverse senza precedenti in Cile e in Italia”. Il Paese latino-americano -principale sito produttivo del gruppo, con oltre seimila ettari di terreno dove si producono mele, uva, pere e ciliegie- è stato infatti colpito per il quarto anno di fila da una gravissima siccità che alla fine del 2021 ha visto 19 milioni di persone vivere in aree caratterizzate da “grave scarsità d’acqua”. Come ricorda Grain nel report “Squeezing communities dry” tutte le regioni cilene specializzate nella produzione di frutta “stanno affrontando una crisi idrica aggravata dalla siccità causata dal cambiamento climatico”.

    https://altreconomia.it/il-nuovo-volto-del-water-grabbing-e-la-complicita-della-finanza
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  • The invisible price of water

    During communism, extensive irrigation systems turned the regions along the Romanian Plain into major producers of fruit and vegetables. But when the irrigation infrastructure collapsed, so did the ecosystems built around it. Today, farmers are digging wells to deal with desertification: a risky strategy.

    From the 1970s until 2000, the Sadova-Corabia irrigation system watered over 70,000 hectares of land in Romania’s Dolj and Olt counties. A set of pipelines that brought water from the Danube, the system turned the area from a sandy region predominantly used for vineyards into a fruit and vegetable paradise. Little by little, however, the system was abandoned; now only segments of it are still working.

    Agriculture in the area has changed, as has the environment. Today the Sadova-Corabia region is known not just as the homeland of Romania’s famous Dăbuleni watermelons, but also as the ‘Romanian Sahara’. Together with the south of Moldavia, Dobrogea and the Danubian Plain, it is one of the regions in Romania most affected by desertification.

    Anthropologist Bogdan Iancu has been researching the irrigation system in southern Romania for several years. Scena9 sat down with him to talk about drought, Romania’s communist-era irrigation systems, and the local reconstruction of agriculture after their decline. The interview has been edited for clarity.

    Oana Filip: How did your interest in drought arise?

    Bogdan Iancu: Rather by accident. Around seven years ago I was in the Danube port of Corabia for another research project, and at one point I heard a student talking at a table with a local, who was telling him about the 2005 floods and the irrigation systems in the area. The man also wanted to talk to me and show me the systems. It was an extremely hot summer and I thought it was very interesting to talk about irrigation and drought.

    I myself come from the area of Corabia-Dăbuleni. My grandparents lived in a village a bit north of the Danube floodplains, where there was an irrigation system with canals. This was where I learned to swim. The encounter somehow reactivated a personal story about the frequent droughts of that time and the summers I spent there. A lot of people in the area told us that the emergence of irrigation systems in the ’60s and ’70s led to more employment in agriculture. For them it was a kind of local miracle. As I realized that droughts were becoming more frequent and widespread, I became certain that this could be a research topic.

    The following year I started my own project. In the first two or three years, I was more interested in the infrastructure and its decline, the meanings it held for the locals and the people employed in the irrigation system, and how this involved their perceptions of changes in the local microclimate. Later, I became interested in the fact that people began to migrate out of the area because of the dismantling and privatization of the former collective or state-owned farms.

    I then started looking at how seasonal workers who had left for Italy, Spain, Germany or Great Britain had begun to come back to work in agriculture and start their own small vegetable farms. I was interested in how they started to develop the area, this time thanks to a few wells that have been drilled deep into the ground. So, somehow, the formerly horizontal water supply has now become vertical. This could have some rather unfortunate environmental implications in the future, because too many drilled wells that are not systematically planned can cause substances used in agriculture to spill into the ground water.

    How has the locals’ relationship with water changed with the disappearance of the irrigation system and the increasing frequency of droughts?

    The irrigation system had a hydro-social dimension. Water was primarily linked to agriculture and the planned socialist system. For a long time, the locals saw the system as the reason for the appearance and cultivation of fruits and vegetables they had never known before. For ten years after 1990, the irrigation network still worked and helped people farm on small plots of land, in subsistence agriculture, so that they could still sell vegetables in nearby towns. But after 2000 the state increased the price of water and cut subsidies. When the system collapsed, the ecosystem built around it collapsed along with it.

    At that time, something else was going on as well. The system was being fragmented through a form of – let’s say partial – privatization of the water pumping stations. The irrigators’ associations received loans via the World Bank. These associations did not work very well, especially since the people there had just emerged from the collective farming system, and political elites deliberately caused all forms of collective action to lose credibility after the ’90s.

    Because the irrigation system was no longer being used, or being used at much lower parameters than before, it no longer seemed functional. Bereft of resources, the local population saw the remaining infrastructure as a resource and sold it for scrap. It became even more difficult to use the irrigation system. This caused people to migrate abroad. The first waves of ‘strawberry pickers’ have only recently started coming back, perhaps in the past six or seven years, bringing in the money they have made in Italy or Spain.

    People have to be empowered in relation to the water they need. So these seasonal workers began digging their own wells. They have lost all hope that the state can still provide this water for them. They saw that in the Romanian Danubian Plain, thousands, tens of thousands of hectares of land were sold off cheaply to foreign companies that receive water for free, because they take it from the drainage canals. This caused even greater frustration for the locals, who not only look down on the new technologies that these companies use, but also resent their privilege of receiving free water from the Romanian state.

    How do you see the future of the area?

    It’s difficult to say. In the short term, I think the area will partially develop. But, at the same time, I think problems could arise from too many exploitations.

    The number of private wells will probably increase. Some very large companies in Romania are lobbying Brussels to accept the inclusion of wells drilled into underground aquifers (geological formations that store groundwater) into the irrigation strategy being developed by the Ministry of Agriculture and Rural Development. This would mean ten years of semi-subsistence, or slightly above semi-subsistence agriculture, where the former ‘strawberry pickers’ turn into successful small farmers. We’ve already seen this in the villages on the Sadova-Corabia system. But we have no way of knowing how long this will last, and how much pressure these aquifers would be subjected to. There is a risk that they might get contaminated, because they function like pores, and the water resulting from agricultural activities, which contains nitrites and nitrates, could get in there and cause problems.

    In Spain, for instance, they are very cautious about drilling wells. Arrests have been made. It’s a political issue that contributed to the defeat of Pedro Sanchez’s Socialist party in the last elections. Many farmers in Spain privileged to have access to water could dig a well wherever they wanted, but now found themselves faced with this rather drastic law. And the People’s Party promised them that they would be able to continue digging wells.

    At the Dăbuleni Agricultural Research Station, for example, they are experimenting with exotic crops better adapted to desertification, such as dates, kiwis and a certain type of banana. Do you think people could adopt new cultures in Sadova-Corabia too?

    This already happened decades ago. With the advent of the irrigation system, people were forced to be open to cultivating vegetables and fruits they had never seen before. Someone told me how, when they ate the first eggplants, they didn’t know what to do with them, they seemed bitter. Even tomatoes, which to us seem always to have been eaten there, were only introduced in the ’60s. One person told me that when he first tried a tomato he thought it tasted like soap. But if their grandparents or parents could adapt, so will people today. Besides, most have worked in agriculture abroad with this kind of fruit.

    Have you seen any irrigation best practices that you think would be suitable for the situation in the Sadova-Corabia area?

    I think one such example is micro-agriculture, which is employed on smaller plots in Italy, for instance. There are also micro farms in Sadova-Corabia that produce organic, ecological, sustainable products and so on. And there are a few cooperatives that work quite well, some of them supply tomatoes for the Belgian-owned supermarket chain Mega Image, for example.

    Spain, on the other hand, is not a best practice model. Spain is a devourer of water resources in an absolutely unsustainable way. We’re already seeing that the Tagus (the longest river in the Iberian peninsula and an important source for irrigation) is endangered by large-scale agriculture. In the 1990s, there was small and medium-sized farming there, and I think there should be a return to that. Obviously, the economists say it’s not profitable, but it’s time to think about a decrease and not an increase, which is always cannibalistic. This kind of farming, on a medium or small scale, should also bring this irrigation system back into focus.

    Unfortunately, it’s unclear for how much longer the Sadova-Corabia system will be able to function. It has an outlet in the Danube, which dries up in the summer and is not permanently supplied with water, as it was during the socialist period. Last year, for example, irrigation electricians and mechanics working on the Danube encountered problems, because the main canal poured water into the Danube, instead of collecting from it. If the Danube is no longer a sustainable source for irrigation canals (and not just in Romania), the alternative lies in the different management of water resources.

    In the multimedia exhibition based on the project that you organized last year, there was a notion of how grand socialist projects obfuscated life narratives, and how human stories were lost to anonymity. What life narratives are being lost or hidden now, in this larger discussion of drought and desertification in the area?

    I met a woman who during communism had managed a farm where they grew peaches that were then exported to Germany and Czechoslovakia. She told me that local vegetables were exported to Great Britain; and that this export was even stipulated by the two countries. Over 200 British technicians and experts lived in Sadova-Corabia for about four years. The story of these people, these British experts, not just the Romanian ones, and how they collaborated is completely lost to history.

    In the ’70s, these people were a sort of agricultural vanguard. They were trying to propose a productive model of agriculture, a break from the post-feudal, post-war past. There were people who worked at the pipe factory and built those gigantic pipes through which water was collected from the Danube. Today, there are still people who continue to make enormous efforts to do what needs to be done. The mayor of Urzica, for example, encourages locals to sell or give away plots of land for afforestation, and the town hall is even trying to deploy its own afforestation projects.

    I have seen journalists travel to the area for two days, come back and report that socialism destroyed everything. Obviously, lakes were drained and the environmental toll was very high. At the same time, that era brought unlimited water to many areas where it was previously lacking. Acacia forests were planted. Biologists say they’re no good, as they actually consume water from the soil; but foresters everywhere defend them and say they provide moisture.

    One way or another, all these stories should be told. As should the stories of the people who went abroad for work and are coming back. These so-called ‘strawberry pickers’ or ‘seasonals’, whose lives we know nothing about, because the Romanian state doesn’t believe that five million Romanians who went to work abroad deserve the attention.

    When I went to the Dăbuleni research station, many of the researchers had grown up there and had a personal connection to the area and a notion that they were working for the place where they grew up. How does the connection between the locals and the environment change, when so many choose to work abroad?

    This is where things intersect. These people have parents who tell us that for them the emergence of the irrigation system was similar to what happened in Israel, a country that has problems with its soil and that managed to make it better with the aid of water improvement systems. They saw that desert repopulated, greened, diversified, and they saw a greater complexity in the kinds of crops they can grow. They got predictability, i.e. permanent jobs at state agricultural enterprises, or jobs that allowed them to work at home, at the agricultural production cooperative (CAP).

    One thing I didn’t know before this research was that peasants who met their agricultural production quota were given 22 acres of land that they could work within the CAPs, with fertilizer from the CAPs, and irrigated with water from CAPs. One person I talked to even drove a truck contracted by the state and sold watermelons in Cluj, Sibiu, Râmnicu Vâlcea, and Bucharest in the 1980s and 1990s. And he wasn’t the only one.

    For them, the irrigation system was not only associated with farms, but also the related industries – pipeline factories, factories making tiles that lined the irrigation channels. It was a flourishing new ecosystem. But once this system collapsed, they also came to associate it with the degradation of the environment. I spoke to a local who said that when the system worked, he didn’t feel the summer heat, even though the temperatures were just as high, because of the water in the canal network.

    The absence of water is like the absence of blood – without it, an organism can no longer metabolize. And then, naturally, the young people decided to leave. But this was not a permanent departure. They went to Spain, for example, they saw vertical water there, and they said, ‘Look, we can make our own wells, we don’t need to wait around for horizontal water.’

    Why, as a state, have we failed to come up with an irrigation project today as ambitious as Sadova-Corabia in its time?

    There’s more to it than just this one system. There are about a hundred or so chain irrigation systems that start in this area, from south of Resita all the way to Dobrogea. The problem is that these irrigation systems were in full boom before the 1990s. Now, don’t think I believe that only irrigation systems can ensure good crops. I think they should be seen as part of a mixed bag of solutions. The problem is not that no more irrigation systems have been built, but that the old ones have not been preserved, optimized or modernized. Private interests were prioritized, especially those of a very large class of landowners, and land-grabbing was prioritized to the detriment of working on smaller plots of land. And so, such infrastructures were abandoned, because the big players can afford super-performant extractive technologies.

    How do you see urban dwellers relate to droughts and irrigation?

    I have seen many of them ridiculing people in the countryside and finding it unacceptable that they use municipal water handed to them for irrigation; but, at the same time, none of them disclose the amount of water they use on their lawns, which are worthless grass. Obviously, it’s easier to laugh from inside an office and to think that people are being irrational than to understand that they’re selling tomatoes that they would have otherwise been unable to grow.

    As climate change intensifies, droughts will become more frequent. Will we see better cooperation in the face of this new reality, or more division?

    In the next five to six years I think we will see more competition for water and the criminalization of our fellow water-users. But I think that this is where the role of the media comes in. It should abandon the logic of only showing us the big, scary monster called climate change. Rather, it should detail how these climate changes are occurring at the grassroots level. I think both the press and the state should work on research and popularization, on disseminating information that talks about these effects.

    I don’t think that anything can be done without pedagogies. Yes, during the socialist period these pedagogies were abused, sometimes enforced with actual machine guns, and that was tragic. But today we don’t see any kind of pedagogy, any kind of relating. None of the measures that need to be implemented are socialized. People are not being called to their village cultural center to be told: ‘Here’s what we want to do.’ The cultural center is now only used for weddings. Some radical forms of pedagogy should be devised and disseminated locally, so that people understand the invisible price of water.

    https://www.eurozine.com/the-invisible-price-of-water
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    via @freakonometrics

  • Zahra, morte pour quelques #fraises espagnoles

    Le 1er mai, un bus s’est renversé dans la région de #Huelva, au sud de l’Espagne. À son bord, des ouvrières agricoles marocaines qui se rendaient au travail, dont l’une a perdu la vie. Mediapart est allé à la rencontre des rescapées, qui dénoncent des conditions de travail infernales.
    Aïcha* s’installe péniblement à la table, en jetant un œil derrière le rideau. « Si le patron apprend qu’on a rencontré une journaliste, on sera expulsées et interdites de travailler en Espagne. On a peur qu’un mouchard nous ait suivies, on est sous surveillance permanente. »

    Aïcha sait le risque qu’elle encourt en témoignant, même à visage couvert, sous un prénom d’emprunt. Mais elle y tient, pour honorer Zahra. Foulard assorti à sa djellaba, elle est venue clandestinement au point de rendez-vous avec Farida* et Hanane*, elles aussi décidées à parler de Zahra. « Elle était comme notre sœur. » Deux images les hantent.

    Sur la première, la plus ancienne, Zahra sourit, visage net, rond, plein de vie, lèvres maquillées de rouge, regard foncé au khôl. Sur la seconde, elle gît devant la tôle pliée dans la campagne andalouse, corps flou, cœur à l’arrêt. « Elle avait maigri à force de travailler, on ne la reconnaissait plus. Allah y rahmo [« Que Dieu lui accorde sa miséricorde » – ndlr] », souffle Aïcha en essuyant ses larmes avec son voile.

    Zahra est morte juste avant le lever du soleil, en allant au travail, le 1er mai 2023, le jour de la Fête internationale des travailleuses et des travailleurs. Elle mangeait un yaourt en apprenant des mots d’espagnol, à côté de Malika* qui écoutait le Coran sur son smartphone, quand, à 6 h 25, le bus qui les transportait sans ceinture de sécurité s’est renversé.

    Elles étaient une trentaine d’ouvrières marocaines, en route pour la « finca », la ferme où elles cueillent sans relâche, à la main, les fraises du géant espagnol Surexport, l’un des premiers producteurs et exportateurs européens, détenu par le fonds d’investissement Alantra. Le chauffeur roulait vite, au-dessus de la limite autorisée, dans un épais brouillard. Il a été blessé légèrement.

    Zahra est morte sur le coup, dans son survêtement de saisonnière, avec son sac banane autour de la taille, au kilomètre 16 de l’autoroute A484, à une cinquantaine de kilomètres de Huelva, en Andalousie, à l’extrême sud de l’Espagne, près de la frontière portugaise. Au cœur d’une des parcelles les plus rentables du « potager de l’Europe » : celle qui produit 90 % de la récolte européenne de fraises, « l’or rouge » que l’on retrouve en hiver sur nos étals, même quand ce n’est pas la saison, au prix d’un désastre environnemental et social.

    Cet « or rouge », qui génère plusieurs centaines de millions d’euros par an, et emploie, d’après l’organisation patronale Freshuelva, 100 000 personnes, représente près de 8 % du PIB de l’Andalousie, l’une des régions les plus pauvres d’Espagne et d’Europe. Et il repose sur une variable d’ajustement : une main-d’œuvre étrangère saisonnière ultraflexible, prise dans un système où les abus et les violations de droits humains sont multiples.

    Corvéable à merci, cette main-d’œuvre « bon marché » n’a cessé de se féminiser au cours des deux dernières décennies, les travailleuses remplaçant les travailleurs sous les serres qui s’étendent à perte de vue, au milieu des bougainvilliers et des pins parasols. Un océan de plastique blanc arrosé de produits toxiques : des pesticides, des fongicides, des insecticides...

    À l’aube des années 2000, elles étaient polonaises, puis roumaines et bulgares. Elles sont aujourd’hui majoritairement marocaines, depuis le premier accord entre l’Espagne, l’ancien colonisateur, et le Maroc, l’ancien colonisé, lorsqu’en 2006 la ville espagnole de Cartaya a signé avec l’Anapec, l’agence pour l’emploi marocaine, une convention bilatérale de « gestion intégrale de l’immigration saisonnière » dans la province de Huelva.

    Une migration circulaire, dans les clous de la politique migratoire sécuritaire de Bruxelles, basée sur une obligation contractuelle, celle de retourner au pays, et sur le genre : l’import à moindre frais et temporairement (de trois à neuf mois) de femmes pour exporter des fraises.

    Le recrutement se fait directement au Maroc, par les organisations patronales espagnoles, avec l’aide des autorités marocaines, des gouverneurs locaux, dans des zones principalement rurales. Ce n’est pas sans rappeler Félix Mora, cet ancien militaire de l’armée française, surnommé « le négrier des Houillères », qui sillonnait dans les années 1960 et 1970 les villages du sud marocain en quête d’hommes réduits à leurs muscles pour trimer dans les mines de la France, l’autre ancienne puissance coloniale.

    Même état d’esprit soixante ans plus tard. L’Espagne recherche en Afrique du Nord une force de travail qui déploie des « mains délicates », des « doigts de fée », comme l’a montré dans ses travaux la géographe Chadia Arab, qui a visibilisé ces « Dames de fraises », clés de rentabilité d’une industrie agro-alimentaire climaticide, abreuvée de subventions européennes.

    Elle recherche des « doigts de fée » très précis. Ceux de femmes entre 25 et 45 ans, pauvres, précaires, analphabètes, mères d’au moins un enfant de moins de 18 ans, idéalement célibataires, divorcées, veuves. Des femmes parmi les plus vulnérables, en position de faiblesse face à d’éventuels abus et violences.

    Zahra avait le profil type. Elle est morte à 40 ans. Loin de ses cinq enfants, âgés de 6 à 21 ans, qu’elle appelait chaque jour. Loin de la maison de fortune, à Essaouira, sur la côte atlantique du Maroc, où après des mois d’absence, elle allait bientôt rentrer, la récolte et le « contratación en origen », le « contrat en origine », touchant à leur fin.

    C’est ce qui la maintenait debout lorsque ses mains saignaient, que le mal de dos la pliait de douleur, lorsque les cris des chefs la pressaient d’être encore plus productive, lorsque le malaise menaçait sous l’effet de la chaleur suffocante des serres.

    L’autocar jusqu’à Tarifa. Puis le ferry jusqu’à Tanger. Puis l’autocar jusqu’au bercail : Zahra allait revenir au pays la valise pleine de cadeaux et avec plusieurs centaines d’euros sur le compte bancaire, de quoi sauver le foyer d’une misère aggravée par l’inflation, nourrir les proches, le premier cercle et au-delà.

    Pour rempiler la saison suivante, être rappelée, ne pas être placée sur « la liste noire », la hantise de toutes, elle a été docile. Elle ne s’est jamais plainte des conditions de travail, des entorses au contrat, à la convention collective.

    Elle l’avait voulu, ce boulot, forte de son expérience dans les oliveraies et les plantations d’arganiers de sa région, même si le vertige et la peur de l’inconnu l’avaient saisie la toute première fois. Il avait fallu convaincre les hommes de la famille de la laisser voyager de l’autre côté de la Méditerranée, elle, une femme seule, mère de cinq enfants, ne sachant ni lire ni écrire, ne parlant pas un mot d’espagnol. Une nécessité économique mais aussi, sans en avoir conscience au départ, une émancipation, par le travail et le salaire, du joug patriarcal, de son mari, dont elle se disait séparée.

    Et un certain statut social : « On nous regarde différemment quand on revient. Moi, je ne suis plus la divorcée au ban de la société, associée à la prostituée. Je suis capable de ramener de l’argent comme les hommes, même beaucoup plus qu’eux », assure fièrement Aïcha.

    Elle est « répétitrice » depuis cinq ans, c’est-à-dire rappelée à chaque campagne agricole. Elle gagne de 1 000 à 3 000 euros selon la durée du contrat, une somme inespérée pour survivre, améliorer le quotidien, acheter une machine à laver, payer une opération médicale, économiser pour un jour, peut-être, accéder à l’impossible : la propriété.

    Cette saison ne sera pas la plus rémunératrice. « Il y a moins de fraises à ramasser », à cause de la sécheresse historique qui frappe l’Espagne, tout particulièrement cette région qui paie les conséquences de décennies d’extraction d’eau pour alimenter la culture intensive de la fraise et d’essor anarchique d’exploitations illégales ou irriguées au moyen de puits illégaux.

    Au point de plonger dans un état critique la réserve naturelle de Doñana, cernée par les serres, l’une des zones humides les plus importantes d’Europe, classée à l’Unesco. Le sujet, explosif, est devenu une polémique européenne et l’un des enjeux des élections locales qui se tiennent dimanche 28 mai en Espagne.

    « S’il n’y a plus d’eau, il n’y aura plus de fraises et on n’aura plus de travail », s’alarme Aïcha. Elle ne se relève pas de la perte de son amie Zahra, seule passagère du bus à avoir rencontré la mort, ce 1er mai si symbolique, jour férié et chômé en Espagne, où l’on a manifesté en appelant à « augmenter les salaires, baisser les prix, partager les bénéfices ». Les autres ouvrières ont été blessées à des degrés divers.

    Trois semaines plus tard, elles accusent le coup, isolées du monde, dans la promiscuité de leur logement à San Juan del Puerto, une ancienne auberge où elles sont hébergées, moyennant une retenue sur leur salaire, par l’entreprise Surexport, qui n’a pas répondu à nos sollicitations. Privées d’intimité, elles se partagent les chambres à plusieurs. La majorité des femmes accidentées est de retour, à l’exception des cas les plus graves, toujours hospitalisés.

    « Ils nous ont donné des béquilles et du paracétamol. Et maintenant, ils nous demandent de revenir travailler alors qu’on en est incapables, qu’on est encore sous le choc. Le médecin mandaté par l’entreprise a dit qu’on allait très bien, alors que certaines ont des fractures et qu’on met des couches à l’une d’entre nous qui n’arrive pas à se lever ! On a eu droit à un seul entretien avec une psychologue », raconte Aïcha en montrant la vidéo d’une camarade qui passe la serpillère appuyée sur une béquille.

    « On a perdu le sommeil », renchérit Hanane. Chaque nuit, elles revivent l’accident. Farida fait défiler « le chaos » sur son téléphone, les couvertures de survie, les cris, les douas (invocations à Allah), le sang. Elle somnolait quand le bus s’est couché. Quand elle a rouvert les yeux, elle était écrasée par plusieurs passagères. Elle s’est vue mourir, étouffée.

    Le trio montre ses blessures, des contusions, des entorses, un bassin luxé, un traumatisme cervical. Elles n’ont rien dit à la famille au Maroc, pour ne pas affoler leurs proches. Elles ne viennent pas du même coin. « Tu rencontres ici tout le pays. » Des filles des montagnes, des campagnes, des villes, de la capitale… Elles ont la trentaine, plusieurs enfants en bas âge restés avec la grand-mère ou les tantes, sont divorcées. Analphabètes, elles ne sont jamais allées à l’école.

    « Ici ou au bled, se désole Hanane en haussant les épaules, on est exploitées, mais il vaut mieux être esclave en Espagne. Au Maroc, je gagnais à l’usine moins de cinq euros par jour, ici, 40 euros par jour. » Elles affirment travailler, certaines journées, au-delà du cadre fixé par la convention collective de Huelva, qui prévoit environ 40 euros brut par jour pour 6 h 30 de travail, avec une journée de repos hebdomadaire. Sans être payées plus.

    Elles affirment aussi avoir droit à moins de trente minutes de pause quotidienne, « mal vivre, mal se nourrir, mal se soigner », du fait d’un système qui les contrôle dans tous les aspects de leur vie et les maintient « comme des prisonnières » à l’écart des centres urbains, distants de plusieurs kilomètres.

    Il faut traverser la région de Huelva en voiture pour mesurer l’ampleur de leur isolement. Le long des routes, des dizaines d’ouvrières marocaines, casquette sur leur voile coloré, seules ou à plusieurs, marchent des heures durant, en sandales ou en bottes de caoutchouc, faute de moyen de transport, pour atteindre une ville, un commerce. Certaines osent l’autostop. D’autres se retournent pour cacher leur visage à chaque passage de véhicule.

    Les hommes sont nombreux aussi. À pied mais surtout à vélo, plus rarement à trottinette. Originaires du Maghreb ou d’Afrique subsaharienne, une grande partie d’entre eux est soumise à l’emploi illégal, qui cohabite avec « le contrat en origine », au rythme des récoltes de fruits et légumes. Dans les champs de fraises, ils sont affectés à l’épandage des pesticides, au démontage des serres, à l’arrachage des plastiques…

    « La liste des abus est interminable, surtout pendant les pics de production, quand il faut récolter, conditionner, encore plus vite », soupire Fatima Ezzohairy Eddriouch, présidente d’Amia, l’association des femmes migrantes en action. Elle vient de débarquer dans le local sombre, escortée de Jaira del Rosario Castillo, l’avocate qui représente la famille « très affectée » de Zahra au Maroc, une spécialiste du droit du travail.

    Aïcha, Hanane et Farida lui tombent dans les bras, heureuses de rencontrer en vrai « Fatima de TikTok », une épaule pour de nombreuses saisonnières qui se refilent son numéro de portable, tant elle ne vit que pour l’amélioration de leur sort, malgré « un climat d’omerta, de terreur ».

    Travail forcé ou non payé, y compris les jours fériés, les dimanches, heures supplémentaires non rémunérées, passeports confisqués par certains patrons, absence de repos, contrôles du rendement avec renvoi vers le Maroc si celui-ci est jugé insuffisant, absence de mesures de sécurité et de protection sur le lieu de travail, tromperie à l’embauche, harcèlement moral, violences sexuelles, racisme, xénophobie, logement indigne, accès aux soins de santé entravé… Fatima Ezzohairy Eddriouch est confrontée au « pire de l’humanité tous les jours ». Avant de nous rejoindre, elle aidait Rahma, qui s’est brisé le cou en cueillant les fraises : « Son employeur veut la licencier et refuse de prendre en charge les soins médicaux. »

    Elle-même a été saisonnière pendant plus de dix ans. Elle en avait 19 quand elle a quitté Moulay Bousselham, au Maroc, et rejoint Huelva. Elle doit sa « survie » à Manuel, un journalier andalou rencontré dans les champs devenu son époux. « Vingt-trois ans d’amour, ça aide à tenir », sourit-elle. Seule ombre au tableau : alors que sa famille a accueilli avec joie leur union, celle de son mari continue de la rejeter. « Le racisme est malheureusement très fort en Espagne. »

    Le 1er mai, Fatima Ezzohairy Eddriouch a été l’une des premières informées de la tragédie. Des travailleuses blessées l’ont sollicitée. Mais elle s’est heurtée aux murs de l’administration, de l’employeur : « Un accident mortel de bus qui transporte des ouvrières agricoles étrangères, le jour de la Fête des travailleurs, c’est une bombe à l’échelle locale et nationale. Heureusement pour le gouvernement et le patronat agricole, elles sont des immigrées légales, pas sans papiers. »

    Devant le logement de San Juan del Puerto, elle a découvert le portail cadenassé, une entrave à la liberté de circuler des ouvrières. Elle l’a dénoncée sur les réseaux sociaux. Et dans la presse, auprès du journaliste indépendant Perico Echevarria notamment, poil à gratter avec sa revue Mar de Onuba, seul média local à déranger un système agroalimentaire et migratoire qui broie des milliers de vies. Surexport a fini par faire sauter le verrou.

    « Elles ont été enfermées, interdites de parler à des associations, à la presse. Ce n’est pas tolérable », s’indigne encore la militante. Son regard s’arrête sur une des photos de Zahra. Celle où elle a basculé de vie à trépas. Elle n’était pas prête. Elle s’effondre. Cette fois, ce sont Aïcha, Hanane et Farida qui l’enlacent en claudiquant. Le corps de Zahra a été rapatrié, enterré dans un cimetière d’Essaouira.

    La presse, d’une rive à l’autre, spécule sur le montant des pensions et des indemnités que pourraient percevoir les proches de la défunte, selon le droit espagnol. « C’est indispensable de rendre justice à cette famille meurtrie à jamais, à défaut de pouvoir rendre la vie à Zahra », dit l’avocate. Aïcha, Hanane et Farida, elles, veulent qu’on retienne son visage souriant à travers l’Europe, en France, au Pays-Bas, en Belgique..., et qu’on l’associe à chaque barquette de fraises marquée « origine : Huelva (Espagne) ».

    https://www.mediapart.fr/journal/international/270523/zahra-morte-pour-quelques-fraises-espagnoles
    #décès #Espagne #agriculture #exploitation #esclavage_moderne #migrations #travail #Maroc #agricultrices #femmes #conditions_de_travail #ouvrières_agricoles #Surexport #industrie_agro-alimentaire #Alantra #saisonniers #saisonnières #Andalousie #or_rouge #abus #féminisation #féminisation_du_travail #convention_bilatérale #Anapec #migration_circulaire #genre #violence #contrat_en_origine #contratación_en_origen #émancipation #sécheresse #eau #isolement #travail_forcé

    –—

    ajouté au fil de discussion sur la cueillette de fraises en Espagne :
    https://seenthis.net/messages/693859

  • Illegal strawberry farms threaten future of Spanish wetlands

    Opponents say proposed amnesty for illegal water tapping in #Doñana_national_park threatens disaster for one of Europe’s green lungs

    Juan Romero shakes his head as looks out across the lake at the wading spoonbills, the pipe-cleaner silhouettes of the flamingos and the glossy ibis that flash against the Andalucían sky.

    “This is an illusion,” says the ecologist, a retired teacher. The birds are real enough, of course, and so too are the tufty-eared Iberian lynxes that will be sniffing out a breakfast of rabbit in the quieter, wilder reaches of the huge Doñana national park in southern Spain.

    The illusion is what the water level in the lake before him says about the health of the reserve. Although there is far less water in the Charco de la Boca than there should be at this time of year, it is faring better than many parts of the sprawling wetlands known as one of Europe’s green lungs.

    Water supplies to Doñana, whose marshes, forests and dunes extend across almost 130,000 hectares in the provinces of Huelva, Seville and Cádiz, have declined drastically over the past 30 years because of climate change, farming, mining pollution and marsh drainage. A fresh crisis now looms as regional authorities consider granting an amnesty to the farmers illegally tapping its aquifer to feed the booming strawberry sector.

    https://i.guim.co.uk/img/media/e1d3392257dbfaebf6febc01b6bd7c371f8ae533/0_42_3150_1890/master/3150.jpg?width=620&quality=45&auto=format&fit=max&dpr=2&s=82f62b69b71d930a

    Nine years after Unesco warned that the area’s world heritage status was being jeopardised by such illegal tapping, the regional branch of the conservative People’s party (PP), which has governed Andalucía for the past three years, has announced a proposal to regularise the illicit farms and wells that stretch across 1,460 hectares near the protected natural space. On Wednesday, the Andalucían parliament will vote on whether to begin the legislative process.
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    The PP, whose bid is backed by both the far-right Vox party and the centre-right Citizens party, claims the move would help “safeguard historic rights and a traditional activity [practised] since time immemorial”.

    Opponents fear it will spell further disaster for the local environment, and point out that the area’s love affair with strawberries, known locally as “red gold”, began in the 1980s. Between January and June last year, Huelva’s exports of soft fruit – almost 20% of which are to the UK – were worth €801.3m (£678m).

    The campaign group Ecologists in Action describes Doñana as “a hostage to agriculture” and says the aquifer is already being stressed by irrigation demands. SEO BirdLife, the Spanish Ornithological Society, sees the plan as “a new assault on the Doñana natural space that favours a proliferation of irrigation and runs contrary to regional, national, European and international legislation”.

    Unesco, which declared the Doñana national park a world heritage site in 1994, has asked the Spanish government for an urgent report on the issue “before any decisions are taken that might be difficult to reverse”.

    The mooted law comes eight months after the European court of justice ruled that Spain had not fulfilled its obligations on preventing illegal water extraction around Doñana and had failed to take the measures needed to stop “significant alterations” to its protected habitats. The European Commission says it is “deeply worried” at the possible impacts of the proposed changes and has not ruled out taking Spain to the court of justice once again.

    For Felipe Fuentelsaz of WWF Spain, the environmental importance of the region cannot be overstated. “Doñana is a unique place that sits between the south of Europe and north Africa and it’s the main migration route for all the birds in Europe,” he says. “More than 6 million birds – and 200 or 300 different species – come through it each year. It’s mainly a wetland, but it also has a very important coastal dune zone and lots of surrounding forest. So it’s three ecosystems in just one place and it’s the lung of Europe.”

    https://i.guim.co.uk/img/media/cf0c8472c14493753c6cb2897839351d6b6a6997/0_212_3872_2323/master/3872.jpg?width=620&quality=45&auto=format&fit=max&dpr=2&s=480b8046f3a176ea

    Romero, a spokesperson for Ecologists in Action who has lived in the area all his life, dismisses the PP’s plan as a naked attempt to win the votes of legal and illegal farmers before a possible early regional election. “If people haven’t been obeying the law, then the People’s party can’t come along and tell them – for electoral gain – that they’re going to [get their] land legalised,” he says. “It’s a trick and a ruse.”

    The plain truth, he adds, is that Doñana simply cannot cope with the water demands of any more fruit farms.

    Drive around the area, where huge white polytunnels break in plastic waves across a landscape of pine and prickly pear, and the feelings of many local farmers are plain to see.

    Not far from some of the many decommissioned illegal wells – 420 have been shut down in recent years but others soon spring up elsewhere – are signs graffitied with a slogan that demands “no more harassment” from the Guadalquivir Hydrographic Confederation, an agency of Spain’s ecological transition ministry.

    While the local small farmers’ union, UPA Huelva, supports the PP-led proposal, arguing it will help those who missed out on their “historical rights” under a 2014 moratorium that banned any new cultivation or well-sinking, it says it will not “defend those who have invaded forest areas to turn them into agricultural lands without the correct authorisation”.

    Not all the local farmers approve of the plan. At the end of January, 300 farmers from nearby Almonte walked away from a regional group that backs the amnesty, complaining that the move would “only serve the interests of a minority of irrigation users”.

    One local fruit farmer, who asked not to be named for fear of reprisals, says the new plan is neither fair nor sensible.

    “I think it’s just madness,” he says. “Doñana is something we all love and respect. But there’s a political party that are proposing something – supported by two other parties – that I simply can’t understand.”

    The farmer says the planned amnesty is fundamentally flawed and dangerously short-sighted.

    “You have to start with the water and not the land,” he says. “If you hand out the land, then everyone’s competing with each other, the aquifer’s suffering and awful things happen. We can’t kill the goose that lays the golden eggs. But that’s what they’re trying to do and it’s bad for everyone – bad for the park and for the farmers.”

    https://www.theguardian.com/world/2022/feb/08/bitter-fruit-strawberry-boom-water-plan-raises-fears-for-spanish-wetlan

    #Spain #strawbarry_farms #llegal_water_tapping

    @cdb_77

  • Main basse sur les terres agricoles

    Un producteur de #fraises, un sulfureux homme d’affaires marseillais spécialisé dans les #énergies_renouvelables, un fonds d’investissement allemand, l’ancien président du conseil départemental. Tels sont les acteurs de la rocambolesque histoire des #serres_photovoltaïques de #Bourgneuf-en-Mauges. Ou la preuve que lorsque les financiers veulent faire main basse sur l’#agriculture, tout part souvent en déconfiture.

    https://latopette.fr
    #terres #accaparement_des_terres #France

    C’est dans le numéro de septembre, où il y a aussi un article sur les #aires_d'accueil, d’ailleurs...

    ping @odilon

  • Greek strawberries “made in Bangladesh”

    Up to 10,000 migrant agricultural workers live in makeshift camps in the strawberry fields of Ilia, which produce the “red gold” that generates tens of millions of euros in exports. While the Greek state remains indifferent, the number of workers is expected to increase, as production is projected to skyrocket by 2025, covering approximately 6,200 acres.

    #grèce #migrants #immigration #agriculture #fraises #manolada

    https://wearesolomon.com/mag/on-the-move/greek-strawberries-made-in-bangladesh/?mc_cid=cf88b966bc&mc_eid=3444239cea

  • #coronavirus, alleanza cooperative, “filiera agroalimentare non si ferma, ma problemi aumentano. raccolti a rischio per l’assenza di manodopera”

    Occorrono strumenti straordinari di flessibilità e semplificazione nella ricerca di manodopera. Stiamo lavorando con il Ministero dell’agricoltura per individuare soluzioni al problema.

    Ancora ritardi e blocchi degli autotrasportatori destinati all’estero.

    Roma, 19 marzo 2020 – “La filiera agricola è una di quelle che non può fermarsi in questa situazione di emergenza, ma non possiamo tacere il fatto che i problemi, in campagna come negli stabilimenti produttivi, stiano aumentando di giorno in giorno, rendendo sempre più arduo riuscire a garantire ancora a lungo ai cittadini una assoluta continuità nella fornitura di cibo”. A dirlo Giorgio Mercuri, presidente dell’Alleanza cooperative agroalimentari, che con le sue 5.000 imprese associate, detiene il 25% del fatturato alimentare del paese.

    Il primo grande problema è relativo alla mancanza di disponibilità manodopera. “Abbiamo assistito in queste settimane – spiega Mercuri - ad una partenza di lavoratori UE ed extra Ue: non c’è personale adesso che accetti di venire a lavorare nel nostro Paese. Pesantissime sono le ripercussioni sulle produzioni attualmente in campo, come gli asparagi - per i quali mancano all’appello migliaia di lavoratori – ma sono a rischio tutte le produzioni primaverili, a partire dalle fragole, che si avvicenderanno nelle prossime settimane nelle varie regioni d’Italia”.

    “Nel Decreto Cura Italia approntato dal governo per l’emergenza – prosegue Mercuri – non sono stati introdotti strumenti straordinari di flessibilità e semplificazione nella ricerca della manodopera. Stiamo in queste ora lavorando con il Ministero dell’agricoltura per individuare soluzioni al problema: una proposta potrebbe essere quella di prolungare i permessi di soggiorno per i lavoratori extracomunitari oppure la possibilità di impiegare in campagna, nella congiuntura di emergenza, i cittadini idonei ai quali viene attualmente erogato il reddito di cittadinanza. Per garantire più personale alle nostre cooperative associate, abbiamo anche richiesto di estendere gli istituti della codatorialità e del distacco ai rapporti tra socio e cooperativa per aiutare a rafforzare la continuità produttiva, garantendo più personale nelle nostre imprese in questa fase delicata”.

    Le regole introdotte dal governo italiano per contrastare la diffusione COVID19 in relazione alla sicurezza sui posti di lavoro e dei lavoratori – dotazioni strumentali, varianti organizzative, sanificazione dei locali, sicurezza linee di lavorazione – stanno inoltre generando, ammonisce il presidente Mercuri, “carichi di responsabilità e non poco stress psicologico alle nostre aziende, che sentono in primo luogo il dovere di tutelare i propri dipendenti. Possiamo già stimare un aumento dei costi sostenuti nei centri di lavorazione e nei magazzini nell’ordine di un +20%, che potrebbe incidere anche sul costo complessivo del prodotto, pur se di pochi centesimi”.

    “Proseguono intanto, nonostante gli appelli della Commissione europea ad una libera circolazione delle merci – conclude Mercuri – i problemi logistici legati alle consegne degli ordinativi con l’autotrasporto: ci sono in direzione di alcuni Paesi come Polonia, Romania, Austria, Croazia, Slovenia e Serbia, controlli e persino divieti di transito dei camion, che determinano nell’ipotesi migliore gravi ritardi e costi aggiuntivi ingiustificati. Si tratta, nella quasi totalità dei casi, di prodotti destinati all’export e non riassorbili dal consumo interno”.

    http://www.agciagrital.it/coronavirus-alleanza-cooperative-filiera-agroalimentare-non-si-ferma-ma-
    #Italie #main-d'oeuvre #manque #travail #agriculture #Italie #alimentation #travailleurs_étrangers #saisonniers #fraises #asperges #Cura_Italia #décret #permis_de_séjour #migrations

    ping @albertocampiphoto @wizo

  • Aide aux agriculteurs : « Nous n’entendons pas demander à un enseignant qui aujourd’hui ne travaille pas de traverser toute la #France pour aller récolter des #fraises », précise Sibeth Ndiaye, porte-parole du gouvernement

    https://twitter.com/BFMTV/status/1242810900387631106
    #agriculture #main-d'oeuvre #fermeture_des_frontières #aide #solidarité

    Et cette belle petite phrase...

    « Il va s’en dire que nous nous entendons pas demander à un #enseignant qui aujourd’hui ne travaille pas compte tenu de la fermeture des écoles de traverser la France entière pour aller récolter des fraises »...

    –-> on dirait que #Sibeth_Ndiaye n’a pas entendu parler du #plan_de_continuité_pédagogique #continuité_pédagogique

    • Pour Sibeth Ndiaye, les enseignants ne travaillent pas actuellement

      Oups.

      La déclaration passe mal. Alors que la porte-parole du gouvernement Sibeth #Ndiaye précisait en sortie de Conseil des ministres l’appel aux personnes sans activité à venir « rejoindre la #grande_armée_de_l'agriculture_française », un des exemples utilisés a provoqué l’ire des enseignants. « Nous n’entendons pas demander à un enseignant qui aujourd’hui ne travaille pas compte tenu de la fermeture des écoles de traverser toute la France pour aller récolter des fraises », a-t-elle lancé avec aplomb.

      Petit bémol, comme le martèle le ministre de l’Education nationale Jean-Michel Blanquer depuis le début de la crise sanitaire, les élèves et par conséquent leurs enseignants ne sont pas en vacances. Ces derniers rivalisent d’ailleurs d’ingéniosité pour assurer la fameuse « continuité pédagogique » à distance, la plupart du temps via des outils numériques plus ou moins saturés. D’autres sont également encore dans les locaux pour assurer la garde des enfants des personnels soignants.

      Les profs n’ont pas tardé à réagir sur les réseaux sociaux. Certains se demandent avec une pointe d’ironie s’ils doivent cesser leurs efforts, tandis que d’autres réclament des excuses. Des parents d’élèves n’ont pas hésité non plus à apporter leur soutien. Deux heures après sa fameuse déclaration, Sibeth Ndiaye a fait son « mea culpa » sur Twitter : « Mea culpa. Mon exemple n’était vraiment pas le bon. Je suis la première à mesurer combien l’engagement quotidien des professeurs est exceptionnel. »

      https://www.liberation.fr/direct/element/sibeth-ndiaye-declare-que-les-enseignants-ne-travaillent-pas-actuellement

    • Tu voudrais aller cueillir des fraises quand :

      tu te fais engueuler par une mère de famille parce que tu as appelé sur le portable de Monsieur, alors que son portable à elle ne fonctionne plus, que le fixe ne fonctionne plus, que le numéro de portable écrit sur Pronote pour monsieur ne fonctionne plus, que tu avais un deuxième numéro de fixe (et que tu en étais déjà au 4e numéro essayé) mais que la dame t’explique être la grand-mère de l’élève que tu désespères pouvoir un jour joindre parce qu’en fait, « vous gardez ça pour vous », Monsieur est revenu vivre un temps ici, donc c’est son numéro qu’il avait écrit, et donc elle te file le nouveau numéro de portable de Monsieur, mais que ça ne plaît pas à Madame que tu aies appelé Monsieur alors que tu t’en fous royalement de leurs histoires...

      tu appelles une famille qui vient d’apprendre que la maman et le fiston sont malades (Covid 19) et que tu te retrouves complètement démunie face à l’injonction d’appeler les familles une fois par semaine, sans savoir si tu ne vas pas être intrusive à un moment où, franchement, l’exercice d’histoire non fait, on s’en fout...

      tu viens d’écrire un mail pour expliquer un exercice de technologie alors que tu es prof d’histoire-géo

      tu te lèves avec 50 mails en attente parce que les mômes galèrent à déposer sur Pronote avec une fonction que tu n’as jamais pu leur montrer puisque tu n’y as eu accès qu’après la fermeture du collège

      tu viens de signer un mail à une maman d’élève « Bénée » comme tu le fais quand c’est un mail pour tes collègues

      tu n’as aucune idée du jour qu’il est, mais tu es devant ton ordinateur à répondre à des mails alors que tu as quitté l’université pour ne pas vivre à courir après les mails

      * tu commences tous tes pots Facebook avec une histoire de fraises

      texte de @ville_en posté sur Facebook :
      https://www.facebook.com/benedicte.tratnjek.2/posts/229925068373116

  • #CAMIGRI

    CAMIGRI est un programme de recherche financé par l’Agence Nationale de la Recherche (ANR) et la Région Nouvelle-Aquitaine. Il entend revisiter l’étude des #campagnes françaises au prisme des migrations internationales et de la diversification croissante des formes de mobilité. Le projet a démarré le 01/10/2016.

    Ce carnet de recherche a vocation d’interface entre les mondes scientifique, associatif et professionnel intéressés par les questions de développement rural et de migrations internationales dans les espaces ruraux. Il permet de :

    – faire connaître les travaux de l’équipe et de suivre l’actualité du programme (comptes rendus de terrain, de séminaires, de présentations),

    – faciliter les liens et les échanges entre les différents acteurs intéressés par ces questions (construction d’un répertoire-réseau en ligne),

    – publier des supports produits par les chercheurs sur les terrains d’enquête (monographies de lieux, photographies commentées, portraits et entretiens d’acteurs socio-économiques).

    https://camigri.hypotheses.org/a-propos
    #accueil #asile #migrations #réfugiés #espace_rural #espaces_ruraux #campagne #France #Loire_Anjou_Tourraine #Périgord_Limousin #Pyrénées_Ariégeoise

    • Lettre d’information n°1

      Camigri édite sa première lettre d’information trimestrielle. Elle s’adresse à tout public soucieux de poser un nou-veau regard sur les « mondes ruraux ». Confrontées à la diversification croissante de mobilités internationales plus ou moins visibles et reconnues, les campagnes françaises connaissent en effet des changements socio-économiques et territoriaux parfois inaperçus, silencieux, sous-étudiés. L’équipe entend ici partager ses travaux à travers certaines activités menées dans le cadre de son programme de recherche financé par l’Agence Nationale pour la Recherche (ANR) et la Région Nouvelle-Aquitaine. Il est ainsi question de livrer, de manière élargie, le fruit de nos réflexions engagées dans plusieurs localités rurales de la France de l’ouest et qui trouveront certainement un écho plus lointain, au sein d’autres territoires. Actuellement lancée dans des opérations d’enquête et d’observations sur plusieurs terrains (Ariège, Dordogne, Vienne, Maine-et-Loire), l’équipe souhaite transmettre quelques principes fondateurs de son approche : proximité mesurée avec les territoires étudiés et ses habitants, production et commu-nication dans des réseaux scientifiques, usage réflexif de l’image comme outil de travail, de communication et de réflexion.

      https://f-origin.hypotheses.org/wp-content/blogs.dir/3777/files/2018/09/Web_Sept2018_Journal_CAMIGRI-compressed.pdf
      #agriculture #fraises #Pays_Vernois #mineurs #MNA #mineurs_non_accompagnés #Ariège #marginalité #millieu_rural

    • Lettre d’information n°2

      L’installation des populations migrantes dans les campagnes de l’Ouest français peut prendre des formes très différentes, s’inscrire dans une tradition d’accueil ancienne parfois réactivée par des initiatives indivi-duelles plus récentes. Comment les populations installées ou celles qui se sont succédé ont-elles pu contribuer à l’évolution démographique des territoires ruraux étudiés ? L’équipe CAMIGRI vous propose, dans la deuxième édition de sa newsletter, quelques exemples illustrés à partir de ses travaux de recherche en cours

      https://sharedocs.huma-num.fr/wl/?id=DD6uCq2mdZue9rVdu5tG6Z24ZbspMlj7
      #campagnes_hospitalières #Carla-Bayle #CADA #innovation_sociale #Saint-Just-Le-Martel #agriculture #maraîchage #développement_local

  • #Grèce. Victoire pour des cueilleurs de fraises victimes de #traite, contraints au #travail_forcé et visés par des tirs

    Après la victoire remportée à la Cour européenne des droits de l’homme aujourd’hui, jeudi 30 mars, par un groupe d’ouvriers bangladais, employés à la cueillette des fraises, sur lesquels leurs employeurs avaient ouvert le feu parce qu’ils réclamaient le versement de leurs salaires impayés, la directrice adjointe du programme Europe d’Amnesty International, Gauri van Gulik, a déclaré :

    « La décision rendue aujourd’hui est importante pour ces personnes et pour leur famille en ce qu’elle reconnaît la légitimité de leur action. Elle contribuera, nous l’espérons, à prévenir de futures atteintes aux droits fondamentaux. »

    https://www.amnesty.org/fr/latest/news/2017/03/greece-victory-for-strawberry-pickers-trafficked-into-forced-labour-and-sho

    –-> c’était mars 2017. Signalé par @isskein via la mailing-list Migreurop

    #exploitation #travail #fraises #traite_d'être_humains #esclavage_moderne #migrations #agriculture

    • Sur le même sujet, dans le New York Times...

      Greek Foremen Sought in Attack on Migrant Workers

      The police in the southern Peloponnese region of Greece on Thursday were seeking three supervisors of a strawberry farm accused of firing on a large group of Bangladeshi workers who had demanded unpaid wages, wounding 28.

      http://www.nytimes.com/2013/04/19/world/europe/greek-foremen-sought-in-attack-on-bangladeshi-migrant-workers.html?ref=worl

      Avec la photo d’un ami photographe grec, Giorgos Moutafis :

    • Fraises de saison

      Notre société émiettée, et sur la voie étroite de l’anthropophagie structurelle et structurante, remplira bientôt tous les critères de l’âge nouveau. C’est ainsi qu’à Manolada dans le Péloponnèse, des immigrés travaillant dans la production de la fraise... décidément de saison, qui ont osé réclamer leurs salaires impayés depuis six moins à leur patron néo-esclavagiste, ont été blessés, dont quatre grièvement. Les faits se sont déroulés mercredi 17 avril au soir, lorsque des hommes armés et chargés de superviser le travail des immigrés, ont ouvert le feu sur ces derniers. Les surveillants, ont utilisé des carabines pour disperser les travailleurs immigrés, deux cent personnes environ ainsi rassemblés réclamant leurs soldes. Temps de crise, aussi vécu et pratiqué via ses... authentiques rapports entre le capital et le travail, en passant par le racisme récurent, ce dernier, notons-le, n’aura pas attendu la crise pour agir... comme un grand.

      Car il faut souligner que l’esclavagisme et donc le racisme ordinaire ne sont pas à leurs débuts à Manolada, des faits avérés allant dans ce très mauvais sens, datent déjà de plusieurs années. Depuis jeudi matin, l’affaire de Manolada occupe tous les médias. Il y a eu même des appels, grecs et internationaux, pour enfin boycotter ces “fraises ensanglantées”. D’après le reportage du jour, à travers le quotidien Elefterotypia par exemple, “Des scènes de tentative d’assassinat en masse se sont déroulées mercredi, dans un champ pour esclaves à Manolada, dans la région d’Ilia, lorsque trois surveillants-argousins, pour le compte d’un propriétaire-producteur des fraise de la région, ont ouvert le feu sur des dizaines de travailleurs originaires du Bangladesh, ces derniers, exigeaient le versement de leurs salaires qui n’ont pas été versées depuis de six mois. Au moins 34 travailleurs ont été hospitalisés, tandis que deux hommes ont été arrêtés ce matin dans le village d’Ilia Pineias, pour avoir abrité et ainsi leur fournir une cachette, à deux des gardiens recherchés et auteurs présumés des faits. Sept travailleurs étrangers restent hospitalisés dans les hôpitaux de Pyrgos et de Patras, portant des blessures causées par de coups de feu qui étaient hier, dont un, en état critique mais stable. Trois immigrés légèrement blessés, restent sous observation à l’hôpital universitaire de Patras pour des raisons purement préventives. Ces ouvriers agricoles, n’avaient pas été payés pendant six mois exigé, c’est ainsi qu’ils ont exigé leurs soldes auprès de leur employeur mercredi après-midi, sur le lieu de leur travail, près de la rocade entre Pyrgos et Patras. Mais au lieu d’argent, ils ont essuyé les tirs des fusils de chasse surveillants. Les journalistes de la presse locale ont rapporté que les sommes réclamées par les travailleurs immigrés, iraient de 150.000 à 200.000 euros pour 200 personnes, ou plus exactement, elles correspondent à 750 à 1000 euros par travailleur. Selon un communiqué de la police, le propriétaire de l’exploitation a été arrêté, mais les trois auteurs présumés des coups de feu, lesquels d’après certains témoignages auraient pris la fuite à bord d’un véhicule en direction de Patras, sont toujours recherchés”.

      Pourtant, et dans la capitale certaines facettes de la vie courante trahissent bien cette normalité apparente, présumée précaire ou alors “définitive” d’après les gouvernants, c’est selon ! On remarque aussi, que par ce beau temps, bien que relativement frisquet de ces derniers jours, nos sans-abri, s’absentent parfois de leurs “demeures”, plus souvent qu’autrefois paraît-il. Ce qui est également le cas des petits vendeurs ou des cireurs de chaussures ambulants, disons-nous qu’au moins ces derniers conservent encore un certain statut social... économiquement reconnaissable aux yeux (fatigués) de tous. Puis, c’était à l’entrée du métro Monastiraki ce midi, qu’un nouveau (?) mendiant âgé faisait fuir tous nos regards visiblement gênés : “Au nom de Dieu, pourquoi vous ne m’aidez pas ?” Sans doute, encore “un riche habitant du Sud de l’Europe” qui scandalise tant les éditorialistes de la presse allemande ces derniers jours. Ce qui ne veut pas dire que “nos” classes aisées n’existent plus, bien au contraire. C’est par exemple récemment, lors d’une... expédition ethnographique en voiture dans les quartiers Nord de l’agglomération d’Athènes, c’est un ami venu en visiteur depuis la France qui avait souhaité redécouvrir les endroits de son enfance, que nous avons pu constater combien certaines tavernes résolument estampillées... de la classe moyenne-haute, ne désemplissent pas. L’ironie de l’histoire économique, c’est que devant ces oasis de l’ostentatoire et bien d’autres pratiques diverses et variées, on dénombre une quantité surreprésentée en ces grosses cylindrées de fabrication allemande. Ce qui a changé n’est pas tant la richesse affichée de cette composante (?) de la population que j’estime à environ 20%, mais surtout le fait que cette dernière devient désormais si visible pour cause d’effondrement de l’essentiel de l’immense ex-classe moyenne, “c’est comme du temps de mon enfance, ou comme dans les vieux films du cinéma grec des années 1960”, a fait remarquer mon ami Pavlos de Paris.

      Sur la Place de la Constitution mercredi après-midi, les passants et les animaux profitèrent du soleil ou de l’ombre, tandis qu’à l’intérieur de la station centrale du métro, deux micro-événements ont attiré un peu l’attention des passants : une vente d’objets hétéroclites ainsi que de sucreries, puis une exposition de photos sous le thème des visages humains à travers la ville. Au même moment, dans toutes les facultés du pays c’était un jour de vote, comme à la faculté d’Économie, pour certains étudiants, ce fut l’occasion de manifester également un certain mécontentement légitime, suite à la fermeture du site d’Athens Indymedia. Au centre-ville, on achète encore de la pacotille de Pâques, car Pâques orthodoxe c’est en début mai, on marchande si possible et surtout on compte partout les sous. Les passants, jettent parfois un regard intrigué, aux slogans révélateurs d’un certain temps présent qui s’éternise alors trop et pour cause : “Fuck the police” mais en caractères grecques, une petite bizarrerie pour cette raison précisément, ou encore ce slogan qui se répète parfois : “Le sex et la grève exigent de la durée”, on peut comprendre mais cela ne fait plus tellement rire grand monde désormais ; nous serions en train de perdre notre sens de l’humour (?), voilà ce qui peut être lourd de conséquences !

      Près des Halles d’Athènes, des affiches incitent à manifester, c’est pour le 19 avril, journée d’action et de mobilisation des retraités du pays, dans une marche de protestation qui se veut nationale.

      Sous l’Acropole et ses touristes, et sous certains regards inévitables, comme les fraises et leur saison décidément.


      http://www.greekcrisis.fr/2013/04/Fr0230.html

    • Immigration en Grèce : les damnés du Péloponnèse

      En Grèce, des immigrés clandestins ont trimé dans des champs durant des mois... sans être payés. Leur grève a fini dans un bain de sang, qui a ému l’opinion. Mais, quelques semaines plus tard, leur situation n’a guère changé.

      La balle s’est logée entre deux côtes, à quelques centimètres du coeur. D’un geste pudique, Abdul Rahaer lève un pan de sa chemise pour montrer la plaie. « Elle est entrée si profondément que le chirurgien n’a pu la retirer », murmure-t-il. Son regard file vers les champs de fraises, là où le drame a eu lieu, il y a plus d’un mois : « Je n’arrive toujours pas à croire qu’ils ont tiré sur nous... »

      Venu du Bangladesh, Abdul est entré illégalement en Grèce, comme tous les autres ouvriers migrants qui travaillent dans cette exploitation, située à Nea Manolada, dans l’ouest du Péloponnèse. Pour survivre, il a accepté ce job éreintant : ramasser des fraises cultivées sous des serres immenses huit heures d’affilée par jour.

      La région compte plus d’une centaine de fermes semblables ; plus de 10 000 hectares de cette terre aride et écrasée de soleil sont couverts de fraisiers. L’essentiel de la production est exporté en Russie et dans les pays Baltes. Pour la cueillette, qui s’étire entre janvier et juin, les producteurs font appel à des immigrés clandestins. « Chacun d’entre nous doit remplir 200 cagettes de 1 kilo, raconte Abdul. La chaleur est épuisante et nous sommes constamment courbés en deux. Lorsque nous arrêtons, à 14 heures, nous avons le dos cassé... » Cette main-d’oeuvre docile et corvéable à merci, la plupart des producteurs la rétribue 22 euros la journée par tête de pipe. Tous, sauf Nikos Vangelatos, l’employeur d’Abdul, qui avait décidé de ne pas payer ses ouvriers.

      Leurs témoignages rappelleraient presque l’esclavage de la Grèce antique : « Lorsque nous avons réclamé nos salaires, il nous a demandé d’être patients, raconte Abdul. Nous ne nous sommes pas méfiés. Partout, ici, les fermiers paient avec retard. Les mois ont passé. Nous avions juste le droit d’aller chercher de la nourriture dans un supermarché, une fois par semaine, où Vangelatos disposait d’un crédit. Et encore, c’était le strict nécessaire. A plusieurs reprises, nous sommes revenus à la charge. En vain. »

      Le 17 avril, les forçats de Nea Manolada votent la grève. « Nous avions besoin de cet argent », intervient Rifat. Né à Sylhet, dans le nord du Bangladesh, ce jeune homme de 32 ans illustre le sort de ces milliers de migrants, partis en Europe pour nourrir leur famille. Son père, invalide, ne pouvait plus subvenir aux besoins de ses six enfants. Il vend le champ familial et confie l’argent à son fils aîné. Parti à la fin de 2008, Rifat met un an pour atteindre la Grèce. Arrêté en Iran, il passe six mois dans une cellule sans fenêtre. Une fois libéré, il parvient en Turquie, qu’il traverse dans une cuve de camion-citerne. A Istanbul, il déjoue la surveillance des gardes-frontières grecs qui patrouillent sur le fleuve Evros, lieu de passage privilégié des clandestins. Pris en charge, à Athènes, par des compatriotes bangladais, il trouve un boulot de ferrailleur. Une chance : rares sont les « illégaux » qui parviennent à gagner leur vie dans la cité dévastée par la crise. Durant trois ans, il envoie 200 euros, tous les mois, à ses parents. Jusqu’à l’été dernier, où des policiers l’arrêtent en pleine rue. L’opération « Zeus hospitalier » bat alors son plein.

      Lancée par le gouvernement (centre droit) d’Antonis Samaras, qui veut mettre fin à des années de laxisme en matière d’immigration, elle vise à « nettoyer » les quartiers chauds de la capitale. Chassés, les migrants cherchent partout dans le pays des emplois de fortune. A Nea Manolada, les Bangladais affluent par milliers, car la nouvelle se répand de bouche à oreille : les exploitants agricoles ont besoin d’ouvriers. Rifat tente sa chance. Le jour de son arrivée, il suit les conseils d’un compatriote : « Va chez Vangelatos, il cherche des bras. » Mais il découvre vite à qui il a affaire. « Les contremaîtres nous insultaient sans cesse, raconte-t-il. Nous n’avions pas le droit de prendre de pause. » Jusqu’à ce fameux 17 avril...
      Coups de feu, trois Bangladais s’effondrent. C’est la panique

      La confrontation aurait dû rester pacifique. Mais les grévistes apprennent qu’une poignée de Bangladais a décidé, contre l’avis des autres, d’aller travailler. Les esprits s’échauffent. Les « jaunes » sont bousculés ; des bâtons, brandis. Les contremaîtres interviennent. « Fige re malaka ! [Barrez-vous !] » crient-ils aux mutins. La suite est confuse. L’un des surveillants, surnommé « Kaskadas » en raison de son amour immodéré pour les voitures de sport, va chercher une carabine. Il la braque sur les frondeurs. Coups de feu, trois Bangladais s’effondrent. Une seconde arme surgit, nouvelles détonations. C’est la panique. Profitant du désordre, les contremaîtres prennent la fuite. « Nous les avons cueillis à Amaliada, chez leur avocat, le lendemain matin », précise un officier de police. Dans le camp, c’est le chaos. 35 blessés gisent au sol. L’un d’eux a reçu plus de 40 projectiles sur le torse. Mohamad Hanief filme la scène avec son téléphone. « Pour avoir des preuves », explique-t-il.

      Postées sur Internet, les vidéos suscitent une vague d’émotion sans précédent. A Athènes, des manifestations de soutien sont organisées, tandis qu’un appel à boycotter les « fraises de sang » (#bloodstrawberries) est lancé sur les réseaux sociaux. Deux jours plus tard, le ministre de l’Ordre public et de la Protection du citoyen, Nikos Dendias, se rend sur place. L’affaire tombe mal : le Conseil de l’Europe vient juste de publier un rapport très critique sur l’augmentation des crimes xénophobes en Grèce. Régulièrement épinglé pour violation des droits des migrants, l’Etat grec peine à montrer sa bonne volonté. Le parti néonazi Aube dorée a nié l’existence des chambres à gaz pendant la Seconde Guerre mondiale, sans être inquiété par la justice. Et le projet de loi contre le racisme s’enlise : le texte en est à sa troisième mouture en quatre ans, tant il suscite de vives polémiques... Dendias doit donner des gages aux Européens. Devant les caméras, il promet que les migrants de Nea Manolada ne seront jamais chassés du pays.
      Leur régularisation ? « C’est extrêmement complexe »...

      De belles déclarations... rapidement balayées par le vent sec du Péloponnèse. Depuis que l’émotion médiatique est retombée, plus personne ne se soucie des grévistes de Nea Manolada. Leur régularisation ? « C’est extrêmement complexe », répond-on, un peu gêné, au siège de la Gauche démocratique, à Athènes. Seuls les 35 Bangladais qui ont eu la « chance » d’être blessés ont, à ce jour, reçu un papier officiel. Il y est reconnu qu’ils ont été « victimes d’esclavage », mais ce document n’a aucune valeur juridique. Quant aux autres... « Rien n’est prévu », avoue-t-on au ministère de l’Ordre public et de la Protection du citoyen.

      Fin d’après-midi, au campement des insurgés, trois tentes rudimentaires constituées de bâches et de bambous. Dans l’une d’elles, une dizaine d’hommes dorment sur des cartons. Des vêtements fatigués sèchent sur un fil. Près de l’entrée, sous un auvent, un Bangladais s’active au-dessus d’un fourneau. Sur le sol, posées sur un plastique, des cuisses de poulet dégèlent lentement. « Ce sont les dernières », s’inquiète Salam, l’un des rares, ici, à parler anglais. Quelques jours après le drame, l’ambassadeur du Bangladesh est venu livrer de la nourriture. Il n’en reste plus rien.

      Voilà deux semaines, un homme aux cheveux blancs et à la voix bourrue leur a rendu visite : Dimitri Vamvakas. « Je suis le nouveau patron, je n’ai rien à voir avec l’an-cienne équipe, leur a-t-il dit. Reprenez le travail, je vous promets que vous serez payés. » Mais Salam se méfie : « Et s’il était pire que l’autre ? Et nos salaires ? Ils nous doivent au total 180 000 euros ! »

      Le voici, justement, au volant de son camion, au milieu des serres. Tandis que nous approchons, un gardien, treillis et coupe militaire, surgit à moto. « Vous n’avez rien à faire ici, partez ! » éructe-t-il. Immédiatement, Vamvakas calme le jeu. Il tente un sourire. « Vous voulez des fraises ? Tenez, prenez tous les cageots que vous voulez ! » Puis : « Cette histoire est terrible, mais c’est un cas isolé, prétend-il. Les migrants sont bien traités, car nous avons besoin d’eux. Les Grecs ne veulent pas faire ce travail, ils n’ont plus le goût de l’effort. Quand je pense que je me suis engagé dans la marine à 12 ans... » Va-t-il payer les arriérés de salaires ? Il élude la question, part précipitamment. Avec toutes ces histoires, les fraises sont en train de pourrir, il faut sauver la récolte. « Vangelatos n’est pas un mauvais bougre, lâche-t-il en démarrant son moteur. Mais quand l’équipage commet des erreurs, c’est le capitaine qui trinque. »

      Nea Manolada, vers 22 heures. Des dizaines de Bangladais arpentent la rue principale, sous l’oeil impavide de vieux Grecs attablés. « Pour l’instant, il n’y a jamais eu de heurts entre habitants et migrants, commente Kostas Panagiotopoulos, en dégustant son café frappé. Mais les illégaux affluent sans cesse. Ils sont plus de 5000, alors qu’il n’y a que 2000 postes dans les plantations. La situation risque de devenir explosive. » Peau tannée et regard métal, Kostas possède une petite exploitation de 5 hectares. Il emploie une quinzaine de Bangladais, qu’il appelle tous par leurs prénoms. Et il n’a pas besoin de contremaître pour les gérer. Vangelatos ? « C’est un opportuniste, tranche-t-il. Il s’est fait un nom en vendant des fruits exotiques sur le marché d’Athènes, alors il a voulu se lancer dans la fraise. Il s’est imaginé qu’il suffirait de deux ou trois hommes de main costauds pour faire tourner l’affaire. Quelle erreur ! Les hommes, il faut les gérer, surtout les Bangladais : il y a des clans, des hiérarchies invisibles, de la violence... Ça peut vite dégénérer. Vangelatos s’est fait déborder. Par sa négligence, il a fait du mal à toute la profession. Le cours de la fraise a chuté et de nombreuses commandes ont été annulées. »

      Il faudra du temps pour que la « fraise du Péloponnèse » retrouve grâce aux yeux des consommateurs. D’autant que ce scandale n’est pas le premier, contrairement à ce qu’affirment les producteurs locaux.

      En 2009, un Egyptien avait été traîné sur plusieurs dizaines de mètres, la tête coincée dans la vitre d’une voiture, parce qu’il avait demandé une augmentation de salaire à son patron. Cette affaire avait déjà suscité une vive émotion, avant de sombrer dans l’oubli.

      Retour au camp. Salam prolonge la discussion sous la nuit étoilée. Il n’en peut plus de cette promiscuité. Sa femme, qu’il n’a pas vue depuis cinq ans, menace de divorcer s’il ne rentre pas au pays. Pourquoi rester en Europe s’il n’envoie plus d’argent ? lui demande-t-elle. Mais, un jour prochain, juré, Salam partira d’ici. Il a compris qu’il n’aurait pas de papiers. Clandestin il restera, à la merci de l’Aube dorée et de tous les Vangelatos qui profitent de cette main-d’oeuvre payée au noir. A Thèbes, la récolte des tomates va commencer. Salam va continuer à vivre au rythme des saisons. Il n’a pas d’autre issue. Le piège grec s’est refermé sur lui.


      https://www.lexpress.fr/actualite/monde/europe/immigration-en-grece-les-damnes-du-peloponnese_1255380.html
      #migrants_bangladais

    • Bloodstrawberries in #Manolada

      When immigrant workers from Bangladesh demanded their wages after going unpaid for six months, in Manolada, Greece, their supervisors shot at them. Over 20 were injured and had to be treated in hospital.

      x-pressed reports that police are going into the hospital to arrest and deport them, and journalists are being chased off the farm when trying to cover the story.

      The working conditions on the strawberry farm are compared to modern slavery, and it’s not the first time Manolada made the news with violent attacks against non-Greeks: Last year, a man’s head was jammed in the window of a car and he was dragged along for a kilometer as Ekathermini reports.

      Eleftherotypia English quotes Justice Minister Antonis Roupakiotis: “The barbarous attack … conjures up images of a slavery-based South that have no place in our country,”

      This is not my country tracks the violence back to Golden Dawn and their racist and xenophobic politics and actions:

      We have seen the rising xenophobia and racist rhetoric sweeping the country. It has become so commonplace to hear or read about foreigners being “filth”, “sun-human” “invaders”, “scum” that people are seeing them as such. The rise of Chrysi Avgi (Golden Dawn) has given racism and xenophobia a voice. A legitimacy. We have an “MP” that calls immigrants “sub-human” sitting on the Council of Europe’s Anti-discrimination committee !

      For more on this story, see Asteris Masouras Storify and Bloodstrawberries, a blog set up to cover the story. English content will come soon.

      http://intothefire.org/bloodstrawberries

    • Publication de la brochure “L’agriculture, laboratoire d’exploitation des travailleurs migrants”

      La Confédération Paysanne vient de publier, en supplément à son magazine Campagnes Solidaires, une brochure de 28 pages sur le thème des conditions de travail des saisonnier-e-s migrant-e-s dans l’agriculture industrielle en Europe. Réalisée grâce à l’appui de l’association Échanges & Partenariats par les volontaires partis en 2014 et 2015 auprès d’organisations paysannes dans différents pays d’Europe, elle rassemble nos observations et analyses recueillies auprès de travailleur-se-s, paysan-ne-s, militant-e-s syndicaux et associatifs.

      Ces observations dressent un constat alarmant sur les situations que connaissent les migrant-e-s travaillant dans l’agriculture industrielle, où l’exploitation, les atteintes à la dignité, au droit du travail, aux droits de l’homme sont monnaie courante, et s’intensifient avec la généralisation du recours à des intermédiaires : sous-traitants, agences de recrutement, prestataires de services, détachement international de travailleurs…

      La partie finale évoque enfin des pistes d’action pour enrayer ces dynamiques, en s’appuyant sur 10 années de travail de recherche, d’information, de plaidoyer et de mobilisation mené par les organisations membres de la Coordination Européenne Via Campesina et leurs partenaires.

      http://www.agricultures-migrations.org/publication-de-la-brochure-lagriculture-laboratoire-dexploi

      Pour télécharger la #brochure :
      http://www.agricultures-migrations.org/wp-content/uploads/2015/09/brochure.conf-v3.pdf

  • Una revista alemana describe un infierno de violaciones a mujeres y abortos en los campos de fresas onubenses

    “Acosadas, insultadas y violadas, eso es cotidiano para miles de mujeres que trabajan en los campos de tomates y fresas de España”… Así se inicia el reportaje que la revista alemana Correctiv ha realizado en los campos de fresa de Huelva y en el quedescribe un auténtico infierno para las trabajadoras del campo onubense procedentes de Marruecos.

    https://huelvadecidesufuturo.wordpress.com/2018/05/12/una-revista-alemana-describe-un-infierno-de-violacio
    #Espagne #travail #exploitation #agriculture #fraises #femmes #viols #Huelva #avortement #migrations #saisonniers #migration_circulaire #saisonnières

    signalé par @isskein sur FB

    • @isskein qui signale aussi :

      Des mains délicates pour des fraises amères

      À l’ouest de la communauté autonome d’#Andalousie, la province de Huelva s’est spécialisée depuis les années 80 dans la culture de la fraise. Aujourd’hui, plus de 7000 hectares de serre sont cultivés sur d’anciennes pinèdes publiques. Le cycle de production commence à la fin de l’été par la stérilisation des sols au bromure de méthyle. En octobre, les fraisiers qui ont grandi dans le froid des pépinières de Castilla y León, sont transplantés à Huelva. Ils produisent dès la fin du mois de décembre et jusqu’en juin des fraises qui seront exportées dans toute l’Europe. Il s’agit d’une culture hydroponique, le sol des serres n’apporte aucun élément nutritif aux plants. Cette production intensive dépend donc des multinationales qui fournissent les plastiques, les engrais et les pesticides indispensables à ce mode de culture. Même les plants viennent d’ailleurs. La plupart des agriculteurs cultivent la #fraise_Camarosa, une variété créée par une université californienne et dont la plantation suppose de payer des royalties à hauteur de 1800 euros par hectare et par an.

      https://www.cairn.info/revue-plein-droit-2008-3-page-34.htm

    • Et @isskein qui signale aussi :
      Les fruits de la frontière

      En partant de deux zones de production intensive de fraises situées, l’une en Andalousie et l’autre au nord du #Maroc, cet article vise à montrer les relations entre les stratégies d’implantation et d’organisation de la production des secteurs fraisicoles et les politiques migratoires et de régulation économique, relations qui sont à l’origine de la dynamique des marchés globaux. Plus précisément, il s’agit de montrer la manière dont l’intégration subordonnée évoquée plus haut s’est déclinée à l’échelle régionale au sein de la chaîne globalisée des fruits rouges, comment cela a abouti à l’embauche d’ouvrières marocaines des deux côtés du détroit et quel rôle la frontière joue dans la profitabilité de ces deux enclaves. On s’intéressera aux écarts entre annonces libérales et réalités politiques aussi bien en matière migratoire qu’économique.

      https://www.cairn.info/revue-plein-droit-2018-1-page-31.htm

    • Recherche im Original

      Vergewaltigt auf Europas Feldern

      Sexuell belästigt, beleidigt, vergewaltigt – das ist der Alltag für tausende Erntehelferinnen in Europa. Sie ernten Tomaten und Erdbeeren, die in deutschen Supermärkten als „sicher und nachhaltig“ verkauft werden. Doch die Verantwortlichen kommen ungestraft davon. In einer monatelangen Recherche in Spanien, Marokko und Italien hat BuzzFeed News diese Missstände aufgedeckt.

      https://www.buzzfeed.com/de/pascalemueller/vergewaltigt-auf-europas-feldern

    • De jornaleras a esclavas sexuales en los campos de fresas de Huelva: la verdad oculta

      En las fincas de frutas de la provincia andaluza impera la ley del silencio. Decenas de mujeres marroquíes cuentan que sus encargados las chantajean con dejarlas sin trabajo si no mantienen con ellos relaciones sexuales. Casi nadie denuncia por temor al despido. EL ESPAÑOL habla con varias de ellas. «O cedes y callas, o te echan», dice una.


      https://www.elespanol.com/reportajes/20180518/jornaleras-esclavas-sexuales-campos-huelva-verdad-oculta/308220340_0.html
      #esclavage_sexuel #esclavage_moderne #prostitution #viols

    • Exploitation salariale et sexuelle dans la récolte des fraises en #Andalousie

      Pour protéger les #saisonnières_marocaines, il faudrait assurer leur #égalité_de_droit avec le reste des travailleurs et travailleuses et c’est justement ce que le #programme_de_migration_temporaire empêche, en articulant intentionnellement les rapports de sexe, les asymétries de classe, et la précarisation juridique des étrangers.


      https://blogs.mediapart.fr/juana-moreno-nieto-emmanuelle-hellio/blog/050718/exploitation-salariale-et-sexuelle-dans-la-recolte-des-fraises-en-an
      #exploitation_sexuelle #viols #Espagne #saisonniers #saisonnières #travail_saisonnier #discriminations

    • Le goût amer des fraises d’Espagne

      Depuis 2006, des milliers de Marocaines passent trois à cinq mois à trimer dans les plantations de Huelva, où elles sont souvent exploitées voire harcelées. Celles qui témoignent craignent pourtant de perdre un revenu indispensable.

      Les ferrys en provenance de Tarifa défilent dans le port blanc de Tanger, aux pieds de l’ancienne médina. Venus d’Espagne, les touristes descendent en minishort, casquette sur la tête et valises à roulettes à bout de bras. Dix minutes plus tard, une cinquantaine de Marocaines, vêtues de djellabas et de foulards de couleur, débarquent avec des montagnes de bagages et de grands sacs à carreaux remplis de vêtements, couvertures, appareils électroniques et chocolats.

      Pendant leurs trois à cinq mois passés en Espagne, ces femmes ont cueilli des fraises, « l’or rouge » de Huelva (sud-ouest), loin de leurs familles. « Chaque jour, sauf le dimanche, pendant six heures et demie, on porte les cagettes, on y met les fraises que l’on a cueillies, puis on les ramène au frigo », explique Hayat, Marocaine de 42 ans qui laisse depuis onze ans ses deux enfants chez leur père le temps de son contrat en Espagne. « J’ai le même chef depuis 2007. Il est correct et nous paie à temps », affirme l’ouvrière agricole, qui revient au Maroc avec 34 000à 39 000 dihrams en poche, soit entre 3 100 et 3 600 euros pour la période. Un salaire conséquent pour cette femme de la campagne d’Agadir, où elle a l’habitude de ramasser des légumes pour 55 dirhams (5 euros) par jour.

      Pour gagner cette somme, nécessaire à leur subsistance, les 17 000 saisonnières recrutées cette année, toutes mères de famille de la campagne marocaine, ont dû trimer. Epuisées par la cueillette, elles dorment à six dans la même chambre d’un préfabriqué fourni par l’employeur. « Nous achetons ce que nous mettons dans notre ventre », résume Hayat, qui dit porter trois à quatre cagettes de 5 kilos en même temps. « C’est tellement lourd », se plaint l’une d’entre elles en montrant ses poignets lacérés. D’autres femmes ont mal au dos à force d’être courbées toute la journée. « Heureusement, nous avons des réductions sur les frais de médecins et de pharmacie », assure Hayat. Encore faut-il que les saisonnières soient au courant et fassent les démarches pour profiter de leurs droits dans un pays où elles ne maîtrisent pas la langue.
      « Tout était faux »

      Début juin, dix saisonnières ont osé parler de harcèlement et d’agressions sexuelles. Révoltée, l’une d’entre elles, Fatiha (1), raconte sa désillusion depuis l’Espagne, où elle attend le procès. « On nous a vendu un rêve : quinze jours de formation, 37 à 40 euros par jour, un bon logement… A l’arrivée, tout cela était faux », s’énerve cette Marocaine de 34 ans, recrutée pour la première fois. Depuis qu’elle a témoigné, son mari a demandé le divorce. La plupart des saisonnières ne se risquent pas à parler, de peur de ne pas être rappelées l’année suivante. Certaines évoquent timidement des cas de harcèlement au travail. « Le pointage quotidien des caisses ramenées est stressant. Les chefs râlent et sont parfois irrespectueux. Ils nous mettent beaucoup de pression pour travailler vite. Si on ne remplit pas l’objectif de productivité par jour, ils nous renvoient à la maison », décrit Amina, mère de famille qui fait l’aller-retour depuis 2007. « Au début, les chefs nous ont dérangées. Mais nous avons été patientes car nous avons des enfants à nourrir. Maintenant, ils nous laissent tranquilles », explique l’ouvrière de 37 ans.

      Au lendemain de leur dernier jour de travail, les femmes qui arrivent à Tanger en milieu d’après-midi ont hâte de rentrer chez elles. « Je prends le bus directement pour Agadir », lance Amina en traînant ses valises le plus vite possible. Le visage encadré par son voile blanc, les traits tirés, elle doit encore passer la nuit dans le bus pour retrouver son fils et sa fille qu’elle n’a pas vus depuis cinq mois.« J’ai l’habitude que mes enfants me manquent », glisse Khadija (1), une autre travailleuse des fraises, d’un ton amer.

      Etre mère d’un enfant de moins de 18 ans est l’un des critères fixés par l’Anapec, l’agence marocaine de l’emploi qui gère le recrutement. Une façon de s’assurer qu’elles rentrent au pays une fois leur contrat terminé. Seules les femmes qui viennent aussi de milieu rural et qui ont entre 18 et 45 ans peuvent postuler dans le cadre de la convention bilatérale, dite « win-win », signée par le Maroc et l’Espagne en 2006.

      « Des femmes dociles »

      D’un côté, ce programme de « migration circulaire » répond aux besoins économiques espagnols et permet à l’Union européenne de contrôler les flux migratoires. De l’autre, il apporte des devises et participe au développement du Maroc. La première année, 1 800 femmes ont été envoyées dans les champs de fraises espagnols, avec un taux de fuite de 50 %. Sur les 17 000 ouvrières de 2009, 4,5 % ne sont pas retournées au Maroc.

      Après un creux à 2 100 femmes lors de la crise économique espagnole, leur nombre a redécollé cette année, selon Chadia Arab, géographe chargée de recherche au CNRS et auteure de Dames de fraises, doigts de fée (2018, En toutes lettres). « Ce programme est déséquilibré. S’il soutient financièrement des femmes vulnérables, souvent analphabètes, pas une seule n’a été accompagnée pour créer son entreprise au Maroc, constate la chercheuse, qui a vu défiler les cas de harcèlement au travail pendant son enquête. Ce système veut des femmes dociles, rentables, peu chères, malléables et silencieuses. Elles se taisent et s’adaptent aux exigences des patrons afin d’être sûres de retravailler l’année suivante. » Et d’ajouter : « Tous les employeurs ne respectent pas le contrat. Certains ont installé des caméras de surveillance, d’autres ne garantissent pas le transport pour faire les courses, ni de logements salubres ou des jours de formation. »

      Des dérapages sûrement dus à la disparition, en 2012, des médiateurs de la Fondation pour les travailleurs étrangers à Huelva (Futeh) qui venaient contrôler sur le terrain. L’affaire des plaintes à Huelva a mobilisé les associations marocaines et espagnoles. « Nous allons ouvrir ce dossier et demander au gouvernement marocain l’amélioration des conditions de recrutement et de travail, comme l’accès à des congés, au chômage et à une assurance », revendique la présidente de la Fédération marocaine des ligues des droits des femmes, Latifa Bouchoua. Même sans ces améliorations, les « dames des fraises » souhaitent retourner en Espagne l’année prochaine. « Comme au Maroc, le travail est dur. Mais ici, il est bien payé », tranche Amina.


      http://www.liberation.fr/planete/2018/07/04/le-gout-amer-des-fraises-d-espagne_1664190

    • Contrataciones en origen y el monocultivo global de la fresa

      Proteger a estas mujeres exige asegurar su igualdad de derechos con el resto de trabajadores y trabajadoras, que es justamente lo que el programa de contratación en origen impide, articulando desigualdades de género, clase, origen y precarización jurídica, así como cuestionar el modelo productivo de la fresa.

      Las insostenibiilidades del actual sistema agroalimentario son múltiples y generalmente las relacionamos con su impacto medioambiental, sus efectos nocivos sobre la salud o la destrucción de las producciones y modos de vida campesinos. No obstante, las violencias que se ejercen sobre la mano de obra que trabaja en condiciones de gran precariedad en los campos de la agricultura global forman parte estructural de este sistema aunque queden, a menudo, invisibilizadas.

      Estas últimas semanas, hemos visto romperse el pacto de silencio existente en torno a las condiciones de vida y trabajo de las temporeras extranjeras en el sector de la fresa en Huelva. La publicación a finales de abril de un reportaje denunciando las violaciones y abusos sexuales sufridos por trabajadoras marroquíes del sector ponía en el punto de mira el sistema de contrataciones en origen, erigido durante años como modelo ejemplar de «migración ordenada» por las instituciones españolas, marroquíes y europeas.

      A principios de junio, unas cien jornaleras marroquíes, apoyadas por el SAT (Sindicato Andaluz de Trabajadores), intentaron denunciar en los juzgados incumplimientos del contrato y abusos sexuales en una empresa de Almonte. En solo dos días, el empleador organiza el retorno del conjunto de trabajadoras de su finca a Marruecos, aún cuando sus contratos no habían finalizado. El objetivo, evitar que pudieran ratificar sus denuncias ante la inspección de trabajo el lunes siguiente. Sin embargo, una parte importante de las trabajadoras resiste y se niega a embarcar en los autobuses. Las redes sociales y medios locales retransmiten lo que está ocurriendo y se logra detener el traslado de las trabajadoras al puerto de Algeciras.

      Esta situación, en la que ante una tentativa de denuncia las trabajadores son "devueltas” a Marruecos ilustra especialmente bien la tendencia autoritaria del mercado de trabajo en el sector fresero y del sistema de contrataciones en origen que lo organiza.

      Como en ocasiones anteriores, las asociaciones de productores denuncian una campaña de desprestigio contra el sector, minimizan lo que consideran “prácticas aisladas” de ciertos individuos e incluso basculan la responsabilidad sobre las propias víctimas, acusándolas de mentir y relacionándolas con la prostitución.

      En estos fértiles terrenos para los estereotipos sexistas y racistas (Martin Díaz 2002), nos parece muy importante insistir en que no se trata de hechos aislados ni fortuitos, sino que el programa de contratación en origen desarrollado para responder a las necesidades del monocultivo de fresa, es la causa principal de la vulnerabilidad de estas temporeras frente a todo tipo de abusos. Es el régimen migratorio, puesto al servicio del capitalismo agroalimentario global y su alianza con el patriarcado y el racismo, lo que explica la situación de las jornaleras marroquíes en la agricultura onubense.

      La provincia de Huelva es la principal zona de producción de fresas extra-tempranas en Europa. Su vocación exportadora y la utilización de todo tipo de insumos (variedades patentadas de fresas, plásticos para invernaderos, agroquímicos...) insertan al sector en una cadena agroalimentaria dominada por las grandes empresas transnacionales que producen los insumos agrícolas y controlan la distribución de la fruta en los mercados europeos, acumulando la mayor parte de los beneficios. La dependencia de los productores agrícolas frente a estos actores globales, junto a la gran cantidad de mano de obra necesaria para recolectar la fresa, hacen que el mantenimiento del costo del trabajo a la baja constituya una estrategia fundamental para los productores a fin de asegurar la rentabilidad del sector y aumentar el margen de beneficios.

      En este contexto de búsqueda de una mano de obra flexible, barata y que no se organice para exigir mejoras laborales, debe entenderse la instauración de un sistema de contrataciones en origen totalmente feminizado desde el año 2000. A partir de 2006, se institucionaliza el programa de contrataciones con Marruecos que contará con cuantiosas subvenciones de la Unión Europea, y ello a pesar de su dimensión utilitarista, la precariedad laboral y jurídica que impone a las trabajadoras y el carácter sexista de la selección.

      En efecto, al Estado español y a la Comisión Europea poco ha parecido importarles el carácter discriminatorio que establece la contratación de mujeres pobres con hijos menos de 14 años a su cargo para garantizar el retorno a su país de origen al final de la campaña.

      Además, el sistema de contrataciones en origen establece una cautividad jurídica y material sobre las temporeras que constituye la base de su desprotección. Primero, porque los permisos de residencia y trabajo de estas trabajadoras están vinculados a un territorio, a un sector de actividad y a un empleador concreto, lo que supone que las temporeras no tienen derecho a cambiar de trabajo. Igualmente, su retorno la temporada siguiente depende de la voluntad del empleador. Ello instituye una dependencia absoluta de las trabajadoras ante el empresariado y reduce enormemente su capacidad para negociar las condiciones laborales o denunciar cualquier forma de abuso pues si pierden o renuncian a sus empleos, ya de por si valiosos debido a la diferencia salarial existente con Marruecos (equivalente a 6,3 euros por jornal) pierden, además, el derecho a trabajar legalmente en el Estado español. Las alternativas para aquellas que no acepten las condiciones ofertadas son claras y poco alentadoras, quedarse de manera irregular en el Estado español o regresar a Marruecos sin posibilidad de volver a acceder a un contrato.

      Segundo, porque el hecho de que las temporeras residan en las fincas agrícolas permite ejercer un control sobre la vida privada de las temporeras, como muestra el hecho de que estas trabajadoras vean a menudo limitadas sus salidas nocturnas a fin de garantizar su productividad en el trabajo o que se les lleguen a retener los pasaportes para evitar lo que en el sector se consideran “fugas”, es decir, el abandono del programa. Asimismo, este modelo residencial dificulta su contacto con la población local y el aprendizaje del español, vías fundamentales para hacer valer sus derechos. En contraste, este sistema resulta de gran utilidad para los productores pues les permite de poseer trabajadoras “en stock” y ajustar diariamente el tamaño de su plantilla a las necesidades del cultivo.

      Por todo esto, para proteger a estas mujeres se hace imprescindible asegurar su igualdad de derechos con el resto de trabajadores y trabajadoras, que es justamente lo que el programa de contratación en origen impide, articulando desigualdades de género, clase, origen y precarización jurídica, así como cuestionar el modelo productivo de la fresa, paradigmático de una agricultura globalizada, que induce a que los eslabones más débiles de la cadena, las trabajadoras, carguen con todas las insostenibilidades y violencias de un sistema que beneficia al gran capital y sus alianzas patriarcales.

      https://www.eldiario.es/ultima-llamada/Contrataciones-origen-monocultivo-global-fresa_6_786781317.html

    • Les femmes de #Huelva se mobilisent contre l’exploitation sociale et sexuelle dans les champs de fraises

      Dimanche 19 juin, plus de 2000 personnes ont manifesté à Huelva au cri de Fresas si, pero con derechos (« des fraises : oui. Mais avec des droits ! »). Cette irruption des travailleuses fait suite aux révélation et dénonciations récentes (mais malheureusement pas nouvelles) des viols et des abus sexuels – mais plus largement des mauvaises conditions de travail – que les travailleuses marocaines venues ici pour la récolte des fruits rouges endurent. Durant la manifestation, un système en particulier était dénoncé : le recrutement en origine et la manière dont il organise la vulnérabilité sociale et sexuelle des travailleuses.

      Les conditions de vie et de travail des femmes migrantes marocaines dans les champs de fruits rouges à Huelva sont connues – parfois dénoncées – depuis au moins 10 ans. C’est donc moins les nouvelles révélations par deux journaux allemands sur les « viols dans les champs » que la mobilisation forte des femmes qui a suivie qui explique le fort écho médiatique qu’ont pris ces faits les dernières semaines. Motivées notamment par des plaintes déposées auprès de la justice espagnole dans un contexte où ce n’est pas la norme, mais aussi par la libération de la parole des femmes en Espagne (mouvements #cuéntalo et #yosítecreo), celles-ci ont donc défilé dimanche dernier pour exprimer leur soutien aux travailleuses migrantes marocaines et critiquer plus largement le système d’exploitation des étranger·ère·s qui sous-tend la production de fruits rouges dans la région.
      Depuis les années 1990 en effet, l’économie et l’espace de la région de Huelva s’organisent autour de la production de fruits rouges destinés à l’exportation – des fraises notamment, mais aussi des framboises, des mûres et des myrtilles. On compte aujourd’hui, pour les seules fraises, 7000 ha de serres et plus de 300 000 tonnes exportées chaque année. Or, pour pouvoir produire aux prix les plus bas et être compétitifs à l’exportation, la région dépend, depuis les années 2000 de l’importation périodique d’une main d’œuvre migrante flexible et à bas prix, provenant aujourd’hui principalement du Maroc . Comme le souligne José Antonio Brazo Regalado, responsable du SAT a Huelva, cette production se base donc sur une précarisation de la main d’œuvre, qui elle-même se fonde sur une triple discrimination : être ouvrière, être femme, être migrante.

      « Dans ce système, le journalier est déchiqueté. La journalière encore plus, et la migrante, encore davantage » José Antonio Brazo Regalado

      « Des fraises oui, mais avec des droits ! »

      Le 19 juin, la manifestation organisée par le SAT a ainsi rassemblé plus de 2000 personnes, dont de nombreuses femmes rassemblées en tête du cortège et alternant slogans féministes, en faveur de l’ouverture des frontières, et contre les violences sexuelles. Outre le SAT, le mouvement du 8M était aussi présent en nombre ainsi que de nombreuses personnes simplement solidaires après les dénonciations récentes. La manifestation rassemblait aussi plusieurs journalières espagnoles et marocaines. Preuve des dommages en cascade du patriarcat, plusieurs marocaines marchaient le visage caché par un foulard pour ne pas pouvoir être reconnues par leur famille. Au moins l’une d’entre elle ayant été reniée par son mari (resté au Maroc) à la suite de la diffusion d’images la montrant dénonçant les violences sexuelles subies.

      C’est une enquête de deux médias allemands, Correctiv et Buzzfeed qui a récemment rappelé les coulisses des fraises de Huelva. En rencontrant plusieurs travailleuses de la région, les journalistes ont pu en exposer le coût social. Dénonçant les « viols dans les champs », les journalistes insistaient notamment sur le fait qu’alors que tout le monde « a entendu » parler de la situation (et que par exemple, le taux d’avortement de la région de Palos de la Frontera monte en flèche durant la saison de récolte), ce problème est tu et que le travail des organisations syndicales et associatives présentes pour prévenir les viols et poursuivre les violeurs est quasi-inexistant. Et les procès très rares. Cette fois-ci les choses ont été différentes. À partir de fin mai, les paroles se sont libérées et une, puis plusieurs plaintes, ont été déposées dans différentes entreprises, par des femmes (marocaines et espagnoles) pour dénoncer les violences sexuelles que leur font subir les chefs et les contremaitres. Avec l’aide du SAT, d’autres plaintes ont aussi été déposées pour dénoncer, de manière plus générale, les conditions de travail et le harcèlement professionnel constant que subissent ces travailleuses durant la récolte. Derrière ces dénonciations, une cible particulière : le système de « recrutement en origine » qui organise depuis le début des années 2000 le travail temporaire agricole à Huelva.
      Organiser la vulnérabilité des femmes au profit des entreprises

      Les contrats en origine sont l’un des piliers de la production industrielle de fruits rouges d’exportation andalouse. Chaque année à Huelva, aux côtés des journalier·ère·s espagnoles et des migrant·e·s sans-papiers se déplaçant avec leur valise au fil des récoltes espagnoles[1], on trouve depuis 2001 plusieurs milliers de travailleur·euse·s migrant·e·s (notamment Marocaines) recruté·e·s à travers ce système. Cette année, le SAT explique qu’il y a 15 000 contrats en origine sur les 70 000 personnes travaillant à la récolte à Huelva. Pourtant, malgré les discours sur les migrations « éthiques » ou « ordonnées » qui justifient ce système (qui a inspiré l’UE dans sa gestion des migrations temporaires de travail et des migrations circulaires), les épisodes récents montrent une nouvelle fois que ces contrats, visant à fournir une main d’œuvre docile et peu chère à l’industrie, construisent la vulnérabilité des travailleuses. Comme l’ont montré différentes chercheuses[2] (dont l’une d’elle, Chadia Arab, a d’ailleurs récemment publié une tribune sur le sujet) le contrat en origine permet de s’assurer de la disponibilité de la main d’œuvre au plus bas prix tout en s’assurant que celle-ci ne restera pas.

      Au plus bas prix d’abord car l’ensemble du système favorise la vulnérabilité et l’acceptation de conditions de travail difficiles. Disséminées dans les champs de fraises, et logées par l’employeur sur les parcelles, il est très difficile pour les femmes de s’organiser ou de rencontrer des acteurs externes et ainsi de sortir de leur dépendance au contremaître. De plus, comme les contrats sont nominatifs (et assortis d’une période d’essai de 10 jours), les travailleuses sont incitées à la docilité sous peine d’être licenciées (alors que – bien que le transport soit supposément à la charge de l’employeur – elles ont parfois engagé des frais pour venir), de se voir proposer moins de journées de travail, ou de ne pouvoir être réembauchées l’année suivante… Enfin, alors que les travailleuses ne touchent en moyenne que 36€ pour une journée de travail selon le SAT (au lieu des 40,36€ prévus par la convention collective – déjà très basse), il arrive aussi que celles-ci ne soient payées en entier que le jour de leur départ.

      C’est l’autre versant du contrat en origine : le séjour des travailleuses est conditionné au travail, et tout est fait pour s’assurer qu’elles ne resteront pas. D’abord, le retour est compris dans le contrat (qui lui même ne peut être fait qu’en origine) et conditionne les potentielles réembauches la saison suivante. Ensuite, pour diminuer les risques de « fugue », les employeurs embauchent des marocaines originaires de régions rurales (donc souvent peu éduquées) et avec au moins un enfant mineur – et donc des attaches fortes – au Maroc. Le critère de genre se fonde ainsi à la fois sur un stéréotype naturaliste (les femmes seraient plus délicates[3]) et sur un calcul stratégique cynique (les mères retourneront vers leurs enfants).

      Des femmes forcées à monter dans les bus pour empêcher leurs témoignages

      Les principales organisations de producteur et de syndicats ont donc beau jeu de répondre que les viols doivent certes être évités, mais qu’ils ne sont pas représentatifs de la réalité des champs de fraises et qu’ils ne seraient que « des cas très isolés », ou de rendre obligatoire des formations sur les enjeux de genre pour les chefs et contremaîtres (même si c’est sans doute utile). La question en réalité n’est pas vraiment de savoir combien de pourcents de femmes sont violées dans les champs chaque année (d’abord parce que c’est toujours trop), elle est plutôt de comprendre que le dispositif du recrutement en origine ainsi construit permet et facilite les violences sexuelles et les violations des droits des travailleuses migrantes. De manière plus générale, cette recherche d’un « travail sans le travailleur »[4] qui fait de ce dernier un simple facteur de production que l’on pourrait mobiliser temporairement, à volonté, avant de le remettre « à sa place », ne peut se faire qu’au prix d’une mise en danger des droits de celui-ci.

      Un dernier épisode a participé à la vigueur de la mobilisation et est ainsi symptomatique de la manière dont ce dispositif porte en lui la vulnérabilité de celles qu’il vise. Alors que le SAT avait coordonné une plainte de plus de 100 travailleuses de l’entreprise Doñana1998 (Almonte) pour harcèlement professionnel et pour dénoncer leurs conditions de vie, l’entreprise s’est retournée contre les quelques 400 travailleuses et a tenté de les faire rentrer au Maroc au plus vite, les faisant monter dans des bus de retour en arguant officiellement de la fin de la saison… Une mobilisation rapide du SAT devant l’inspection du travail a permis de prévenir que celles-ci soient effectivement renvoyées au Maroc, et de dénoncer la séquestration et l’expulsion forcée de ces femmes visant à empêcher leur témoignage. On voit bien là encore comment le retour « inclus » (et forcé) dans le contrat renforce là encore la vulnérabilité des travailleuses importées…


      https://medialibre.info/echanges-partenariats/les-femmes-de-huelva-se-mobilisent-contre-lexploitation-sociale-et-sexu

      #résistance #manifestation #solidarité

    • « La fraise est dure, mais la liberté est douce ». L’expérience migratoire des saisonnières marocaines en Espagne

      Comment se déroulent l’arrivée et le séjour des migrants temporaires ? Comment se vit cette condition de migrant provisoire, la condition de #guest_worker selon la terminologie en vigueur, invité à travailler mais à ne pas s’installer dans la société d’accueil ? Nous verrons à partir d’un cas très particulier, celui des saisonnières marocaines recrutées pour la production de la fraise dans la province de #Huelva en Espagne, que le vécu de cette migration est marqué par une certaine ambivalence. Les ouvrières dont il est question ici sont recrutées pour des courtes durées. Pour garantir leur retour au pays, une fois la saison finie, on choisit des mères de jeunes enfants.

      https://www.cairn.info/revue-vie-sociale-et-traitements-2013-4-page-59.htm
      cc @isskein

    • DES FEMMES MAROCAINE DANS LES CHAMPS DE FRAISE

      Dans l’émission de ce jour , des histoires multiples, celles d’ouvrières agricoles marocaines venues travailler pour la récolte des fraises en Espagne, dans la province de Huelva. Et comme illustration de cette situation , une soirée de rencontre avec Chadia Arab auteure de Dames de fraises, doigts de fée:Les invisibles de la migration saisonnière en Espagne , se tenait ce 4 Octobre à la librairie scop Envie de lire à Ivry-sur-Seine.Bonne écoute !

      https://actualitedesluttes.info/?p=3668
      http://actualitedesluttes.info/wp-content/uploads/2018/10/181019.mp3

    • Dames de fraises, doigts de fée, les invisibles de la migration saisonnière marocaine en Espagne

      À la fin des années 2000, des milliers de Marocaines sont parties travailler à la cueillette des fraises dans la province de Huelva, en Espagne. Recrutées directement au Maroc par des contrats saisonniers, ces Dames de fraises sont choisies pour la précarité de leur situation et parce qu’elles laissent des enfants qui les contraindront à revenir.

      Chadia Arab, géographe et chercheuse au CNRS, analyse les rouages de ce programme de migration circulaire, pensé pour répondre aux besoins de main-d’œuvre et réguler les flux migratoires entre le Maroc et l’Union européenne, mais dont les femmes sont les grandes oubliées.


      http://www.etlettres.com/livre/dames-de-fraises-doigts-de-fee-les-invisibles-de-la-migration-saisonniere
      #livre #Chadia_Arab

    • Marocco invierà 20mila lavoratrici stagionali in Spagna

      Il governo del Marocco prevede di inviare 20mila lavoratrici stagionali in Spagna per la campagna di raccolta dei frutti di bosco e delle fragole nel 2019, oltre 4mila in più rispetto al 2018. Lo ha annunciato il ministro del Lavoro, Mohamed Yatim, dopo una riunione con l’Agencia Nacional de Empleo spagnola (Anapec) incaricata della selezione delle candidate, in una nota riportata dai media iberici. Dei 20mila stagionali, tutte donne provenienti dalle zone rurali del Marocco, oltre 8mila sono raccoglitrici che hanno già partecipato alla campagna del 2018. L’obiettivo dell’accordo con l’Anapec è garantire «un lavoro decente» alle lavoratrici immigrate, che assicuri loro «le garanzie nella selezione, nell’alloggio, nelle condizioni di lavoro e di supervisione», concordate con la parte spagnola, come si evidenzia nel comunicato. Una delle novità è che le raccoglitrici che hanno partecipano a quattro campagne stagionali successive, avranno un permesso spagnolo di residenza, basato su «un modello di emigrazione circolare», perché sia «esemplare, sicura e ordinata». E una campagna di sensibilizzazione è stata avviata dal governo marocchino per evitare lo sfruttamento e i casi di presunti abusi sessuali, denunciati a maggio scorso da almeno una decina di stagionali immigrate impiegate nella raccolta delle fragole a Huelva, in Andalusia, sui quali è stato aperto un fascicolo d’inchiesta dall’alto tribunale dell’Audiencia Nacional. Video diffusi in tv spiegheranno quali sono le condizioni di lavoro, i propri diritti e doveri. Da parte sua, la Giunta dell’Andalusia ha destinato personale alla mediazione culturale, perché le raccoglitrici immigrate non abbiano problemi a contattare l’amministrazione e ricevere informazione e assistenza in caso di necessità. Una delle finalità del «modello di emigrazione circolare» è combattere il fenomeno dell’immigrazione illegale. Il ritorno delle raccoglitrici al paese d’origine è, infatti, una delle preoccupazioni dei governi di Madrid e Rabat, sebbene abitualmente il 90% delle lavoratrici rientri in Marocco al termine della raccolta. I requisiti per accedervi sono: essere donna, minore di 40 anni, sposata e con figli minori di 14 anni a carico, proprio per dissuadere le braccianti dalla tentazione di restare in Spagna, una volta terminata la stagione. La Giunta dell’Andalusia ha annunciato che realizzerà una supervisione dei rientri attraverso il Foro dell’Immigrazione, assieme a organizzazioni sociali e Ong, per monitorare continuamente la situazione reale delle lavoratrici e perché la campagna di raccolta possa svolgersi in maniera ordinata. Da parte sua, l’Associazione di Produttori ed Esportatori di Fragole di Huelva (Freshuelva) ha ribassato a 15mila il numero di raccoglitrici con contratti in origine in Marocco, che giungeranno nella provincia per la raccolta dell’’oro rosso’ nel 2019. Per il prossimo anno, la provincia di Huelva aumenterà a 11.464 gli ettari coltivati a frutti rossi, pari a un 2,8% in più che nella stagione 2017/2018, e a 6.095 quelli dedicati alla coltivazione di fragole (+3,5%), secondo i dati diffusi da #Freshuelva.

      http://www.ansamed.info/ansamed/it/notizie/rubriche/cronaca/2018/12/06/marocco-inviera-20mila-lavoratrici-stagionali-in-spagna_c5737d2b-ad28-4640

    • Bleak life for a Moroccan migrant in southern Spain

      Migrants working on Spanish farms face hard times due to the back-breaking jobs and low wages they receive. InfoMigrants met a Moroccan woman who struggles to make ends meet.

      In the Mediterranean city of Almeria in southeast Spain, migrants spend all day working on the farm, then go back their desolate homes to take a rest before starting another hard day.

      One of the migrants here is Radia*, a 30-year-old Moroccan woman who is working at a farm where she harvests fruits and other produce.

      She is one of thousands of Moroccan women who immigrated clandestinely to Spain several years ago before obtaining a residency in Spain.

      She listens attentively as a group of workers voice their complaints to representatives of the Sindicato Andaluz de Trabajadores (SAT), the workers union in Andalusia. They talk about the rough treatment they receive from farm owners and employers. Radia still has difficulty understanding every word in Spanish, but she is fully aware of the matter at hand.

      Meeting with her after the discussion with the union representatives, Radia starts crying as she starts talking about her situation.

      Daily struggles

      If Radia is late to the farm, her employer insults her, she says. She cannot object or talk back because she is afraid of what might happen. She chooses to keep working because of the absence of an alternative source of income.

      The image that many people back home have of Radia’s life in Spain is misleading, she explains. “Many Moroccan women think that I am enjoying a good life but the reality is completely different,” she adds.

      Afraid of being fired

      Only a few weeks before, her father had passed away. Radia was afraid that her boss would fire her if she took an absence from work. She could not afford a lawyer, and her Spanish was not strong enough to seek assistance through other NGOs.

      Therefore, Radia only stayed a few days in Morocco to attend the funeral. She noted that the farm owner did not even offer his condolences for her father’s death.

      Living in dire conditions

      To reach Radia’s home, it takes one hour to walk on foot, going through several agricultural fields to end up at a desolate building on an isolated hill.

      The house has no electricity and no water. She uses flashlights at night and bottles of water for cooking and washing. She starts her day at the farm at 8:00 in the morning.

      Radia has lived in the house for 11 years, saying that the house owner, who abandoned it, did not ask her to leave or to pay for her residency.
      Despite the dire conditions, she does not want to move, yet. Living here enables her to save the money she would have used for rent. She transfers part of her earnings to her mother in Morocco.

      Once in a while, a relative who also lives in Spain comes to visit Radia in her isolated surroundings to see how she is doing. Otherwise, her life is set around her work.

      Stay or return home?

      Radia says she will stay in Spain for now because there is no work available in Morocco. But staying here forever? She has ruled that option out entirely. She wants to go back to Morocco one day and set up her own business, she explains.

      She refuses to bring her mother to live with her in Spain, saying “I do not want her to live with me in this condition. Our lives in my country are better.”

      http://www.infomigrants.net/en/post/14365/bleak-life-for-a-moroccan-migrant-in-southern-spain?ref=tw

    • Rape and abuse: the price of a job in Spain’s strawberry industry?

      Ten Moroccan women say Spanish authorities have ignored claims they were trafficked, assaulted and exploited
      Last April, Samira Ahmad* kissed her baby goodbye and boarded a bus, leaving her home in Morocco for the strawberry fields of southern Spain.In her bag was her Spanish visa and a contract that promised €40 a day plus food and accommodation. In the three months she’d be away, she hoped the pain of being separated from her family would be softened by the money she’d be sending back to them – a fortune compared to what she’d be able to earn at home.

      A year on, and Ahmad’s life is in ruins. She is destitute, divorced and for the past 10 months has been living in hiding, surviving on handouts with nine other Moroccan women who – like her – claim they faced human trafficking, sexual assault and exploitation on the farm where they were hired to work. She says her biggest mistake – other than coming to Spain – was going to the authorities.

      “Before I left my home I was like a hero to everyone. Nobody in my village had ever had the chance to go and work in a rich country like Spain,” she said. “But it has turned out to be the worst decision of my life.”

      Over the coming weeks an estimated 20,000 Moroccan women will arrive in Spain to help bring in this year’s strawberry harvest. The women make up a large percentage of the seasonal workforce in Andalucía, employed under a seasonal worker visa scheme that has been operated by the Spanish and Moroccan governments since 2001. They will help to cultivate and harvest 400,000 tonnes of strawberries expected to be exported from the region this year to supermarkets in the UK, France and Germany. Spain is by far the largest exporter of strawberries in Europe, and this booming €580m export industry is now so important to the fragile Spanish economy that it has been dubbed the country’s “red gold”.

      Over the past few years, reports of widespread sexual and physical abuse and exploitation of Moroccan seasonal workers have surfaced in the local and international media.

      Both governments have downplayed the allegations, denying that the problem is widespread. Although numerous allegations of abuse and rape were reported in the media, last year the Moroccan ministry of employment, the body responsible for recruiting and issuing visas to migrant workers, denied any formal complaints had been made.

      Yet Alicia Navascues, from women’s rights group Mujeres 24, said that Moroccan women were being deliberately targeted because of their vulnerability. “Morocco women working as temporary workers in the field have described to us dehumanising and harsh working conditions they must endure, working in permanently crouched positions with a single break of 30 minutes a day in temperatures of 40 degrees under the plastic of the greenhouses,” she said. “In Morocco they are deliberately looking for those who are cheap and vulnerable to do this work, namely rural women with young children who only understand Arabic, cannot understand their contracts written in Spanish or claim their rights. It is a rigged system.”

      Ahmad said she had heard rumours of what happened to women who went to Spain before she left her home. “But I ignored them,” she said. “I didn’t think that such stories could be true in a rich country like this.”

      Yet she and the nine other Moroccan women who travelled to Spain on seasonal visas last year told the Observer that they had experienced serious and sustained sexual violence and labour exploitation on the farm where they were working.

      They claimed they were forced to live in cramped and dirty shipping containers, with hundreds of female workers sharing a few showers and faulty toilets.

      During the day they were racially abused and forced to work for 12-hour shifts without pay. They were denied food and water and penalised for taking toilet breaks or not working hard enough.

      ”The farm was very far away from the nearest town, we were totally isolated,” says Samira. “We didn’t speak Spanish and were desperate to send money home to our children. We had no power at all. The other women working on the farm who had been to Spain before said that it was always harder for new recruits but that we would get used to it.”The women also alleged that they were sexually assaulted and harassed; some said they were raped and others pressured into having sex in exchange for food and water. They said that some women were also ordered to work as prostitutes for local men who waited outside the farm in their cars every night.

      Aicha Jaber*, who worked on the same farm as Ahmad, was pregnant when she arrived in Spain last April. “I saw a job advert looking for women between 20 and 45 to work for a few months in the field,” she says. “I asked if my husband could get a job too but I was told they wanted women. Now I realise it was because they knew they could exploit us easily.”

      She says that as soon as she arrived at the farm she was sexually harassed and assaulted. She escaped being raped only through the intervention of other women working on the farm. “For us, this abuse was a kind of death because we had been shamed and we were so angry but also scared that our families would find out,” she says.

      After about six weeks on the farm, Jaber, Ahmad and eight other women went to Guardia Civil police officers to report that they had been exploited, raped and sexually assaulted.

      “We thought that when we went to the police we would get justice,” says Ahmad. “That we would get our wages, and the harassment stopped. But instead we have been abandoned and left to starve.”

      They are not the first Moroccan migrant workers to report cases of exploitation and sexual violence in Spain’s agricultural industry. A BuzzFeed Germany investigation last year led to several women coming forward with allegations and at least one other case of labour exploitation is going through the courts in Andalusia.

      Yet 10 months after they went to the local police, Ahmad and Jaber and all of the other women have yet to be interviewed by the Guardia Civil or the national police. Belén Luján Sáez, a Spanish attorney who is representing the group, said the national police had a legal obligation to investigate the women’s claims but had refused to activate the national anti-trafficking protocols that would have offered them support and assistance while their claims were investigated.

      Saez also claims that the provincial courts in Andalucía have been obstructive, failing to launch a proper investigation, not allowing the women enough time to travel to a courtroom in Huelva to give evidence in front of a judge last June and then leaving them in legal limbo for a further eight months. The charges of rape and sexual assault have also been downgraded to sexual harassment, with the courts citing a lack of evidence.

      The court in Huelva disputed these claims, saying that that women failed to attend two court dates – one last June and one in February – and blaming their lawyers for the lack of progress in the case.

      The national police said that it would not interview the women as potential human trafficking victims because they had already filed charges in a provincial court.

      “All we are asking is that these women’s reports of labour trafficking, rape and sexual assault are taken seriously and investigated properly,” said Luján Sáez, who is representing the women through her law firm Luján and Lerma Abogados.

      “Our clients should should have been offered protection and support as potential victims of trafficking as soon as they reported this abuse. They have been treated with disdain and negligence by our judicial system,” she said.

      Since they went to the local police to report their allegations last year, the women have been homeless and destitute. After their three-month visas expired they have not been able to work. All 10 women, plus Jaber’s baby, have been sleeping on the floor of Saez’s small apartment and surviving on handouts of food.

      Most say they have also been divorced by their husbands and disowned by their parents in Morocco after their families learnt of the allegations of rape and sexual assault and were sent messages saying that they were working in prostitutes in Spain.Unable to return home and unwilling to leave Spain before they get their case resolved, they say clearing their name is the only way they will see their children again.“We knew we couldn’t go home because we still hadn’t been paid and we had to prove that the things that we had told the police were true,” said Aicha, whose baby is now nine months old. Like all the other women, she suffers from panic attacks and depression and is too scared to leave the apartment.

      “Since we went to the police our life has been unbearable,” she said. “My baby has never even met her father. Sometimes I think it would have been better to have endured the abuse and to be back home with my family now.”

      This year the Spanish government has made efforts to mitigate the criticism of the treatment of Moroccan women in its export fruit industry. It has announced it will increase controls and inspections of farms and will also use cultural mediators – other Moroccan women – to try and resolve disputes and report any incidents of mistreatment.

      The courts say that the women’s case are still being considered and last week the government granted the women temporary work visas on humanitarian grounds, which will allow them to find work to support themselves. Yet Saez says that all efforts to get the government to take swift action to resolve their case continues to be thwarted.

      “They were given the permits on humanitarian grounds not because they are being taken seriously as potential victims of human trafficking and rape,” said Saez. “We will continue to pursue this through the courts, even if we have to go to the European court to get this heard.”Ahmad and Jaber said they were losing hope that they would get the justice they say they deserve and said that their experiences in Spain’s strawberry fields had changed them for everd. “I didn’t have much before, but everything I had has now gone,” said Ahmad. “I say to the women coming now, please don’t come. If bad things happen nobody will help you. Turn around and go home to your families.”

      https://www.theguardian.com/global-development/2019/apr/14/rape-abuse-claims-spains-strawberry-industry?CMP=share_btn_tw
      #viol #viols #abus_sexuels

    • Exploitation des femmes, viols… Voici le véritable coût des fraises importées d’Espagne

      Le 14 avril 2019, le Guardian publiait une enquête alarmante sur les conditions de récoltes des fraises d’Espagne, assurées par des femmes marocaines exploitées. Une forme d’esclavage moderne, pour un produit que nous trouvons dans tous nos supermarchés.

      https://www.glamourparis.com/societe/phenomene/articles/exploitation-des-femmes-viols-voici-le-veritable-cout-des-fraises-importees-despagne/74005

    • Harcèlement.Viol et abus sont le lot des saisonnières marocaines en Espagne

      Au printemps 2018, une jeune mère a laissé ses enfants à son mari au Maroc pour aller travailler dans une exploitation de fraises près d’Almonte, une ville espagnole proche de la côte sud-ouest.

      Enceinte de son troisième enfant, elle avait besoin d’argent, et on lui a fait croire qu’elle pourrait gagner plusieurs milliers d’euros en quelques mois, soit un an de revenus au Maroc. Aujourd’hui, elle est pourtant bloquée en Espagne, où elle attend la tenue d’un procès : dix femmes qui travaillaient pour la même entreprise – Doñaña 1998 d’Almonte – ont entamé des procédures judiciaires liées à des faits s’étant produits sur cette exploitation. Il s’agit notamment d’accusations de harcèlement et d’agression sexuels, de viol, de traite d’êtres humains et d’infractions au droit du travail.

      Comme d’autres femmes interviewées dans le cadre de cet article, la jeune mère a demandé à n’être identifiée que par ses initiales, L. H. Toutes craignent les réactions de leur mari, de leur famille et d’autres personnes au moment de la publication de cette enquête en arabe (ce qui est le cas de la majorité des papiers du New York Times sur le Maroc). Les maris de certaines de ces femmes, dont L. H., ont déjà demandé le divorce.
      Elles attendent le début du procès

      Ces dix femmes affirment que, souvent, elles n’avaient d’autre choix que de supporter les maltraitances, et les spécialistes corroborent cette version des faits. “Elles sont placées dans une situation où elles sont privées de ressources, et leur sexualité devient un moyen pour elles de survivre, affirme Emmanuelle Hellio, une sociologue qui étudie les conditions de travail sur ce type d’exploitation agricole. Le sexisme et le racisme créent des situations où elles ne peuvent pas se plaindre. Les rapports de forces font qu’il est particulièrement difficile pour elles de dénoncer les problèmes.”

      L. H. raconte que son patron s’est rendu coupable de harcèlement sexuel à son égard très peu de temps après son arrivée. Il a voulu la forcer à avoir des rapports sexuels, lui promettant une vie meilleure et de meilleures conditions de travail. Quand elle a refusé ses avances, “il m’a forcée à travailler plus dur”, raconte-t-elle en berçant sa petite fille, née en Espagne. “Les autres filles m’aidaient quand ça devenait trop dur pour moi dans les champs.” L. H. vit maintenant avec les neuf autres femmes dans un lieu qui reste secret. Elles attendent le début du procès. “Je suis déprimée et j’ai peur de chercher du travail”, confie-t-elle.

      Les fraises sont surnommées “l’or rouge” en Espagne, premier exportateur de ce fruit en Europe, où cette culture pèse environ 580 millions d’euros. L’Andalousie, où les femmes travaillaient, produit 80 % des fraises d’Espagne. Au titre d’un accord bilatéral signé en 2001, des milliers de Marocaines travaillent d’avril à juin dans de gigantesques serres en plastique pour cultiver puis récolter les fraises. Le texte précise que les ouvrières saisonnières doivent être originaires des campagnes, où la pauvreté et le chômage sont généralisés, et doivent être mères, pour avoir envie de rentrer ensuite dans leur pays (ce qu’elles font en majorité).
      Au Maroc, elles sont mises au pilori

      Cet accord se voulait avantageux pour tout le monde : une chance de gagner de l’argent pour des Marocaines pauvres et une main-d’œuvre bon marché pour les agriculteurs espagnols, qui en ont bien besoin. Depuis des années, des chercheurs et des militants dénoncent les conditions de travail en vigueur dans ces exploitations agricoles isolées, mais les autorités espagnoles et marocaines n’ont rien fait, ou presque, selon les syndicalistes locaux.

      Mais en 2018, dix femmes ont décidé de parler, sachant pertinemment qu’elles risquaient de tout perdre, en particulier le respect et le soutien de leurs familles conservatrices. Ces craintes se sont aujourd’hui matérialisées, et elles auraient été anéanties depuis longtemps si elles n’avaient pas eu l’appui de syndicats, de militants et de collectes de fonds sur Internet.

      Outre les divorces, de nombreuses femmes expliquent que certains de leurs proches et voisins au Maroc les ont mises au pilori. Beaucoup affirment qu’elles souffrent de graves crises de panique. Lors des interviews, certaines ont pleuré et d’autres hurlé de rage. La première à parler a été H. H., 37 ans, qui a décidé qu’elle ne pouvait plus endurer en silence ses conditions de travail épouvantables, pas plus que le harcèlement sexuel généralisé, voire les viols, commis sur l’exploitation. “J’avais l’impression d’être une esclave, un animal”, m’a-t-elle dit pendant un entretien.

      Ils nous ont fait venir pour nous exploiter puis pour nous renvoyer chez nous. J’aurais voulu me noyer dans la mer et mourir avant d’arriver en Espagne.”

      Mère de deux enfants, elle était coach sportive au Maroc et elle est devenue ouvrière saisonnière après avoir vu des femmes rentrer d’Espagne avec 3 500 dollars en poche – soit plus d’un an de revenus dans ce pays. Elle explique que de nombreuses promesses lui ont été faites ainsi qu’aux autres femmes, comme vivre à quatre seulement dans une chambre, avec une cuisine et un lave-linge.
      Trimer toute la journée sans pause pour aller aux toilettes

      Au lieu de ça, elle s’est retrouvée dans une pièce exiguë et poussiéreuse avec cinq autres femmes, où elle devait cacher sa nourriture et ses vêtements sous son matelas, et couvrir les fenêtres avec des cartons pour empêcher les moustiques d’entrer. N’ayant pas eu la formation promise, elle était lente les premiers temps, et d’autres femmes ont dû l’aider à rattraper son retard pour qu’elle puisse garder son travail.

      Au fil du temps, elle en a eu assez de trimer à longueur de journée sans pause pour aller aux toilettes. Il lui est devenu insupportable de devoir rester dans les bonnes grâces des managers pour qu’ils lui confient assez de travail et qu’elle puisse acheter à manger, sans même parler d’économiser. Elle n’a pas été agressée, mais elle a été choquée d’apprendre ce que d’autres avaient vécu. Elle raconte que les avortements étaient courants et qu’ils étaient souvent pratiqués après des rapports sexuels sous la contrainte.

      Selon H. H., les femmes s’étaient habituées aux maltraitances. Sur place, les militants ajoutent que toute personne qui se plaignait était immédiatement renvoyée au Maroc. C’est précisément ce qui s’est passé quand H. H. a sollicité l’aide d’un syndicat local et d’avocats. Lorsque ces derniers sont arrivés à l’exploitation le 31 mai 2018, plusieurs femmes ont commencé à raconter leurs problèmes en parlant toutes en même temps, en arabe.

      Les militants leur ont demandé de mettre par écrit une liste de noms et de doléances. H. H.est partie avec les avocats, mais trois jours plus tard, elle raconte que les autres femmes mentionnées sur la liste – plus de 100 – ont été forcées à monter dans des cars et renvoyées au Maroc, certaines sans le salaire qui leur était dû. Neuf femmes ont réussi à s’échapper en passant au-dessus ou en dessous de grillages, non sans déchirer leurs vêtements, car le portail principal était fermé. Après avoir couru dans la forêt, elles sont arrivées à Almonte, à quelques kilomètres de là. “J’avais entendu des histoires, mais on pensait toutes que c’était des mensonges avant de vivre la même chose”, avoue l’une d’elles.

      Nous avons compris que quand certaines parlent, ils trouvent des moyens de les faire taire.”

      Les neuf femmes se sont alliées à l’action en justice lancée par H. H. Les poursuites judiciaires sont rares, mais il existe des précédents. En 2014, un tribunal de Huelva, non loin d’Almonte, a déclaré trois hommes “coupables d’atteinte à l’intégrité morale et de harcèlement sexuel”. Les victimes étaient des Marocaines qui avaient travaillé pour eux en 2009. Un article d’El País, paru en 2010 et intitulé “Victimes de l’or rouge”, a décrit une série d’abus sexuels dénoncés par des ouvrières polonaises et marocaines.
      Maintenir le moral

      En réponse aux critiques dans la presse à l’automne 2018, le gouvernement espagnol a promis d’appliquer des mesures de protection pour la saison 2019. De son côté, le ministère marocain du Travail s’est engagé à améliorer les conditions de travail. Mais les ouvrières comme les syndicats rétorquent que rien ou presque n’a changé. Des responsables marocains, notamment le ministre du Travail et l’ambassadeur à Madrid, des responsables espagnols et plusieurs représentants d’associations professionnelles agricoles n’ont pas souhaité s’exprimer dans le cadre de cet article, tout comme le propriétaire de l’exploitation Doñaña 1998 d’Almonte.

      “Notre travail ne va pas au-delà de Tanger, après quoi c’est l’affaire des Espagnols”, a déclaré en 2018 Noureddine Benkhalil, un directeur chez Anapec, l’agence qui recrute les femmes au Maroc. Dans un courriel, une porte-parole de la Commission européenne a fait savoir que l’UEne tolérait pas l’exploitation de la main-d’œuvre, mais qu’il incombait à l’Espagne de remédier à ce problème.

      Les femmes affirment qu’elles sont déterminées à se battre jusqu’au bout. La première lanceuse d’alerte, H. H., fait de son mieux pour maintenir le moral des troupes. Quand l’une des femmes craque, elle lui rappelle qu’il était de son devoir de parler pour que d’autres puissent signer ce type de contrat sans crainte.

      “Je ne lâcherai rien, résume H.H. Je suis déjà démunie, je n’ai plus rien à perdre. Je me battrai jusqu’à la mort.”

      https://www.courrierinternational.com/article/harcelement-viol-et-abus-sont-le-lot-des-saisonnieres-marocai

    • 6.500 mujeres reclutadas en tres días: así se selecciona en Marruecos a las jornaleras que recogen la fresa en España

      Una delegación de la patronal de la fresa en Huelva se desplaza a Marruecos en busca de «mujeres» de «entre 25 y 45 años» y «con hijos»
      Los empresarios buscan en la pobreza marroquí mano de obra barata ante la falta de jornaleros españoles dispuestos a trabajar bajo las condiciones ofertadas
      Aicha tiene 47 años y cinco hijos. Recogió fresas en 2017 y 2018, pero ya el año pasado no la llamaron. Vuelve a estar en la cola

      https://www.eldiario.es/desalambre/espanolas-Marruecos-contratar-jornaleras-Espana_0_976053083.html

    • De l’usage de la sexualité dans le management de la migration de travail

      La sexualité est ici analysée dans un contexte de migration de travail, à partir d’une enquête portant sur un dispositif de gestion d’une main d’œuvre d’ouvrières agricoles marocaines recrutées dans le cadre de la contractualisation en origine dans la province de Huelva (Espagne). Ce type de contractualisation est l’illustration du phénomène de migration circulaire, temporaire et sélective. Depuis 2001, des milliers de Marocaines se rendent chaque année dans la province de Huelva pour travailler en majorité dans la récolte des fraises. À l’issue de la saison, les ouvrières doivent impérativement rentrer au Maroc. Pour les encadrer, la ville de Cartaya a mis en place un dispositif de gestion de la main d’œuvre. Au cœur de ce management dont les objectifs sont à la fois économiques et politiques, la sexualité joue un rôle significatif. Elle est un outil de tri, de discipline et un vecteur de catégorisation des migrantes marocaines.

      https://journals.openedition.org/espacepolitique/1858

    • Dames de fraises, doigts de fée, les invisibles de la migration saisonnière marocaine en Espagne

      À la fin des années 2000, des milliers de Marocaines sont parties travailler à la cueillette des fraises dans la province de Huelva, en Espagne. Recrutées directement au Maroc par des contrats saisonniers, ces Dames de fraises sont choisies pour la précarité de leur situation et parce qu’elles laissent des enfants qui les contraindront à revenir.

      https://etlettres.com/livre/dames-de-fraises-doigts-de-fee-les-invisibles-de-la-migration-saisonniere

      #livre

  • Peu importe l’hiver, à Paris, c’est toujours la saison des fraises !
    http://www.actu-environnement.com/ae/news/fraise-culture-hors-sol-agricool-paris-container-hydroponie-led-

    Peu importe l’hiver, à Paris, c’est toujours la saison des fraises !

    Cultiver des fruits de qualité toute l’année en centre ville, sans pesticide et sans lumière naturelle est désormais possible. Grâce à la culture hors sol, la start-up Agricool produit localement 7 tonnes de fraises distribuées en circuit court.

    #agriculture_hors-sol

  • Importer des femmes pour exporter des fraises ? : Flexibilité du travail, canalisation des #flux_migratoires et échappatoires dans une #monoculture intensive globalisée : le cas des saisonnières marocaines en #Andalousie

    A partir du cas des saisonnières marocaines travaillant sous contrat dans la #fraisiculture intensive, cette #thèse explore la manière dont le recrutement se fonde sur leur place dans les rapports de sexe (mères avec enfants en bas âge) et la réduction de leur séjour au travail à des fins de contrôle de la #mobilité des étrangers (assignation à circuler). On s’intéresse à la manière dont l’utilitarisme migratoire s’appuie sur des rapports matériels de sexe et des représentations de #genre, les effets que cela produit en matière d’#invisibilisation et de mise à l’écart de ce groupe de travailleuses ainsi qu’en matière de #flexibilité dans l’organisation du travail. Enfin, on aborde, dans ce contexte particulier, la manière dont la vie des saisonnières s’articule autour d’une conciliation, parfois impossible à trouver, entre rôle domestique ou familial et salariat saisonnier.

    https://ethnobotanic.wordpress.com/2015/03/19/importer-des-femmes-pour-exporter-des-fraises-flexibilite-du
    #agriculture #migration #fraises #migration #femmes #Espagne #Maroc #travail #saisonnier #Emmanuelle_Hellio

    La thèse est disponible en pdf :
    https://tel.archives-ouvertes.fr/tel-01127172/document
    cc @odilon

  • Immigration en Grèce : les damnés du Péloponnèse - L’EXPRESS
    http://www.lexpress.fr/actualite/monde/europe/immigration-en-grece-les-damnes-du-peloponnese_1255380.html

    Entretien avec les ramasseurs de fraises de Nea Manolada. En avril, des contremaîtres leur avaient tiré dessus quand ils avaient réclamé des mois de salaires impayés. Ils n’ont toujours pas été régularisés, ni payés...

    On voit comment la phraséologie et les rafles anti-migrants opérées à Athènes sert moins à les expulser, qu’à fournir en main d’œuvre l’agriculture intensive dans le Péloponnèse.

    Né à Sylhet, dans le nord du Bangladesh, ce jeune homme de 32 ans illustre le sort de ces milliers de migrants, partis en Europe pour nourrir leur famille. Son père, invalide, ne pouvait plus subvenir aux besoins de ses six enfants. Il vend le champ familial et confie l’argent à son fils aîné. Parti à la fin de 2008, Rifat met un an pour atteindre la Grèce. Arrêté en Iran, il passe six mois dans une cellule sans fenêtre. Une fois libéré, il parvient en Turquie, qu’il traverse dans une cuve de camion-citerne. A Istanbul, il déjoue la surveillance des gardes-frontières grecs qui patrouillent sur le fleuve Evros, lieu de passage privilégié des clandestins. Pris en charge, à Athènes, par des compatriotes bangladais, il trouve un boulot de ferrailleur. Une chance : rares sont les « illégaux » qui parviennent à gagner leur vie dans la cité dévastée par la crise. Durant trois ans, il envoie 200 euros, tous les mois, à ses parents. Jusqu’à l’été dernier, où des policiers l’arrêtent en pleine rue. L’opération « Zeus hospitalier » bat alors son plein.

    Lancée par le gouvernement (centre droit) d’Antonis Samaras, qui veut mettre fin à des années de laxisme en matière d’immigration, elle vise à « nettoyer » les quartiers chauds de la capitale. Chassés, les migrants cherchent partout dans le pays des emplois de fortune. A Nea Manolada, les Bangladais affluent par milliers, car la nouvelle se répand de bouche à oreille : les exploitants agricoles ont besoin d’ouvriers. Rifat tente sa chance. Le jour de son arrivée, il suit les conseils d’un compatriote : « Va chez Vangelatos, il cherche des bras. »

    #Grèce #Zeus_Xenios #migrants #agriculture #fraises #Péloponnèse

  • En #Grèce, les #fraises se paient le prix du sang
    http://fr.myeurop.info/2013/04/18/en-grece-les-fraises-se-paient-le-prix-du-sang-7825

    Effy Tselikas

    Dans la région de Manolada, en Grèce, des exploitants agricoles ont ouvert le feu, mercredi soir, sur les #travailleurs_migrants venus réclamer leur paie. Trente ont été blessés. Ou comment, en 2013, des esclavagistes modernes sévissent en toute impunité en Europe. Récit.

    Pour qui se promène à Athènes (...)

    #Société #Politique #Social #économie_souterraine #esclavage_moderne #immigration #mafia #Traite_des_êtres_humains