• Il cotone “sporco e insostenibile” di #Zara ed #H&M e la distruzione del #Cerrado

    La Ong inglese #Earthsight ha condotto un’inchiesta per un anno lungo la filiera di questa fibra tessile: i due marchi della fast fashion avrebbero immesso sul mercato 800mila tonnellate di cotone coltivato su terreni disboscati illegalmente nella savana tropicale che copre un terzo del Brasile. “Il sistema di filiera ‘etica’ su cui si basano questi colossi è fondamentalmente difettoso”

    Se negli ultimi anni avete acquistato vestiti di cotone, asciugamani o lenzuola di H&M o Zara “probabilmente sono macchiati del saccheggio del Cerrado”, un’area ricchissima di biodiversità che copre quasi un quarto della superficie del Brasile. Sam Lawson, direttore della Ong britannica Earthsight, non usa mezzi termini per commentare l’esito dell’inchiesta “Fashion crimes. The European retail giants linked to dirty Brazilian cotton”, pubblicata l’11 aprile, che analizza la lunga e insostenibile filiera di questa fibra dalla produzione (in Brasile) alla lavorazione (in Paesi come Indonesia e Bangladesh), fino alla commercializzazione in Europa (Italia compresa) dove, secondo le stime di Earthsight, i due brand avrebbero messo in commercio prodotti realizzati con 800mila tonnellate di cotone coltivato su terreni disboscati illegalmente nel Cerrado.

    Ma andiamo con ordine. L’inchiesta di Earthsigh prende le mosse proprio dal grande Paese latinoamericano che, negli ultimi dieci anni, ha guadagnato crescente importanza nel mercato globale del cotone, di cui oggi è il secondo esportatore mondiale “e si prevede che entro il 2030 supererà gli Stati Uniti”. Il cuore di questa produzione si concentra in uno degli ecosistemi più fragili e preziosi del mondo: il Cerrado, una grande savana tropicale che ospita una delle più importanti aree di biodiversità al mondo, dove vivono oltre seimila specie di alberi così come centinaia di rettili, mammiferi, anfibi e uccelli.

    La sopravvivenza di questo inestimabile patrimonio è minacciata dalla deforestazione illegale che nel 2023 ha raggiunto livelli record, con un aumento del 43% rispetto al 2022. “Circa la metà della vegetazione nativa del Cerrado è già andata perduta, soprattutto per far posto all’espansione dell’agrobusiness”, evidenzia il report. Milioni di litri d’acqua vengono prelevati regolarmente dai fiumi e dalle falde per irrigare i campi di cotone, la cui coltivazione richiede l’utilizzo di 600 milioni di litri di pesticidi ogni anno.

    L’inchiesta di Earthsight analizza in particolare il ruolo di due dei principali produttori di cotone brasiliani: il gruppo Horita e SLC Agrícola che controllano enormi aziende e centinaia di migliaia di ettari di terreno. “Nel 2014 l’agenzia ambientale dello Stato di Bahia ha rilevato 25mila ettari deforestati illegalmente nelle aziende agricole di Horita a Estrondo -si legge nel report-. Nel 2020 la stessa agenzia ha dichiarato di non essere riuscita a trovare i permessi per altri 11.700 ettari deforestati dall’azienda tra il 2010 e il 2018”. Tra il 2010 e il 2019 l’azienda è stata multata complessivamente più di venti volte, per un totale di 4,5 milioni di dollari, per violazioni ambientali.

    https://i0.wp.com/altreconomia.it/app/uploads/2024/04/7.-Cerrado-accumulated-deforestation-1987-2022.png

    Altrettanto gravi, le denunce rivolte a SLC Agrícola: tre aziende, tutte coltivate a cotone, hanno cancellato per sempre 40mila ettari di Cerrado nativo negli ultimi 12 anni. E, sebbene l’azienda abbia adottato una politica “zero deforestazione” nel 2021, è accusata di aver distrutto altri 1.356 ettari di vegetazione nel 2022. Accuse che hanno spinto il fondo pensionistico pubblico della Norvegia a ritirare i propri investimenti nella società brasiliana.

    Al termine di un lavoro d’inchiesta di un anno -durante il quale hanno analizzato migliaia di registri di spedizione, relazioni aziendali, elenchi di fornitori e siti web– i ricercatori di Earthsight hanno ricostruito la filiera che porta il cotone coltivato illegalmente nel Cerrado nei negozi di Zara ed H&M e poi negli armadi di milioni di persone. I ricercatori hanno identificato otto produttori di abbigliamento asiatici che utilizzano il cotone Horita e SLC e che allo stesso tempo forniscono alle due società di fast fashion milioni di capi di cotone finiti. Tra questi figura l’indonesiana PT Kahatex “il più grande acquirente di cotone contaminato Horita e SLC che abbiamo trovato”. H&M è il secondo cliente dell’azienda indonesiana, da cui ha acquistato milioni di paia di calzini, pantaloncini e pantaloni che sono poi stati messi in vendita nei negozi del gruppo negli Stati Uniti, in Germania, nel Regno Unito, in Svezia, nei Paesi Bassi, in Belgio, in Spagna, in Francia, in Polonia, in Irlanda, in Italia.

    Il cotone sporco del Cerrado è finito anche negli stabilimenti di Jamuna Group, uno dei maggiori conglomerati industriali del Bangladesh: “Nei negozi Zara in Europa, fino ad agosto 2023, sono stati venduti per 235 milioni di euro jeans e altri capi in denim confezionati da Jamuna, circa 21.500 paia al giorno -si legge nel report-. Inditex importa i capi prodotti da Jamuna in Spagna e nei Paesi Bassi, da dove li distribuisce ai suoi negozi Zara, Bershka e Pull&Bear in tutta Europa”. Complessivamente, secondo le stime che i ricercatori hanno elaborato consultando i registri delle spedizioni il Gruppo Horita e SLC Agrícola hanno esportato direttamente almeno 816mila tonnellate di cotone da Bahia verso i mercati esteri tra il 2014 e il 2023. Una quantità di materia prima sufficiente a produrre dieci milioni di capi d’abbigliamento e prodotti per la casa tra lenzuola, tovaglie e tende.

    Ma come è stato possibile, si sono chiesti i ricercatori, che le catene di approvvigionamento dei due marchi di moda siano state “contaminate” da cotone brasiliano legato a deforestazione e land grabbing? “Parte della risposta sta nel fatto che le loro politiche etiche sono piene di falle. Ma soprattutto, il sistema di filiera etica su cui si basano è fondamentalmente difettoso”.

    Il riferimento è al fatto che, nel tentativo di presentarsi come sostenibili e responsabili, i due brand si sono affidati a un sistema di certificazione denominato Better Cotton (BC). “Il cotone che abbiamo collegato agli abusi ambientali a Bahia ne riportava il marchio di qualità. Questo non dovrebbe sorprendere dal momento che Better Cotton è stata ripetutamente accusata di greenwashing e criticata per non aver garantito la piena tracciabilità delle catene di approvvigionamento”, scrivono i ricercatori di Earthsight nel rapporto. Evidenziando come, sebbene dal primo marzo 2024 le regole di BC siano state aggiornate, rimangano comunque una serie di criticità e di punti deboli. A partire dal fatto che il cotone proveniente da terreni disboscati illegalmente prima del 2020 venga ancora certificato.

    “È ormai molto chiaro che i crimini legati ai beni che consumiamo devono essere affrontati attraverso la regolamentazione, non attraverso le scelte dei consumatori -conclude Sam Lawson, direttore di Earthsignt-. Ciò significa che i legislatori dei Paesi consumatori dovrebbero mettere in atto leggi forti con un’applicazione rigorosa. Nel frattempo, gli acquirenti dovrebbero pensarci due volte prima di acquistare il prossimo capo di abbigliamento in cotone”.

    https://altreconomia.it/il-cotone-sporco-e-insostenibile-di-zara-ed-hm-e-la-distruzione-del-cer
    #industrie_textile #coton #mode #déforestation #Brésil #rapport #chiffres #statistiques #SLC_Agrícola #Horita #SLC #fast-fashion #land_grabbing #accaparement_de_terres #Better_Cotton #greenwashing #green-washing

    • Fashion Crimes: The European Retail Giants Linked to Dirty Brazilian Cotton


      Key Findings:

      - The world’s largest fashion brands, H&M and Zara, use cotton linked to land grabbing, illegal deforestation, violence, human rights violations and corruption in Brazil.
      - The cotton is grown by two of Brazil’s largest agribusinesses – SLC Agrícola and the Horita Group – in western Bahia state, a part of the precious Cerrado biome, which has been heavily deforested in recent decades to make way for industrial-scale agriculture.
      - Unlike in the Amazon, deforestation in the Cerrado is getting worse. The biome is home to five per cent of the world’s species. Many face extinction due to habitat loss if current deforestation trends are not reversed.
      - For centuries, traditional communities have lived in harmony with nature. These communities have seen their lands stolen and suffered attacks by greedy agribusinesses serving global cotton markets.
      - The tainted cotton in H&M and Zara’s supply chains is certified as ethical by the world’s largest cotton certification scheme, Better Cotton, which has failed to detect the illegalities committed by SLC and Horita. Better Cotton’s deep flaws will not be addressed by a recent update to its standards.
      - Failure by the fashion sector to monitor and ensure sustainability and legality in its cotton supply chains means governments in wealthy consumer markets must regulate them. Once in place, rules must be strictly enforced.

      https://www.earthsight.org.uk/fashion-crimes

  • Stiftung Humboldt-Forum widerspricht Philipp Oswalt: „Zutiefst unangemessen und unwahr“
    https://www.berliner-zeitung.de/kultur-vergnuegen/debatte/stiftung-humboldt-forum-reagiert-auf-philipp-oswalt-wir-widersprech

    Der Abriß des Palast der Republik, eines bei der Berliner Bevölkerung beliebten Gebäudes mit Konzertsaal, Bowlingbahn und Restaurants, und der Bau einer Schloßattrappe mit dem beschönigenden Markennamen „Humboldt Forum“ in der Linden-Sichtachse war ein revanchistisches Projekt, an dem sich zahlreiche konservative und nazistische Rechte mit gut gefüllten Brieftaschen beteiligten. Das geschah in Zusammenarbeit mit der reaktionären Mehrheit im Deutschen Bundestag, wobei alle Beteiligten versuchten den Eindruck zu erwecken, es handle sich um ein demokratisches Projekt des deutschen Volkes.

    Diese durchsichtige Lachnummer wird von Philipp Oswalt in einem Buch und in Presseartikeln entlarvt, wogegen nun zwei Schloßhäuptlinge protestieren. Ihr Argument : Man habe von den nazistischen Spendern nichts gewußt. Das ist nicht erstaunlich, gehören die Autoren doch selbst zum kapitalistischen Klüngel aus Alt- und Neonazis, Nationalisten, Transatlantikern, Industriellen, reaktionären Adeligen, stinkreichen Ausbeuter aller Art und ihren Lakaien aus Politik, Kultur und Medien. Man läßt sich ungerne öffentlich mit dieser Tatsache konfrontieren.

    Der Betonkasten steht für die Enteignung des deutschen Volks durch seine pseudo-demokratischen Herren, Konzernlenker und Militärherrscher. Die Vernichtung des DDR-Volkshaus und das wieder errichtete häßliche Hohenzollernschloß verherrlichen ihren Triumph.

    Da soll es niemand mitbekommen haben, wie die Nazis mitgemacht haben? Kaum zu glauben im transatlantischen Westdeutschland, das von seiner Gründung bis heute fest im Griff der Eliten aus Nazizeiten, ihrer Erben und Spießgesellen ist.

    22.04.2024 von Hartmut Dorgerloh und Franco Stella - Die Behauptung, Rechte hätten Einfluss auf das Stadtschloss gehabt, sei falsch – wehren sich die Stiftung Humboldt-Forum und Architekt Franco Stella in einem Gastbeitrag.

    Mit schweren Vorwürfen hat der Architekt Philipp Oswalt die Stiftung Humboldt-Forum konfrontiert und ihr vorgeworfen, Nebelkerzen zu zünden und zu lügen. Oswalt, seit jeher Gegner des neu gebauten Berliner Stadtschlosses, kritisiert in seinem neuen Buch „Bauen am nationalen Haus“ die Intransparenz hinsichtlich der Spender. Nun wehren sich Hartmut Dorgerloh, der Präsident der Stiftung Humbold-Forum, und Stadtschloss-Architekt Franco Stella und widersprechen in einem Exklusivbeitrag für die Berliner Zeitung vehement.

    Der Architekt Philipp Oswalt behauptet in einem Interview mit der Berliner Zeitung, rechtslastige Spender:innen hätten Einfluss auf die Rekonstruktion der Fassade des Berliner Schlosses genommen, und die Stiftung Humboldt-Forum im Berliner Schloss würde diesen Einfluss vertuschen und sogar lügen. Die Rekonstruktion, so Oswalt, sei „etwas merklich anderes als das, was die Expertenkommission empfohlen und was der Bundestag 2002 beschlossen hat“. Als Vorstandsvorsitzender der Stiftung Humboldt-Forum im Berliner Schloss und als Architekt, der für den Bau verantwortlich war, widersprechen wir dieser Darstellung mit allem Nachdruck. Philipp Oswalt wiederholt seine Behauptungen zu vielen Anlässen. Dadurch werden sie nicht wahrer.

    Vielmehr erfolgte die Rekonstruktion der Schlossfassade, einschließlich der Kuppel, der Kuppelfiguren, auf Beschluss des Stiftungsrates, und dieser Beschluss wiederum basierte auf den Entscheidungen des Deutschen Bundestages und der dort zuständigen Ausschüsse. Private Spender:innen haben es ermöglicht, dass die in diesen Entscheidungen definierten „baulichen Optionen“ tatsächlich umgesetzt werden konnten – diese private Finanzierung war Wille der Politik. Aber keine und keiner dieser mehr als 40.000 privaten Spender:innen – und auch der Förderverein Berliner Schloss nicht – hat Einfluss auf die Gestaltung und Architektur genommen. Das lag allein in der Verantwortung der zuständigen politischen Gremien, des Stiftungsrates und des Architekten.

    Beim Realisierungswettbewerb des Bundes im Jahr 2008 hat der Entwurf von Franco Stella, hier Mitunterzeichner, den Zuschlag erhalten – ein Entwurf, der damals gerade für seine 1:1-Rekonstruktionen wichtiger Bau- und Stilelemente gewürdigt wurde. Fast alle rekonstruierten Elemente des jetzigen Berliner Schlosses waren schon in diesem Entwurf enthalten, darunter auch die Kuppel, die sich bereits die von Philipp Oswalt erwähnte Expertenkommission explizit vorstellen konnte. Weitere Elemente wie etwa die Figuren rund um die Kuppel und die Balustradenfiguren wurden vom unterzeichnenden Architekten vorgeschlagen, weil sie aus architektonischer Sicht geboten und auch mit Blick auf die gewünschte möglichst originalgetreue Rekonstruktion sinnvoll waren.


    Franco Stella, Gewinner des Bundeswettbewerbs und Architekt des teilrekonstruierten Schlosses Foto Markus Wächter/Berliner Zeitung

    Die konkrete Planung der Kuppel als Vollrekonstruktion mit historischer Hülle begann im August 2010, sobald die historischen Unterlagen ausreichend ausgewertet waren, um die Detail-Planung anzugehen. Dass beim Berliner Schloss im Laufe eines Wettbewerbsverfahrens architektonische Details präzisiert und die Umsetzung genauer bestimmt wurde, ist absolut üblich. Alle, die mit Bauprojekten dieser Größenordnung Erfahrung haben, wissen das.
    Von Spendern mit rechtsextremen Positionen distanzieren wir uns aufs Schärfste

    Der Bund hat diese Planung im Sommer 2011 freigegeben, mit der Auflage, die Umsetzung der sogenannten baulichen Optionen wie der historischen Kuppel über private Spenden zu finanzieren. Dafür hat der Förderverein Berliner Schloss Spenden gesammelt. Insgesamt haben Zehntausende Menschen aus allen Teilen der Gesellschaft gespendet. Darunter, wie wir heute wissen, auch Personen, die rechtsextreme Positionen vertreten. Von diesen Personen und ihren Positionen distanzieren wir uns aufs Schärfste. Die antidemokratischen Positionen widersprechen unseren Überzeugungen und dem, was wir inhaltlich im Humboldt-Forum tun – und sie widersprechen den Werten der großen Mehrheit derer, die für die Rekonstruktion des Schlosses gespendet haben.


    Hartmut Dorgerloh, Generalintendant und Vorstandsvorsitzender der Stiftung Humboldt-Forum Foto Markus Wächter/Berliner Zeitung

    Aber all das hat mit den Entscheidungen, was genau gebaut werden sollte, nichts zu tun. Behauptungen, bei diesen architektonischen Entscheidungen sei eine „rechtsnationale Agenda“ verfolgt worden, sind falsch und zutiefst unangemessen. Unangemessen gegenüber dem Deutschen Bundestag und seinen Entscheidungen, gegenüber dem Stiftungsrat der Stiftung Humboldt-Forum, in dem alle Parteien des Bundestages wie auch die Berliner Landesregierung vertreten sind, gegenüber der Leitung und dem Team des Humboldt-Forums wie auch gegenüber dem Architekten, dessen Entwurf durch eine vom Bund eingesetzte Jury, besetzt mit renommierten Expert:innen, ausgezeichnet wurde.

    Die Entscheidungen der demokratisch gewählten Parteien und der zuständigen Gremien mögen einem nicht gefallen – hierzu kann jede und jeder eine eigene Meinung haben. Aber ihre Akzeptanz ist grundlegend für ein respektvolles demokratisches Miteinander.

    Prof. Dr. Hartmut Dorgerloh, Generalintendant und Vorstandsvorsitzender der Stiftung Humboldt-Forum

    Prof. Arch. Franco Stella, Gewinner des Bundeswettbewerbs und Architekt des teilrekonstruierten Berliner Schlosses

    Architekt erhebt schwere Vorwürfe wegen rechter Spender des Stadtschlosses: „Die Humboldt-Stiftung lügt“
    https://www.berliner-zeitung.de/kultur-vergnuegen/architekt-philipp-oswalt-berlin-stadtschloss-rechte-spender-humbold

    Berliner Schloss: Propheten-Statuen kehren auf Kuppel zurück
    https://www.berliner-zeitung.de/mensch-metropole/berliner-schloss-propheten-statuen-kehren-auf-kuppel-zurueck-li.219

    #Berlin #Mitte #Schloßplatz #Schloßfreiheit #Liebknechtbrücke #Architektur #Revanchismus #Preußen #Hohenzollern

  • #Organic_Maps, une alternative à #google_maps :

    Organic Maps est un #logiciel_libre de #cartographie et de navigation utilisable #hors-ligne et basé les données cartographiques d’#OpenStreetMap. Il se base uniquement sur des données vectorielles pour le rendu des objets et permet un rendu 2D ou 3D temps réel. Il s’adapte au logiciel de synthèse vocale disponible du système d’exploitation sur lequel il tourne. Il est disponible pour Android et GNU/Linux et iOS. Il s’agît à l’origine d’un fork de #Maps.me, fait par ses propres développeurs.

    https://fr.wikipedia.org/wiki/Organic_Maps

    #offline #off-line #OSM #marche #vélo #app

  • Radio Canada Des tests de paternité vendus au Canada qui identifiaient le mauvais père D’après des renseignements fournis par Jorge Barrera, de CBC News

    « [Nos tests de paternité prénataux] n’étaient pas si fiables », admet à la caméra cachée le propriétaire de la compagnie Viaguard Accu-Metrics, de Toronto, qui a vendu de tels tests d’ADN en ligne pour 800 $ à 1000 $ de 2014 à 2020, selon une enquête de CBC.

    Harvey Tenenbaum, qui dirige toujours le laboratoire de Toronto à l’âge de 91 ans, a confié à la caméra cachée d’un journaliste de CBC qui se faisait passer pour un client, qu’il se « méfie de ce test maintenant ».

    Grâce à un kit maison visant à prélever quelques gouttes de sang de la femme enceinte et un échantillon buccal d’ADN de l’homme, le test devait permettre de confirmer l’identité du père avant la naissance de l’enfant.


    À la caméra cachée, M. Tenenbaum admet toutefois que le test a produit des résultats erronés au fil des années.

    C’est arrivé. Un père blanc se fait tester et le bébé est noir.
    Une citation de Harvey Tenenbaum, propriétaire du laboratoire

    À la caméra cachée, M. Tenenbaum se dit conscient des conséquences possibles d’une erreur : “Si on identifie le mauvais père, la mère peut avoir un avortement.”

    Questionné par CBC, il assure publiquement que les tests étaient, au contraire, « précis » et « parfaits ». Il a cessé de les vendre, ajoute-t-il, parce que l’un des éléments était devenu trop coûteux.

    La vie chamboulée d’une mère
    “Je hais le nom Viaguard”, lance Corale Mayer, 22 ans, de North Bay, en Ontario.

    Lorsqu’elle est tombée enceinte en 2019, à l’âge de 19 ans, elle n’était pas sûre de qui était le père et a commandé un test de Viaguard, renvoyant ensuite les échantillons demandés par la poste.

    Un premier test erroné de la compagnie, raconte-t-elle, lui a fait croire que le père n’était pas l’homme avec qui elle était. Un deuxième test, lui aussi erroné a-t-elle appris après la naissance de sa fille, indiquait que le père était plutôt un autre homme, qui ne voulait rien savoir d’avoir un enfant.

    Ça a été extrêmement traumatisant.
    Une citation de Corale Mayer, mère

    Elle a lancé un groupe dans les médias sociaux qui compte des dizaines d’autres personnes qui soutiennent que leur vie a aussi été chamboulée par des tests de paternité erronés de Viaguard.

    La faute du test ?
    Sika Richot a travaillé comme réceptionniste pour Viaguard durant près de trois mois en 2019.

    Elle soutient que le laboratoire lui demandait de questionner les femmes qui commandaient un test de paternité sur leur cycle menstruel et sur les dates auxquelles elles avaient eu des relations sexuelles avec les différents pères possibles, des questions qui n’ont rien à voir avec un test d’ADN.

    Le personnel compilait ensuite ces renseignements dans un cycle d’ovulation pour réduire le nombre de pères potentiels, affirme Mme Richot. “[Tenenbaum] allait toujours dire : ’’Celui-ci est le père biologique, c’est certain’’”, soutient-elle.


    M. Tenenbaum laisse entendre, lui, que les clients sont responsables des résultats erronés, en raison d’une mauvaise collecte des échantillons. “On a fait des milliers de tests et la moitié des erreurs venaient de la collecte”, dit-il.

    Le Dr Mohammad Akbari, directeur de recherche au laboratoire de génétique moléculaire de l’Hôpital Women’s College, à Toronto, affirme que le genre de test que Viaguard disait utiliser est fiable normalement, mais qu’il faut plus que quelques gouttes de sang de la mère pour confirmer l’ADN du fœtus.

    Il faut au moins 10 ml de sang d’une veine de la mère pour un test adéquat.
    Une citation de Le Dr Mohammad Akbari, expert dans les tests d’ADN

    Dans certains cas, comme l’illustre une poursuite contre Viaguard en Californie, les clients devaient se rendre à un laboratoire pour le prélèvement de sang. Cette poursuite s’est conclue par un règlement à l’amiable.

    Santé Canada indique par courriel qu’elle ne réglemente pas les tests commerciaux d’ADN comme ceux de Viaguard.

    La compagnie n’offre plus de tests de paternité prénataux, mais continue à vendre des tests d’ADN postnataux, tout comme des tests pour déterminer la race des chiens, notamment.

    D’après des renseignements fournis par Jorge Barrera, de CBC News

    #ADN #Tests #identité #enfants #fœtus #laboratoires #maternité #paternité #femmes #hommes #famille #médecine #génétique

  • État limite - Regarder le documentaire complet | ARTE
    https://www.arte.tv/fr/videos/111769-000-A/etat-limite

    Dans les pas de plus en plus las de ce jeune praticien à l’intelligence et à l’humanité en alerte, la caméra de Nicolas Peduzzi (Ghost Song, Southern Belle) pénètre avec pudeur dans les chambres de l’hôpital, refuges de destins accidentés, pour observer l’émouvante construction d’une relation thérapeutique fondée sur le lien, entre tête-à-tête et atelier de théâtre. Mais comment soigner dans une institution malade ? Émaillé de photographies en noir et blanc de Pénélope Chauvelot, sublimes parenthèses d’immobilité au cœur de l’urgence, ce documentaire mélancolique et politique sonde le déclassement de la médecine psychiatrique et l’effondrement de l’hôpital public, miroir d’une société qui relègue les plus fragiles à la marge et pousse ceux qui prennent soin d’eux au-delà de leurs limites.

    #psychiatrie #hôpital #santé

  • German colonial genocide in Namibia the #Hornkranz massacre

    Introduction

    On 12 April 1893, German colonial troops attacked the Nama settlement of ||Nâ‡gâs, known today as Hornkranz. Their intent was to destroy the settlement and its people, after its leader, Hendrik Witbooi, refused to sign so-called ‘protection’ treaties—tools of the German colonial administration for controlling sovereign indigenous nations and their lands. As their presence in what they declared in 1885 as ‘German Southwest Africa’ grew, the German regime was increasingly unwilling to tolerate the independence and agency exercised by Hendrik Witbooi and his clan in the face of the encroaching German empire.

    In their attack on Hornkranz, the Germans wanted to both make an example of the Witbooi clan and to punish them for their defiant rejection of German rule. Curt von Francois, who led the attack, made his objective clear: ‘to exterminate the Witbooi tribe’ (Bundesarchiv, R 1001/1483, p. 46). In this premeditated act of erasure, his troops massacred almost eighty women and children before capturing another hundred, burned what remained of the settlement to the ground, and established a garrison, rendering it impossible for survivors to return.

    Though the genocide of the Nama, Ovaherero and other peoples indigenous to what is now modern-day Namibia is widely recognised to have taken place between 1904 and 1908, the Nama people remember this massacre as the true first act in the genocide against them. This is substantiated not only by the clarity of the German objective to destroy the |Khowesin as a people, but also by the retrospective reading of Hornkranz as a clear precedent of the systemic tactics of dispossession and destruction that would be used by the Germans against the Nama, the Ovaherero, the San, and others in the years to come.

    Outside of the descendant communities, the events at Hornkranz have until now been overlooked and underrepresented, as has the cultural significance of the settlement itself within the dominant historiography, broadly based on the German visual and narrative record. The site of the former Witbooi settlement was expropriated and today constitutes a private farm, access to which is possible only with special permission from its owner. The descendants of Hornkranz are rarely able to visit their own cultural heritage sites and commemorate the struggle of their ancestors.

    The faint extant traces of the Witbooi settlement at Hornkranz can be identified today only with the guidance of the descendants and the historians that learned from them. Two plaques on the site are the only indications of the Nama presence on that land. One plaque was inaugurated by the community in 1997, the only occasion on which they were able to gather to commemorate the massacre at the site where it took place. The other plaque (date unknown) glorifies the German troops, even going so far as to include an offensive slur for the Nama; the massacre is described as a ‘battle’, conveying little of the atrocities perpetrated there.

    The descendants of Hornkranz and the wider Nama community continue to struggle for justice and for opportunities to correct the historical record and tell the story of Hornkranz on their own terms. In support of their efforts to resist this erasure, we worked with descendants, who have inherited knowledge of their community’s history through oral transmission over multiple generations, to reconstruct the lost settlement and produce a new body of visual evidence about the massacre and its aftermath. Led by their testimonies, we used modelling and mapping techniques along with our own field research and a very limited archival record to situate their accounts and rematerialize Hornkranz.

    Our reconstruction of the Witbooi settlement at Hornkranz aims to underscore the vitality of oral tradition in the act of reconstituting the colonial archive and testifies to the oral transmission of inherited knowledge as an ongoing act of resistance in itself.
    Background

    The |Khowesin (Witbooi) people, a semi-nomadic subtribe of the wider Nama peoples, settled around the perennial spring at Hornkranz in 1884-1885, the very period during which the Berlin Conference, formalising the fragmentation of Africa into colonies and protectorates, was taking place. The chief of the Witbooi clan, Hendrik Witbooi, later went on to become one of the most prominent figures of anti-colonial resistance in Southwest Africa, uniting all Nama clans and later forming a coalition with the Ovaherero to fight against the German colonial regime.

    Following the establishment of their settlement in Hornkranz, the Witbooi Nama lived relatively undisturbed until 1892, when first attempts to compel Hendrik Witbooi into signing a protection treaty began. Hendrik Witbooi, aware that the true objective of the so-called ‘protection treaties’ was nothing short of subjugation, was the last leader to refuse to comply:

    What are we being protected against? From what danger or difficulty, or suffering can one chief be protected by another? […] I see no truth or sense, in the suggestion that a chief who has surrendered may keep his autonomy and do as he likes.

    The German attempt to secure control over the peoples inhabiting the colony and their land is manifested in their mapping efforts. The first map we found featuring Hornkranz dates to 1892, the same year that the Germans began demanding the Witbooi sign such treaties. Despite Witbooi’s refusal to sign, Hornkranz is labelled in these German maps as ‘proposed Crown Land’ already six months before the attack—the very act of cartographic representation prefiguring the expulsion and massacre to follow less than a year later.

    After the Germans attacked Hornkranz, the Witboois were finally forced to concede and sign one of the protection treaties they had so long been resisting.

    A decade later, in 1904, the Nama joined the Ovaherero in an anti-colonial struggle against German rule. In response, the Germans issued an extermination order against the Ovaherero and later, another against the Nama. Hendrik Witbooi died in battle on 29 October 1905. Following his death, the Nama tribes surrendered. The extermination order against the Nama was never revoked.
    12 April 1893: The Attack and Aftermath

    The German troops approached the settlement in the early hours of 12 April, planning to attack under the cover of night without any warning. They then split into three contingents—a recounting of this strategy is recorded in the diary of Kurd Schwabe, one of the perpetrators of the attack. Von Francois led the attack from the northern side, entering the village first, while Schwabe approached from the east.

    Hendrik Witbooi, who was allegedly sitting outside of his house when he noticed the approaching troops, ordered all Nama fighters to retreat and take up defensive positions along the riverbed, where he expected the ensuing battle to take place. Instead, the German troops stopped when they reached the sleeping village and proceeded to target the defenceless population that had stayed behind. The brutality of the onslaught came as a shock to Hendrik Witbooi, who had not expected the Germans to unleash such ‘uncivilised’ tactics upon another sovereign nation.

    Sixteen thousand rounds of bullets were reportedly discharged by the Germans in the span of just thirty minutes. According to the testimony of descendants and corroborated by Schwabe’s diary, some victims were burned alive in their homes.

    The canisters recovered from the site during our fieldwork in September 2023 indicate where some exchange of fire may have taken place while the Witbooi fighters were retreating. While the found bullets were identified as those used by the Witbooi Nama, their location and distribution also corroborates written descriptions of the massacre unfolding in the inhabited area of the settlement, with stored ammunition exploding from inside the burning houses.

    The massacre yielded 88 victims: ten men, including one of Hendrik Witbooi’s sons, and 78 women and children.

    The following day, the German troops returned to raze what remained of the settlement to the ground. Promptly after, a garrison was established on the ashes of the Witbooi settlement, reinforcing the Germans’ clear intention to claim the land and prevent the Witboois from ever returning.

    Over the next year, the Witbooi Nama made several attempts to return to Hornkranz, resulting in four more skirmishes on the site. Eventually, they were forced to sign a protection treaty in Naukluft in August 1894, which cemented the dispossession of their land.

    The treaty meant that the Witbooi Nama were now obliged to assist the Schutztruppen in their battles against other tribes, most devastatingly at the Battle of Waterberg in August 1904 (see our Phase 1 investigation of this event). Once the Nama realised the true genocidal intent of the Schutztruppen, they united with the Ovaherero against colonial rule. The extermination order against the Nama was issued on 22 April 1905.

    After the genocidal war ended in 1908, Hornkranz was sold off to a private owner and a police station was established on its premises. Today, the police station building is the main farmhouse.

    Nama descendants are seeking to establish the 1893 massacre as the first act of genocide against the Nama, and 12 April as the official Genocide Remembrance Day in Namibia.

    This investigation—part of a larger collaboration between Forensic Architecture, Forensis, Nama Traditional Leaders Association (NTLA) and Ovaherero Traditional Authority (OTA)—seeks to support the community’s broader efforts to make the site accessible for commemoration and preservation.

    Methodology
    What Remains

    Little material evidence of Hornkranz survives today. This is in part due to the scale and totality of destruction by the Germans; but it is also a testament to the Witbooi’s steadfast resistance to being documented by the colonial regime, as well as to the light footprint the Nama exerted on the land through their semi-nomadic inhabitation and subsistence. The archival record about the Witbooi and Hornkranz is also sparse and skewed. Alongside an incomplete and biased colonial description of the massacre and the settlement, the only visual representation of Hornkranz on record is a soldier’s crude sketch showing its houses set alight by the German troops on the night of the massacre. The memory of Hornkranz as it was at the time of the attack lives on instead through the descendant communities who have inherited the testimonies of their forebearers about its material culture, rituals, life and environmental practices; our reconstruction and understanding of Hornkranz is possible only insofar as we are led by their testimonies.

    Around the rectangular patch where Hendrik Witbooi’s house once stood, Maboss Ortman and Lazarus Kairabeb, NTLA advisors, identified stones they said are the ruins of the house. Right next to it is the only stone foundation in the settlement, that of a church still under construction at the time of the German assault. These two traces anchored us spatially when we began the 3D reconstruction. We were told by Zak Dirkse, a Nama historian, that Hendrik Witbooi’s house was located higher up in the settlement, with the other houses further down toward the river.

    The other remains and known landmarks of the original Hornkranz settlement help us to navigate it and determine its approximate boundaries. During our visit to the site, the farm owner pointed us to a long strip of clustered stones he explained were the remains of the settlement’s defensive walls, some 300 metres north-west of the church ruins. To the south, by the river, the settlement’s former cemetery is marked by the spread of small rectangular cut stones marking each grave. Further along the river, Maboss and Lazarus showed us the remains of two defensive ramparts, guard outposts downhill from the settlement on its outer edges. They recounted that these ramparts were identifiable to the Witbooi from a distance by a white cornerstone that stands out among the brown stones the rest of the rampart is made of. The ramparts are placed along the hill leading down to the river and would have had a wide lookout view. A few steps to the west of one of the ramparts, we found what brought the Witbooi to this area, a rare perennial spring, which acted not only as a fresh water source for the village, but as a lifeline to the fauna and flora on which the Witbooi relied to survive. Since the early 20th century, this spring has been surrounded to its north by a concrete dam. By establishing this constellation of remains and landmarks, we were able to clarify the approximate outer edges of the settlement.

    Reconstruction

    To reconstruct the Hornkranz settlement, departing from the few architectural landmarks at our disposal, we replicated the architecture of each house and the elements of family life around it, estimated the area of inhabitation within the settlement, and constructed possible layouts of house distribution within the settlement. This reconstruction was led by the close guidance of descendants of the Witbooi we met with in Gibeon, the expertise of Nama historian Zak Dirkse, and the feedback of the Witbooi Royal House council, the representative body of the Witbooi Nama. Our model represents the most comprehensive visual reconstruction of the Witbooi settlement to date.

    Architecture of the Settlement

    Houses in Hornkranz consisted mostly of round domed huts, between four and five metres in diameter, and constructed with cladding made out of reed mat or a mix of animal dung and clay. Zak explained that these huts would have been constructed on a light foundation made up of the same dung and clay mixture spread on the ground. A central pole would act as the main structural pillar on which the reed mats would rest. According to members of the Witbooi descendants, alongside these huts there would have been other houses built of stone, like that of Hendrik Witbooi. Descendants also explained that houses typically had two entrances opposite one another and positioned on an east-west axis with the main entrance facing east.

    Working with the community descendants and Zak, we used 3D modelling software to reconstruct what a typical family home would have looked like. We were told that outside the houses, many families would have had a round kraal lined with a light wooden fence where they kept smaller livestock. Close to the main entrance, they would also have had a fireplace and a simple wooden rack to hang and dry meat. The main kraal of the settlement was near the chief’s house, where a separate storage hut also stood.

    The light environmental trace of the Nama, the German colonial army’s obliteration of the settlement, the failure of subsequent administrations to engage in preservation efforts, and the conversion of the land into a private farm all make it difficult to locate definitive traces of the layout and location of homes based on what little remains at the modern-day site. Nevertheless, by closely reading the texture of the ground, we found possible traces of cleared, round areas surrounded by larger rocks, and noted areas of sparse vegetation growth, a potential indicator of the impact of the huts’ clay-dung foundations. We marked five possible sites where Witbooi homes might have stood.

    Zak explained that a defensive wall would have flanked the settlement along its more vulnerable northern and eastern fronts. We studied the contours of the landscape to estimate, based on the presence of limited remains, how the wall might have cut through the landscape. We estimate that the eastern wall may have been constructed along the peak of the hill to the settlement’s east, given its optical reach and defensive position.

    Area of Inhabitation

    To estimate the area of inhabitation and the settlement’s population, we studied the remaining ruins of the settlement, the terrain of the landscape, and the land’s geological features.

    Houses, we were told, would have been built on flatter ground. We used a 12.5 metre resolution digital elevation model (DEM) to build the terrain in our 3D model and further analysed it in geographic information system (GIS) software. From the DEM, we extracted the contour lines of the landscape and conducted a slope analysis, which calculates the percentage of slope change in the settlement. Analysis of the contours and the areas of low slope help to define the curvature of the settlement’s inhabitation.
    Contour Analysis - 1 metre contours of the site of Hornkranz derived from a digital elevation model (DEM). (Forensic Architecture/Forensis)

    We then traced and excluded uninhabitable geological features from the area of potential inhabitation, including bodies of water and large embedded rock formations. Together, the land’s features, its topography, and our estimated location of the defensive wall help establish where people may have lived.

    Layout of Hornkranz

    Building on the traces of potential houses we previously identified within the landscape and the descendant’s description of the settlement, we were able to algorithmically model potential layouts of the settlement. We used the 3D procedural modelling software application Houdini to design an algorithm that would generate possible layouts of the settlement according to a set of rules, including our defined area of potential inhabitation and the approximate space each household would need for its family life (which we approximate to be a radius of 10 metres). The rules fed to the algorithm were that the houses had to be at least 20 metres apart, each house was approximately 5 metres in size, and there were sixty houses in total with a deviation of +/- ten houses.

    According to the Hornkranz descendants, there would have been around four to six people per household. With an average of five people per household, we estimate the population to be around 300 people per household.
    Number of inhabitants

    The exact population size of Hornkranz at the time of the attack is not known. Sources provide estimates ranging from 250 up to nearly one thousand inhabitants.

    In addition to the members of the |Khowesin Nama clan, Hendrik Witbooi also gathered followers from other clans at Hornkranz, including the ǀAixaǀaen (Afrikaner Oorlams), ǁKhauǀgoan (Swartbooi Nama), Khaiǁkhaun (Red Nation Nama) and ǂAonin (Topnaar Nama). Indeed, the various Nama subtribes were elastic social entities.

    We estimated the 1893 population of Hornkranz by referencing the reported number of individuals killed and captured. Hendrik Witbooi wrote in his diary that 88 people were killed by the Germans that day, 78 of them women and children and ten of them men, with one hundred women and children captured by German colonial forces. Other sources indicate a similar number of casualties: 85 women and children, and ten men (Missonary Olpp, cited in Steinmetz 2009). Descendant narratives also mention the successful escape of some women and children during the German assault. Assuming that before the attack, women and children totalled at least 178 (according to Hendrik Witbooi’s figures), and that women and children made up around three out of five family members in an average household, we estimate there could have been around sixty households and three hundred people in Hornkranz on the dawn of the German attack.

    https://forensic-architecture.org/investigation/restituting-evidence-genocide-and-reparations-in-german-colon

    #Allemagne #colonialisme #massacre #génocide #Namibie #architecture_forensique #histoire #histoire_coloniale #témoignage #Nama #Hendrik_Witbooi #Witbooi #Curt_von_Francois #Ovaherero #San

    ping @reka

  • Fin de vie : Entretien avec François Guillemot et Bertrand Riff sur Radio Campus Lille !

    Ce Samedi 13 Avril, une heure avec l’AMD. Pour écouter l’émission en mp3, LE LIEN : https://www-radio-campus.univ-lille1.fr/ArchivesN/LibrePensee/LP240413.mp3

    La fin de vie. C’est un sujet qui fait débat en France en ce moment. La convention citoyenne sur la fin de vie a rendu ses conclusions après 27 jours de débats et d’entretiens avec une soixantaine spécialistes. Dans leur rapport, les citoyens tirés au sort déclarent : « Après en avoir largement débattu, la majorité de la Convention s’est prononcée en faveur d’une ouverture à l’aide active à mourir. »

    Si en France l’aide active à mourir n’est pas encore possible, elle l’est par contre dans un pays tout proche : la Belgique. Pour aider les Français qui souhaitent en bénéficier, l’Association pour le Droit de Mourir dans la Dignité (ADMD) propose son aide. Elle dispose d’un local à Lille (Nord), à moins d’une heure de la Belgique. A Lille, c’est Monique et le docteur François Guillemot qui s’occupent des personnes et les accompagnent.

    La suite : https://actu.fr/hauts-de-france/lille_59350/depuis-lille-ils-accompagnent-des-patients-en-belgique-pour-leur-fin-de-vie_589

    Source : http://federations.fnlp.fr/spip.php?article2296

    #AMD #mort #fin_de_vie #aide_à_mourir #aide_active_à_mourir #handicap #Belgique #Santé #liberté #décès #santé #mort #mort_choisie #acharnement_thérapeutique #AMM #souffrances #femmes #radio #Hôpital #soins_palliatifs

  • Les territoires des émeutes
    https://laviedesidees.fr/Les-territoires-des-emeutes

    Le haut niveau de #ségrégation urbaine constitue le meilleur prédicteur des violences. La différence la plus marquante entre 2023 et 2005 est l’entrée en scène des villes petites et moyennes, où les adolescents de cités d’habitat social s’identifient aux jeunes des banlieues de grandes métropoles.

    #Société #jeunesse #banlieue #révolte #urbanisme #gilets_jaunes
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/20240412_emeutes.pdf

    • Conclusion

      Le retour sur les émeutes de #2005 a permis de mettre en évidence à la fois des continuités et des changements par rapport à celles de #2023. Si de façon générale, les communes les plus défavorisées ont de plus fortes probabilités de connaître des émeutes, c’est surtout la ségrégation des situations sociales les plus précaires et des immigrés dans des quartiers spécifiques (#QPV) qui apparaît comme un élément de contexte crucial. À profil social et urbain équivalent, avoir un QPV augmente de façon très significative la probabilité de connaître des émeutes. De plus, cette #ségrégation_sociale et ethnique s’accompagne d’une forte #ségrégation_scolaire dont nous avons pu mesurer également l’impact : plus elle est importante, plus les émeutes sont intenses et violentes.

      Les quartiers en question sont ceux directement concernés par la #politique_de_la_ville (QPV, #PNRU, #NPNRU) depuis plusieurs décennies. Si des changements sont indiscutables sur le plan de l’amélioration du cadre de vie des habitants et plus particulièrement des #conditions_de_logement, un grand nombre de ces quartiers continuent de concentrer une large part de la jeunesse populaire d’origine immigrée, celle la plus touchée par la #relégation, les #discriminations et les #violences_policières, et donc celle aussi la plus concernée par les émeutes. Si la #mixité_sociale et ethnique s’est sensiblement améliorée dans certains quartiers, d’autres demeurent des espaces de très forte #homogénéité_sociale et ethnique, que l’on retrouve dans les #écoles et les #collèges. Ceux où les interventions de l’#ANRU ont été moins intenses ont même vu le nombre de ménages pauvres augmenter. En Île-de-France, la quasi-totalité des communes qui avaient connu des émeutes en 2005, pourtant concernées par la politique de la ville, en ont connu également en 2023.

      Notre approche socio-territoriale met d’autant plus en évidence les limites d’une analyse au niveau national, que les émeutes de 2023 se sont diffusées dans un plus grand nombre de petites villes et villes moyennes auparavant moins touchées par ces événements. Cette plus grande diversité territoriale est frappante lorsque l’on compare les banlieues des très grandes métropoles, à commencer par les banlieues parisiennes, aux #petites_villes et #villes_moyennes. Le poids du #logement_social, de l’immigration, la suroccupation des logements, le niveau de #pauvreté, mais aussi la façon dont ces dimensions se rattachent aux #familles_monoparentales et nombreuses, renvoient à des réalités différentes. Pourtant, dans tous les cas, la ségrégation joue un rôle déterminant.

      Cette approche contextuelle ne suffit pas à expliquer l’ensemble des mécanismes sociaux à l’œuvre et ce travail devra être complété à la fois par des analyses plus fouillées et qualitatives, ciblées sur les réseaux sociaux, la police et les profils des protagonistes, mais aussi des études de cas renvoyant aux différentes configurations socio-territoriales. Des études qualitatives locales devraient permettre de mieux comprendre comment, dans les différents contextes, les dimensions sociales et ethno-raciales interagissent lors des émeutes. Cela permettrait par exemple de mieux saisir l’importance de la mémoire des émeutes dans les quartiers populaires des banlieues des grandes métropoles, sa transmission et le rôle des réseaux militants et associatifs. Dans le cas des petites villes et des villes moyennes, la comparaison avec le mouvement des Gilets jaunes apporte un éclairage particulièrement intéressant sur l’intersection et la différenciation des formes que peuvent prendre la colère sociale et le ressentiment.

      #émeutes #violence #villes #urban_matter #violences_urbaines #banlieues #ségrégation_urbaine #violences #statistiques #chiffres

  • Homöopathin versucht seit 12 Jahren erfolglos, ihren Mann zu vergiften
    https://www.der-postillon.com/2021/04/homoeogift.html

    Kiel (dpo) - Was macht sie nur falsch? Schon seit 12 Jahren versucht Sarah W. ohne Erfolg, ihren Mann zu vergiften. Doch was die gelernte Heilpraktikerin und Homöopathin auch tut – es will ihr einfach nicht gelingen, ihren Robert um die Ecke zu bringen.

    „Langsam verliere ich den Glauben, dass es noch klappt“, klagt die 37-Jährige. „Ich verstehe nicht, wie Robert alles, was ich ihm verabreiche einfach so wegsteckt, als wäre nix. Eigentlich müsste er schon hundertmal tot umgefallen sein.“

    Dabei war sie im Frühling 2012 noch voller Hoffnung gewesen, ihren lästigen Ehemann bald los zu sein: „Ich hatte mir Arsen besorgt, eines der wirksamsten Gifte, die es gibt“, berichtet sie. „Ich wollte es ihm erst einfach so in den Kaffee schütten, aber dann fiel mir ein, dass ja jede Substanz deutlich stärker wird, je mehr man sie verdünnt. Also habe ich das Arsen im Verhältnis 1:100.000.000 (D8) verschüttelt. Ich wollte ihn ja nicht mit unwirksamem Schulgift umbringen.“

    Doch der hochpotente Gift-Trank, den Sarah W. ihrem Mann schließlich vorsetzt, bleibt ohne Wirkung – selbst nach Wochen täglicher Verabreichung bleibt Robert kerngesund.
    Sarah W.: „Ein Grund, warum ich Robert umbringen will, ist, dass er mich immer verspottet, weil ich an so esoterischen Kram glaube. Das Lachen wird ihm schon noch vergehen. Irgendwann.“

    „Also habe ich die Dosis logischerweise immer weiter reduziert“, erklärt sie. „Aber so sehr ich das Gift auch verdünnt habe, es wollte trotzdem einfach nicht klappen.“

    Inzwischen möchte W. von Arsen auf einen anderen Wirkstoff umzuschwenken. „Ich habe diese Woche zu meinem Entsetzen festgestellt, dass verdünntes Arsen und andere Gifte homöopathisch genutzt werden, um Leute gesund zu machen. Habe ich Robert all die Jahre versehentlich geholfen, statt ihn zu töten? Wenn verdünnte Gifte heilen, muss ich dann gesunde Stoffe verdünnen? Jedenfalls werde ich ihm jetzt eine Potenzierung aus lebenswichtigen Multivitaminen, belebenden Spurenelementen und gesunden Aminosäuren verabreichen. Wenn er dann nicht endlich tot umkippt, weiß ich auch nicht mehr weiter.“

    #satire #homéopathie #charlatans

  • Puisque je vous dis qu’entre Delga et Moudenc, les mégalos de la région toulousaine se régalent d’imposer leurs projets pharaoniques non seulement inutiles mais dangereux.

    Un énorme centre commercial de plus de 25.000 m² va pouvoir sortir de terre après 20 ans de controverse
    https://france3-regions.francetvinfo.fr/image/M3MscUppkPdIuVTAsgQCX2xUZCE/862x475/regions/2023/11/23/sodec-enzo-et-rosso-architectes-associes-perspective-01

    https://france3-regions.francetvinfo.fr/occitanie/haute-garonne/toulouse/un-enorme-centre-commercial-de-plus-de-25-000-m-va-pouv

    C’était la dernière opportunité pour entraver la création d’un vaste centre commercial à Muret, près de Toulouse. Le Conseil d’État a rejeté, le 4 avril 2024, le dernier recours en justice contre la société Porte des Pyrénées.

    C’est sans doute le dernier épisode judiciaire qui aurait pu empêcher le lancement des travaux. Ce 4 avril 2024, le Conseil d’État a rejeté l’ultime recours en justice contre le projet de création d’un nouveau centre commercial sur la commune de Muret, près de Toulouse. La zone de la Porte des Pyrénées va pouvoir s’étoffer.

    #honte_écologique #immobilier #hyper_marchands

    Et les laquets de france3 avec ce « va pouvoir » et le reste de cet article où tout sonne comme une victoire alors que ce n’est pas moins qu’une défaite de l’intelligence et de la raison.

    #Alain_Mandement maire de Muret a signé le permis de construire en novembre 2023.

  • L’#utérus, un organe d’homme ?

    Biologiquement organe des corps femelles chez les mammifères, l’utérus joue un grand rôle dans le processus de #reproduction. Chez l’être humain, l’utérus, dont la forme rappelle celle d’une poire, est situé au-dessus de la vessie, en avant du rectum, et est tenu par un ensemble de ligaments ; il mesure environ six centimètres en hauteur et cinq en largeur, comme le montre la figure 1, issue de la première traduction française du manuel féministe Our Bodies, Ourselves (Notre corps, nous-mêmes), paru à la fin des années 1970 : l’enjeu est alors, en accordant une large place à l’iconographie et à des planches anatomiques simples, de diffuser un savoir sur les corps qui ne soit plus le seul monopole du corps médical. Quoique communément associé au féminin et considéré comme un des attributs de la féminité, autant que les seins ou le clitoris par exemple, l’utérus est pourtant de fait un organe éminemment social. C’est sur cette tension que les différentes notices de cette exposition se concentrent, en optant pour une lecture sociale, culturelle et historique de l’utérus.

    Depuis plusieurs décennies, le #corps est un objet des sciences humaines et sociales, qui l’étudient dans une approche essentiellement globale, le tout primant sur les parties, les organes. Il est de plus surtout analysé par le biais des apparences – sa surface – et de ses capacités – sa mécanique. Les organes internes, moins accessibles au regard, sont restés largement à l’écart de la recherche. Leur étude se heurte notamment à la difficulté de les appréhender au-delà du sens fonctionnel que leur confère l’étymologie : organon « instrument, outil ». C’est cette difficulté que cette exposition choisit d’affronter, en faisant primer les représentations de l’utérus en tant que « partie du corps » sur celles mettant l’accent sur sa fonction reproductive.

    Caché, dissimulé et difficile d’accès, l’utérus est historiquement sacralisé et fantasmé dans un grand nombre de cultures et d’aires géographiques. Il présente donc le paradoxe d’un organe qui semble a priori l’étendard du féminin, mais sur lequel ce sont d’abord ceux qui en sont biologiquement dépourvus qui s’arrogent des droits. Droit de le connaître et de le soigner, à travers l’accaparement masculin de la sphère des savoirs. Droit de le posséder et d’en régir les usages, politiquement et économiquement. Droit de le violenter, comme le montre le caractère systémique des souffrances infligées à l’organe, et plus généralement aux corps qui le portent, sous couvert de soins. Droit d’en discourir et d’en produire des images. C’est ce qu’illustre cette cire (fig. 2) représentant une césarienne et exposée jusqu’au milieu du XXe siècle dans le musée que crée Pierre Spitzner en 1856 à Paris afin de vulgariser le savoir anatomique et d’informer sur les maladies vénériennes*. La parturiente, consciente, a les pieds attachés et les bras maintenus derrière la tête. Entouré des mains masculines de ses accoucheurs, son ventre ouvert laisse voir un utérus contrôlé par les hommes.

    Le fil directeur de l’exposition interroge ainsi prioritairement l’évolution des représentations de l’utérus, leur caractère genré et les dynamiques d’appropriation et de réappropriation de ceux et celles qui les produisent. En accordant, au sein de chaque entrée thématique une large place à la diachronie, cette exposition cherche donc à révéler les permanences et les changements dans les discours et les considérations socio-historiques sur cet organe. Elle offre un parcours trans-siècles, même si toutes les périodes ne sont pas également représentées. D’un point de vue géographique, les notices se concentrent principalement sur des contextes occidentaux ; quelques incursions dans d’autres aires invitent à poursuivre les réflexions vers d’autres moments et lieux.

    https://omeka.univ-angers.fr/s/musea/page/l-uterus-un-organe-d-homme
    #femmes #hommes #exposition #exposition_virtuelle #représentations #féminisme

  • #France : une #statue de #Bigeard, le tortionnaire des Algériens, déclenche la polémique

    Alors que l’Algérie continue de réclamer la reconnaissance et la condamnation de la torture coloniale française, le projet d’ériger une statue à #Toul (Meurthe-et-Moselle, nord-est de la France) en l’honneur du colonel Marcel Bigeard suscite une colère légitime chez les Algériens et les Français qui ont conscience des crimes de la #colonisation.

    Bigeard, symbole de la cruauté et de la barbarie de la guerre d’Algérie, est accusé d’avoir commandité et pratiqué la torture contre des Algériens. Son nom est gravé dans la mémoire collective comme synonyme de terreur et de répression.

    Les témoignages poignants des victimes et de leurs familles, ainsi que les documents historiques, accablent Bigeard. Son Manuel de contre-guérilla, véritable manuel de torture, justifie et encourage l’utilisation de cette pratique barbare.

    Le refus de Bigeard de reconnaître ses crimes et son arrogance face aux accusations ne font qu’amplifier la douleur et la colère des Algériens.

    « Comment pouvons-nous envisager d’ériger une statue du parachutiste Marcel Bigeard, comme le souhaite la municipalité de Toul ? Est-il concevable de glorifier la pratique de la torture coloniale dont il est l’un des symboles ? »
    L’association Union Algérienne menace de saisir la justice pour « apologie de crime de guerre »

    C’est ainsi que s’interrogent les historiens français Fabrice Riceputi et Alain Ruscio dans une longue pétition cosignée par les deux hommes et publiée samedi (16 mars) sur le site « Histoire coloniale » (lancé en 2017 par des chercheurs et des enseignants en histoire en France). La pétition est adressée au public français.

    Les historiens annoncent que l’Association française d’histoire coloniale a l’intention de faire pression sur la municipalité de Toul, d’où est originaire Bigeard (décédé en 2010), pour l’empêcher d’ériger la statue.

    La pétition souligne que « l’acte que la municipalité de Toul s’apprête à accomplir intervient au moment où les municipalités de Paris et de Marseille ont retiré les plaques commémorant le maréchal Bugeaud, bourreau du peuple algérien pendant la conquête coloniale ».

    Alors que la France s’engage timidement à reconnaître son passé colonial, glorifier un tortionnaire comme Bigeard est une insulte à la mémoire des victimes algériennes et un obstacle à la réconciliation entre les deux pays.

    De son côté, l’association Unions Algérienne compte saisir la justice pour « apologie de crime de guerre » si la statue de #Marcel_Bigeard est érigée à Toul.

    https://www.algerie360.com/france-une-statue-de-bigeard-le-tortionnaire-des-algeriens-declenche-la-
    #Algérie #monument #toponymie #toponymie_politique #torture #guerre_d'Algérie

    ping @cede

    • Scandale à Toul, une statue pour honorer le général Bigeard, tortionnaire en Algérie

      Dans la sous-préfecture de Meurthe-et-Moselle, l’érection d’une statue en #hommage au général Marcel Bigeard, accusé de torture en Algérie, oppose la mairie, pourtant de gauche, à un collectif citoyen d’historiens, d’associatifs, de communistes et d’insoumis.

      La statue en bronze, haute de plus de deux mètres, dort pour le moment dans un entrepôt de caserne du 516e régiment du train. À moins de deux kilomètres de la vive controverse qu’elle suscite dans cette sous-préfecture de Meurthe-et-Moselle, peuplée de 15 000 habitants.

      Elle représente, glorieux dans son uniforme de parachutiste, Marcel Bigeard. Général multidécoré, résistant, ancien député et secrétaire d’État à la Défense. Né à Toul, élu à Toul, mort à Toul. Bref un « enfant du pays », dont la statue devait être érigée le 18 juin prochain, pour l’anniversaire de l’appel de Charles de Gaulle et celui de la mort de Bigeard.

      Mais le général, décédé en 2010, n’a pas que des thuriféraires. Car l’homme est aussi, bien qu’il l’ait nié toute sa vie, l’un des artisans du système de torture institutionnalisé durant la guerre d’Algérie, notamment durant la « bataille d’Alger ».

      Lorsque l’armée française se livre à des exécutions sommaires, coulant les pieds de ses prisonniers dans le béton avant de les jeter à la mer depuis des hélicoptères, les Algériens surnomment cette technique sordide « les crevettes Bigeard ». Un collectif toulois, « Histoire et mémoire dans le respect des droits humains », s’est donc créé pour protester contre l’érection de la statue, votée deux fois par le conseil municipal, pourtant dirigé par la gauche, en 2018 et en 2023.
      « La mettre à côté d’un monument aux morts, c’est une honte ! »

      Le 26 mars, une centaine de Toulois, communistes, insoumis, militants de la Ligue des droits de l’homme ou d’associations antiracistes ont bravé le crachin qui mouille les pavés du vieux centre, non loin de l’hôtel de ville, pour protester à nouveau contre cette décision.

      L’initiateur du collectif, Philippe Champouillon, 88 ans et lui-même vétéran d’Algérie, monte à la tribune. Il s’est longtemps battu seul contre la mairie. Sa voix usée peine à contenir son émotion : « Cette statue glorifierait un passé qui salit la France, et ternirait le patrimoine culturel de Toul. La mettre à côté d’un monument aux morts, c’est une honte ! »

      La sculpture doit en effet prendre place dans un ensemble mémoriel, située à l’entrée de la ville pour qui arrive par la gare de Toul. Un imposant édifice commémorant les morts de l’invasion prussienne de 1870 y toise les grandes plaques en hommage aux morts des deux guerres mondiales.

      Derrière, coule une petite rivière, à l’ombre des remparts de la vieille ville, réminiscence de la fonction militaire de cette commune, qui accueille depuis plusieurs siècles des garnisons. Durant l’entre-deux-guerres, il y vivait plus de militaires que de civils. Dans cette commune où l’on peut croiser l’ancienne ministre Nadine Morano, qui fit un mandat de députée dans la circonscription, les soldats ont bonne presse, et la fibre patriote est vive.

      « Nous ne sommes pas dans une ville ouvrière, marquée par des luttes syndicales, confirme Patrick Bretenoux, secrétaire de la section PCF de Toul. C’est plutôt une ville marquée par son passé militaire, et l’ancrage de la religion catholique. Il y a un fort vote RN. » Marine Le Pen a recueilli 49,4 % des suffrages à Toul, au second tour de la présidentielle 2022. Le député actuel est toutefois socialiste. Mais Dominique Potier n’a pas souhaité, pour le moment, s’exprimer sur l’affaire de la statue de Toul. Le maire, Alde Harmand, lui, « assume ».
      Une décision en plusieurs étapes

      Rembobinons. En 2018, la Fondation Général-Bigeard, dépositaire de sa mémoire, propose d’offrir à Toul une statue du général, tous frais payés. Anne-Marie Quenette préside cet organisme. Outre son combat en faveur du gradé, cette ancienne avocate, aujourd’hui très âgée, s’est battue pour réhabiliter la mémoire de son père, Jean Quenette, un préfet « vichysto résistant » déclaré inéligible après la Libération pour avoir voté les pleins pouvoirs à Pétain. Le conseil municipal met la proposition au vote.

      Elle est acceptée. Les communistes, qui siégeaient dans la majorité et y siègent encore, s’abstiennent lors de ce premier scrutin. Cinq ans et une pandémie mondiale plus tard, en 2023, le maire organise un second scrutin. Les communistes votent cette fois contre, mais l’installation de la statue est à nouveau adoptée.

      Ses promoteurs s’appuient sur le fait qu’il n’y a pas de preuve directe que Marcel Bigeard se soit livré lui-même à des actes de torture, et sur ses dénégations tout au long de sa vie. En 2000, dans les colonnes du journal d’extrême droite Minute, le général en retraite assurait être « incapable d’écraser un poulet sur la route ou d’égorger un lapin. »

      Bigeard n’a rien avoué ni regretté, tout juste a-t-il évoqué un « mal nécessaire », contrairement à ses compagnons d’armes Aussaresses ou Massu. Ce dernier avait d’ailleurs déclaré, sans qu’on puisse prouver ses dires : « la première fois que j’ai vu une gégène, c’était chez Bigeard. »

      Le général Bigeard a aussi rédigé sept autobiographies pour parler de ses « hauts faits ». « De nombreux participants de la guerre d’Algérie ont éprouvé le besoin d’écrire sur eux-mêmes, de se mettre en scène, relève l’historien spécialiste de la période coloniale Alain Ruscio, qui a fait le déplacement à Toul pour épauler le collectif anti-statue. Bigeard, qui écrit souvent à la troisième personne en parlant de lui-même, se raconte comme le grand vainqueur de la « bataille d’Alger ». »

      En 1957, dix mille parachutistes sont largués sur la capitale coloniale, pour briser les revendications d’indépendance. « Ce n’était pas une bataille, mais une militarisation de la répression, voulue par le pouvoir politique, socialiste en l’occurrence, rappelle l’historien Fabrice Riceputi, présent également à Toul.

      L’objectif n’est pas de combattre les poseurs de bombe, mais de briser une grève anticoloniale déclarée par le FLN. Pour ça, les paras ont carte blanche pour enfermer, torturer, exécuter. C’est à ça qu’a participé le régiment commandé par Marcel Bigeard. Sa responsabilité est évidente. »

      Au vu de son grade d’officier parachutiste pendant la « bataille d’Alger », le fait qu’il ait cautionné et commandé l’utilisation de la gégène ou du supplice de la noyade ne souffre donc aucune contestation. Auprès de l’Humanité, le maire de Toul, Alde Harmand, ex-socialiste, balaie pourtant : « c’est le point de vue de certains, ce n’est pas à la collectivité de juger. Nous recevons autant de courriers de gens pour la statue que de gens contre. »

      L’élu concède qu’il « eut été plus heureux qu’il soit représenté en général ou en civil, plutôt qu’en para. Mais cet uniforme, ce n’est pas que l’Algérie, c’est aussi Dien Bien Phu ». Avant Alger, Marcel Bigeard a en effet opéré en Indochine, sans que l’on comprenne bien en quoi c’est une bonne nouvelle. Alde Harmand s’agace de cette controverse qui dépasse maintenant la seule politique locale : « c’est quelqu’un d’important pour Toul, il y est né, il y est mort.
      Nostalgérie

      C’est un des généraux les plus décorés de France, si on avait estimé qu’il avait commis des actes condamnables, il aurait été déchu. » « Dire qu’il y aurait encore un débat sur l’utilisation de la torture comme système en Algérie, cela relève du négationnisme », tranche l’historien Fabrice Riceputi.

      À Toul, difficile de « déboulonner » l’aura du général Bigeard. Le militaire a déjà une avenue à son nom qui, en longeant la Moselle, permet de rejoindre l’autoroute. Elle fut inaugurée de son vivant, en 1979, en présence de Valéry Giscard d’Estaing, qui l’avait nommé au gouvernement.

      Au village de Lucey, à quelques kilomètres de là, tous les 1er mai, des petits groupes de retraités, anciens d’Algérie, crapahutent dans la campagne lors du traditionnel « rallye Bigeard ». Une promenade au vert, prétexte à un gueuleton nostalgique, où on mange du couscous « comme là-bas ». Il fut un temps où le général Bigeard y participait lui-même. En 2022, sa fille en était l’invitée d’honneur.

      « Au niveau de la commune, on peine à rassembler et surtout à intéresser les jeunes, qui ne connaissant pas Bigeard ou bien s’en fichent », reconnaît le communiste toulois Patrick Bretenoux. Au niveau national, la pétition contre la statue a été signée entre autres par le secrétaire national du PCF Fabien Roussel et les députés insoumis Antoine Léaument et Thomas Portes. Elle totalise un peu plus de 1200 signatures.

      La statue sera-t-elle révélée en grande pompe le 18 juin 2024, comme prévu à l’origine ? Le bras-de-fer continue. D’autant que le nom du sculpteur choisi par la Fondation Marcel-Bigeard n’a pas échappé aux détracteurs du projet. Boris Lejeune est un collaborateur régulier de la revue Catholica, proche de l’ultra-droite catholique.

      L’artiste a à son actif une statue de Jeanne d’Arc livré à la mairie de Saint-Pétersbourg en 2021. Et, à Orange, ville dirigée de longue date par l’extrême droite, c’est sa signature qu’on retrouve en bas du Mémorial de la Terreur, dédié aux religieux tués lors de la Révolution française.

      https://www.humanite.fr/politique/guerre-dalgerie/scandale-a-toul-une-statue-pour-honorer-le-general-bigeard-tortionnaire-en-

  • How Hollywood writers triumphed over AI – and why it matters | US writers’ strike 2023 | The Guardian
    https://www.theguardian.com/culture/2023/oct/01/hollywood-writers-strike-artificial-intelligence
    https://i.guim.co.uk/img/media/689771a4945d1c8d8a88bf3f3d759512c6110153/0_221_5292_3175/master/5292.jpg?width=1200&height=630&quality=85&auto=format&fit=crop&overlay-ali

    Hollywood writers scored a major victory this week in the battle over artificial intelligence with a new contract featuring strong guardrails in how the technology can be used in film and television projects.

    With terms of AI use finally agreed, some writers are breathing easier – for now – and experts say the guidelines could offer a model for workers in Hollywood and other industries. The writers’ contract does not outlaw the use of AI tools in the writing process, but it sets up guardrails to make sure the new technology stays in the control of workers, rather than being used by their bosses to replace them.

    The new rules guard against several scenarios that writers had feared, comedian Adam Conover, a member of the WGA negotiating committee, told the Guardian. One such scenario was studios being allowed to generate a full script using AI tools, and then demanding that human writer complete the writing process.

    Under the new terms, studios “cannot use AI to write scripts or to edit scripts that have already been written by a writer”, Conover says. The contract also prevents studios from treating AI-generated content as “source material”, like a novel or a stage play, that screenwriters could be assigned to adapt for a lower fee and less credit than a fully original script.

    For instance, if the studios were allowed to use chatGPT to generate a 100,000-word novel and then ask writers to adapt it, “That would be an easy loophole for them to reduce the wages of screenwriters,” Conover said. “We’re not allowing that.” If writers adapt output from large language models, it will still be considered an original screenplay, he said.

    Simon Johnson, an economist at MIT who studies technological transformation, called the new terms a “fantastic win for writers”, and said that it would likely result in “better quality work and a stronger industry for longer”.

    #Intelligence_artificielle #Scénaristes #Hollywood #Grève

  • Berliner Gebietsreform 1938
    https://de.m.wikipedia.org/wiki/Verwaltungsgeschichte_Berlins


    Grenzänderungen der Berliner Bezirke zum 1. April 1938

    Aus heutiger Sicht zeigt die Karte einen Bezirk zuviel, dafür fehlen ein bzw. zwei neue im Osten der Stadt.

    Mit Wirkung zum 1. April 1938 wurden zahlreiche Begradigungen der Bezirksgrenzen sowie einige größere Gebietsänderungen vorgenommen. Dabei kamen unter anderem

    – die Siedlung #Eichkamp vom Bezirk Wilmersdorf zum Bezirk #Charlottenburg
    – der westliche Teil von #Ruhleben vom Bezirk Charlottenburg zum Bezirk #Spandau
    - der nördlich des #Berlin-Spandauer_Schifffahrtskanal s gelegene Teil der #Jungfernheide vom Bezirk Charlottenburg zu den Bezirken #Reinickendorf und #Wedding
    - #Martinikenfelde vom Bezirk Charlottenburg zum Bezirk #Tiergarten
    – das Gebiet um den #Wittenbergplatz und den #Nollendorfplatz vom Bezirk Charlottenburg zum Bezirk #Schöneberg
    – das Gebiet südlich der #Kurfürstenstraße vom Bezirk #Tiergarten zum Bezirk Schöneberg
    – ein großer Teil des #Grunewald s vom Bezirk #Wilmersdorf zum Bezirk #Zehlendorf
    – ein Teil von #Dahlem vom Bezirk Zehlendorf zum Bezirk Wilmersdorf
    - der östliche Rand des Bezirks Zehlendorf (in Dahlem nur ein schmaler Streifen, sich in Richtung Süden verbreiternd bis hin zu einem größeren Gebiet im Südosten) zum Bezirk #Steglitz
    - #Späthsfelde vom Bezirk #Neukölln zum Bezirk #Treptow
    – Bohnsdorf vom Bezirk Köpenick zum Bezirk Treptow
    #Oberschöneweide und die #Wuhlheide vom Bezirk #Treptow zum Bezirk #Köpenick
    - die westlich der #Ringbahn gelegenen Gebiete von #Boxhagen-Rummelsburg und #Friedrichsberg vom Bezirk #Lichtenberg zum Bezirk #Friedrichshain, damals #Horst-Wessel-Stadt.
    - #Wilhelmsruh vom Bezirk #Reinickendorf zum Bezirk #Pankow
    - das Gebiet um die #Wollankstraße westlich der Berliner #Nordbahn vom Bezirk Pankow zum Bezirk #Wedding.

    Bereits in den Jahren 1928 und 1937 war es zu Verschiebungen zwischen Schöneberg und Tempelhof gekommen.

    Unmittelbar nach Ende des Zweiten Weltkriegs machte die sowjetische Militärverwaltung aus heute unbekannten Gründen #Friedenau zwischen dem 29. April und dem 30. Juni 1945 zum 21. Bezirk mit Willy Pölchen (KPD) als Bezirksbürgermeister; danach wurde Friedenau wieder wie vorher ein Ortsteil von Schöneberg. Entsprechend bestand in der Zeit das #Amtsgericht_Friedenau.

    #Berlin #Geschichte #Verwaltung #Bezirke #Nazis

  • #Vidéo « Ça fait super mal en fait ! » : des députés ont expérimenté un simulateur de règles douloureuses

    Les députés écologistes #Sébastien_Peytavie et #Marie_Charlotte_Garin vont défendre une proposition d’#arrêt_menstruel à l’Assemblée, fin mars.
    Des petits cris de douleur. Les députés écologistes Sébastien Peytavie et Marie-Charlotte Garin ont fait tester à certains de leurs collègues masculines un simulateur de règles douloureuses, alors que leur proposition de loi pour instaurer un arrêt menstruel doit être débattue à partir du 27 mars à l’Assemblée nationale. Le texte, qui doit être étudié dans le cadre de la niche parlementaire écologiste, propose aux personnes atteintes de règles incapacitantes, et pouvant le justifier par un certificat médical, de prendre jusqu’à 13 jours d’arrêt maladie par an, sans carence.

    Dans une vidéo publiée sur X (ex-Twitter) vendredi 22 mars (https://twitter.com/speytavie/status/1771268422820590019), plusieurs députés de tout bord se prêtent à l’exercice... non sans douleur. « Ça fait super mal en fait ! », réagit notamment Benjamin Saint-Huile, député Liot du Nord. « Très douloureux », a aussi commenté l’ancien ministre Clément Beaune, redevenu député Renaissance de Paris. « C’est bien cette expérience, cela nous permet de mieux se mettre à la place… C’est horrible en fait », a réagi le député Les Républicains de l’Oise Maxime Minot.

    En février, le groupe socialiste au Sénat avait échoué à faire adopter un texte similaire. Le ministre de la Santé, Frédéric Valletoux, s’était montré ouvert à la discussion pour « continuer à briser les tabous », mais il s’était opposé à cette généralisation qui « tourne le dos au dialogue social », évoquant notamment le « risque de discrimination à l’embauche ».

    https://www.francetvinfo.fr/societe/droits-des-femmes/video-ca-fait-super-mal-en-fait-des-deputes-ont-experimente-un-simulate
    #règles #menstruations #douleur #hommes #femmes #test #expérimentation #parlement #France

  • #How_To Bring Back Ubuntu’s Iconic Login Sound
    https://www.omgubuntu.co.uk/2024/03/enable-old-ubuntu-login-sound

    If you only started using Ubuntu sometime after 2012 then you have my apologies: this article won’t make a whole lot of sense. But if your roots with the distro reach back farther then the following curio might appeal (though that ‘might’ is, I accept, doing a lot of lifting). When I reported on the new IRC-based chat app Linux Mint is building a commenter amusingly referred to IRC adherents as “nostalgia connoisseurs”. In some ways, that label applies to me for writing this post. I am a nostalgic dweeb — sorry/not sorry! 💁🏻‍♂️ — and the “golden era” of […] You’re reading How to Bring Back Ubuntu’s Iconic Login Sound, a blog post from OMG! Ubuntu. Do not reproduce elsewhere without (...)

    #customization

  • Peut-on être sans norme ?
    https://laviedesidees.fr/Peut-on-etre-sans-norme

    Peut-on critiquer les #normes sans retomber à son tour dans une autre forme de normativité ? P. Niedergang nous invite à distinguer normalisation et normativité, communauté et « communisme queer ». À propos de : Pierre Niedergang, Vers la normativité queer, Editions Blast

    #Philosophie #homosexualité #sexualité #commun #Double_Une
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/202401_normes.docx
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/20240321_normes.pdf
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/20240321_normes.docx

  • Datenschützer warnen vor Kooperation : Berliner Charité vergibt Patientenportal an Doctolib
    https://www.tagesspiegel.de/berlin/datenschutzer-warnen-vor-kooperation-berliner-charite-vergibt-patienten

    Doctolib est connue pour le niveau inacceptable de la protection des données des patients. L’entreprise fait partie des lauréats du prix Big Brother de l’association Digital Courage. L’hôpital berlinois Charité fera gérer les données de ses patients par cette entreprise à sombre réputation

    .https://digitalcourage.de/pressemitteilungen/2022/doctolib-abschalten

    21.3.2024 von Robert Kiesel - Die Berliner Charité plant eine tiefgreifende Zusammenarbeit mit dem von Datenschützern seit Jahren massiv kritisierten Unternehmen Doctolib. Wie ein Sprecher des Klinikums dem Tagesspiegel bestätigte, hat der französische Konzern eine EU-weite Ausschreibung für die Entwicklung und den Betrieb des Patientenportals in Europas größter Universitätsklinik gewonnen.

    Doctolib soll dort künftig das digitale Terminmanagement, automatische Terminbenachrichtigungen sowie einen Messenger zur Kommunikation mit den Patienten zur Verfügung stellen. Ebenfalls geplant ist ein digitaler Austausch medizinischer Dokumente. Anlass für die Ausschreibung ist das Krankenhauszukunftsgesetz, das Kliniken zur Einrichtung eines Patientenportals bis Ende 2024 verpflichtet.

    Unklar ist, in welchem Umfang sensible Patientendaten künftig von Doctolib gespeichert und verarbeitet werden dürfen. „Die Anzahl der Datensätze ist abhängig von der Adaptionsquote des Portals durch Patient:innen und kann deshalb aktuell noch nicht belastbar beziffert werden“, erklärte der Sprecher. Er ergänzte, die Nutzung des Portals werde nicht verpflichtend sein. Es gehe um einen „zusätzlichen, einheitlichen und digitalen Kommunikationskanal als moderne Alternative“.

    Mit der Auftragsvergabe an den schon jetzt in vielen Arztpraxen für die Terminbuchung verantwortlichen Dienstleister begibt sich die Charité auf datenschutzrechtlich heikles Terrain. Seit Jahren steht der rasch expandierende Konzern mit Sitz in Paris im Verdacht, es bei seinen Aufträgen vor allem auf die Patientendaten abgesehen zu haben. 2021 verlieh ihm der Datenschutzverein Digitalcourage seinen jährlichen Big-Brother-Award – einen Negativpreis.

    Wir hätten uns gewünscht, dass die Charité uns vorher schon eingebunden hätte. Simon Rebiger, Sprecher der Berliner Datenschutzbehörde

    In Berlin ist Doctolib bestens bekannt: Kurz nach Beginn der Corona-Pandemie hatte die Gesundheitsverwaltung das Terminmanagement der Impfkampagne an den Konzern vergeben. Binnen weniger Monate gelangte Doctolib so fast zum Nulltarif an die Daten hunderttausender impfwilliger Berliner. Die Datenverarbeitung durch das Unternehmen wurde von der Berliner Datenschutzbehörde einst gerügt.

    Auch die seit Anfang März laufende Zusammenarbeit zwischen der Charité und Doctolib wird die Berliner Beauftragte für Datenschutz und Informationsfreiheit, Meike Kamp, beschäftigen. Zwar werden einem Klinik-Sprecher zufolge ohne die offizielle Abnahme der erstellten Datenschutzfolgeabschätzung – „gegebenenfalls durch die Berliner Datenschutzbehörde“ – weder Patientendaten verarbeitet noch die geplante Pilotierung des Patientenportals in Teilbereichen der Charité begonnen.


    Meike Kamp leitet die Berliner Datenschutzbehörde. © Aubrey Wade

    Die Skepsis in der Behörde Kamps ist dennoch groß. „Wir hätten uns gewünscht, dass die Charité uns vorher schon eingebunden hätte“, erklärte Sprecher Simon Rebiger am Mittwoch mit Blick auf die Formulierung von Anforderungen im Vergabeverfahren. Aktuell würden mehrere durch Bürger-Beschwerden angestoßene Prüfverfahren gegen Doctolib laufen, bestätigte Rebiger eine Aussage Kamps zu Wochenbeginn im Berliner Abgeordnetenhaus.

    Diese war genau wie die für die Verwaltungsdigitalisierung zuständige Staatssekretärin Martina Klement (CSU) von der Nachricht der Zusammenarbeit kalt erwischt worden. Zuerst hatte das Nachrichtenportal „Business Insider“ berichtet.

    Während der Charité-Sprecher jegliche Bedenken zurückwies und erklärte, das Unternehmen habe als einziger Bewerber sämtliche Zertifikate und Testate zu Datenschutz und IT-Sicherheit vorlegen können, übte der Datenschutzexperte Thilo Weichert scharfe Kritik. Doctolib betreibe „absolut aggressiv Expansion“ und gehe zentrale Datenschutzprobleme nicht an, erklärte der ehemalige Datenschutzbeauftragte des Landes Schleswig-Holstein. Tobias Schulze, gesundheitspolitischer Sprecher der Linksfraktion, forderte: „Daten dürfen auf keinen Fall für Zwecke außerhalb von Krankenversorgung und Forschung genutzt werden.“

    #iatrocratie #informatique #hôpital #patients #vie_privée #surveillance #bg_brother

  • Women ask fewer questions than men at seminars
    (de 2017, je mets ici pour archivage)

    ONE theory to explain the low share of women in senior academic jobs is that they have less self-confidence than men. This hypothesis is supported by data in a new working paper, by a team of researchers from five universities in America and Europe. In this study, observers counted the attendees, and the questions they asked, at 247 departmental talks and seminars in biology, psychology and philosophy that took place at 35 universities in ten countries. On average, half of each seminar’s audience was female. Men, however, were over 2.5 times more likely to pose questions to the speakers—an action that may be viewed (rightly or wrongly) as a sign of greater competence.

    (#paywall: si quelqu’un·e a accès...)
    https://www.economist.com/science-and-technology/2017/12/07/women-ask-fewer-questions-than-men-at-seminars
    #statistiques #chiffres #questions #séminaires #conférences #genre #femmes #première_question #hommes

    • How to stop men asking all the questions in seminars – it’s really easy!

      I spotted a short item on gender #bias in academia in the Economist this week and tweeted it, which then went viral. The tweet read:

      https://frompoverty.oxfam.org.uk/wp-content/uploads/2022/09/questions-in-seminars-508x1024.png

      ‘In academic seminars, ‘Men are > 2.5 times more likely to pose questions to the speakers. This male skew was observable only in those seminars in which a man asked first question. When a woman did so, gender split disappeared’. CHAIRS PLEASE NOTE – FIRST Q TO A WOMAN – EVERY TIME.’

      Which confirms an impression I’ve had when chairing assorted discussions – if you let men dominate from the start, it stays that way, but call on women for the first few questions, and things work out much better.

      The research paper that backs up the stats can be found here. It’s based on survey responses of over 600 academics in 20 countriesand observational data from almost 250 seminars in 10 countries. Kudos to the authors, Alecia Carter, Alyssa Croft, Dieter Lukas and Gillian Sandstrom. Their broader recommendations are:

      ‘Increasing the time for or number of questions reduces the imbalance in the questions asked. We recommend that, where possible, the question time not be limited. This could be achieved through, for example, booking a seminar room for longer than one hour so that the next event in the room does not cut short the question time. Having said this, our data suggest that to overcome the male-first question bias, upwards of 25 min is needed for questions, which was a rare occurrence in our data and additionally may be a taxing requirement for the speaker after having given a seminar.

      Alternatively, keeping questions and answers short will allow more questions to be asked during a given question period, and could be an alternative method to allow greater balance in the questions asked. We feel that more could be done through active changes in speakers’, attendees’ and particularly moderators’ behaviour. Having an active, trained moderator may avoid those situations where one audience member seems to be “showing off” (which survey respondents claim to be the case quite often), or is going off-topic, or a speaker who goes over time.

      We would recommend that, should the opportunity arise, a female-first question be prioritised because this was a good predictor of low imbalance in the questions asked in our observational data. In addition, moderators could be trained to see the whole room (location was mentioned as a factor), and to maintain as much balance as possible with respect to gender and seniority of question-askers. In the open-ended survey questions, respondents complained that moderators call on people they know or more senior people, overlooking the rest.

      https://frompoverty.oxfam.org.uk/wp-content/uploads/2022/09/speeches-disguised-as-comments.jpg

      Although it may seem fair to call on people in the order that they raise their hands, doing so may inadvertently result in fewer women and junior academics asking questions, since they often need more time to formulate questions and work up the nerve.

      Our data clearly show that women are not inherently less likely to ask questions when the conditions are favourable—there is no gender bias when a woman asks the first question. Our suggestions should be seen as aims to create favourable conditions that remove the barriers to speaking up and being visible.’

      One of the single most useful bits of gender-related research I’ve read in a long time. I will do things differently from now on.

      Update: most useful additional advice on twitter comes from Joe Smith. He attended a recent seminar where the chair announced he would take Qs in order ‘girl-boy-girl-boy’. Lets people know in advance, is obviously fair, and is light hearted and infinitely preferable to male chair ‘look how feminist I am’ trumpet-blowing.

      https://frompoverty.oxfam.org.uk/how-to-stop-men-asking-all-the-questions-in-seminars-its-reall
      #université #recherche #ESR #solution

  • Ma vie, ma mort, mon choix !

    Un émission de radio campus Lille, avec aux micros, Nadine, Monique, Anick, Frédérique, Véronique.

    Mourir, est le dernier acte de notre vie. Nul ne doit pouvoir en décider à notre place.

    https://www-radio-campus.univ-lille1.fr/ArchivesN/LibrePensee/LP240309.mp3

    Pourquoi la France a-t-elle toujours 20 ans de retards en Europe pour légaliser les pratiques de liberté humaine ?


    Une majorité de Français attendent ce droit nouveau, la convention citoyenne l’a montré. Mais est-ce forcément signe de progrès pour notre société ? Ne sommes-nous pas de plus en plus individualistes, l’attente des français ne traduit-elle pas cet esprit du siècle ? Et la solidarité dans tout ça ?

    On se plaint des conditions d’accueil des malades et personnes âgées indignes dans un système de santé en panne, la priorité n’est-elle pas de restaurer notre service public et de financer les SP ?

    Parlons des médecins, qui sont ou seraient opposés au droit à l’AMM.

    Vous faites référence au combat des femmes pour le droit à l’IVG, dans les décennies 60/70, diriez vous qu’il y a une filiation avec le combat que vous menez aujourd’hui pour l’AMM ?

    Quels sont nos moyens et modes d’action ?
    . . . . .
    Le Choix-citoyens pour une mort choisie, est une association laïque, apolitique et pluraliste dans les convictions philosophiques, spirituelles, religieuses de ses membres. Le respect de la liberté de conscience est le fondement de son combat. Il concerne tous ceux qui défendent la laïcité, c’est à dire un monde de tolérance.
    . . . . .
    Antenne Nord Pas de Calais : MDA 27 rue Jean Bart 59000 Lille 
lechoix5962@laposte.net tel : 06 70 31 56 94 https://choisirmafindevie.org

    Source : http://federations.fnlp.fr/spip.php?article2292

    #Santé #liberté #décès #santé #mort #mort_choisie #acharnement_thérapeutique #AMM #souffrances #femmes #radio #Hôpital #soins_palliatifs

  • J’ai découvert une BD sur la division Charlemagne. Vous savez, ces engagés français du côté nazi qui ont eu carrément droit à une division SS rien qu’a eux. Certains fuyaient la pendaison parce que les alliés cavalaient vers Berlin, d’autres la répression ou l’exécution sommaire.
    Et donc on les retrouve à Berlin, après avoir passé un petit temps sur le front polonais.
    Et franchement, c’est instructif. C’est écrit sans trop d’idéologie, juste ce qu’il faut d’authentique, et c’est très renseigné.

    B.D. : Berlin sera notre tombeau

    https://editionspaquet.com/shop/9782889324163-berlin-sera-notre-tombeau-integrale-1185#attr=5765,576

    Et donc pourquoi lire ça aujourd’hui ? Perso, ça me semble fini le cordon de sécurité face à l’extrême droite qui s’est imposé pendant 70 ans. Je crois même que ce mode de ségrégation des débats a fait du mal et ne nous a pas aidé à nous préparer à ce qui nous tombe dessus aujourd’hui. Pour lutter contre toutes les formes et tous les élans droitiers qui nous bousculent tous les jours, si on peut glaner des éléments dans ces bribes du passé, ça pourrait nous armer mentalement. Mieux vaut savoir détecter plutôt qu’être surpris.

    #WW2 #nazi #berlin #francais #histoire #collabo

    • épuisé, € 103,00 d’occasion, #bof il nous faudrait une bd sur les membres de la 14. Waffen-Grenadier-Division der SS (galizische Nr. 1) https://fr.m.wikipedia.org/wiki/14e_division_SS_(galicienne_no_1) et les trawniki ukrainiens.

      Demjanjuk-Prozess - « Ukrainische Wachmänner waren schlimmer als die SS »
      https://www.spiegel.de/panorama/justiz/demjanjuk-prozess-ukrainische-wachmaenner-waren-schlimmer-als-die-ss-a-66874

      La brigade Charlemagne n’était qu’un phénomène éphémère. La collaboration des services secrets ouest-allemands avec les travniki et banderistes par contre n’a jamais cessé et trouve son expression actuelle dans le soutien inconditionnel des forces ukrainiennes par l’Allemagne.

      Évidemment l’armée ukrainienne n’est pas une organisation plus fasciste que n’importe quelle armée du monde. C’est plutôt une question allemande et états-unienne qui tourne autour du positionnement de l’Allemagne contre la Russie depuis la guerre qu’on appelle la première guerre mondiale

      Du côté francais il faudrait travailler sur les ex-SS allemands qui ont rejoint la légion étrangère. L’armée francaise employait ces vieux messieurs jusqu’au départ du contingent tricolore de Berlin en 1990 ou 1991. Il n’est pas exclus qu’il y a là un lien avec la division SS Charlemagne mais je n’en sais rien.

      Alors j’attends la bd antifasciste qui raconte la vie de John Demjanjuk et des trawniki ukrainiens. Elle serait forcément d’une grande actualité.

      #nazis #Ukraine #Bandera #Allemagne #holocauste