#huile_de_palme

  • La politica dell’Unione europea sui biocarburanti fa male al clima e ai sistemi alimentari

    Per produrre gli eco-combustibili utilizzati oggi in Europa si coltivano mais, colza e palma da olio su una superficie di 9,6 milioni di ettari, che basterebbe a sfamare 120 milioni di persone. “L’Ue non solo cede vaste aree coltivate per alimentare le automobili ma fa anche salire ulteriormente i prezzi”, denunciano T&E e Oxfam

    “I biocarburanti vegetali sono probabilmente la cosa più stupida mai promossa in nome del clima”. Non ha usato mezzi termini Maik Marahrens, biofuels manager di Transport&Environment nel commentare il nuovo rapporto pubblicato il 9 marzo che la federazione europea per i trasporti e l’ambiente ha curato insieme all’Ong Oxfam.

    Oggi l’Europa utilizza l’equivalente di circa 9,6 milioni di ettari di terre agricole (una superficie pari a quella dell’Irlanda) per coltivare colza, mais, soia, barbabietole da zucchero, grano e altre derrate alimentari che, invece di finire sulle nostre tavole, vengono utilizzati per produrre bioetanolo, biodiesel e biometano. “Stiamo cedendo vaste porzioni di terra per coltivazioni che poi bruciamo nelle nostre automobili -riprende Marahrens-. È uno spreco scandaloso: questi terreni potrebbero sfamare milioni di persone o, se restituiti alla natura, potrebbero diventare serbatoi di carbonio ricchi di biodiversità”.

    L’utilizzo di questi combustibili era stato introdotto a livello europeo con la Eu Renewable energy directive (Red) del 2009 con l’obiettivo di ridurre l’utilizzo dei combustibili fossili; ma già le successive direttive in materia (2015 e 2018) hanno introdotto delle limitazioni all’uso di biocarburanti di origine alimentare. Oggi Germania e Francia sono i due Paesi che ne consumano le maggiori quantità (facendo affidamento rispettivamente sull’olio di palma, che viene importato, e sulla colza) seguiti da Svezia, Regno Unito, Spagna e Italia.

    “Il consumo di biocarburanti di origine vegetale in Europa richiede un’area totale di 9,6 milioni di ettari, pari al 9,2% del totale dei terreni coltivati nel continente”, si legge nel report che evidenzia come la gran parte di questa superficie (circa due terzi) si trovi in Europa. Mentre la quota restante, dove vengono coltivate soprattutto palma da olio e soia, si trova in Asia e in America Latina.

    Ma che cosa succederebbe se queste superfici venissero destinate ad altri scopi? La prima opzione presa in considerazione nel report riguarda la possibilità di abbandonare le monocolture per la produzione di mais e colza per da trasformare in biocombustibili per lasciare spazio al ritorno della vegetazione naturale e al ripristino dei boschi: “Questo permetterebbe di rimuovere dall’atmosfera 64,7 milioni di tonnellate di CO2 all’anno -si legge nel report- circa il doppio del risparmio netto generato, in termini di minori emissioni, dall’utilizzo di biocarburanti pari a circa 32,9 milioni di tonnellate”. La rinaturalizzazione di queste aree avrebbe poi ulteriori benefici, rappresentando un argine alla perdita di biodiversità che oggi interessa circa l’80% degli habitat del continente, secondo una stima della Commissione europea: “L’occupazione di vaste aree con monocolture per i biocarburanti significa invariabilmente meno spazio per gli ecosistemi naturali e meno habitat per piante e animali selvatici”, sottolinea il report.

    La seconda possibilità prevede la possibilità di installare pannelli fotovoltaici. I biocarburanti consumati in Europa consentono di percorrere circa 329mila milioni di chilometri: “Per coprire la stessa distanza con auto elettriche alimentate con energia prodotta da pannelli fotovoltaici servirebbe una superficie di 0,133 milioni di ettari -spiega Horst Fehrenbach dell’Istituto per l’energia e la ricerca ambientale (Ifeu), che ha curato la ricerca per conto di T&E e Oxfam-. In questo modo il 97,5% della superficie oggi utilizzata per produrre biocombustibili potrebbe essere destinata ad altro uso”.

    La terza possibile alternativa riguarda l’utilizzo dei terreni oggi destinati alla produzione di biocarburanti per coltivare generi alimentari destinati al consumo umano: secondo le stime contenuta nel report se la superficie oggi utilizzata solo in Europa (escludendo quindi dal conteggio le piantagioni in altri continenti) venisse utilizzata per produrre grano questo permetterebbe di soddisfare il fabbisogno calorico di circa 120 milioni di persone, circa un quarto della popolazione del continente. “La politica dell’Unione europea sui biocarburanti è una catastrofe per centinaia di milioni di persone che lottano per portare in tavola il loro prossimo pasto -commenta Julie Bos, consulente per la giustizia climatica dell’Unione europea di Oxfam-. Non solo cede vaste aree coltivate per alimentare le automobili ma fa anche salire ulteriormente i prezzi dei prodotti alimentari. I Paesi europei devono smettere una volta per tutte di usare il cibo per produrre carburante”.

    Marahrens ricorda poi come “ogni giorno 15 milioni di pagnotte e 19 milioni di bottiglie di olio di girasole e di colza vengono bruciati nei motori di camion e automobili. Continuare a farlo mentre il mondo sta affrontando una crescente crisi alimentare globale è al limite del criminale. Paesi come la Germania e il Belgio stanno discutendo di limitare i biocarburanti per le colture alimentari. Il resto dell’Europa deve seguirne l’esempio”.

    https://altreconomia.it/la-politica-dellunione-europea-sui-biocarburanti-fa-male-al-clima-e-ai-

    #biocarburants #alimentation #terres #agriculture #maïs #colza #huile_de_palme

    • Biofuels: An obstacle to real climate solutions

      The EU wastes land the size of Ireland on biofuels, missing enormous opportunities to fight climate change, biodiversity loss and the global food crisis.

      A new study by the IFEU institute quantifies for the first time the enormous opportunity costs across Europe of dedicating millions of hectares of fertile cropland to the production of biofuels. The results are clear – this land could be used much better in the interest of mitigating climate change, stemming biodiversity loss or increasing global food security.

      In 2009, the European Union (EU) introduced a biofuels mandate as part of its green fuels law, the ‘#Renewable_Energy_Directive’ (RED). The proposition at the time was attractive: farmers would be supported to produce ‘green fuels’. In reality, biofuels have harmed food security and obstructed climate change mitigation.

      The study carried out by the Institut für Energie- und Umweltforschung (IFEU) on behalf of T&E shows that production of crops for biofuels consumed in Europe requires 9.6 Mha of land – an area larger than the island of Ireland. This is 5.3 Mha if the production of co-products, mainly feed for industrial livestock farming, is taken into account.
      Key findings

      - If this land were returned to its natural state (‘rewilded’) it could absorb around 65 million tonnes of CO2 from the atmosphere – nearly twice the officially reported net CO2 savings from biofuels replacing fossil fuels.
      - Using the land for solar farms would be far more efficient. You need 40 times more land to power a car using biofuels vs an electric car powered by solar. Using an area equivalent to just 2.5% of this land for solar panels would produce the same amount of energy.
      - Crops cultivated on these lands could be used to provide the calorie needs of at least 120 million people.

      https://www.transportenvironment.org/discover/biofuels-an-obstacle-to-real-climate-solutions

      #rapport

  • Steak de chou-fleur au grana padano
    https://www.cuisine-libre.org/steak-de-chou-fleur-au-grana-padano

    Couper les deux choux-fleurs en tranches, afin d’obtenir 4 tranches de 3 cm d’épaisseur. Il est possible de les couper horizontalement ou verticalement, mais il est important d’inclure la tige au milieu de chaque tranche. Une fois les 4 steaks obtenus, utiliser les restes du #Chou-fleur pour la purée. Dans une casserole, faire revenir l’oignon haché avec un peu d’huile et une pincée de sel pendant environ 10-15 minutes. Pendant ce temps, faire bouillir les restes de chou-fleur dans de l’eau salée… Chou-fleur, #Parmesan, #Steaks, #Italie / #Végétarien, #Sans viande, #Sans gluten, Sauté

    #Sauté

    • #Belgique : L’Afsca rappelle les produits Kinder d’Arlon (exporté dans 45 pays) et retire le permis de production à l’usine
      https://www.vrt.be/vrtnws/fr/2022/04/08/l-afsca-rappelle-les-produits-kinder-d-arlon-et-retire-le-permis

      L’Agence fédérale pour la sécurité de la chaîne alimentaire (Afsca) a annoncé ce vendredi rappeler la totalité des produits Kinder fabriqués à Arlon (en province du Luxembourg) et retirer à ce site son autorisation de production, en raison d’une centaine de cas de salmonellose identifiés en Europe ces dernières semaines.

      Un lien effectué fin mars entre ces intoxications et l’usine de production Ferrero d’Arlon a été confirmé depuis lors", souligne l’Afsca. Depuis, l’Agence fédérale a mené une enquête approfondie au sein du site de production d’Arlon. « Suite aux constats et à des informations incomplètes de la part de Ferrero, l’Afsca retire l’autorisation de production du site à Arlon », précise l’Afsca.


      Jusqu’ici, seul un certain nombre de lots avaient été retirés de la vente. Mais l’Afsca a désormais décidé de rappeler de manière exhaustive tous les produits de types ’Kinder Surprise’, ’Kinder Surprise Maxi’, ’Kinder Mini Eggs’ & ’Schoko-bons’, indépendamment des lots ou dates de péremption. L’Afsca demande donc de ne consommer aucun produit susmentionné et appelle les entreprises de distribution à retirer toutes ces friandises des rayons.

      L’Afsca a par ailleurs exigé de Ferrero « une approche client irréprochable » alors que l’entreprise italienne a fait l’objet de critiques depuis le début de ce scandale sanitaire. L’Agence fédérale affirme suivre de près les étapes entreprises par Ferrero et n’autorisera la réouverture du site qu’après avoir pu conclure que l’établissement répond à l’ensemble des règles et exigences de sécurité alimentaire. Entretemps, l’enquête menée sur le site du groupe italien se poursuit.

      « Une telle décision n’est jamais prise à la légère, mais les circonstances actuelles l’imposent », explique le ministre de l’Agriculture, David Clarinval, dont la tutelle sur l’Afsca fait partie de ses compétences. « La sécurité alimentaire de nos concitoyens ne peut jamais être négligée. »

      « Seuls les produits fabriqués à Arlon concernés »
      De son côté, Ferrero reconnaît dans un communiqué « des défaillances internes qui ont retardé la récupération et le partage d’informations dans les délais impartis ». Le groupe précise que seuls les produits fabriqués à Arlon sont concernés et insiste sur le fait qu’ils ne représentent que « 7% du total des produits Kinder fabriqués chaque année » dans ses usines.

      L’entreprise décrit la fermeture comme « la seule solution pour garantir le niveau de sécurité alimentaire le plus élevé et éliminer le risque d’autres contaminations ». Jeudi, l’entreprise avait indiqué que la présence de salmonelles avait été détectée le 15 décembre sur un filtre à la sortie de deux réservoirs de matières premières sur son site à Arlon.

      Les consommateurs ayant des questions doivent s’adresser au service client de Ferrero via son call center : Consumer.Service.benelux@ferrero.com ou 0800 21042. Selon le site internet de Ferrero, l’usine d’Arlon, ouverte en 1989, emploie 725 personnes, « un chiffre qui peut monter jusqu’à 1.100 en période de pointe saisonnière ».

      Les huit lignes de production du site arlonais fabriquent quotidiennement près de 18 millions de Kinder Schoko-Bons, 2 millions de Kinder Surprise et 4 millions de Raffaello. « Au total, 96% du volume de production est exporté vers 45 pays dans le monde », indique encore le site de l’entreprise.

      #ferrero #bactéries #nutella #multinationales #huile_de_palme #exploitation #kinder #agro-alimentaire #alimentation #nestlé #conditions_de_travail #marque #salmonelles #salmonelle #alimentation

    • je trouve plus honteux d’ajouter du chocolat pérave qui aurait du faire l’objet d’un seen spécifique (que je vous avais épargné : il y a foule au portillon des productions alimentaires de masse « rappelées » ces jours-ci) pour atteindre 90 abonnés (dont des qui ont bloqué cet expéditeur) au lieu de 20

      le « steak » c’est soit le pire (steak avec 85% de viande et on ne sait trop quoi, dans les rayons des grandes surfaces), soit la bonne intention : aider qui est habitué à la grillade à modifier son pli avec des machins qui se saisissent, se font griller (un usage particulier de l’huile comme exhausteurs de gout), deviennent croquant en surface et ne sont pas sucrés, pour pas dire galette, beignet, ou que sais-je qui ne serait d’ailleurs pas plus approprié à divers types de plats du genre. ça me parait caractéristique de la transition encours, et pas si grave (même si on peut préférer des désignations plus spécifiques).

      #trolling

  • Food prices: Cutting biofuels could compensate for loss of Ukraine’s grain exports | New Scientist
    https://www.newscientist.com/article/2312151-cutting-biofuels-can-help-avoid-global-food-shock-from-ukraine

    Quickly increasing the supply of food crops is difficult. But a large proportion of food crops aren’t eaten but converted to biofuels. Globally, 10 per cent of all grain is turned into biofuel, says Qaim.

    In the US, a third of the maize grown is converted into ethanol and blended into petrol. Around 90 million tonnes is used for ethanol, nearly double the 50 million tonnes exported by Ukraine and Russia, says Qaim.

    In the European Union, 12 million tonnes of grain, including wheat and maize, is turned into ethanol, Qaim says, around 7 per cent of the bloc’s production.

    The EU also produces large quantities of biodiesel. It turns 3.5 million tonnes of palm oil alone into biodiesel, says Qaim. “That’s almost the amount of sunflower oil coming out of Ukraine and Russia.”

    #ukraine_food #agrocarburant

  • Palm Oil. The Grease of Empire

    It’s in our food, our cosmetics, our fuel and our bodies. Palm oil, found in half of supermarket products, has shaped our world. #Max_Haiven uncovers how the gears of capitalism are literally and metaphorically lubricated by this ubiquitous elixir.

    From its origins in West Africa to today’s Southeast Asian palm oil superpowers, Haiven’s sweeping, experimental narrative takes us on a global journey that includes looted treasures, the American system of mass incarceration, the history of modern art and the industrialisation of war. Beyond simply calling for more consumer boycotts, he argues for recognising in palm oil humanity’s profound potential to shape our world beyond racial capitalism and neo-colonial dispossession.

    One part history, one part dream, one part theory, one part montage, this kaleidoscopic and urgent book asks us to recognise the past in the present and to seize the power to make a better world.

    https://www.plutobooks.com/9780745345826/palm-oil

    #huile_de_palme #livre
    #capitalisme #néocolonialisme #néo-colonialisme #dépossession #capitalisme_racial

    ping @odilon @isskein @cede

  • Terres suisses d’outre-mer

    Les traders domiciliés en Suisse possèdent de gigantesques territoires agricoles à l’étranger qu’ils cultivent souvent sans égard pour les populations locales et la nature.

    Des superficies de plantations équivalentes à près de sept fois les terres arables de la Suisse. C’est ce que quatorze des principaux négociants en matières premières basés en Helvétie contrôlent dans des pays du Sud, comme le Brésil, le Cameroun et le Laos. C’est le résultat d’une nouvelle enquête de Public Eye, ONG qui surveille de près depuis 2011 le secteur des matières premières, dont la Suisse est devenue la première place mondiale depuis une quinzaine d’années1. Ainsi, des traders qui opèrent principalement depuis Genève ou Zoug tels que Cargill, Cofco ou LDC ont la haute main sur au moins 2,7 millions d’hectares dans 561 plantations de 24 pays. Canne à sucre, huile de palme, céréales, oléagineux et caoutchouc tiennent le haut du pavé.

    Cette mainmise s’accompagne souvent de violations des droits humains, d’atteintes à l’environnement et prive les populations locales de leurs moyens de subsistance. « La concurrence pour la terre entre les multinationales de l’agro-industrie et les communautés locales augmente alors que ces dernières ont un besoin vital de ces ressources », détaille Silvie Lang, responsable du dossier chez Public Eye. Un accaparement des terres (land grabbing) qui a explosé depuis la crise financière de 2008 et qui est aussi régulièrement dénoncé pour sa dimension néocoloniale (lire ci-après).

    En tant qu’hôte de ces géants de l’agronégoce, la Suisse aurait une responsabilité toute particulière pour réglementer leurs activités dans ce secteur à risque, mais elle n’en prendrait pas le chemin. Publiée il y a quinze jours, l’ordonnance du Conseil fédéral sur l’application du contre-projet à l’initiative pour des multinationales responsables n’imposerait presque aucune obligation à ces dernières (lire ci-dessous).
    Dépossédés sans compensation

    Pourtant, expulsions de populations, déforestations illégales, dégâts environnementaux seraient légion autour des plantations contrôlées par les traders helvétiques. En coopération avec ses partenaires de la société civile locale, Public Eye a documenté dix cas problématiques dans neuf pays. Ils sont présentés sur une carte interactive constellée de petits drapeaux suisses où sont recensés de nombreux autres « territoires suisses d’outre-mer ».

    En Ouganda, les 4000 personnes expulsées de force il y a vingt ans pour faire place nette à une plantation de café aux mains du groupe allemand Neumann Kaffee (NKG) attendent toujours une indemnisation digne de ce nom. « La filiale suisse de NKG, qui gère non seulement le négoce de café vert mais aussi les plantations – y compris en Ouganda –, a une part de responsabilité à assumer », estime Public Eye.

    De même, 52 familles d’agricultrices et d’agriculteurs auraient perdu leurs moyens de subsistance sur le plateau du Boloven au Laos au bénéfice du trader Olam, qui dispose d’un de ses principaux départements de négoce en Suisse. Histoire similaire en Tanzanie, où nombre d’habitants assurent, selon l’association allemande Misereor, avoir été dépossédés de 2000 hectares par Olam qui cultive des caféiers sur leurs terres. En 2015, mille personnes œuvraient dans ces plantations dans des conditions de travail déplorables, privées d’accès à l’eau, à une nourriture décente, et exposées à l’épandage de pesticides dangereux, selon l’ONG.
    Une autorité de surveillance ?

    Au Brésil aussi, en plus de l’accaparement des terres, les pesticides posent des problèmes insolubles dans les plantations de canne à sucre. Le négociant Biosev, propriété jusqu’à peu du groupe suisse Louis Dreyfus, n’a toujours pas réparé les destructions environnementales occasionnées sur et autour de vastes étendues de terres qu’il exploitait illégalement dans la région de Lagoa da Prata.

    Au Cambodge, enfin, l’expulsion des autochtones qui a eu lieu en 2008 sous la responsabilité de Socfin pour y exploiter le caoutchouc n’aurait pas encore abouti à une réparation. Un processus de médiation entre la firme et les communautés, initié en 2017 et cofinancé par la Suisse, devait finalement permettre de trouver une solution à l’amiable. Mais « les personnes concernées sont insatisfaites de la procédure totalement opaque et globalement inutile », indique Public Eye, relayant les rapports de plusieurs autres ONG. Pain pour le prochain et Alliance Sud avaient pour leur part dénoncé en octobre les pratiques d’évasion fiscale agressive de Socfin au Cambodge à destination de Fribourg, qui privent ce pays de précieuses ressources3.

    Ce nouveau dossier donne toujours plus d’arguments à Public Eye pour réclamer une action déterminée des autorités fédérales. Les mannes financières apportées par les traders en Suisse entraîneraient une responsabilité correspondante : « Le Conseil fédéral reconnaît certes officiellement que le secteur des matières premières est confronté à des défis à prendre au sérieux, notamment en matière de droits humains, mais il continue de miser principalement sur la bonne volonté des entreprises à assumer leurs responsabilités. » Regrettant l’échec de l’initiative pour des multinationales responsables, l’ONG recommande à nouveau la création d’une autorité de surveillance du secteur des matières premières (Rohma), proposée en 2014 déjà. Celle-ci s’inspirerait de l’Autorité fédérale de surveillance des marchés financiers (Finma), créée en 2009 sous la pression internationale.

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    Un accaparement ralenti mais prometteur

    Le phénomène de l’accaparement des terres a fait grand bruit au début des années 2010. Après la crise financière de 2008, on avait assisté à une ruée sur ce nouvel investissement estimé plus sûr et prometteur pour les détenteurs et détentrices de grands capitaux. Le tumulte s’est ensuite calmé avec le tassement progressif du nombre de terres achetées depuis. Entre 2013 et 2020, indique le dernier rapport de l’initiative de monitoring Land Matrix, qui dispose d’une base de données étendue sur l’accaparement dans les pays à revenus bas et moyens, seuls 3 millions d’hectares supplémentaires ont été enregistrés, sur un total de 30 millions. Le grand bon avait été réalisé entre 2006 (6 millions d’hectares environ) à 2013 (27 millions).

    Différentes raisons expliquent ce ralentissement, selon Land Matrix. D’abord, l’envolée attendue des prix dans la décennie 2010 des produits alimentaires, des agrocarburants et du pétrole n’aurait pas atteint les niveaux espérés. D’autre part, alertés par la société civile, certains Etats ont pris de mesures : « Citons, notamment, les moratoires sur les terres dans d’importants pays cibles, la diminution du soutien aux biocarburants de première génération et les restrictions sur la vente de terres aux investisseurs étrangers, dans certains cas », explique l’initiative.

    Les prix repartent à la hausse

    Mais la vapeur pourrait s’inverser sitôt la crise du Covid-19 passée, craint Land Matrix, d’autant que les prix reprennent l’ascenseur. « Certains pays, dont l’Indonésie et l’Inde, ont déjà libéralisé leurs marchés fonciers afin d’attirer les investissements étrangers. » Le Brésil représente également une plateforme florissant en matière agro-industrielle et connaît des évolutions favorables à un possible boom de l’accaparement des terres, indique un rapport en voie de publication de l’Université fédérale rurale de Rio de Janeiro (nous y reviendrons dans une prochaine édition.)

    Cette situation inquiète la société civile, qui souligne les conséquences souvent désastreuses du phénomène pour les populations paysannes, les autochtones, l’environnement et le climat. Certaines ONG, cependant, se focalisent parfois uniquement sur les violations des droits humains qui accompagnent le processus, sans remettre en cause sur le fond les dynamiques néocoloniales de l’accaparement et l’expansion du capitalisme foncier basé sur l’expropriation des communautés locales, regrettent certains observateurs : « Nous observons aujourd’hui un véritable processus d’enclosure (clôture des parcelles provenant de la division des terrains) à l’échelle mondiale », observe Michel Merlet, ex-directeur de l’Association pour l’amélioration de la gouvernance de la terre, de l’eau et des ressources naturelles (AGTER) en France. « Tout comme en Angleterre avant et pendant la révolution industrielle, ce phénomène se traduit par la dépossession des populations rurales, le développement d’un prolétariat rural, de nouvelles modalités de gestion des pauvres, une foi aveugle dans le progrès. » Une logique qui s’oppose de front à la terre en tant que bien commun.

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    La Suisse, carrefour du land grabbing ?

    Difficile de connaître l’importance relative de la Suisse dans l’accaparement de terres dans le monde. Pour l’heure, aucune étude exhaustive n’existe. Observons pour commencer que le chiffre de 2,7 millions d’hectares contrôlés par des traders suisses est très élevé comparé au total de 30 millions d’hectares de territoires agricoles recensés par Land Matrix dans le monde (qui n’incluent pas les traders basés en Suisse recensés par Public Eye). Un indicateur à considérer avec prudence toutefois, car cette base de données est probablement loin d’être exhaustive, selon plusieurs sources.

    D’autres acteurs helvétiques possèdent-ils ou louent-ils sur une longue durée des terres ? Firmes, fonds de pension, banques, assureurs disposent-ils de ce type d’actifs ? Land Matrix a recensé 6,3 millions d’hectares contrôlés via des investissements de firmes helvétiques, incluant des territoires forestiers cette fois, en plus des terres agricoles. A noter toutefois que 5,9 millions de ces 6,3 millions d’hectares se trouvent en Russie et concernent des concessions forestières, via la société Ilim, domiciliée en Suisse (les fonds pourraient provenir de Russie, ou d’ailleurs).

    Autres pays concernés : la Tanzanie, le Cameroun, la Sierra Leone, le Paraguay, l’Argentine, le Brésil, etc. En tout sont impliquées une quarantaine d’entreprises suisses, dont Nestlé, Louis Dreyfus, Chocolats Camille Bloch, Novartis et Addax Bioenergy SA.

    Aucune information, en revanche, sur les acteurs purement financiers : « Nos données n’incluent pas de banques ou de fonds de pension suisses. Nous ne savons pas s’ils sont impliqués dans ce type d’affaires. Leur investissement n’est pas transparent. Beaucoup passent par des paradis fiscaux ou des hubs financiers, comme Chypre, Singapour, Hong-Kong et les île Vierges », détaille Markus Giger, coresponsable de Land Matrix et chercheur au Centre pour le développement et l’environnement de l’université de Berne.

    L’opacité règne donc. On sait par ailleurs que le secteur financier helvétique cible par exemple des investissements dans l’agriculture, surtout là où il y a de fortes opportunités de profits, et les proposent ensuite sous forme de fonds. Les entreprises financées de cette manière peuvent elles-mêmes être impliquées dans l’accaparement de terres.

    En tant qu’une des principales places financières du monde, la Suisse joue indéniablement un rôle dans les transactions opérées sur nombre de ces terres. Après avoir enquêté sur l’accaparement et la financiarisation des terres au Brésil, le chercheur Junior Aleixo a pu le constater : « De nombreux acteurs impliqués dans l’achat ou la location de terres passent par des intermédiaires suisses ou possèdent des comptes dans des banques helvétiques parce que la Suisse dispose de législations peu regardantes et permet l’évasion fiscale », a confié au Courrier l’universitaire, membre du Groupe d’étude sur les changements sociaux, l’agronégoce et les politiques publiques (GEMAP) de l’Université fédérale rurale de Rio de Janeiro. Le gouvernement suisse lui-même voit d’un bon œil ces investissements sur le principe : « Le Conseil fédéral est d’avis que des investissements privés effectués avec circonspection dans l’agriculture ont des répercussions positives, à condition que les standards sociaux et écologiques soient respectés », avait-il répondu en 2011 à une interpellation de la conseillère nationale verte Maya Graf. Le gouvernement prône des normes et des codes de nature volontaire pour réglementer ce négoce et éviter la spoliation des communautés locales.

    https://lecourrier.ch/2021/12/16/terres-suisses-doutre-mer
    #traders #matières_premières #terres #accaparement_des_terres #Suisse #plantations #Cargill #Cofco #LDC #Canne_à_sucre #huile_de_palme #céréales #oléagineux #caoutchouc #multinationales #industries_agro-alimentaires #colonialisme #néo-colonialisme #agronégoce #dépossession #Neumann_Kaffee (#NKG) #Laos #Boloven #Olam #Tanzanie #Brésil #Biosev #Louis_Dreyfus #Lagoa_da_Prata #Cambodge #Socfin #biocarburants #enclosure #prolétariat_rural #opacité

    • Agricultural Commodity Traders in Switzerland. Benefitting from Misery?

      Switzerland is not only home to the world’s largest oil and mineral traders; it is also a significant trading hub for agricultural commodities such as coffee, cocoa, sugar, or grains. The majority of the globally significant agricultural traders are either based here or operate important trading branches in the country.

      The sector is highly concentrated with ever fewer powerful companies who also control the production and processing stages of the industry. In low-income countries, where many of the commodities traded by Swiss-based companies are produced, human rights violations are omnipresent, ranging from the lack of living wages and incomes, to forced and child labour as well as occupational health and safety hazards. Moreover, the risk of tax dodging and corruption has been shown to be particularly high within agricultural production and trade.

      Public Eye’s 2019 report Agricultural Commodity Traders in Switzerland – Benefitting from Misery? sheds light on the opaque sector of agricultural commodity trade and the human rights violations related to activities in this business and also highlights Switzerland’s refusal to regulate the sector in ways that could address these issues, and it outlines ways to tackle the challenges at hand.

      https://www.publiceye.ch/en/publications/detail/agricultural-commodity-traders-in-switzerland

      #rapport #Public_Eye

    • La culture de l’iniquité fiscale

      Le groupe agroalimentaire #Socfin transfère des bénéfices issus de la production de matières premières vers Fribourg, un canton suisse à faible fiscalité. Au détriment de la population vivant dans les zones concernées en Afrique et en Asie.

      La culture de l’#iniquité_fiscale

      Le groupe agroalimentaire luxembourgeois Socfin transfère des bénéfices issus de la production de matières premières vers #Fribourg, un canton suisse à faible fiscalité. Cette pratique d’#optimisation_fiscale agressive équivaut à l’expatriation de bénéfices au détriment de la population vivant dans les zones concernées en Afrique et en Asie. Pour la première fois, un rapport rédigé par Pain pour le prochain, Alliance Sud et le Réseau allemand pour la #justice_fiscale met en lumière les rouages de ce mécanisme. La Suisse porte elle aussi une part de #responsabilité dans ce phénomène, car la politique helvétique de #sous-enchère en matière d’imposition des entreprises représente l’un des piliers de ce système inique.

      La société Socfin, dont le siège se trouve au #Luxembourg, s’est vu octroyer dans dix pays d’Afrique et d’Asie des #concessions d’une superficie supérieure à 380 000 hectares, soit presque l’équivalent de la surface agricole de la Suisse. Dans ses 15 plantations, le groupe produit du caoutchouc et de l’huile de palme qu’il écoule ensuite sur le marché mondial. Si l’entreprise est dotée d’une structure complexe, il apparaît toutefois clairement qu’elle commercialise une grande partie de son caoutchouc par l’intermédiaire d’une filiale établie à Fribourg, à savoir #Sogescol_FR. Et c’est une autre filiale elle aussi basée à Fribourg, #Socfinco_FR, qui se charge d’administrer les plantations et de fournir des prestations aux autres sociétés du groupe.

      En 2020, Socfin a enregistré un bénéfice consolidé de 29,3 millions d’euros. Le rapport, qui procède à une analyse du bénéfice par employé·e dans les différents pays où opère Socfin, met en évidence la distribution particulièrement inégale de ces revenus. Ainsi, alors que le bénéfice par employé·e avoisinait 1600 euros dans les pays africains accueillant les activités de Socfin, il en va tout autrement au sein des filiales helvétiques du groupe, où ce chiffre a atteint 116 000 euros l’année dernière, soit un montant près de 70 fois supérieur. En Suisse, le bénéfice par employé·e a même en moyenne dépassé les 200 000 euros entre 2014 et 2020.

      À faible #fiscalité, bénéfices élevés
      Comment expliquer ces écarts dans la distribution des bénéfices à l’intérieur d’un même groupe ? Selon le rapport publié par Pain pour le prochain, Alliance Sud et le Réseau allemand pour la justice fiscale, la réponse est à trouver dans la fiscalité des pays accueillant les activités de Socfin. En effet, c’est là où les impôts sont le plus bas que le bénéfice par employé·e de l’entreprise est le plus élevé. Dans les pays africains où Socfin est active, le taux d’impôt varie ainsi de 25 à 33 %, contre moins de 14 % en Suisse. Il s’agit là d’un schéma classique de transfert de bénéfices entre filiales à des fins d’optimisation fiscale agressive.

      Cette pratique très répandue parmi les sociétés multinationales n’est pas forcément illégale, mais elle n’en demeure pas moins en tout état de cause inique, car elle prive les pays producteurs de l’hémisphère sud des recettes fiscales indispensables à leur développement et creuse de ce fait les inégalités mondiales. Chaque année, environ 80 milliards d’euros de bénéfices réalisés dans des pays en développement sont ainsi expatriés vers des territoires peu taxés comme la Suisse, ce qui représente bien plus que la moitié des enveloppes publiques annuelles allouées à la coopération au développement à l’échelle mondiale.

      Le transfert de bénéfices au sein de #multinationales est généralement difficile à appréhender pour l’opinion publique (en raison de l’opacité qui l’entoure) et pour les administrations fiscales (faute de volonté en ce sens ou de moyens suffisants). Dans le cas de Socfin, en revanche, les rapports financiers ventilés par zone publiés par la société livrent des informations sur la structure et l’objet des transactions entre filiales. Qu’elles portent sur le négoce, des prestations de conseil, des licences ou des services d’autre nature, les opérations intragroupe délocalisent en Suisse une grande partie des revenus générés en Afrique et en Asie. Et seul un examen approfondi réalisé par des administrations fiscales permettrait de vérifier si ces prix de transfert sont, ainsi que l’affirme Socfin, conformes aux règles édictées par l’OCDE en la matière.

      La Suisse doit faire œuvre de plus de transparence
      La réalité des plantations dans l’hémisphère sud représente le revers de la médaille des juteux bénéfices enregistrés en Suisse. En effet, Socfin dispose dans ces pays de concessions extrêmement avantageuses, mais n’offre pas une compensation suffisante à la population touchée, ne rétribue le dur labeur des ouvriers·ères que par de modiques salaires et n’honore pas totalement ses promesses d’investissements sociaux. En dépit de ce contexte particulièrement favorable, certaines exploitations du groupe, comme la plantation d’#hévéas de #LAC au #Liberia, n’en affichent pas moins des pertes persistantes – ce qui, selon le rapport, vient encore appuyer l’hypothèse de transfert de bénéfices de l’Afrique vers le paradis fiscal helvétique.

      Et cette pratique profite aujourd’hui considérablement à la Suisse, ces transactions générant près de 40 % des recettes de l’impôt sur les bénéfices des entreprises à l’échelon cantonal et fédéral. Afin de lutter contre les abus qui en découlent, il est impératif que notre pays améliore la transparence de sa politique fiscale et rende publics les #rulings, ces accords que les administrations fiscales concluent avec les sociétés. Il en va de même pour les rapports que les multinationales sont tenues de déposer en Suisse dans le cadre de la déclaration pays par pays de l’OCDE et dont l’accès est actuellement réservé aux administrations fiscales. Avant toute chose, il est primordial que la Suisse promeuve un régime international d’imposition des entreprises qui localise la taxation des bénéfices dans les pays où ils sont générés et non sur les territoires à faible fiscalité.

      Mobilisation à Fribourg
      Ce matin, Pain pour le prochain mène une action de mobilisation devant le siège de Sogescol et de Socfinco à Fribourg afin d’exhorter Socfin à cesser ses pratiques immorales de transfert de bénéfices et d’optimisation fiscale au sein de ses structures. Il importe en outre que le groupe réponde aux revendications des communautés locales, restitue les terres litigieuses et garantisse à tous les ouvriers·ères des plantations le versement de salaires décents.

      https://www.alliancesud.ch/fr/politique/politique-fiscale-et-financiere/politique-fiscale/la-culture-de-liniquite-fiscale

      Pour télécharger le rapport (synthèse en français) :
      https://www.alliancesud.ch/fr/file/88274/download?token=32SEeILA

  • Palm Oil Destroys Rainforests But World Not Buying Sustainable Crop
    https://www.bloomberg.com/graphics/2021-palm-oil-deforestation-climate-change

    Seventeen climate summits ago, one of the world’s first sustainability efforts in global food production was set up to stop palm oil plantations from destroying the rainforest. Yet more than 80% of the market remains untouched by the effort because no one wants to pay for it.

    merci @fil #plantations #industrie_palmiste

  • En Turquie, les producteurs de noisettes se soulèvent contre le géant Ferrero
    https://www.rts.ch/info/economie/12604103-en-turquie-les-producteurs-de-noisettes-se-soulevent-contre-le-geant-fe

    A perte de vue, les noisetiers turcs déroulent leurs feuilles à peine roussies en ce début d’automne. Mais sous les frondaisons humides, la colère gronde contre la mainmise du géant de la pâte à tartiner Ferrero, accusé par les producteurs de casser les prix.

    « Ils ont le monopole, donc les mains libres. Mais ils achètent encore plus bas que l’an dernier. Cette année, je ne leur vendrai rien », prévient Aydin Simsek, 43 ans, surveillant du coin de l’oeil la douzaine de ramasseurs kurdes accroupis, payés 12 euros la journée, qui enfournent à pleines poignées les noisettes dans de grands sacs de toile.

    Pour Mehmet Sirin, 25 ans, la capuche relevée sur sa casquette pour se garder de la bruine, « c’est de l’exploitation : les noisettes nous reviennent sous forme de Nutella, mais nous, on en tire bien moins de profit qu’eux. C’est une injustice pure. »

    Premier producteur mondial
    Selon la FAO, le Fonds pour l’agriculture des Nations unies, la Turquie, assure environ 70% de la production mondiale et 82% des exportations, très loin devant l’Italie (20%) et quelques pays qui se partagent les miettes, dont l’Azerbaïdjan, la Géorgie et l’Iran.

    Sur les 600 à 700’000 tonnes de noisettes ramassées, environ 300’000 partent à l’export : « Comment se fait-il que seuls les étrangers en tirent profit ? » s’insurge le président de la chambre de commerce d’Istanbul, Omer Demir.

    « Bon sang, ils nous les achètent environ 2 euros le kilo et les revendent 20 euros : comment on en arrive là ? Il faut leur barrer la route. »

    Personne ne peut s’aligner
    Surtout qu’en fournissant outils et engrais aux paysans et en pré-payant leur récolte à un prix fixé à l’avance, les principaux grossistes, comme ceux qui fournissent le groupe italien, « ne laissent aucune chance aux autres », regrette-t-il.

    Car c’est vrai, personne ne peut s’aligner. Cabbar Saka le reconnaît, il n’a pas eu le choix : « Que pouvais-je faire ? J’avais besoin d’argent pour le mariage de ma fille... J’ai vendu mes 1600 kg de noisettes au grossiste ».

    Il a reçu l’argent tout de suite quand le Bureau agricole (TMO, l’autorité publique de régulation) paie lui à tempérament.

    Crainte de ne rien vendre
    Le district d’Akyazi compte 5500 producteurs déclarés. Devant les maisons, la récolte sèche en plein air sur des bâches, quelques jours pas plus, en surveillant constamment le ciel pour éviter les pluies.

    « Ferrero et les grands acteurs du marché tirent les prix à la baisse », dénonce Sener Bayraktar, le président de la Chambre de commerce locale, qui accuse le géant italien de gonfler les estimations de récoltes pour peser sur les cours. « Mais la crainte des producteurs, s’ils se plaignent, c’est de ne plus pouvoir vendre », relève-t-il.

    « Ferrero a mis en place un système qui ne laisse aucune chance » aux acteurs locaux, assure Sener Bayraktar, qui appelle les autorités à soutenir plus franchement les acteurs indépendants et ces derniers à relever leurs prix, pour inciter les producteurs à leur réserver leurs noisettes.

    « Respect des lois du marché »
    Sollicité par l’AFP, le géant italien se défend : « Nous n’achetons pas directement aux producteurs, nous passons par un réseau d’acheteurs et de fournisseurs spécialisés (...) en respectant les lois du marché et sa dynamique », explique un porte-parole du siège, qui rappelle que Ferrero est présent en Turquie depuis plus de 35 ans.

    L’approvisionnement turc en matière première étant indispensable à la production du Nutella et des rochers, le groupe a créé en 2014 une filiale locale, Ferrero Findik (noisettes, en turc) qui gère six usines de traitement (lavage, décoquillage et torréfaction) et un site de production de Nutella.

    En 2014, le groupe a aussi racheté le roi de la noisette, Oltan, ce qui a fini de lui assurer le contrôle du marché et des cours.

    Transformer le produit directement
    Pour soutenir les producteurs de noisettes - 76’500 enregistrés - le ministère de l’Agriculture les pousse à se lancer eux-mêmes dans la transformation du produit au lieu de vendre seulement leur matière première, ce qui leur assurerait un meilleur revenu.

    L’an dernier, Aydin Simsek avait vendu toute sa récolte à Ferrero. Cette année, il prévoit de la réserver intégralement, 15 tonnes espère-t-il, au TMO. « Quand Ferrero agira de bonne foi, je serai ravi moi aussi de manger du Nutella. Mais pas à ce prix. »

    #ferrero #exploitation #nutella #multinationales #capitalisme #agro-alimentaire #kinder #profits #huile_de_palme #lobby #marque #conditions_de_travail #droits_fondamentaux #exploitation #noisette #alimentation #Turquie #Italie

  • En RDC, la France a soutenu une entreprise d’huile de palme accusée de violences
    https://disclose.ngo/fr/article/la-france-a-soutenu-une-entreprise-dhuile-de-palme

    Pendant huit ans, l’Agence française de développement (AFD) a investi 25 millions d’euros dans une plantation d’huile de palme accusée de meurtres et d’accaparement des terres en République démocratique du Congo. Lire l’article

  • L’huile de palme indonésienne bientôt importée à moindre prix en Suisse ats/asch
    https://www.rts.ch/info/economie/12426161-lhuile-de-palme-indonesienne-bientot-importee-a-moindre-prix-en-suisse.

    L’huile de palme indonésienne durable pourra bientôt être importée à taux préférentiel. L’ordonnance correspondante entrera en vigueur en même temps que l’accord de libre-échange avec Jakarta, soit dans quelques mois probablement, a décidé mercredi le Conseil fédéral
    Dans le cadre de cet accord accepté en mars par le peuple, la Suisse accorde à l’Indonésie des concessions limitées sur l’huile de palme. Elles consistent principalement en des contingents d’huile de palme brute, de stéarine de palme et d’huile de palmiste.

    Le volume total de 10’000 tonnes passera progressivement à 12’500 tonnes au terme de cinq ans. Les droits de douane seront réduits d’environ 20 à 40%.

    https://dingiralfulbe.com/wp-content/uploads/2021/08/12426190.image.jpeg

    Ces concessions sont assorties d’une série de conditions inscrites. Pour bénéficier des taux préférentiels, les importateurs devront apporter la preuve qu’ils respectent des objectifs de durabilité. La preuve de durabilité doit être apportée au moyen d’un certificat de traçabilité.

    Systèmes de certification
    Quatre systèmes de certification sont admis pour fournir cette preuve. Ils font l’objet de contrôles par des organisations indépendantes. Un importateur certifié par l’un de ces systèmes pourra déposer une demande d’approbation auprès du Secrétariat d’Etat à l’économie (SECO).

    Le SECO pourra assortir son approbation de charges. L’approbation n’est valable que le temps de la validité du certificat. L’importateur devra indiquer dans la déclaration de douane le numéro de preuve de l’approbation. Des contrôles ultérieurs seront possibles pendant une période de cinq ans.

    Sanctions possibles
    Pour assurer cette traçabilité de l’huile de palme produite de manière durable, celle-ci ne pourra pas être transportée dans de grandes citernes, mais seulement dans des récipients de 22 tonnes au maximum.

    Si une irrégularité est constatée lors d’un des contrôles, l’importateur peut se voir exiger la restitution de la différence des droits. De plus, des sanctions sont prévues selon le régime de la loi sur les douanes.

    #hypocrisie #suisse #huile_de_palme #industrie_palmiste #terres #déforestation #forêt #indonésie #agriculture #du_râble_de_lapin #climat #agrobusiness #alimentation #certification #libre-échange #traçabilité

  • Bientôt chez nous, après la vache folle, la vache nourrie à l’acide palmitique !
    https://www.rtbf.be/info/societe/detail_buttergate-au-canada-de-l-huile-de-palme-qui-deteriore-la-qualite-du-beu

    En ce moment, c’est le Buttergate * au Canada.

    Le lait ne mousse plus, le beurre ne ramollit plus à température ambiante, le fromage devient caoutchouteux, au Canada pour l’instant.
    Peu de recherches ont été faites sur l’impact réel de l’ajout d’acide palmitique dans la nourriture des vaches, alors que le lait y est considéré là bas comme un bien public, produit sur base de quotas, subventionné, et coûte bien plus cher que chez nous.

    Le lait, là bas est donc plus riche en acides gras saturés, en excès, ces lipides peuvent à terme, durcir les parois cellulaires et boucher les artères.
    Quand à l’impact sur la santé des animaux, la question ne sera pas posée.

    Dire que nos dirigeants essayent de nous faire croire qu’ils défendent notre santé, Mort de Rire !

    Nous vivons dans un monde merveilleux !
    Pas de #protocole de test, bien sur !

    http://richessem.eklablog.com/cnews-19-fevrier-19h-debat-zemmour-verdier-molinie-a206656222

    #canada #lait #beurre #fromage #vaches #acide_palmitique #huile_de_palme #nourriture #MDR

  • Cutting down forests: what are the drivers of #deforestation? - Our World in Data
    https://ourworldindata.org/what-are-drivers-deforestation

    Beef, soy and palm oil are responsible for 60% of tropical deforestation

    If we want to tackle deforestation we also need to know what causes it. That allows us to avoid the foods that drive deforestation or innovate the ways we produce them.

    #élevage #soja #huile_de_palme

  • Suisse : Accord de #partenariat_économique avec l’Indonésie

    Le 7 mars 2021, les citoyennes et les citoyens suisses vont s’exprimer sur l’Accord de partenariat économique avec l’Indonésie.

    L’explication officielle :
    https://www.youtube.com/watch?v=bHPqiRx8vwo&feature=emb_logo

    L’objet en bref

    La Suisse accède aux marchés étrangers grâce à une série d’accords qui facilitent les échanges et les relations économiques, ce qui garantit la prospérité de notre pays. Récemment, elle a négocié un accord avec l’Indonésie, pays en pleine croissance, le quatrième le plus peuplé du monde (271 millions d’habitants) : l’objectif est de réduire les droits de douane et les obstacles au commerce en facilitant les échanges import/export entre les deux pays.

    Un référendum a été lancé contre cet accord. La pomme de discorde est la réduction prévue des droits de douane sur l’huile de palme. Le comité référendaire est d’avis que les contrôles et les sanctions prévus seront inefficaces. Il estime qu’on ne peut pas se fier au gouvernement indonésien et que l’huile de palme produite à bas coût est dommageable pour l’écosystème indonésien, sans compter qu’elle fait concurrence aux produits suisses que sont l’huile de colza, l’huile de tournesol ou le beurre.

    Le Conseil fédéral et le Parlement sont en revanche d’avis que l’accord avec l’Indonésie, y compris pour ce qui est de l’huile de palme, sert non seulement les intérêts économiques des deux pays, mais contribue encore de manière importante au développement durable. Il n’y aura en effet aucune réduction des #droits_de_douane pour l’huile de palme indonesienne si les droits de l’homme et de strictes exigences relatives à l’environnement ne sont pas respectés. À cette fin, il est obligatoire de présenter des preuves correspondantes.

    https://www.admin.ch/gov/fr/accueil/documentation/votations/20210307/accord-de-partenariat-economique-avec-l-indonesie.html

    #accord_de_libre-échange #libre-échange #Suisse #Indonésie #votation #huile_de_palme #commerce #référendum #déforestation #arguments

  • Vague d’arrestations d’opposants à l’huile de palme à Bornéo - Sauvons la Forêt
    https://www.sauvonslaforet.org/actualites/9832/vague-darrestations-dopposants-a-lhuile-de-palme-a-borneo?mtu=500780

    Effendi Buhing, un chef traditionnel du peuple #Dayak_Tomun, a été arrêté par la police le 26 août 2020 à #Bornéo. Au total, six #Autochtones qui résistent à l’#accaparement de leurs #terres et aux #déboisements dans la #forêt de #Kinipan ont été interpelés au cours des derniers jours.

    « Nous nous défendons contre l’huile de palme » déclarait le chef traditionnel Effendi Buhing dans le cadre des recherches pour notre pétition pour aider les Dayak. « La forêt de Kinipan est notre vie. Nous nous sommes plaints par écrit, avons emprunté la voie judiciaire et manifesté pacifiquement. Malgré tout, un producteur d’#huile_de_palme détruit notre forêt. »

    #industrie_palmiste

  • L’huile de palme est devenue omniprésente dans le diesel européen - Page 1 | Mediapart
    https://www.mediapart.fr/journal/international/230720/l-huile-de-palme-est-devenue-omnipresente-dans-le-diesel-europeen

    « Le diesel européen utilise cent fois plus d’huile de palme que les 40 milliards de gâteaux Oreo consommés chaque année. » Le 2 juillet dernier, la fédération Transport et Environnement, qui regroupe plus de 50 ONG européennes œuvrant pour limiter l’impact des transports sur le réchauffement climatique, publiait ce rapport, dont le titre peut faire sourire. Mais derrière l’accroche, les chiffres sont stupéfiants.

    Au niveau européen, l’utilisation de l’huile de palme a atteint cette année un record : elle a augmenté de 7 %, pour atteindre 4,5 millions de tonnes. Un chiffre à mettre en parallèle avec la baisse historique de son usage dans l’alimentation, le secteur traditionnellement le plus gourmand, qui n’en a consommé « que » 2,8 millions de tonnes cette année.

    La France produit chaque année 900 000 tonnes d’huile de palme et a connu en 2019 une augmentation de sa production de 30 000 tonnes. Selon l’association écologiste Canopée, « cette hausse s’explique par l’entrée en fonctionnement partiel de la bioraffinerie de La Mède, appartenant au groupe Total ». Une raffinerie qui ne remplirait pas ses engagements environnementaux, selon Greenpeace, puisque Total importe de l’huile de palme vendue par Apical, « un grand exportateur indonésien pointé du doigt pour ses manquements en matière de lutte contre la déforestation ».

    75 % de la production française finit dans les moteurs diesels, soit 700 000 tonnes. « C’est grâce à des rapports comme celui-là, grâce au travail des associations que l’on se rend compte de la place totalement démesurée de la voiture dans nos sociétés », ajoute Sylvain Angerand. « Lorsqu’on parle d’huile de palme, immédiatement deux lumières s’allument : Nutella et orangs-outans, se désole-t-il, alors que depuis des années, c’est la voiture diesel qui en consomme le plus. »

    Le rapport contribue enfin à combattre l’idée selon laquelle les biocarburants seraient respectueux de l’environnement. Ils seraient au contraire trois fois pires pour le climat et émettraient plus de 80 % de CO2 en plus que les énergies fossiles.

    Lien vers https://www.transportenvironment.org/press/100-times-more-palm-oil-eu-diesel-all-oreo-cookies-world

    #huile_de_palme #déforestation #Indonésie #Malaisie

    (Je viens de m’abonner à Mediapart maintenant que je suis riche.)

  • Another terror attack on local communities by Okomu Oil Palm Plantation Plc
    https://www.farmlandgrab.org/post/view/29694

    Report by Chief Ajele Sunday, Fiyewei (Spokesman) of Okomu Kingdom

    The case of Okomu Kingdom playing host to Okomu Oil Palm Plantation Plc has brought in its wake a myriad of problems; environmental despoliation, obnoxious act against the indigent population, excruciating poverty, unemployment, human rights violation, forceful eviction and imminent extermination of Okomu Kingdom and her people. The government of Edo State share joint responsibilities for these negative situation. Since they negotiated a contract that was faulty from the beginning and cannot be implemented without violating the rights of the Community people. Hence the company often boasts that it has a certificate of occupancy, therefore it can go on and on to destroy without any liability.

    Giving this background, this report aims to make public the dire situation the people of Okomu Kingdom are facing in the hand of Okomu Oil Palm Plantation Plc (OOPC).

    Just recently on the 20th of May 2020 another village Ijaw-Gbene in Okomu Kingdom was burnt down by the management of OOPC, lead by Mr Kingsley Adeyemi a security attached to OOPC.

    #industrie_palmiste #Nigeria #terres

  • Canopée dépose un recours devant le Conseil d’État
    https://www.terre-net.fr/actualite-agricole/economie-social/article/huile-de-palme-et-biocarburants-recours-devant-le-conseil-d-etat-202-16534

    L’association #Canopée, spécialisée dans la défense de la #forêt, a déposé un recours pour excès de pouvoir devant le Conseil d’État pour faire annuler une note des #douanes qui bénéficie, selon elle, à un sous-produit d’#huile_de_palme.

    #abus_de_pouvoir #fiscalité #Total #agrocarburants

  • #Huile_de_palme et biocarburant : #Total gagne une bataille à l’#Assemblée
    https://www.lefigaro.fr/societes/huile-de-palme-et-biocarburant-total-gagne-une-bataille-a-l-assemblee-20191

    https://www.liberation.fr/direct/element/lassemblee-maintient-lhuile-de-palme-parmi-les-biocarburants-les-ecologis

    #mede

    la fin de la #niche_fiscale, prévue pour début 2020, grèverait de 70 à 80 millions d’euros par an les comptes de cette usine, qui emploie directement 250 personnes.

    Le Sénat peut aussi revenir sur ce vote. L’amendement n’a en effet bénéficié d’aucun débat et n’a même pas été défendu au micro en séance.

  • Palm owner charged with ordering murder of two journalists in Indonesia
    https://news.mongabay.com/2019/11/palm-owner-charged-with-ordering-murder-of-two-journalists-in-indones

    Five people, including the alleged owner of an oil palm plantation in Sumatra where two journalists were found dead, have been charged with their murder.
    The alleged assailants are accused to being paid $3,000 from the company to kill Maraden Sianipar, 55, and Martua Siregar, 42, apparently in retaliation for their advocacy on behalf of locals engaged in a land dispute with the company.
    The murders on Oct. 29 occurred in the same month that environmental activist Golfrid Siregar was found dead, also in North Sumatra, in suspicious circumstances. At the time he was challenging the police’s failure to pursue a forgery complaint in connection with a permit for a power plant in an orangutan habitat.
    The recent deaths of journalists and activists defending environmental protection have raised concerns among many observers over the state of activism and press freedom in Indonesia.

    #industrie_palmiste #indonésie #meurtres #assassinats #journalisme #écolo

  • Colombian town faces earthquakes, pollution, water shortage as industry expands
    https://news.mongabay.com/2019/11/colombian-town-faces-earthquakes-pollution-water-shortage-as-industry

    Residents of the town of Puerto Gaitán say their water sources are being used for the cultivation of oil palm plantations and the extraction of crude oil.
    Studies have found water quality near the town qualifies as “poor” and water reserves have dropped off for many areas, forcing residents to import water from elsewhere.
    Locals say seismic tremors induced for oil extraction have damaged houses and soil.
    Researchers say wildlife populations have been harmed by agricultural chemicals used for palm oil production and habitat loss caused by expanding plantations.

    This article is a collaboration between Rutas del Conflicto and Mongabay Latam.

    #Colombie #industrie_palmiste #industrie_pétrolière #eau #pollutions

  • Cultivating consent: Challenges and opportunities in the West Papuan palm oil sector - New Mandala
    https://www.newmandala.org/cultivating-consent

    In Indonesian West Papua, oil palm developments are routinely designed and implemented without the free, prior, and informed consent of indigenous landowners.

    #Papouasie #Indonésie #terres #forêt

  • #Matières_premières : comment les #géants #français épuisent la #planète - Observatoire des ##multinationales
    http://multinationales.org/Matieres-premieres-comment-les-geants-francais-epuisent-la-planete
    #terres

    Soja : une prise de conscience insuffisante pour prévenir la déforestation et les abus
    Utilisé comme matière première dans l’industrie agroalimentaire et surtout pour l’alimentation animale, le soja est devenue une denrée clé pour l’industrie. Sa production a littéralement explosé en Amérique du Sud, associé à l’utilisation massive de pesticides et de semences génétiquement modifiées et à des violations des droits des communautés et des travailleurs. L’expansion du soja empiète non seulement sur la forêt amazonienne, mais également sur d’autres régions du continent comme le la savane du #Cerrado au Brésil ou la région du #Chaco (Brésil, Argentine, Paraguay).

    Les associations Mighty Earth, France nature #environnement et Sherpa se sont associés pour identifier les principaux acheteurs français de soja en provenance d’Amérique du Sud. Une liste dans laquelle on retrouve des groupes agroalimentaires (et notamment laitiers) comme Danone ou Lactalis, des acteurs de la restauration comme #Sodexo et Elior, des chaînes de grande distribution comme #Auchan, #Carrefour ou #Casino.

    Force est de constater que ces firmes ne semblent pas avoir pris la mesure des risques liés à leur approvisionnement en soja, ni de leur responsabilité (y compris juridique, dans le cadre de la loi sur le devoir de vigilance) dans la prévention des abus constatés sur le terrain. Seule une poignée d’entre eux (Avril, Danone et Bel) fournit des informations un peu poussées (mais très incomplètes) sur les volumes, l’origine et la part tracée du soja utilisé dans la chaîne d’approvisionnement. D’autres ont purement et simplement refusé de répondre aux ONG au nom du secret commercial. La plupart de celles qui identifient les risques liés au soja se contentent de promouvoir des systèmes de « soja certifié » notoirement insuffisants pour empêcher la déforestation.

    Huile de palme : une industrie destructrice qui continue à s’étendre
    De l’agroalimentaire aux cosmétiques en passant par les #agrocarburants, l’huile de palme est un ingrédient commode et bon marché apprécié de nombreuses industries. Problème : son exploitation à grande échelle a dévasté des millions d’hectares de forêt en Asie du Sud-est, déplaçant des populations entières et mettant en danger des espèces animales emblématiques comme l’orang-outang.

    Malgré la prise de conscience des consommateurs, l’exploitation de l’huile de palme ne ralentit pas. Davantage surveillées en Indonésie et en Malaisie, les multinationales du secteur tournent désormais leurs regards vers l’Afrique et l’Amérique du Sud, créant les mêmes problèmes.

    Une fuite en avant alimentée entre autres par la demande de multinationales françaises comme L’#Oréal ou #Danone (71 000 tonnes d’huile de palme et de dérivés achetées chacune en 2018) et bientôt de #Total, qui a choisi de reconvertir sa raffinerie de La Mède, dans le Sud de la France, pour produire des agrocarburants à base d’huile de palme. Initialement, le géant pétrolier voulait en importer pas moins de 550 000 tonnes par an, mais a revu ce chiffre à la baisse sous pression des écologistes. Les multinationales acheteuses se défendent souvent en arguant qu’elles n’achètent presque que de l’huile de palme certifiée « responsable », mais l’expérience prouve que ces certifications ne sont pas fiables (lire notre article).

    Le #caoutchouc, aussi nocif que l’#huile_de_palme ?
    Des géants français sont très impliqués dans la filière, à commencer par #Michelin, en tant que fabricant de pneumatiques, et la #Socfin, filiale du groupe #Bolloré. Greenpeace a mis en cause les agissements de l’entreprise singapourienne Halcyon au #Cameroun, qui fournit des groupes comme Michelin. Face à la montée des critiques, l’industrie du pneumatique a fini par lancer en 2018 une initiative « multi-partie prenantes » sur le caoutchouc soutenable, sur le modèle de celles qui existent déjà pour le soja ou l’huile de palme. Lorsque l’on voit à quel point ces initiatives sont contestées, il n’est pas sûr que cela suffise à enrayer les problèmes.

    Bois et papier : une filière toujours opaque
    Le groupe Rougier et Guillemette & Cie se sont ainsi approvisionnées, selon l’ONG Amazon Watch, auprès du groupe brésilien Benevides Madeiras, condamné pour #déforestation illégale en #Amazonie. D’autres firmes ont commercialisé les produits de l’entreprise forestière de RDC Ifco, accusée par l’ONG Global Witness de couper des arbres en dehors des périmètres autorisés.

    Eau : la soif intarissable des grands groupes

  • Des Cambodgiens poursuivent le groupe #Bolloré pour avoir détruit leur #forêt_sacrée

    Quatre-vingts paysans #Bunong estiment avoir été spoliés de leur forêt ancestrale, remplacée par des plantations d’#hévéas. Une audience a eu lieu mardi à Nanterre.
    Neuf paysans cambodgiens issus de la minorité autochtone des Bunongs ont parcouru près de 10 000 kilomètres, depuis leur province de Mondol Kiri, à l’est du pays, pour réclamer justice contre le groupe Bolloré devant… la 6e chambre civile du TGI de Nanterre (Hauts-de-Seine).

    Mardi 1er octobre, flanqués de trois interprètes et de leur avocat du barreau de Paris, Me Fiodor Rilov, ces femmes et ces hommes, qui s’estiment spoliés de leurs terres, ont assisté en rangs serrés et en silence, à une audience dite de mise en état dans l’affaire qui les oppose, depuis 2015, au groupe de l’industriel breton, dont le siège se trouve dans le ressort du TGI.

    « On ne parlera pas du fond, c’est-à-dire de qui a fait quoi », a pédagogiquement lancé en préambule la présidente, Cécile Brouzes, rappelant qu’il s’agissait là seulement d’une phase de la procédure contradictoire qui permet à chacune des parties, par l’intermédiaire de leurs avocats, de produire des pièces et d’échanger des conclusions afin que le dossier soit fin prêt pour un examen sur le fond, ultérieurement.

    Quelque 7 000 hectares de forêt accaparée

    A l’été 2015, cinquante et un Bunongs – ils sont aujourd’hui quatre-vingts – ont assigné en justice la #Socfin-KDC, joint-venture entre la holding #Socfinasia, une société luxembourgeoise dont le groupe Bolloré est actionnaire à près de 39 %, et la #Khao_Chuly, une entreprise de construction cambodgienne, proche du pouvoir central.

    Les Bunongs réclament la restitution de leurs terres ainsi que des dommages et intérêts

    Ces paysans accusent la Socfin-KDC de s’être accaparé illégalement, en 2008, avec l’aval du gouvernement cambodgien, quelque 7 000 hectares de forêt composant leur terre ancestrale pour y établir des plantations d’hévéas, arbres à caoutchouc. Les Bunongs réclament la reconnaissance de responsabilité du groupe Bolloré dans ce qu’ils estiment être une spoliation, la restitution de leurs terres ainsi que des dommages et intérêts.

    Ils pratiquent une « agriculture itinérante de subsistance » et « une croyance animiste fondée sur la sacralisation des forêts », a expliqué Me Rilov, la veille de l’audience, lors d’une conférence de presse à son cabinet. Ses clients reprochent donc au groupe Bolloré une déforestation massive ayant abouti à leur déplacement, à la destruction de leur habitat naturel, de leurs moyens de subsistance, de leurs lieux de culte et à celle d’arbres centenaires, considérés comme des divinités.

    « La compagnie n’a pas respecté nos droits »

    « J’ai perdu ma terre à cause de l’investissement de Socfin, a poursuivi Sorng Prou, une des quatre-vingts plaignants, dans sa langue natale par le truchement d’un traducteur anglophone. La compagnie n’a pas respecté nos droits ni obtenu le consensus des villageois. Je veux récupérer ma terre et qu’on répare ce qui a été détruit. Avant, je vivais heureuse, mais depuis, on a perdu nos occupations traditionnelles, et on a peur quand on va dans la forêt. »

    « Paris, c’est grand, la vie ici a l’air d’être meilleure, pourquoi Socfin est venue détruire nos vies ? », a interrogé Klang Phoul, un autre plaignant en fondant en larmes, comme terrassé par le choc des cultures.

    Initialement prévue en février, l’audience avait été renvoyée au 1er octobre après le refus des services consulaires français d’accorder un visa à neuf plaignants, un représentant d’ONG et un avocat cambodgiens, tous désireux d’effectuer le déplacement. Me Fiodor Rilov avait plaidé avec succès la « violation », par l’administration française, du « droit à un procès équitable » et la nécessité de leur présence.

    A l’audience de mardi, l’avocat des Bunongs a demandé à la juge d’ordonner la communication par le groupe Bolloré des baux, du registre du personnel, de la liste des dirigeants et des principaux clients et des contrats de #Terres_Rouges_Consultant (TRC), une société dissoute en 2012 dont le siège se trouvait dans la tour Bolloré, à Puteaux (Hauts-de-Seine).

    « Etablir la #responsabilité_civile_délictuelle »

    Selon lui, ces pièces permettront d’« établir la #responsabilité civile délictuelle » de l’industriel breton, qu’il soupçonne d’être le « gestionnaire directe » et le « véritable décideur de ce qui s’est passé dans les plantations » par l’intermédiaire de la « structure-véhicule » qu’était TRC. Une mise en cause que réfute l’industriel en arguant qu’il n’est qu’un actionnaire minoritaire, avec près de 39 % des parts, dans la Socfin-KCD qui gère les affaires sur place.

    Les avocats des sociétés assignées ont riposté en soulignant qu’ils réclament « depuis deux ans et demi » des documents établissant formellement « l’identité et les titres de propriété » de chacun des plaignants. Me Rilov s’est engagé à faire parvenir au TGI les « trente pièces d’identité manquantes » – qui sont en cours d’établissement, car ses clients n’en ont, pour la plupart, jamais eu – et les documents juridiques leur permettant de demander la restitution des terres.

    Dans son jugement mis en délibéré au 8 novembre, la 6e chambre civile dira si elle fait droit aux demandes de communication des pièces réclamées aux sociétés mises en cause par les Bunongs, et si elle diligente une expertise sur les plantations pour évaluer le préjudice supposé. S’il obtient gain de cause, Me Rilov assure qu’il disposera alors des éléments permettant l’examen du dossier au fond par le TGI d’ici une année. En revanche, si la juridiction rejette ces demandes, comme le veulent les sociétés mises en cause, la procédure s’arrêtera définitivement.

    Selon l’avocat des Bunongs, près de deux cents paysans camerounais se disant victimes de la Socapalm, une société spécialisée dans l’#huile_de_palme détenue par le groupe Bolloré, seraient dans une situation identique à celle de ses clients cambodgiens, et ils pourraient demander à se joindre à la procédure.

    https://www.lemonde.fr/planete/article/2019/10/01/des-cambodgiens-poursuivent-le-groupe-bollore-en-justice-pour-avoir-detruit-

    #forêt #déforestation #Cambodge #Punan #spoliation #plantations #justice #France #accaparement #Mondulkiri #palmiers_à_huile #Mondulkiri #terres #Pnong #peuples_autochtones

    ping @albertocampiphoto @odilon

    merci @fil l d’avoir signalé cet article

    Appel au seenthisien·nes... si vous avez des infos sur la suite du procès, ça serait super si vous pouvez m’en informer... #merci !
    @seenthis

    • Il s’agit de la même région où vit #Mony_Hong... dont j’ai parlé sur @visionscarto (photos : @albertocampiphoto )
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      Mony Hong, habité par la forêt

      Dans le village de Leng Ness, dans la forêt tropicale cambodgienne, une rencontre inopinée avec un passionné cartographe, en lutte contre la déforestation et pour les droits des peuples autochtones. Mony Hong nous fera découvrir la région, ses cartes et son projet.


      https://visionscarto.net/mony-hong-habite-par-la-foret

    • Article sur le sujet sur Mediapart.

      https://www.mediapart.fr/journal/economie/011019/des-cambodgiens-paris-pour-demander-des-comptes-bollore

      #colonialisme

      Dans le cadre étriqué de la petite salle d’audience du tribunal de grande instance de Nanterre (Hauts-de-Seine), l’agitation de ce mardi 1er octobre au matin agace. « On n’est pas au cirque », lance la présidente de l’audience, avant de se reprendre et de traiter avec prévenance tous les présents qui s’entassent dans la pièce aux airs de banale salle de réunion. Venus pour assister à ce qu’ils pensaient être une courte audience de procédure, les défenseurs de la société Bolloré, de sa filiale la Compagnie du Cambodge et de son « partenaire » Socfin, ont plus de mal à masquer leur exaspération face au happening se déroulant sous leurs yeux.

      Massés dans la pièce, une dizaine de paysans cambodgiens et leurs traducteurs, plusieurs journalistes et quelques représentants d’ONG ayant réussi à se faufiler sont présents, à l’invitation de l’avocat Fiodor Rilov, pas mécontent de son effet.

      Connu pour sa défense des salariés de nombreuses usines ayant fermé en France (dont ceux de Whirlpool et de son repreneur éphémère à Amiens), l’avocat a réussi une fois de plus à attirer l’attention. Et contribue à entretenir ce qui constitue une épine, petite mais urticante, dans le pied du mastodonte Bolloré : sa participation à la gestion de plantations de palmiers à huile et d’hévéas, en Afrique, mais aussi au Cambodge.

      Les neuf cultivateurs cambodgiens ayant fait le déplacement jusqu’à Nanterre représentent quatre-vingts plaignants attaquant le groupe Bolloré pour contester la manière dont les plantations d’hévéas se sont développées dans leur région depuis 2008. Leur assignation, au civil, date de 2015 (https://www.mediapart.fr/journal/economie/280715/bollore-attaque-en-france-pour-ses-plantations-au-cambodge). Ils réclament chacun des dizaines de milliers d’euros de dommages et intérêts, mais aussi de pouvoir retourner sur leurs terres.

      Originaires de la commune de Bousra, dans la province de Mondolkiri, tout à l’est du Cambodge, ils appartiennent à l’ethnie bunong, une population indigène locale. Sur place, l’ethnie regroupe 850 familles, réparties dans sept villages. Les Bunong pratiquent une agriculture itinérante et ont des croyances animistes, fondées sur la sacralisation des forêts et des lieux de sépulture de leurs ancêtres. Selon les termes de leur assignation, ils « ont été victimes d’une véritable catastrophe économique, sociale, environnementale et religieuse, entièrement imputable aux sociétés du groupe Bolloré qui les ont privés de leurs ressources et ont détruit leur cadre actuel et leurs lieux de culte ».

      Socfin-KCD, la filiale locale dépendant de la nébuleuse Bolloré a commencé à développer la monoculture d’hévéas avec l’accord du gouvernement cambodgien, qui lui a attribué l’exploitation des terres. En théorie, la multinationale française a payé aux Bunong 200 dollars par hectare de terre exploitée. Mais ils sont nombreux à affirmer n’avoir touché que quelques dizaines de dollars, voire n’avoir eu droit à aucune indemnisation lorsqu’ils ont été invités à quitter leurs terres.

      Le cas des Bunong au Cambodge a déjà été largement documenté. Par la Fédération internationale des ligues des droits de l’homme (FIDH) d’abord, qui a publié en 2008 un rapport très sévère (https://www.fidh.org/La-Federation-internationale-des-ligues-des-droits-de-l-homme/asie/cambodge/Terrains-defriches-droits-pietines) sur les agissements de la filiale du groupe, Socfin-KCD, chargée des plantations cambodgiennes. Rapport qui avait valu à l’ONG un droit de réponse salé de Socfin… (https://www.fidh.org/La-Federation-internationale-des-ligues-des-droits-de-l-homme/asie/cambodge/Droit-de-reponse-de-Socfin-au) Un documentaire a également été réalisé sur le sujet en 2014 (http://indomemoires.hypotheses.org/13877) et sa co-réalisatrice, Anne-Laure Porée, en a bien parlé dans le quotidien suisse Le Temps (http://www.letemps.ch/Page/Uuid/de3924c2-aa0d-11e3-a7f6-006044306642/Au_Cambodge_les_Bunong_essaient_de_r%C3%A9sister_contre_le_vol_de_leurs_terr).

      Les riverains cambodgiens des plantations du groupe Bolloré sont loin d’être les premiers à contester la façon dont ils sont traités. Mediapart a déjà largement raconté (https://www.mediapart.fr/journal/economie/080417/accaparement-des-terres-l-interminable-bras-de-fer-avec-le-groupe-bollore?) les revendications du collectif international qui s’est créé pour porter les protestations contre le groupe français de paysans venus notamment du Cameroun, de Côte d’Ivoire, du Liberia et de Sierra Leone. Le groupe, ou ses diverses filiales, est très chatouilleux sur le sujet. Il a, parmi d’autres, intenté un procès en diffamation à Mediapart (https://www.mediapart.fr/journal/france/280118/l-empire-bollore-et-la-socfin-sont-mis-en-difficulte-devant-le-tribunal) et deux ONG, qu’il a définitivement perdu (https://www.asso-sherpa.org/poursuites-baillons-groupe-bollore-desistement-de-socfin-socapalm-lacti).

      Pourtant, en Asie comme en Afrique, les militants sont porteurs de revendications que le groupe connaît bien, énumérées par exemple dans une lettre ouverte (http://projet-react.org/web/63-lettre-commune-des-riverains-a-vincent-bollore.php) qui avait été remise en main propre à Vincent Bolloré en juin 2013. « Il y a quelques années, nous observions des rites dans la forêt, avec les animaux sauvages, c’était notre quotidien. Nous cultivions la terre, nous ramassions des fruits dans la forêt », a témoigné lors d’une conférence de presse Kroeung Tola, l’un des Bunong présents qui ont dû décaler leur venue, car ils n’avaient pas obtenu de visas en février (https://www.mediapart.fr/journal/international/120219/cambodgiens-contre-bollore-le-report-du-proces-accorde). Le cultivateur a expliqué que les autochtones ont déposé plusieurs plaintes auprès des autorités cambodgiennes, sans aucune amélioration. « Nous espérons et nous croyons que la justice en France sera plus indépendante », a-t-il plaidé.

      « Cette société est venue investir dans mon village, mais ils n’ont pas respecté la loi. Ils ont lancé leur projet avant d’avoir obtenu le consensus dans tout le village, a insisté pour sa part Sorng Prou, seule femme du voyage. Je demande qu’on me rende ma terre. » « Ici, la vie a l’air d’être meilleure, a lancé Klang Phoul, en larmes. Pourquoi Socfin est-elle venue détruire nos vies ? »
      Des documents signalant l’implication de Bolloré

      Ces demandes fortes, n’étaient pourtant pas l’objet des débats de ce mardi au TGI de Nanterre. L’audience sur le fond n’interviendra pas avant un an, au plus tôt. Les avocats des deux parties étaient en réalité réunis pour exiger, chacun de son côté, la production de documents, nécessaires selon eux, pour la procédure.

      Disant toute son « exaspération » face à son confrère Rilov qui se saisit de toutes les occasions pour transformer « les audiences en caisses de résonance médiatiques », Olivier Baratelli a rappelé les demandes des trois avocats défendant les diverses sociétés liées à Bolloré. L’avocat historique du groupe, qui défend ici la Compagnie du Cambodge, l’une de ses plus importantes filiales, réclame depuis 2016 que les plaignants produisent des documents d’identité complets et certifiés, mais aussi, et surtout, les documents attestant qu’ils disposent du droit de propriété ou de jouissance sur les terres qu’ils estiment avoir perdues.

      « C’est bien le minimum », appuie Dominique de Leusse, qui défend Socfin. Il rappelle qu’il attend que les documents fournis par les Bunong précisent notamment la « superficie exacte » et « la localisation » des terrains qui font l’objet du conflit. C’est d’ailleurs ce que demande depuis février 2017 le tribunal aux premiers plaignants l’ayant saisi, une cinquantaine d’autres ayant suivi depuis. Faute de la production de ces documents, Bolloré et ses alliés demandent que la procédure s’arrête.

      Ces demandes peuvent paraître simples, mais elles posent un sérieux problème aux Bunong, qui ne disposent pas tous de documents d’identité et occupaient leurs terres de façon traditionnelle depuis des décennies, mais sans posséder de titres de propriété formels, au sens où les entend le droit français. Ils ont néanmoins promis, par l’intermédiaire de leur avocat, qu’ils fourniront toutes les pièces nécessaires dans les mois qui viennent.

      De son côté, Fiodor Rilov demande que soient rendus publics de nombreux documents liant le groupe Bolloré à ses filiales ou partenaires chargés des plantations, afin d’éclaircir une fois pour toutes leurs relations. Et l’avocat dispose déjà de plusieurs pièces montrant que ses demandent pourraient enfoncer un sérieux coin dans la défense traditionnelle du groupe.

      En effet, Bolloré répète avec constance depuis de longues années n’être en rien mêlé à la gestion effective des plantations détenues par Socfin, bien que l’entreprise française en soit le premier actionnaire avec 38,7 % du capital. « Bolloré SA n’a strictement aucun lien avec cette affaire », argumentait encore lundi Olivier Baratelli dans une réponse à l’AFP (https://www.africaradio.com/news/des-paysans-cambodgiens-contre-bollore-mardi-devant-la-justice-francais), assurant avec le plus grand sérieux qu’il s’agit d’« un problème strictement cambodgien ».

      Sur le papier, c’est bien le dirigeant de Socfin, Hubert Fabri, qui a la main sur les hévéas et les palmiers à huile, depuis qu’il s’est partagé avec Vincent Bolloré les restes (considérables) de l’ex-groupe colonial Rivaud, dont le Français a pris le contrôle en septembre 1996 (lire ici notre récit détaillé https://www.mediapart.fr/journal/economie/020209/enquete-sur-la-face-cachee-de-l-empire-bollore?). Mais, en vérité, les deux hommes entretiennent toujours des rapports étroits : Fabri siège dans différentes instances du groupe Bolloré depuis 1987 et Bolloré demeure, au côté d’un second représentant de son groupe, l’un des six membres du conseil d’administration de Socfin, qui comprend aussi Hubert Fabri et son fils.

      Pour contrecarrer cette argumentation bien rodée, Fiodor Rilov a mis la main sur les rapports d’activité de 2007 à 2011 d’une entreprise nommée Terres rouges consultant. L’entreprise a été dissoute le 31 décembre 2012, mais elle était hébergée directement dans la tour Bolloré, le siège du groupe à Puteaux (Hauts-de-Seine). Son activité déclarée début 2008 était explicitement « la gestion de Socfin-KCD, société de droit cambodgien, avec pour objectif la création de 15 000 ha de plantations industrielles d’hévéas dans le Mondolkiri à l’est du Cambodge ».

      Le rapport d’activité indiquait par ailleurs que Terres rouges consultant « gère trois sociétés agro-industrielles au Cameroun (Socapalm, SPFS, Safacam) », c’est-à-dire les plantations camerounaises appartenant à Socfin et que Bolloré a toujours démenti diriger directement. Cette petite phrase a permis à Fiodor Rilov d’annoncer que près de deux cents paysans camerounais se disant victime de la Socapalm allaient se joindre à la procédure dans les prochaines semaines.

      L’avocat des Bunong a aussi découvert que Vincent Bolloré lui-même était administrateur de Terres rouges consultant et qu’il n’était autre que le « director number 2 » de Socfin-KCD au Cambodge. Par ailleurs, le numéro 2 de Terres rouges consultant était Bertrand Chavanes, celui qui se présentait lui-même comme le responsable des plantations du groupe Bolloré, avant de prendre sa retraite il y a plusieurs années.

      Pour Fiodor Rilov, pas de doute : « Terres rouges consultant a servi de véhicule, logé au sein même de la tour Bolloré, pour que le groupe assure la gestion effective des plantations au Cambodge. » C’est à ce titre que le groupe et ses diverses entités sont poursuivis au civil par les Bunong. Et c’est pour accréditer sa thèse que l’avocat demande la communication du bail au titre duquel Terres rouges consultant occupait des locaux au siège de Bolloré, mais aussi ses registres du personnel, la liste de ses dirigeants, les comptes de la société, ainsi que tous les liens contractuels et capitalistiques pouvant la lier avec le groupe Bolloré.

      Le tribunal rendra sa décision sur les demandes croisées des parties le 8 novembre. On saura alors si la petite épine dans le pied de Bolloré continuera à l’importuner un peu plus longtemps encore.

  • Après le #soja et l’#huile_de_palme… Le #cacao, l’autre culture qui grignote la #forêt
    https://www.20minutes.fr/planete/2617483-20191001-apres-soja-huile-palme-cacao-autre-culture-grignote-foret

    ... plus que la disparition du cacao, le danger immédiat est celui de sa surproduction. Et pour cause, la surface consacrée à cette culture a plus que doublé depuis les années 1970, passant de 4 millions d’hectares à 10 millions aujourd’hui sur la planète, rappelle l’Iddri dans une étude cosignée par les deux chercheurs et publiée ce mardi, à l’occasion de la Journée mondiale du #chocolat. Cet étalement n’est pas sans rappeler le fort développement de la culture de soja au #Brésil ou celle de l’huile de palme en #Indonésie et en #Malaisie, qui se font au détriment de la région de savane du Cerrado pour la première, et des forêts tropicales d’Asie du Sud-Est pour la seconde.

    #déforestation