• I grandi marchi della fast fashion non vogliono rinunciare al petrolio russo

    Nel 2023 le due principali società produttrici di poliestere, l’indiana #Reliance industries e la cinese #Hengli group, hanno continuato a utilizzare il greggio di Mosca. La maggior parte dei brand -da #Shein a #H&M, passando per #Benetton- chiude un occhio o promette impegni generici. Il dettagliato report di #Changing_markets.

    Quest’anno i principali produttori globali di poliestere, la fibra tessile di origine sintetica derivata dal petrolio, non solo non hanno interrotto i propri legami con la Russia ma al contrario hanno incrementato gli acquisti della materia prima fondamentale per il loro business. È quanto emerge da “#Crude_Couture”, l’inchiesta realizzata da Changing markets foundation pubblicata il 21 dicembre, a un anno di distanza dalla precedente “Dressed to kill” che aveva svelato i legami segreti tra i principali marchi della moda e il petrolio di Mosca.

    “Quest’indagine -si legge nell’introduzione- evidenzia il ruolo fondamentale svolto dall’industria della moda nel perpetuare la dipendenza dai combustibili fossili e segnala una preoccupante mancanza di azione per rompere i legami con il petrolio russo”. Un’inazione, sottolineano i ricercatori, che sta indirettamente finanziando la guerra in Ucraina. E non si tratta di un contributo di poco conto: le fibre sintetiche, infatti, pesano per il 69% sulla produzione di fibre e il poliestere è di gran lunga il più utilizzato, lo si può trovare infatti nel 55% dei prodotti tessili attualmente in circolazione. Se non ci sarà una netta inversione di tendenza, si stima che entro il 2030 quasi tre quarti di tutti i prodotti tessili verranno realizzati a partire da combustibili fossili.

    Il poliestere è fondamentale per l’esistenza dell’industria del fast fashion, e ancora di più per i marchi di moda ultraveloce come Shein: un’inchiesta pubblicata da Bloomberg ha mostrato che il 95% dei capi prodotti dal marchio di moda cinese conteneva materiali sintetici mentre per brand come #Pretty_Little_Thing, #Misguided e #Boohoo la percentuale era dell’83-89%.

    Al centro delle due inchieste realizzate da Changing markets ci sono due importanti produttori di questo materiale: l’indiana #Reliance_industries (con una capacità produttiva stimata in 2,5 milioni di tonnellate all’anno) e la cinese #Hengli_group. I filati e i tessuti che escono dai loro stabilimenti vengono venduti ai produttori di abbigliamento di tutto il mondo che, a loro volta, li utilizzano per confezionare magliette, pantaloni, cappotti, scarpe e altri accessori per importanti brand. Su 50 marchi presi in esame in “Dressed to kill” 39 erano direttamente o indirettamente collegati alle catene di fornitura di Hengli group or Reliance industries, tra questi figurano #H&M, #Inditex (multinazionale spagnola proprietaria, tra gli altri, di #Bershka e #Zara), #Adidas, #Uniqlo e #Benetton.

    Anche dopo la pubblicazione di “Dressed to kill”, Reliance e Hengli hanno continuato ad acquistare petrolio russo. A marzo 2023 l’India ha acquistato da Mosca la quantità record di 51,5 milioni di barili di greggio: “Insieme a Nayara Energya, la principale compagnia petrolifera indiana, Reliance industries ha rappresentato più della metà (52%) delle importazioni totali”, si legge nell’inchiesta. In crescita anche le importazioni cinesi (+11,7% rispetto all’anno precedente). “Nel maggio 2023, #Hengli_Petrochemical ha ricevuto 6,44 milioni di barili di greggio russo, come riportato dai dati di tracciamento delle navi dell’agenzia Reuters -scrivono gli autori del report-. Queste tendenze rivelano il persistente legame tra le aziende di moda che si riforniscono da questi produttori di poliestere e il petrolio russo”. Oltre alla violazione delle sanzioni imposte a Mosca da diversi governi, compresi quello degli Stati Uniti e dell’Unione europea.

    I ricercatori di Changing markets hanno quindi deciso di tracciare un bilancio e hanno inviato un questionario a 43 brand (compresi i 39 già presi in esame in “Dressed to kill”) per verificare se avessero interrotto i rapporti con Reliance ed Hengli. Appena 18 hanno risposto alle domande e solo due aziende (Esprit e G Star Raw) hanno dichiarato di aver tagliato i ponti con i due produttori. Una terza (Hugo Boss) si è impegnata a eliminare gradualmente il poliestere e il nylon: “Le altre rimangono in silenzio o minimizzano l’urgenza della crisi ucraina con vaghe promesse di cambiamento a diversi anni di distanza o con false soluzioni, come il passaggio al poliestere riciclato, per lo più da bottiglie di plastica”, si legge nel report.

    Tre società (H&M, C&A e Inditex) hanno risposto al questionario “distogliendo l’attenzione” dal legame con il petrolio russo per enfatizzare future strategie di transizione dal poliestere vergine a quello riciclato (da bottiglie di plastica) o verso materiali di nuova generazione. H&M ad esempio ha dichiarato la propria intenzione di non approvvigionarsi più di poliestere vergine entro il 2025 “tuttavia non ha chiarito le sue attuali pratiche per quanto riguarda i fornitori di poliestere legati al petrolio russo”. Analogamente, la catena olandese C&A afferma di volersi concentrare su materiali riciclati e di nuova generazione senza fornire informazioni sui legami con i fornitori oggetto dell’inchiesta. Nemmeno la spagnola Inditex ha risposto alle domande in merito a Reliance ed Hengli. Anche l’italiana Benetton avrebbe fornito risposte insufficienti o generiche: “Si è impegnata vagamente a una transizione verso materiali ‘preferiti’ -scrivono gli autori dell’inchiesta-, senza specificare però l’approccio ai materiali sintetici”.

    Tra quanti non hanno risposto al questionario c’è proprio Shein ma i suoi legami con il produttore indiano di poliestere sono evidenti: a maggio 2023 infatti le due società hanno sottoscritto un accordo in base al quale il colosso può utilizzare le capacità di approvvigionamento, l’infrastruttura logistica e l’ampia rete di negozi fisici e online di Reliance Retail, segnando così il ritorno di Shein in India dopo una pausa di tre anni. “Poiché il poliestere rappresenta il 64% del mix di materiali del brand e il 95,2% dell’abbigliamento di contiene plastica vergine, l’imminente collaborazione con Reliance suggerisce che una parte significativa delle circa 10mila novità giornaliere di Shein potrebbe in futuro essere derivata da prodotti di plastica vergine prodotti grazie a petrolio russo”, conclude il report.

    https://altreconomia.it/i-grandi-marchi-della-fast-fashion-non-vogliono-rinunciare-al-petrolio-

    #Russie #pétrole #fast-fashion #mode #polyester #rapport #textile #industrie_textile #industrie_de_la_mode

    • Fossil Fashion

      Today’s fashion industry has become synonymous with overconsumption, a snowballing waste crisis, widespread pollution and the exploitation of workers in global supply chains. What is less well known is that the insatiable fast fashion business model is enabled by cheap synthetic fibres, which are produced from fossil fuels, mostly oil and gas. Polyester, the darling of the fast fashion industry, is found in over half of all textiles and production is projected to skyrocket in the future. Our campaign exposes the clear correlation between the growth of synthetic fibres and the fast fashion industry – one cannot exist without the other. The campaign calls for prompt, radical legislative action to slow-down the fashion industry and decouple it from fossil fuels.

      Crude Couture: Fashion brands’ continued links to Russian oil

      December 2023

      Last year, our groundbreaking ‘Dressed to Kill’ investigation delved deep into polyester supply chains, unveiling hidden ties between major global fashion brands and Russian oil. We exposed Russia’s pivotal role as a primary oil supplier for key polyester producers India’s Reliance Industries and China’s Hengli Group, which were found to be supplying fibre for the apparel production of numerous fashion brands.

      Now, a year later, we returned to the fashion companies to evaluate if they have severed ties with these suppliers. Shockingly, our latest report reveals an alarming trend: the two leading polyester producers are increasingly reliant on war-tainted Russian oil in 2023. Despite prior warnings about these ties, major fashion brands continue to turn a blind eye, profiting from cheap synthetics, while Ukraine suffers. Only two companies – Esprit and G Star Raw – said they cut ties with the two polyester producers, while Hugo Boss committed to phase out polyester and nylon. The others remain silent or downplay the urgency of the Ukrainian crisis with vague promises of change several years ahead or with false solutions, such as switching to recycled polyester – mostly from plastic bottles. This investigation sheds light on the fashion industry’s persistent dependance on fossil fuel and their lack of action when it comes to climate change and fossil fuel phase out.

      https://changingmarkets.org/portfolio/fossil-fashion

  • Fin de grève amère dans les usines textiles du Bangladesh
    https://www.lemonde.fr/economie/article/2023/11/17/fin-de-greve-amere-dans-les-usines-textiles-du-bangladesh_6200798_3234.html


    Des #ouvriers textiles bangladais retournent travailler dans leur usine à Ashulia, au nord de Dhaka (?), le 15 novembre 2023. MUNIR UZ ZAMAN / AFP

    Le mouvement de revendication pour de meilleurs salaires, qui a mis l’industrie textile à l’arrêt pendant trois semaines, n’a pas eu gain de cause. Presque aucun donneur d’ordre occidental n’a incité ses fournisseurs à payer décemment les ouvriers.

    Les ouvriers des usines textiles du Bangladesh n’ont pas eu gain de cause. Après trois semaines de #grève, de manifestations et de heurts avec la police, ceux qui fabriquent les vêtements #Levi’s, #Zara et autres H&M ont repris le travail, mercredi 15 novembre, sans obtenir le quasi-triplement de leurs salaires demandé.
    Le comité du #salaire minimum du secteur textile a décidé d’augmenter la rémunération de base de 56 %, la portant à 12 500 takas, soit 104 euros, mardi 8 novembre. Un montant que les syndicats jugent « ridicule » au regard des 23 000 takas, soit environ 190 euros, revendiqués.
    Sheikh Hasina, la première ministre du pays qui briguera un cinquième mandat lors des élections générales, le 7 janvier 2024, a refusé toute nouvelle hausse du salaire minimum et intimé les ouvriers de reprendre le travail sous peine de perdre leur emploi et d’avoir « à retourner dans leurs villages ».

    Troisième plus gros fournisseur mondial

    De fait, « c’est par obligation financière et sous la pression du gouvernement et la menace des autorités policières, y compris physiques, que les ouvriers grévistes ont repris le travail », observe Christie Miedema, coordinatrice de Clean Clothes Campaign, une fédération d’organisations non gouvernementales qui militent pour le respect des droits humains.
    « La situation ressemble à celle d’il y a cinq ans », déplore Mme Miedema. En 2018, le salaire minimum dans ce secteur, qui emploie quatre millions de personnes, avait été révisé à 8 000 takas, soit 65 euros, pour cinq ans. Depuis, le secteur a traversé la crise du Covid-19 et essuyé l’inflation galopante, de l’ordre de 35 % depuis 2019.

    A l’été 2023, pour la première fois, le gouvernement a monté un comité pour déterminer un #salaire_minimum applicable dans le secteur du #prêt-à-porter au 1er décembre, sans attendre l’échéance de 2024. Toutefois, aucun des syndicats représentatifs du personnel de cette puissante industrie n’y siège. A l’évidence, le patronat local rechigne à augmenter les salaires de peur de dégrader la compétitivité d’un secteur qui représente 85 % des 55 milliards d’euros d’exportations annuelles du pays. Grâce à un réseau de 3 500 usines, le secteur est connu pour être l’un des moins chers au monde : le pays est le troisième fournisseur de vêtements, derrière la Chine et le Vietnam.

    Quatre morts à Dacca

    Dix ans après l’effondrement de l’immeuble du Rana Plaza à Dacca, tuant plus de 1 100 ouvriers textiles, les conditions de travail n’ont guère évolué. En outre, le #Bangladesh est toujours dans la ligne de mire des ONG qui y dénoncent les atteintes au droit syndical. En juin dernier, Luc Triangle, secrétaire général de la Confédération syndicale internationale, a condamné le meurtre de Shahidul Islam Shahid, responsable syndical de la Fédération des travailleurs de l’industrie et des usines textiles du Bangladesh, « battu à mort » par un gang après avoir assisté à une réunion syndicale. « Cet assassinat s’inscrit dans un contexte d’attaques ciblées contre les leaders syndicaux au Bangladesh et aura un effet dissuasif sur le mouvement ouvrier déjà très restreint », avait alors réagi l’ONG américaine Human Rights Watch.

    Les manifestations de l’automne ont aussi été très violentes pour les grévistes, notamment à Dacca. Au moins quatre ouvriers ont été tués lors des manifestations, dont trois ont été abattus par les forces de l’ordre, d’après l’AFP. Quelque 140 ouvriers et plusieurs dirigeants syndicaux ont été arrêtés, et environ 10 000 travailleurs font l’objet de poursuites pour violences, selon la police, précise aussi l’agence d’informations.

    Mercredi 15 novembre, le principal dirigeant syndical, Babul Akhter, a demandé au gouvernement de « libérer tous les ouvriers arrêtés », avant d’appeler à reprendre le travail, tout en maintenant ses revendications. « Nous n’avons pas dévié de notre revendication d’un salaire minimum de 23 000 takas », a-t-il déclaré à l’AFP. « La colère des ouvriers a été alimentée par la hausse du coût de la vie, avec des denrées de base qui sont devenues inabordables, affirme Taslima Akhter, membre du mouvement d’ouvriers Bangladesh Garment Workers Solidarity, mais la violence s’exprime d’autant plus facilement que les syndicats ne sont autorisés que sur le papier et sont contrôlés par les propriétaires d’usines. »

    Les marques occidentales « responsables »

    De son côté, le patronat bangladais pointe le rôle ambivalent des #donneurs_d’ordre. L’Association des fabricants et des exportateurs de vêtements du Bangladesh a notamment estimé que le niveau de salaire pratiqué dans leurs usines découlait des prix imposés par leurs clients, dont surtout des #marques occidentales. « Elles sont autant responsables de la hausse des salaires que les fabricants bangladais », déclare au Monde Miran Ali, son vice-président. Selon lui, il n’est pas acceptable que ces donneurs d’ordre « prennent publiquement position en faveur d’une hausse des salaires et, en privé, refusent d’absorber cette hausse de coûts » en relevant leurs prix d’achat.
    De fait, rares sont les marques à avoir répondu aux appels de soutien des revendications salariales. L’association Clean Clothes Campaign avait notamment interpellé une douzaine d’entre elles, dont #H&M et #C&A, qui fabriquent leurs collections à moindre prix au Bangladesh. Mais seule Patagonia a répondu, observe Mme Miedema. La marque de sport américaine a rejoint l’association Fair Labor pour appeler Dacca à porter le salaire minimum à 23 000 takas. « Les autres fabricants sont moins explicites, voire totalement muets », pointe Mme Miedema. En septembre, Human Rights Watch constatait que la question de la liberté d’expression était « à peine abordée » dans la plupart des rapports d’audit sociaux commandés par les grandes marques d’habillement.
    En France, #Carrefour se contente de rappeler avoir « pris position le 13 septembre en faveur d’une revalorisation du salaire minimum des travailleurs des usines textiles ». En Espagne, #Inditex est aussi fort prudent. Le numéro un mondial de l’habillement refuse de commenter les événements récents et renvoie à ses déclarations de septembre. Il exprimait alors toute sa confiance envers le comité du salaire minimum du secteur textile afin « d’établir un salaire minimum au Bangladesh qui couvre le coût de la vie des ouvriers et de leurs familles ».

    Il n’en a rien été, estiment nombre d’ONG, dont la Fair Wear Foundation. L’association, qui travaille avec des marques, des usines et des syndicats pour améliorer les conditions de travail des employés dans l’industrie textile, fait partie des 2 500 signataires d’une lettre envoyée le 16 novembre à la première ministre pour exprimer « leur inquiétude » et l’inviter « à revoir sa décision » puisque, prévient-elle, le nouveau salaire minimum « ne couvre pas les besoins fondamentaux » des ouvriers textiles du Bangladesh.

    #textile #mode

  • Un exemple à généraliser :

    Les vendeuses d’#Inditex (#Zara) […] viennent d’obtenir une #augmentation_de_salaire de 20 % en moyenne (jusqu’à 40 % parfois), à l’issue de plusieurs semaines d’un mouvement de #grèves et de mobilisation inédit dans un groupe plutôt connu pour sa tranquillité sociale. […]

    C’est une victoire de celles qu’au sein du #groupe_Inditex, on appelle souvent, avec une sorte de #paternalisme affectueux, « #Las_niñas », les gamines. Une terme qui désigne les vendeuses comme d’éternelles mineures, la dernière roue du carrosse Inditex, le groupe espagnol qui avait été lancé dans les années 1960 par #Amancio_Ortega - un autodidacte visionnaire devenu aujourd’hui l’un des hommes les plus riches du monde.

    Le mouvement de protestation qui avait démarré en #Galice, la région d’origine d’Inditex, à la pointe ouest de l’#Espagne, a donc remporté la manche. Il avait été fortement poussé par le syndicat local #CIG, qui pointait à la fois les salaires et la précarité des contrats parmi le personnel de magasin, très largement féminin et moins bien considéré au sein du groupe que les collègues de secteurs plus masculinisés.

    (Les Échos)

    #prêt-à-porter #lutte_de_classe

    • Zara : une mobilisation victorieuse http://www.lutte-ouvriere.org/breves/zara-une-mobilisation-victorieuse-499803.html

      En Espagne, la direction d’Inditex a accordé des augmentations de salaire de l’ordre de 20 % en moyenne selon les régions. Inditex est le géant du prêt-à-porter qui possède Zara, entre autres marques. Le groupe emploie plus de 165 000 travailleurs dans le monde dont 46 000 en Espagne.

      Les travailleuses, en majorité des vendeuses, se mobilisaient depuis des mois, multipliant les journées de grèves et les manifestations devant les magasins. Leurs salaires sont particulièrement bas. Beaucoup de vendeuses gagnent moins de 1 400 € par mois et la hausse des prix, officiellement à plus 8 % sur l’année, a fait dégringoler leur niveau de vie. Cette lutte des travailleuses de Zara est un exemple à suivre !

  • Travail forcé des #Ouïgours : une enquête ouverte en France contre des géants du textile, dont Uniqlo et Zara
    https://www.nouvelobs.com/justice/20210701.OBS46003/travail-force-des-ouigours-une-enquete-ouverte-en-france-contre-des-geant

    Le parquet national antiterroriste (PNAT) a ouvert fin juin une enquête pour « recel de crimes contre l’humanité » visant quatre géants du textile, dont Inditex et Uniqlo, accusés d’avoir profité du travail forcé d’Ouïgours en Chine, a indiqué une source judiciaire ce jeudi 1er juillet à l’AFP, confirmant une information de Mediapart.

    • Ouïghours : une enquête ouverte en France contre Uniqlo et des géants du textile pour recel de crimes contre l’humanité
      1 juillet 2021 Par François Bougon
      https://www.mediapart.fr/journal/international/010721/ouighours-une-enquete-ouverte-en-france-contre-uniqlo-et-des-geants-du-tex

      Une enquête pour recel de crimes contre l’humanité a été ouverte fin juin à Paris à la suite d’une plainte déposée deux mois auparavant contre Uniqlo et trois autres géants du textile par trois ONG (le collectif Éthique sur l’étiquette, l’association Sherpa et l’Institut ouïghour d’Europe) et une rescapée ouïghoure.

      Pour la première fois, la justice française se saisit d’un dossier lié à la répression impitoyable des minorités ethniques turcophones, notamment les Ouïghours, au Xinjiang, dans le nord-ouest de la Chine, par le régime chinois. Une enquête a été ouverte fin juin à Paris pour recel de crimes contre l’humanité à la suite d’une plainte déposée deux mois auparavant par trois ONG (le collectif Éthique sur l’étiquette, l’association Sherpa et l’Institut ouïghour d’Europe) et une rescapée ouïghoure, a-t-on appris de source judiciaire.

      Cette action ne vise pas directement les autorités de la République populaire de Chine – « Il semble actuellement peu probable que les dirigeants chinois puissent être renvoyés devant une juridiction répression pour répondre de leurs actes », reconnaît le texte de la plainte –, mais les multinationales aux marques connues qui sont accusées de profiter du système de répression mis en place par Pékin dans cette région stratégique proche de l’Asie centrale : en l’occurrence trois géants du textile – le groupe espagnol Inditex, propriétaire de la marque Zara, le japonais Uniqlo et le français SMCP (Sandro, Maje, Claudie Pierlot et De Fursac) – et le fabricant américain de chaussures de sport Skechers.

      Pour les plaignants, ces grandes entreprises, qui se sont pourtant dotées ces dernières années de comités d’éthique chargés de veiller aux bonnes pratiques parmi leurs sous-traitants, profitent malgré tout du travail forcé des Ouïghours et des autres minorités turcophones (kazakhes et kirghizes) en commercialisant des produits dans des usines y ayant recours.

      Manifestation de solidarité avec les Ouïghours devant l’ambassade de Chine à Paris en juillet 2020. © Noémie Coissac/Hans Lucas/AFP Manifestation de solidarité avec les Ouïghours devant l’ambassade de Chine à Paris en juillet 2020. © Noémie Coissac/Hans Lucas/AFP

      Ils avaient porté plainte à la fois pour recel du crime de réduction en servitude aggravée, recel du crime de traite des êtres humains en bande organisée, recel du crime de génocide et recel de crime contre l’humanité, mais seul ce dernier chef a été retenu par le parquet. L’enquête a été confiée au pôle spécialisé du tribunal de Paris dans la lutte contre les crimes contre l’humanité qui dépend du Parquet national antiterroriste (PNAT) et a une compétence universelle.

      « C’est une très bonne nouvelle, d’autant plus que le collectif parlementaire de solidarité avec les Ouïghours vient de déposer une proposition de résolution pour la reconnaissance du génocide au Xinjiang par la France. Cela ne peut que renforcer nos demandes et nos démarches », a déclaré à Mediapart Dilnur Reyhan, présidente de l’Institut Ouïghour d’Europe.
      « Un moment historique »

      Interrogé par Mediapart, l’avocat William Bourdon, à l’origine de la plainte, estime que « l’ouverture de cette enquête va faire tomber les masques sur le cynisme des grandes enseignes de textiles qui communiquent à tour de bras sur leurs engagements éthiques et s’accommodent de s’enrichir, en connaissance de cause, au prix des pires crimes commis à l’encontre des communautés ouïghoures ».

      « L’ouverture d’une enquête pour recel de crime contre l’humanité est une première, elle ouvre une porte pour l’avenir essentielle afin de mettre un terme à une culture de duplicité qui reste encore trop familière pour les grandes entreprises multinationales », a-t-il poursuivi.

      Pour sa part, Sherpa, par la voix de sa directrice Sandra Cossart, « se réjouit de l’ouverture d’une enquête préliminaire pour recel de crime contre l’humanité, qui témoigne de l’implication potentielle des acteurs économiques dans la commission des crimes les plus graves afin d’augmenter leurs marges bénéficiaires ».

      « Cela démontre que le travail innovant de Sherpa, qui aboutit ici pour la première fois à l’ouverture d’une enquête pour “recel de crimes contre l’humanité” contre des multinationales, permet de faire bouger les lignes du droit afin de lutter contre l’impunité des acteurs économiques, poursuit-elle. Il importe néanmoins de ne pas se limiter aux quelques acteurs ciblés ici : un système de dispositions légales rend possible chaque jour ces pratiques, c’est ce système qu’il faut combattre. »

      De son côté, l’eurodéputé Raphaël Glucksmann, au premier rang dans le combat pour la reconnaissance du génocide au Xinjiang, tout en évoquant « un moment historique », juge qu’il s’agit d’« un message extrêmement puissant envoyé à ces multinationales ».
      Tensions à venir

      Récemment, en dévoilant un rapport de son organisation sur les crimes exercés au Xinjiang, la secrétaire générale d’Amnesty International, Agnès Callamard, avait dénoncé l’apathie de la communauté internationale et des instances des Nations unies. Elle avait appelé la communauté internationale à « s’exprimer et agir à l’unisson pour que cessent ces atrocités, une fois pour toutes » et à une enquête indépendante des Nations unies.

      Des ONG dénoncent l’internement par Pékin depuis 2017 de plus d’un million de personnes au Xinjiang dans des centres de rééducation politique. Le régime communiste dément ce chiffre, évoque des « centres de formation professionnelle » aux fins de déradicalisation.

      Alors que la Chine célèbre avec faste le centenaire du Parti communiste (voir ici le spectacle donné lundi soir dans le Stade olympique en présence du secrétaire général Xi Jinping et là le grand rassemblement jeudi sur la place Tiananmen), l’annonce de l’ouverture de cette enquête ne manquera pas de provoquer de nouvelles tensions avec Pékin, qui réfute en particulier les accusations de génocide, portées par exemple par Washington et d’autres capitales occidentales (pas par Paris).

      En mars, la Chine avait imposé des sanctions à dix responsables politiques européens – dont cinq eurodéputés, dont Raphaël Glucksmann –, ainsi qu’à l’encontre de centres de réflexion et d’organes diplomatiques, en représailles à celles imposées par les Occidentaux aux hauts dirigeants chinois accusés de violations des droits de l’homme au Xinjiang.
      Lire aussi

      Amnesty dénonce des crimes contre l’humanité contre les musulmans du nord-ouest de la Chine Par François Bougon
      Gulbahar Jalilova, rescapée ouïghoure : « Nous ne sommes pas des êtres humains pour eux » Par Rachida El Azzouzi

      Par la suite, le Parlement européen avait voté une résolution suspendant la ratification d’un accord encadrant les investissements avec la Chine conclu en décembre tant que Pékin n’aura pas levé ces mesures de rétorsion.

      Une cinquantaine de députés français, parmi lesquels Frédérique Dumas et Aurélien Taché, ont déposé le 17 juin une proposition de résolution afin que la France reconnaisse le génocide au Xinjiang, comme l’ont fait le gouvernement des États‑Unis, les Parlements britannique, néerlandais et canadien.

      « Des procédures similaires sont en cours dans d’autres États (Belgique, Allemagne, Lituanie et Nouvelle‑Zélande). Quant à elle, la France a dénoncé un “système de répression institutionnalisé” en février 2021 et a engagé des réflexions sur l’emploi du terme de “génocide”, sans toutefois reconnaître ni condamner ce crime en tant que tel », expliquent-ils. Lors d’une conférence de presse mardi, Alain David, du groupe socialiste et membre de la commission des affaires étrangères, a espéré pouvoir la présenter au vote à l’automne.
      Devoir de vigilance

      Parallèlement au combat des ONG, des députés européens ont poussé pour l’adoption d’un cadre législatif plus sévère pour encadrer les pratiques des multinationales et de leurs sous-traitants, en particulier dans le secteur textile. Une loi a été adoptée en 2017 en France mais son champ d’action reste limité.

      En mars a été adopté par le Parlement européen à une très large majorité un projet d’initiative sur le devoir de vigilance, qui pourrait servir de base à une proposition de directive que la Commission doit présenter à l’automne.

      Les eurodéputés souhaitent contraindre les entreprises à « identifier, traiter et corriger » toutes les opérations, y compris dans leurs filières, qui pourraient porter préjudice aux droits humains, à l’environnement ou encore à la « bonne gouvernance » (corruption, pots-de-vin). Ils proposent aussi l’interdiction dans l’UE de produits liés à de graves violations des droits humains, comme le travail forcé ou des enfants.

      « L’ouverture de l’enquête [par la justice française – ndlr] est dans le droit-fil du combat que l’on mène au Parlement européen sur le devoir de vigilance », a souligné Raphaël Glucksmann auprès de Mediapart.

      Cependant, Total, Bayer ou des géants du textile à l’instar d’Inditex (Zara) ne manquent pas d’investir à fond dans le lobbying à Bruxelles, dans l’espoir d’assouplir le texte (lire ici). Business first…

  • Vague de répression dans le secteur #Textile au #Bangladesh
    http://multinationales.org/Vague-de-repression-dans-le-secteur-textile-au-Bangladesh

    Plusieurs milliers d’ouvriers et d’ouvrières travaillant dans les ateliers textiles de la banlieue de Dhaka ont été congédiés suite à un #mouvement_social pour réclamer une hausse de leurs #salaires. Les multinationales européennes et nord-américaines qui s’approvisionnent au Bangladesh restent largement silencieuses. Entre 1500 et 3500 ouvriers et ouvrières textiles bangladeshi ont été renvoyés du jour au lendemain des ateliers où ils travaillaient, suite à une semaine de manifestations et de blocages (...)

    Actualités

    / #Textile, Bangladesh, #Gap, #Inditex, H&M, #Libertés_syndicales, Textile, salaires, #responsabilité_sociale_des_entreprises, mouvement social, droits des (...)

    #H&M #droits_des_travailleurs
    « http://www.bangladeshworkersafety.org »

  • #Textile : les ouvrières asiatiques en lutte pour un salaire vital
    http://multinationales.org/Textile-les-ouvrieres-asiatiques

    Alors que les manifestations se multiplient au #Cambodge et au #Bangladesh, le collectif Éthique sur l’étiquette lance en France sa campagne « Soldées », qui vise à sensibiliser l’opinion sur les #salaires de misère offerts aux ouvrières textiles en Asie. La conjonction entre les luttes sociales des ouvrières asiatiques et la pression des consommateurs occidentaux peut-elle briser la logique de moins-disant social et salarial qui gouverne depuis des décennies le développement du secteur #Textile (...)

    #Enquêtes

    / Cambodge, Bangladesh, Textile, H&M, #Gap, #Zara, Kering (ex PPR), #Inditex, H&M, #Puma, #Puma, Textile, #Libertés_syndicales, salaires, #syndicats, #chaîne_d'approvisionnement, #femmes, #conditions_de_travail, #campagne_citoyenne, responsabilité sociale des (...)

    #H&M #Kering_ex_PPR_ #responsabilité_sociale_des_entreprises
    « http://www.ethique-sur-etiquette.org/-Salaire-vital- »
    « http://www.ituc-csi.org/les-syndicats-et-les-marques-font »
    « http://www.theguardian.com/business/2014/sep/21/fashion-retailers-offer-raise-minimum-wage-cambodia »
    « http://www.ipsnews.net/2014/02/poverty-wages-unraveling-cambodias-garment-industry »
    « http://www.phnompenhpost.com/business/hm-exec-talks-cambodia-vision »
    « https://www.flickr.com/photos/andrevanderstouwe/5983087704

    Flickr
     »
    « http://webdoc.france24.com/cambodge/textile/index.html »
    « http://www.lemonde.fr/economie/article/2013/11/13/au-cambodge-la-revolte-des-ouvrieres-du-textile-s-ete_3512849_3234.html »
    « http://www.triplepundit.com/2014/09/hm-others-commit-living-wages-cambodia-wake-new-protests »
    « http://www.industriall-union.org/fr/des-marques-pretes-a-integrer-de-meilleurs-salaires-au-cambodge »

  • En #Europe de l’Est aussi, l’industrie #Textile paie des #salaires de misère
    http://multinationales.org/En-Europe-de-l-Est-aussi-l

    Depuis la catastrophe du Rana Plaza au Bangladesh, l’opinion publique internationale est un peu plus informée sur les #conditions_de_travail des ouvriers et ouvrières du secteur #Textile en Asie. Ces ouvriers fabriquent les vêtements commercialisés par les grandes marques occidentales pour un salaire minimal, équivalent à quelques dizaines d’euros par mois. Mais contrairement aux idées reçues, les salaires perçus par leurs collègues d’Europe de l’Est ou de #Turquie, qui travaillent pour les mêmes marques, (...)

    Actualités

    / #Roumanie, Europe, #Bulgarie, #Ukraine, Turquie, Textile, Textile, #Croatie, #union_européenne, salaires, #droits_des_travailleurs, conditions de travail, #Clean_Clothes Campaign / Éthique sur l’étiquette, #Adidas, #Inditex, H&M, #Adidas, #Benetton, H&M, #Zara, Clean (...)

    #Clean_Clothes_Campaign_/_Éthique_sur_l'étiquette #H&M
    « http://www.cleanclothes.org/livingwage/stitched-up »
    « http://www.ethique-sur-etiquette.org/-Vivre-de-son-travail-c-est-vital- »
    « http://www.cleanclothes.org/resources/publications/stitched-up-1 »

  • Optimisation fiscale : enquête sur les pratiques d’Inditex (Zara)
    http://multinationales.org/Optimisation-fiscale-enquete-sur

    La firme espagnole #Inditex (Zara) est devenue en quelques années le numéro un mondial des chaînes de prêt-à-porter. Parmi les clés de cette réussite, des pratiques sophistiquées d’optimisation fiscale qui lui permettent d’afficher un taux de rentabilité supérieur à 15%. Comme les géants de l’internet (Apple, Amazon, Google) et de la restauration (McDonald’s, Starbucks), les grands groupes textiles comme Inditex recourent à des circuits financiers opaques pour abriter leurs profits dans les pays à fiscalité (...)

    #Actualités

    / #Espagne, #Suisse, #Pays-Bas, #Bloomberg, #Textile, Inditex, #Zara, #Textile, #Paradis_fiscaux, #propriété_intellectuelle, fiscalité, #évasion_fiscale, #financiarisation, (...)

    #fiscalité #transparence
    « http://www.bloomberg.com/news/2014-02-26/ortega-s-zara-fashions-tax-avoidance-by-shifting-profits-to-alps.html »
    « http://www.bloomberg.com/infographics/2014-02-26/inditex-shifts-profits-to-reduce-taxes.html »