• La guerra in Ucraina, l’Occidente e noi, Maurizio Lazzarato
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    In questo articolo Maurizio Lazzarato propone una riflessione sulle cause che hanno provocato l’attuale Guerra in Ucraina, partendo da un’analisi delle più importanti rivoluzioni del XX secolo, durante le quali si sono riconfigurati i rapporti di forza tra Occidente e Oriente, tra Nord e Sud del Mondo. Secondo Lazzarato proprio la mancata analisi di quelle rivoluzioni ha fatto si che, dopo il crollo del Muro di Berlino, non siano stati sufficientemente compresi i nuovi assetti strategici e, di conseguenza, che non si sia intravisto il pericolo di nuove inevitabili guerre, come quella scoppiata proprio in Ucraina.

    “La catastrofe è la condizione di vita e il modo normale di esistenza del capitale nella sua fase finale”.

    Rosa Luxemburg (1913)

    Le parole d‘ordine «No alla guerra», «Pace», «né con Putin, né con Biden» sembrano deboli e impotenti se non trovano la loro forza in un «contro Putin e contro Biden». L’opposizione alla guerra deve fondarsi su una feroce lotta contro le diverse forme di capitalismo e sovranità in lizza tra loro, tutte capaci di dominio, sfruttamento e guerra.

    L’appello dei partiti socialisti alla conferenza internazionale di Zimmerwald del 1915 ci ricorda una verità molto semplice, sebbene attivamente dimenticata. La guerra «nasce dalla volontà delle classi capitaliste di ogni nazione di vivere dello sfruttamento del lavoro umano e delle ricchezze naturali dell’Universo» – per cui il nemico principale è, o è anche, nel nostro stesso paese.

    Siamo sorpresi, siamo disorientati, come se questa guerra fosse una novità arrivata come un fulmine nel cielo sereno della pace. Eppure, da quando il Dipartimento di Stato nel 1989 ha annunciato la fine della storia, la pace e la prosperità sotto la benevolenza dello Zio Sam, il Pentagono e l’esercito degli Stati Uniti si sono impegnati in una serie impressionante di «missioni umanitarie per la fratellanza tra i popoli»:

    Panama 1989

    Iraq 1991

    Kuwait 1991

    Somalia 1993

    Bosnia 1994-1995

    Sudan 1998

    Afghanistan 1999

    Yemen 2002

    Iraq 1991-2003

    Iraq 2003-2015

    Afghanistan 2001-2015/2021

    Pakistan 2007-2015

    Somalia 2007/8, 2011

    Yemen 2009-2011

    Libia 2011, 2015

    Siria 2014-2015

    Senza competere con un tale palmares, dopo che la Cecenia e la sua guerra di sterminio passò (con la complicità dell’Occidente) attraverso il filtro del terrorismo come principale nemico dell’umanità, è la Russia che ha preso il sopravvento per annientare ogni traccia della primavera siriana e salvare il regime di Assad, mentre persegue «operazioni militari speciali» nella sua area di influenza (Georgia, Moldova, Ucraina, ecc.).

    Ma le guerre tra potenze non esistono senza il proseguimento delle guerre di classe, delle guerre razziali e delle guerre contro le donne che ogni Stato conduce per proprio conto.

    Il fatto è che i movimenti politici contemporanei si sono completamente separati dalla tradizione che poneva al centro del dibattito e dell’azione politica le questioni della guerra e della rivoluzione. Tanto che ci si può chiedere se la più grande vittoria della controrivoluzione non sia stata quella di farci credere che queste questioni fossero da mettere in soffitta per sempre, mentre fin tanto che regneranno capitalismo e Stato saranno sempre d’attualità.

    Come siamo arrivati a questo?

    Per capire la guerra in corso, bisogna risalire alla caduta del muro di Berlino e spiegare i cambiamenti strategici che, all’epoca, non sono stati realmente compresi, per mancanza di un’analisi delle rivoluzioni del XX secolo.

    Gli occidentali rappresentano il più grande pericolo per la pace nel mondo perché sono ben consapevoli del doppio declino che li minaccia: quello dell’Europa, a partire dalla prima guerra mondiale e quello degli USA, a partire dalla fine degli anni Sessanta. Essi producono incessantemente disordine politico ed economico, diffondono il caos e la guerra perché, inoltre, si sono pesantemente ingannati sulla nuova fase politica aperta dal crollo dell’Unione Sovietica.

    Gli occidentali (e soprattutto i governi americani con tutto l’establishment industriale, finanziario, la burocrazia armata del pentagono ecc., da distinguere dal popolo americano diviso da una latente guerra civile in corso!) erano convinti di aver trionfato, mentre avevano perso, anche se in modo diverso dai sovietici. Questo è un punto molto importante che spiega tutte le scelte catastrofiche che hanno compiuto in trent’anni, compresa quella dell’allargamento della Nato verso la Russia, all’origine della guerra in Ucraina, che non sarà certo l’ultima.

    Scriveva in questi giorni Alberto Negri: «Eppure gli Usa erano stati avvertiti da George Kennan, artefice della politica di contenimento dell’Unione Sovietica nel 1997: “L’allargamento della Nato è il più grave errore della politica americana dalla fine della guerra fredda […] questa decisione spingerà la politica estera russa in direzione contraria a quella che vogliamo”».

    Per capire perché gli americani continuano a fare scelte catastrofiche, portandoci dritti al disastro, dobbiamo tornare al XX secolo, perché esso non è stato né «breve» (Hobsbawn) né «lungo» (Arrighi) ma il secolo delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni, le più importanti delle quali, quelle che hanno configurato la nostra attualità, sono avvenute nel sud del mondo.

    Per gli occidentali, l’economia di mercato e la democrazia avevano vinto la battaglia di «civiltà» del XX secolo. Non restava che capitalizzare la vittoria imponendo il «neoliberismo» e i diritti umani in tutto il mondo. In realtà, il XX secolo è stato il secolo della «rivolta contro l’Occidente», il secolo delle guerre contro il suo imperialismo, il secolo delle guerre civili mondiali (e non solo europee) che sono continuate dopo la seconda guerra mondiale. Ed è da qui che bisogna partire per capire qualcosa della situazione contemporanea.

    Gli occidentali concentrati sullo scontro Est/Ovest non hanno compreso che le guerre anticoloniali, in meno di un secolo, stavano rovesciando gli equilibri di potere tra Nord e Sud. I «popoli oppressi» avevano attaccato la divisione economica e politica tra centro e periferia che dal 1492 governava il funzionamento del capitalismo. Il potere europeo si basava sulla separazione del proletariato mondiale, tra i lavoratori che fornivano lavoro astratto al nord e i proletari, i contadini, le donne, gli schiavizzati, i servi ecc. che garantivano un lavoro svalorizzato, gratuito o mal pagato al sud e un lavoro domestico gratuito sia al nord che al sud.

    Il grande merito della rivoluzione bolscevica è stato di aprire la strada alla rivoluzione dei «popoli oppressi», che cambierà radicalmente i rapporti di forza sul «mercato mondiale». E tuttavia gli Stati Uniti avevano condotto un’aspra guerra politica ed economica contro il sud (all’epoca «Terzo Mondo») dopo la seconda guerra mondiale. Sono effettivamente riusciti a sconfiggere la rivoluzione mondiale, ma questa ha sedimentato dei cambiamenti così radicali nell’organizzazione del mercato mondiale e nelle società liberate dall’imperialismo, che le rivoluzioni anticoloniali, pur avendo abbandonato il progetto comunista o socialista, sono all’origine della distribuzione contemporanea del potere politico e dello spostamento dei centri del capitalismo dal nord al sud e all’est del mondo.

    La grande novità non è da ricercare nella rivoluzione digitale, nel capitalismo cognitivo, nella biopolitica, nella bioeconomia ecc. (tutti questi concetti riflettono un ristretto punto di vista eurocentrico) ma in questo cambiamento dei rapporti tra forze economiche e politiche su scala mondiale. La riconfigurazione del capitalismo non ha avuto luogo principalmente al Nord, ma nel Sud del mondo, come ora appare sempre più evidente.

    Per Giovanni Arrighi, il cuore dell’antagonismo della seconda metà del Novecento «non è altro che la lotta di potere durante la quale il governo americano cercò di contenere, con l’uso della forza, il doppio fronte della sfida che rappresentavano il comunismo e il nazionalismo nel Terzo Mondo».

    Solo tra gli operaisti ad aver compreso le rivoluzioni del Novecento, Arrighi dimostra che la controrivoluzione monetaria, iniziata con la dichiarazione dell’inconvertibilità del dollaro (1971), costituisce una risposta diretta alla più importante guerra anticoloniale dopo la seconda guerra mondiale, quella che ha dato l’indicazione della mobilitazione generale contro l’imperialismo a tutti i paesi del sud. «Dobbiamo fare come Dien Ben Phu», proclamava Fanon dall’Algeria ancora sotto l’occupazione francese.

    Mentre i marxisti europei collegavano la riorganizzazione capitalista esclusivamente alle lotte capitale-lavoro e alla concorrenza tra i capitalisti, Arrighi afferma che le politiche americane a cavallo degli anni Sessanta e Settanta miravano «a strappare ai vincoli monetari la lotta per il dominio che gli USA conducevano nel terzo mondo».

    I costi (esterni e interni) della guerra guidata dagli americani contro i Viet Cong «non solo hanno contribuito alla riduzione dei profitti, ma sono stati la causa fondamentale del crollo del sistema dei cambi fissi stabilito a Bretton Woods, e la conseguente forte svalutazione del dollaro USA».

    La colonia è «moderna» quanto la fabbrica di Manchester, fa parte della catena del valore come Detroit o Torino e si rivelerà il luogo più favorevole alla soggettivazione rivoluzionaria, mettendo così in crisi il centro a partire dalle periferie.

    «Come per la liquidazione della parità oro/dollaro, furono le guerre e le rivoluzioni nel sud, e non la concorrenza tra i capitalisti delle tre grandi economie mondiali, a essere il motore principale della controrivoluzione monetarista del 1979-1982».

    Lo stimolo più forte per liberare la moneta dai vincoli economici (l’oro) non viene dalla «crisi di profittabilità», ma dalla crisi di «egemonia statunitense nel Terzo Mondo». Le differenze tra nord e sud alla fine dell’Ottocento e alla fine del Novecento «sono più importanti di quelle dei rapporti tra lavoro e capitale».

    Anche nella prima metà del secolo, le cose essenziali sono accadute all’est e al sud, perché l’organizzazione delle rivoluzioni, che si affermeranno dopo la seconda guerra mondiale, si definisce e si consolida dopo i massacri della «grande guerra».

    Al cuore di queste lotte che hanno rovesciato alcuni secoli di dominio coloniale, i comunisti hanno avuto un ruolo fondamentale, perché sono riusciti a trasformare la «piccola guerra» di Clausewitz in guerre rivoluzionaria, in «guerra dei partigiani». Invenzione strategica, di una importanza paragonabile all’oblio di cui è stata l’oggetto da parte di coloro che vorrebbero cambiare il mondo, perché farà definitivamente cadere gli imperi europei e coloniali e determinerà uno sconvolgimento dell’ordine mondiale, che spiega anche quello che stiamo vivendo.

    Il grande conservatore Carl Schmitt (a suo tempo nazista e sempre anticomunista) ha il merito di riconoscere l’enorme energia e potenza politiche sviluppate dalle rivoluzioni anticoloniali, mentre il suo ammiratore, Mario Tronti, che l’ha introdotto nella sinistra italiana, esprime un’insopportabile condiscendenza per queste rivoluzioni «contadine».

    «L’irregolarità della “lotta di classe organizzata dalla lotta dei partigiani, articolata alle forme più classiche del combattimento condotto dalla Armata Rossa o dall’esercito del popolo “mette in discussione non soltanto una linea ma intera costruzione dell’ordinamento politico e sociale. […] l’alleanza della filosofia col partigiano, compiuta da Lenin, […] ha provocato nientemeno che il crollo del vecchio mondo eurocentrico, che Napoleone aveva sperato di salvare e il Congresso di Vienna di restaurare».

    Clausewitz, «ufficiale di professione di un esercito regolare, non avrebbe potuto sviluppare fino in fondo la logica insita nel partigiano come invece [era] in grado di fare Lenin […] la cui esistenza era sempre stata quella del rivoluzionario di professione. Ma il partigiano del bolscevismo russo è poca cosa – voglio dire nella sua realtà concreta – paragonato al partigiano cinese. Mao stesso ha creato il suo esercito di partigiani e la sua élite di partigiani».

    In una conversazione del 1969 con un maoista (Joachim Schickel), Carl Schmitt afferma che la dimensione globale della lotta è stata introdotta dalla guerra dei partigiani: «il problema del partigiano non è soltanto un problema internazione, ma anche globale».

    E aggiunge che, nel 1949, dopo la proclamazione della repubblica popolare cinese «si pensava di poter avere finalmente la pace mondiale, e meno di un anno dopo è cominciata la guerra di Corea», senza dimenticare Dien Bien Phu, l’Algeria, Cuba, ecc. situazione che definirà, nel 1961, contemporaneamente ad Hannah Arendt, «guerra civile mondiale».

    Ryamond Aron ha espresso lo stesso pregiudizio eurocentrico degli operaisti alla Tronti, quando scriveva a Schmitt «che il problema del partigiano era il problema dei popoli poveri» e senza industria, gravati dai ritardi tecnologici e organizzativi, potremmo aggiungere noi.

    Evocare la «guerra dei partigiani» non è una semplice commemorazione storica, perché essa continua, animata da altri «popoli poveri» e da altre forze politiche, riuscendo a sconfiggere gli imperialisti anche dopo la sconfitta del socialismo.

     

    Nuova distribuzione del potere sul mercato mondiale

    Alla uscita dalla Guerra fredda, questa potenza rivoluzionaria, trasformata in potenza produttiva neocapitalista, contenuta e diretta da uno Stato sovrano, il cui miglior esempio è la Cina, si impone rapidamente. Alla fine della rivoluzione culturale i «marxisti» riformisti convertono l’energia della macchina rivoluzionaria in lavoro, scienza e tecnologia. Ma anche se nella forma di un capitalismo di Stato («socialismo di mercato» in cinese), si impone un rovesciamento geopolitico tra il Nord e il Sud che si manifesta anche attraverso la sconfitta di ogni guerra neocoloniale condotta dagli Usa (Iraq, Libia, Afganistan) e, ancora, attraverso gli inarrestabili flussi migratori verso il nord di cui sono attori le soggettività figlie delle lotte di liberazione dal colonialismo.

    Le rivoluzioni (violente o pacifiche – come in India) hanno creato un mondo multipolare dove le ex colonie e semi-colonie giocano un ruolo centrale, che gli Usa non possono né vogliono accettare. Gli Stati Uniti continuano a sognare di essere un Impero anche se non hanno la forza economica e politica, né esterna, né interna (malgrado l’esercito più forte del mondo) per imporre la loro volontà unilateralmente.

    Alla fine della Guerra fredda non abbiamo più lo scontro tra socialismo e capitalismo (la rivoluzione mondiale è stata sconfitta ben prima del 1989), ma differenti capitalismi e forme di sovranità che si battono tra di loro per l’egemonia economica e politica sul mercato mondiale.

    Gli Usa si raccontano un’altra storia, che non corrisponde ai reali rapporti di forza tra potenze economico-politiche contemporanee. Il «capitalismo» e lo «Stato», nemici giurati delle rivoluzioni del XX secolo, sembrano aver vinto, ma il capitalismo e lo stato non sono uguali dappertutto e, soprattutto, non tutti sono sottomessi al controllo degli americani. Al contrario, esattamente come poco più di un secolo fa, la vittoria del capitalismo sul comunismo, scatena una concorrenza (la «vera», non quella del neoliberismo) sempre pronta a tracimare nella guerra. Alla differenza di quella del 1914, questa potrebbe essere nucleare e alimentare una definitiva catastrofe ecologica.

    Gli errori e le responsabilità degli Usa sono grandi, come grande è la vigliaccheria e la servilità degli europei manifestate dopo la caduta del muro di Berlino.

    Primo «errore»: una volta sparita l’Urss, non ci sarebbe che una sola potenza, gli Usa, segno delle fine della storia (in realtà, segno, invece, della fine dell’egemonia americana). Curiosamente il libro Impero è caduto nella stessa ingenuità dei suoi nemici, poiché le trasformazioni compiute dalle rivoluzioni avevano consolidato una molteplicità di forze impossibili da sottomettere a l’unilateralismo della politica americana. Svegliandosi dal sonno trasognato durato anni, gli Usa dichiarano la Cina nemico principale assieme a tutti gli stati (Russia, Iran ecc;) che non fanno opera di sottomissione a questo Impero in bancarotta.

    Secondo «errore»: associata a questa illusione di Impero, ce n’è una seconda che deriva direttamente dalla prima. Una volta sconfitto il comunismo, soltanto i terroristi resistono all’egemonia americana. Il terrorismo islamista è innalzato al rango di nemico principale contro il quale scatenare una guerra infinita. In realtà il terrorismo non era che un epifenomeno, alimentato anche dagli Usa e dagli Occidentali, della crescita della potenza delle ex colonie, altrimenti consistenti, solide e minacciose.

    Terzo «errore»: il Pentagono e l’esercito americano non soltanto non hanno capito granché della congiuntura politica, ma non hanno neanche fatto tesoro dalle «guerre dei partigiani» che avevano tuttavia combattuto (e perso), poiché hanno continuano a essere sistematicamente sconfitti da tutti i “popoli poveri” che hanno cercato di sottomettere alla loro volontà. Anche se la guerra dei partigiani del dopo socialismo non aveva la grandezza del progetto e dell’organizzazione di quella condotta dai comunisti, era sufficiente per mandare a casa («yankee go home») il più potente imprenditore militare-tecnico-politico del pianeta.

    Quelli che con un eufemismo ho chiamato «errori» (in realtà una strategia suicida per gli Usa e omicida per il resto del mondo) hanno prodotto, vale la pena ripeterlo, diciassette guerre dal 1989, milioni di morti, la distruzione di città a paesi, consumato e sperperato immense fortune e risorse naturali, minato uno Stato di diritto già sufficientemente discreditato di suo.

     

    L’économia, arma di distruzione di massa

    L’impérialismo americano è dotato di un’altra arma di distruzione di massa che sarà utilizzata sistematicamente contro tutti i popoli del pianeta: l’economia. Arma a doppio taglio, perché è all’origine di un caos «economico» che, aggiungendosi e moltiplicando il disordine della lotta tra stati, fa sprofondare il capitalismo nella guerra e nel fascismo.

    Noi paghiamo da più di cinquant’anni i tentativi, destinati all’insuccesso, di bloccare il declino della potenza americana. Dopo il 1945 gli Usa rappresentavano il 50% della produzione mondiale. A partire dalla fine degli anni Sessanta, questa percentuale non cessa di diminuire, rosicchiata prima dalla Germania e dal Giappone e, trent’anni dopo, dalle potenze economiche nate dalle rivoluzioni (Cina, India, ecc.)

    L’economia vittoriosa del comunismo non ha niente a che vedere con la narrazione sovraccarica di ideologia che economisti, media ed esperti di regime chiamano neoliberismo (mercato, domanda, offerta, autoregolazione, imprenditore di sé ecc.). La prima guerra mondiale ha prodotto una integrazione dello Stato, dei monopoli, della guerra, della società, del lavoro, della scienza e della tecnica che nessuna governance (né quella di Foucault, né quella dei liberali) potrà mai far ritornare al «mercato» della libera competizione.

    Quello che erroneamente è stato chiamato neoliberismo, non produrrà la concorrenza, ma il rafforzamento dei monopoli (il solo monopolio che sarà smantellato sarà quello dei sindacati, mentre i monopoli statali saranno privatizzati); non produrrà l’autoregolazione, ma lo sviluppo selvaggio di tutti gli squilibri; non produrrà la democrazia, ma uno Stato «forte», autoritario, compatibile con nuove forme di fascismo; non produrrà una nuova produzione «bio-cognitiva», ma l’egemonia di una finanza che funziona attraverso la spoliazione, il furto, la rendita, l’estorsione. Un imprenditore della Silycon Valley, Peter, Tiel, spiega la natura del mantra di questa economia predatrice, la libera concorrenza: «Ma in fondo il capitalismo e la concorrenza sono antagonisti. Il capitalismo è fondato sull’accumulazione di capitale, ma, in una situazione di concorrenza perfetta, tutti i profitti sono annullati. La lezione per un imprenditore è chiara, la concorrenza è una cosa per perdenti».

    La stessa cosa possiamo dire dell’equilibro – altro grande significante dell’ideologia neoclassica e neoliberale. Il raggiungimento dell’equilibrio implicherebbe la morte del capitale, da cui si evince la sua continua e necessaria produzione di «differenze» (di ricchezza e di miseria, delle diseguaglianze di reddito, patrimonio, di accesso ai servizi – salute, formazione, abitazione ecc.)

    La dichiarazione d’inconvertibilità del dollaro in oro, fa della moneta un’arma micidiale che la politica del debito, a partire dal 1979, trasforma nel più grande programma di esproprio della ricchezza, di distruzione della natura e di imposizione di privatizzazioni della storia del capitalismo.

    Questa strategia (finanziarizzazione, mondializzazione, neocolonialismo, concentrazione monopolistica) ha prodotto la forma contemporanea delle guerre di conquista coloniale, iniziando col saccheggiare l’Africa negli anni Ottanta, continuando con l’America Latina, passando per i paesi del sud-est asiatico, per arrivare, alla fine del secolo, in Europa (la Grecia come esempio per tutti del vero programma capitalistico che non ha niente di liberale, ma molto di rendita, «prima i creditori»).

    L’economia trionfante ha creato le condizioni della sua impossibilità: enormi profitti e debiti colossali, ricchezze inaudite concentrate nelle mani di pochi individui e miseria per milioni di persone. Gli Stati Uniti detengono la più alta concentrazione dei profitti, frutto del saccheggio finanziario, e il più alto indebitamento del pianeta, frutto del americain way of life, il più grande spreco della storia dell’umanità. Il capitalismo non riuscirà a ridurre lo squilibrio creato tra profitti e debiti se non attraverso la guerra e il fascismo. Di questo «assioma» della tradizione rivoluzionaria non resta più alcuna traccia.

    L’estorsione operata dal capitalismo finanziario per contrastare il declino degli Usa, funziona anche sul proletariato dei paesi del centro, provocando forme di guerra civile di bassa intensità. La guerra civile strisciante che li divide, non è stata creata da Trump. Si è limitato a nominarla e a consolidarla. Le fondamenta della più grande potenza mondiale poggiano sulla sabbia. Si tratta di un altro segno evidente del suo declino, della corruzione delle sue istituzioni, del fallimento di un sistema politico basato, sin dal suo inizio, sulla divisione razziale della società.

    L’économia libera ha rapidamente svelato dove andava a parare: il sedicente «neoliberismo» sarebbe stato pensato per evitare gli inconvenienti del liberalismo classico, cioè la guerra tra potenze imperiali, le guerre civili, il fascismo, il nazismo che il laissez-faire aveva prodotto tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX. In realtà, in modo allo stesso tempo identico e differente, ci troviamo oggi nella stessa impasse catastrofica: crisi economica e politica permanente, Stato «forte», nuove forme di fascismo, sessismo, nazionalismo, guerre e guerre civili che non hanno assunto i colori del genocidio della crisi del primo liberismo solo perché non c’è niente di paragonabile alla rivoluzione sovietica, niente di paragonabile alle insurrezioni operaie nel nord, niente di paragonabile alle guerre di lunga durata condotte dai comunisti nel sud.

    Si l’economia non sta molto bene, la democrazia è, da anni, convalescente. La centralizzazione del potere politico nell’esecutivo, la messa fuori gioco del parlamento, lo stato di emergenza permanente, sono l’altra faccia della centralizzazione dell’economia. Le due concentrazioni del potere (economico e politico) sono convergenti e l’una rafforza l’altra. Separare l’economia e la politica, separare cioè la politica dello Stato dalle lotte delle classi può produrre solo confusione, ambiguità, connivenza con forze politiche più che sospette, di cui Giorgio, Agamben ha fatto sfoggio durante la pandemia.

    La guerra in Ucraina segna un passo ulteriore verso il divenire fascista del mondo e soprattutto dell’Europa che, di fronte al «nemico», ha ritrovato l’odio e il razzismo, le politiche identitarie di cui è stata la culla a partire dal XIX secolo. La guerra ha liberato le pulsioni aggressive rimosse dopo l’esperienza nazista e fascista: la Germania ha deciso di accelerare il riarmo e il Giappone apre all’installazione dei missili nucleari Usa sul suo territorio.

    Il «fascismo» è una opzione sempre presente per l’economia di mercato. Uno dei fondatori del neoliberismo riassume, in un titolo di un articolo del 1929, la realtà che sta prendendo forma sotto i nostri occhi: «La dittatura nei limiti della democrazia».

    Di fronte all’impossibilità di trovare una via di uscita dal vicolo cieco in cui si sono infilate, economia e politica si affidano ai rimedi di un secolo fa.

     

    Perché Putin ha invaso l’Ucraina

    È in questo quadro multipolare devastato dalle guerre economiche, che gli Stati Uniti non vogliono riconoscere, che è scoppiata la guerra. Non possono accettare un nuovo ordine mondiale richiesto da Cina, India ecc. e persino dalla Russia, perché non sarebbero in grado di competere con loro e in ogni caso il loro capitalismo sfrenato non consente compromessi e regolazioni.

    Al contrario, gli americani, spinti da enormi profitti e debiti illimitati, lo stanno ostacolando in tutti i modi possibili sviluppando il caos come strategia politica.

    Gli americani hanno tutto da guadagnare nel mantenere la guerra e il disordine perché solo il caos la superiorità militare può garantire loro un primato che la propria economia non è più in grado di assicurare.

    Lo scontro cha si stava preparando da anni tra l’Alleanza atlantica e la Russia è un caso da manuale di questa strategia. Lascio agli ambasciatori e ai militari il compito di delineare il crescendo del conflitto nei trent’anni successivi al crollo dell’Urss.

    Un ambasciatore italiano che ha letto i documenti diplomatici classificati, fino a poco tempo fa, come «segreti», risalenti al tempo del crollo dell’Urss, scrive: «Da documenti americani, tedeschi, inglesi e francesi declassificati, è chiaro che i dirigenti del Cremlino avevano ricevuto una serie di assicurazioni dall’Occidente (Francois Mitterrand, Giulio Andreotti, Margaret Thatcher e lo stesso Helmut Kohl): la Nato non si sarebbe mossa di un centimetro verso est, “not one inch estward”, per usare la formula di James Baker, segretario di Stato americano dell’epoca. Baker disse che non aveva alcuna intenzione di mettere in pericolo gli interessi sovietici e non una, ma ben tre volte confermò che l’Alleanza atlantica non si sarebbe mossa [...]Questo è ciò che fu ribadito a Gorbaciov e a Shevardnadze, e quando il ministro della difesa russo, il maresciallo Jazon, chiese al successore della Thatcher, John Major, se pensasse che alcuni paesi europei sarebbero potuti entrare nella Nato, gli fu risposto che nulla del genere sarebbe potuto accadere».

    Nel 2003, la decisione catastrofica della seconda guerra del Golfo con le sue migliaia di morti per vendicarsi del «nemico principale» degli Usa, portò a una seconda decisione altrettanto problematica. Nessuno dei paesi del Nord volle impegnarsi in questa folle avventura in Iraq, di conseguenza solo alcuni paesi dell’ex Patto di Varsavia inviarono truppe. Gli Stati Uniti, come ricompensa per la loro partecipazione all’operazione Desert Storm, li fecero immediatamente entrare nell’ovile della Nato.

    Nel 2007, Putin chiese la costituzione di un nuovo ordine mondiale. Indubbiamente questo significava per lui la possibilità di condurre liberamente la sua politica interna (schiacciamento delle minoranze – vedi la distruzione della Cecenia – smantellamento dell’opposizione, controllo dei media, condivisione del potere e della ricchezza tra oligarchie, eliminazione fisica degli oppositori ecc.), ma anche un riconoscimento dei nuovi rapporti di forza da parte degli Stati Uniti.

    I russi si allarmarono veramente solo quando nel 2008 la Nato cercò di far entrare la Georgia e l’Ucraina nell’Alleanza atlantica. Il 2008 fu anche l’anno di un’altra catastrofe, sempre originatasi negli Stati Uniti, la più importante crisi finanziaria dal 1929, seminando il panico in tutto il mondo e determinando l’intensificazione delle tensioni tra potenze. L’economia che aveva trionfato sul comunismo aggiungeva caos a caos, disordine a disordine.

    Nel 2014 la Nato e l’Europa hanno favorito e riconosciuto il colpo di stato in Ucraina con il solo fine di proseguire l’espansione verso est, militarizzando la zona (da allora armano l’Ucraina). Gli Stati Uniti sono gli specialisti insuperabili dei colpi di stato «democratici». Tra il 1947 e il 1989 ne hanno organizzati, direttamente o indirettamente, settanta, i più importanti dei quali sono stati probabilmente quelli che hanno colpito l’America Latina. Adesso stanno sperimentando nuove tipologie, come il colpo di Stato contro il Partido dos Trabalhadores in Brasile, che ha aperto le porte a Bolsonaro. Quest’ultimo è stato organizzato principalmente, grande novità, dal Ministero della Giustizia.

    Nelle reti sociali italiane, sta circolando una sintesi di una dichiarazione molto significativa rilasciata da un ufficiale italiano sulla strategia della Nato alla televisione italiana (RaiNews). Leonardo Tricario, ex capo dello Stato Maggiore dell’Aeronautica e delle forze armate italiane durante la guerra del Kosovo, pur invocando un processo a Putin per crimini di guerra, mantiene una lucidità che manca ai nostri media e politici:

    – Il segretario generale della Nato «parla troppo» e senza consultare gli alleati

    – La Nato rappresenta e si identifica con il punto di vista degli Stati Uniti

    – La Nato non ascolta l’Italia, più interessata al versante sud del mediterraneo, ed è presa da isteria antirussa e ossessionata dall’allargamento a est

    – Gli Stati Uniti hanno scelto di assecondare in tutto gli alleati Nato dei Paesi baltici, fortemente antirussi

    – La Nato ha promesso all’Ucraina di entrare nella Nato con la prospettiva di una protezione che non poteva garantire

    – «È stata gettata benzina sul fuoco e questi sono i risultati».

    Putin ha reagito seguendo la logica «folle» (ma non è il solo «pazzo» in questa storia) che governa le relazioni strategiche tra le potenze. La morte dei civili rappresenta l’ultima delle sue preoccupazioni e il rischio di una escalation incontrollata è ben presente. Sleepy Joe tra un sonnellino e l’altro parla di «Terza guerra mondiale», Putin mette in allerta i militari responsabili delle armi nucleari e i rappresentanti della Nato parlano della possibilità di uno scontro con armi non convenzionali, come se niente fosse. Ci vorrebbe un Kubrick per convertire in immagini questo delirio. Con un’angoscia in più, perché gli attori contemporanei di questo dramma sono sicuramente più pericolosi!

    Non si può che essere con gli innocenti che muoiono in Ucraina sotto i bombardamenti, presi tra due cinismi che giocano grosso e sporco per determinare il funzionamento futuro del mercato mondiale (India e Cina si sono astenute nel voto alle Nazioni Unite contro la Russia perché sanno qual è la posta in gioco). I russi non vogliono cedere alla volontà egemonica americana che si manifesta con l’installazione di missili nucleari in Romania, Polonia e (a venire) in Ucraina, mentre la strategia statunitense del caos è abbastanza «razionale»: isolare la Russia (per poi isolare la Cina) e rompere così l’Alleanza in gestazione tra le due potenze ex comuniste, raggruppare gli europei dietro gli Usa che, attraverso la Nato, continuano a dettare la loro «politica estera e politica economica», e risollevarsi dopo l’ennesimo crollo in Afghanistan. Questo raggruppamento compatto dietro il padrone americano potrebbe anche essere utile per ostacolare la «via della seta» cinese.

    Contrariamente a quanto ci è raccontato, lo scontro tra Usa e Russia, che è lo sfondo di questa guerra, non è tra democrazia e autocrazia, ma tra oligarchie economiche simili per molte cose, la prima delle quali risiede nel fatto di essere delle «oligarchie della rendita».

    «È più realistico considerare la politica economica ed estera degli Stati Uniti in termini di complesso militare-industriale, di complesso petrolifero, minerario e del gas e del complesso bancario, finanziario e immobiliare, che in termini di politica di repubblicani e democratici. I principali senatori ed eletti del Congresso non rappresentato tanto lo Stato e i distretti quanto piuttosto gli interessi economici e finanziari dei principali contributori al finanziamento delle loro campagne politiche» (Michael Hudson). Due di questi tre monopoli fondati sulla rendita, quello militare-industriale e quello del petrolio e del gas, hanno largamente contribuito alla strategia che ha portato alla guerra.

    Il primo è il fornitore principale della Nato, mentre il secondo vorrebbe prendere il posto della Russia come erogatore di gas all’Europa e, eventualmente, appropriarsi di Gazprom.

     

    Lenin, guerra e rivoluzione

    Inutile avanzare delle proposte per una risoluzione del conflitto (evitare che l’Ucraina sia la preda dell’Est o dell’Ovest, dargli uno statuto simile a quello della Finlandia ecc.).

    Non servirebbe a nulla e, anche potendo, entrare in questo gioco strategico tra Stati e monopoli non ci interessa, perche il nostro problema è un altro: trovare e definire una posizione in questo quadro «mostruoso» che si stava annunciando da anni e che non abbiamo avuto il coraggio di guardare dritto negli occhi. La guerra in Ucraina rischia di fare della guerra e delle guerre di classe, razza e sesso, il nostro quotidiano dei prossimi anni.

    La presa di posizione più chiara di fronte alla guerra è ancora quella dei socialisti rivoluzionari citata all’inizio del testo durante la prima guerra mondiale.

    La situazione assomiglia, per molto versi, a quella affrontata dai bolscevichi nel 1914: guerra economica per la suddivisione del potere e delle ricchezze del mondo (Lenin diceva spartizione del numero di schiavi), governati da «criminali» disposti a tutto (oggi Biden e Putin), e una debole opposizione disorganizzata dal tradimento dei partiti socialdemocratici (oggi l’opposizione è proprio inesistente).

    I partiti socialisti, votando i crediti di guerra, si erano schierati con i differenti stati, determinando così l’impossibilità della rivoluzione in Occidente e l’inizio dell’integrazione del movimento operaio alla macchina a doppio comando: Stato-Capitale. Dunque la prima cosa da evitare è di riprodurre il comportamento dei socialisti dell’epoca, prendendo partito per una delle potenze in lizza, integrandosi alla logica di uno degli Stati in guerra e fare propri degli interessi che sono esclusivamente quelli dei nostri nemici, perché tanto Biden quanto Putin sono dei «nemici del proletariato».

    Lenin, dall’inizio della «grande guerra», aveva lanciato il suo programma che risulterà vincente solo alla fine: trasformare la guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria, invitando i soldati a mirare non altri proletari che stavano dall’altra parte del fronte, ma di puntare i fucili contro i propri ufficiali, i propri capitalisti e il loro Stato.

    La situazione è profondamente cambiata, ma la presa di posizione dei rivoluzionari della prima metà del XX secolo conserva delle verità che vanno riattualizzate: inventare un nuovo punto di vista internazionalista che possa circolare tra il proletariato di «tutto il mondo», anche se non si ha la possibilità di puntare i fucili contro la macchina da guerra in azione. Non c’è altra alternativa per rovesciare le potenze economico-politiche, cacciare quelli che ci comandano e costruire organizzazioni politiche autonome. Ciò che deve stupire non è l’apparente irrealtà di queste parole d’ordine, ma il fatto che il pensiero critico da cinquant’anni a questa parte abbia accuratamente evitato di confrontarsi con la «guerra» e la «rivoluzione». È tale stupore che nel 2016 ci aveva spinto (Eric Alliez e io) a pubblicare Guerres et Capital, ed è sempre lo stesso sconcerto per l’irresponsabilità del pensiero contemporaneo che è all’origine del mio ultimo libro sulla rivoluzione (L’intollerabile presente, l’urgenza della rivoluzione).

    Guerre e rivoluzioni, nonostante il diniego di cui sono oggetto da parte del pensiero critico, continuano a determinare l’inizio e la fine delle grandi fasi politiche. La guerra fa parte intégrante della macchina Stato-Capitale, allo stesso modo del lavoro, del razzismo e del sessismo. A partire dalla Prima guerra mondiale tutti questi elementi sono integrati in maniera indissolubile e funzionano insieme come un tutto. E come un secolo fa non possono non produrre situazioni come quelle che stiamo vivendo.

    Il marxismo della prima metà del XX secolo, quello che ha organizzato e praticato la «guerra dei partigiani», ha ancora qualche cosa da trasmetterci , anche se molti dei suoi concetti e delle sue parole d’ordine sono invecchiati e, oggi, impraticabili. Ma il suo pensiero strategico, capace di opporsi al capitalismo e alla guerra (quello che tutte le teorie che abbiamo cercato di sostituirgli sono incapaci di proporre) è stato completamente ignorato, anche se potrebbe costituire une orientamento del pensiero e dell’azione, se avessimo la capacità di riqualificarlo nella situazione attuale.

    Il poststutturalismo, la biopolitica, lo spinozismo, il pensiero ecologico, le teorie femministe, la micropolitica, la microfisica del potere ecc., cioè tutto lo sforzo che, a partire dagli anni Sessanta è stato prodotto per cercare di costruire un’alternativa alla lotta di classe marxista (senza trovarla!) , tutto questo sforzo dunque, se non si articola a un pensiero strategico della guerra e della rivoluzione, rischia l’impotenza, perché guerre e rivoluzioni sono ancora e sempre lo sbocco «naturale» dell’azione del capitalismo e dei suoi Stati.

    Senza l’invenzione di un pensiero strategico rivoluzionario all’altezza della macchina da guerra dello Stato e del Capitale contemporanei, le alternative sono piuttosto deprimenti e minacciose: distruzione istantanea attraverso una guerra nucleare (ma basta anche una guerra convenzionale – nel 2021 gli Stati hanno speso poco più di 2.000 miliardi di dollari in armamenti, di cui la metà dagli Usa e dalla Ue, la Cina e la Russia sono ancora lontani da spendere tanto); distruzione dilazionata nel tempo attraverso il riscaldamento climatico; implosione delle classi in lotta, come Marx aveva anticipato nel Manifesto del partito comunista.

    In assenza di un pensiero e di una pratica capaci, con realismo, di articolare – lo ripeto – guerra e rivoluzione, nelle nuove condizioni del capitalismo, degli stati, dei movimenti politici contemporanei, è ciò che ci attende.

    #Maurizio_Lazzarato #Capital #guerre

  • War, Capitalism, Ecology • Ill Will
    https://illwill.com/war-capitalism-ecology

    Faced with the war that has broken out in Ukraine, the philosopher-ecologist is lost. Overwhelmed by the events, he “does not know how to cope with the two tragedies at once,” that is, Ukraine and global warming. The only claim he advances is that our interest in the one ought not take precedence over our interest in the other. He makes no headway in grasping their relationship; yet they are, in fact, tightly linked, and even share a common origin. For him to recognize this, it would be necessary for Latour to admit the existence of capitalism, which is the framework wherein the two wars emerge and unfold. 

    Wars between States and those of class, race, and gender have always accompanied Capital’s development because, on the basis of primitive accumulation, they are the conditions of its existence. The formation of classes (of workers, slaves and the colonized, women) implies an extra-economic violence that founds domination as well as a violence that preserves it, stabilizing and reproducing the relations between victor and vanquished. There is no Capital without class war, race war, gender war, and without the State, which possesses the force and means of waging them! War and wars are not external realities, but are constitutive of the relation of Capital, even if we have forgotten this fact. Wars do not break out in capitalism because of some mean and nasty autocrats on one side and kind and friendly democrats on the other. 

    The war and the wars that we find at the onset of each cycle of accumulation, we also tend to rediscover at their end. Under capitalism, they provoke catastrophes and spread death to a degree that is scarcely comparable during other epochs. But there was a moment in the history of capitalism, at the beginning of the 20th century, when the relationship between war, the state, and Capital developed in such a way that its relative destructive power, which forms a condition of its development (its engine, says Schumpeter, in defining it as “creative destruction”), now became absolute. Absolute, because it places the very conditions of humanity at stake, alongside that of many other species.

    The First World War and absolute destruction

    Disciples of the Anthropocene disagree about the date of its commencement: the Neolithic, the conquest of the Americas, the Industrial Revolution, the great post-war acceleration, etc. They all carefully avoid confronting the rupture announced by the First World War, whose truly harmful consequences continue to act in our current affairs. 

    The great shift that forever altered the two-headed machine of State/capital in the 20th century occurred long before the outbreak of the 1929 financial crisis, during the war of 1914. The novelty of the Great War resided in the integration it accomplished between the State, economic monopolies, society, work, science, and technology. The cooperation of all these elements in the construction of a megamachine of production for war profoundly changed the function of each of them: in order to respond to “emergencies,” the State now accentuated executive power to the detriment of legislative and judiciary power, the economy experiences a similar concentration of political power in the form of the consolidation of monopolies, while society in its entirety (and not just the world of work) is mobilized for production; finally, scientific and technological innovation is now subsumed under the direct control of the State while undergoing a violent acceleration.

    Ernst Junger, the “hero” of the First World War describes it thus: it constitutes less an “armed action” than a “gigantic work process.” By expanding an organization of production that concerned only a very small number of companies, the war became an occasion for the implication of all of society in production. “Countries were transformed into gigantic factories capable of mass-producing military services 24/7 so as to be ready to send them to the front where a bloody process of consumption, still completely mechanized, played the role of the market.”

    The implication of every social function in the sphere of production (what Marxists speak of as the subsumption of society by Capital) was born in that moment and is marked, and will forever be marked, by war. Every form of activity, “even that of a house worker working at their sewing machine,” is destined for the war economy and participates in its total mobilization.

    #Maurizio_Lazzarato

  • L’intolérable du présent, l’urgence de la révolution - minorités et classes, entretien avec Maurizio Lazzarato
    https://lundi.am/L-intolerable-du-present-l-urgence-de-la-revolution-minorites-et-classes

    [Dans] son denier livre, L’intolérable du présent, l’urgence de la révolution - minorités et classes, [Maurizio Lazzarato] tente d’analyser le triptyque race-classe-genre sans le vocabulaire de la politique des identités. Tout l’enjeu, selon lui, est de parvenir à lier politique et économie, guerre et capital, production et destruction et de mieux comprendre comment l’exploitation des femmes et des colonies est le complément nécessaire de tout fonctionnement économique « normal ». Le retour du racisme et du sexisme peut alors se lire en parallèle de la crise économique qui ne nous quitte plus depuis quelques années.

    Maurizio : Depuis la crise de 2008, j’essaie de réintroduire dans le débat les concepts de guerre et de révolution. Ils ont été toujours au centre des préoccupations des révolutionnaires, alors que, depuis un certain temps, ils ont été marginalisés. Guerre et révolution sont les deux alternatives que le capitalisme pose encore et toujours, comme on est train de voir en ce moment. La guerre en Ukraine n’est pas celle d’un autocrate contre la démocratie, mais elle exprime les affrontements entre impérialismes qui surgissent à fin du cycle d’accumulation commencé au début des années 70 avec les guerres civiles en Amérique du Sud. Les premiers gouvernements néo–libéraux étaient composés des militaires et des économistes de l’école de Chicago. Nous retrouvons à la fin du cycle économique ce qu’il avait fait démarrer : la guerre entre États et les guerres de classe, de race et de sexe.

    En ce qui concerne la révolution, le plus grand problème qu’elle a rencontré à partir des années soixante, c’est la question de la multiplicité. Multiplicité des rapports de pouvoir, (capital-travail, hommes-femmes, blancs-racisé-e-s), multiplicité aussi des modes de production (capitaliste, patriarcal-hétérosexuel, racial-esclavagiste). Cette multiplicité n’a pas émergé en 68, elle existe depuis la conquête des Amériques qui commence en 1492, mais c’est seulement au XXe siècle que la subjectivisation politique des mouvements des colonisés et des femmes a affirmé son autonomie du mouvement ouvrier.

    Cette multiplicité a été au centre des théories critiques des années soixante et soixante-dix (les minorités chez Deleuze et Guattari, ou bien chez Foucault la population et l’individu, ou encore chez Negri la multitude comme multiplicité des singularités,) mais au prix de ce que j’appelle un refoulement du concept de classe.

    Le féminisme matérialiste français, à contre-courant de cette pensée des années soixante-dix, pense le rapport de domination des hommes sur les femmes comme rapport de classe, comme « rapports sociaux de sexe ». Ce rapport de domination ne profite pas seulement au capital, mais également aux hommes en tant que classe. De la même manière, le rapport de domination raciste ne profite pas seulement au capital, mais également aux blancs en tant que classe.

    Je crois que la « révolution mondiale » qui était devenue possible au XXe siècle (le mot d’ordre de Marx « prolétaires de tous les pays unissez-vous ! » ne concernait que quelques pays européens) a échoué parce qu’on n’a pas été capable de penser et d’organiser le passage de la lutte de classe (capital-travail) aux luttes des classes au pluriel.

    Il faut dire tout de suite que le refoulement des luttes de classe implique le refoulement de la guerre, car elles ne sont qu’une de ses modalités. La guerre entre États et les guerres de classe, de race et de sexe, ont toujours accompagné le développement du capital parce que, à partir de l’accumulation primitive, elles sont les conditions de son existence. La formation des classes (des ouvriers, des esclaves et des colonisés, des femmes) implique une violence extra-économique qui fonde la domination et une violence qui la conserve, stabilisant et reproduisant les rapports entre vainqueurs et vaincus. Il n’y a pas de capital sans guerres de classe, de race et de sexe et sans État qui a la force et les moyens de les mener ! La guerre et les guerres ne sont pas des réalités externes, mais constitutives du rapport de capital, même si nous l’avons oublié. Le capitalisme est production et guerre, accumulation et luttes de classe. Donc il ne faut pas abandonner le concept de classe, mais le reconfigurer.

    H : Quelle différence y a-t-il avec le concept marxiste de la classe ?

    M : Comme dit Fanon, il ne s’agit pas seulement de “distendre” le concept. L’élargissement du concept de classe mine son homogénéité, parce que les classes sont elles-mêmes constituées de multiplicités (des minorités) : la classe ouvrière contient des minorités raciales et sexuelles, la classe des femmes contient à son tour des femmmes riches et pauvres, blanches, noires, indigènes, hétérosexuelles, lesbiennes, etc. A cause de cette multiplicité, le sujet politique n’est pas donné préalablement comme avec la classe ouvrière, mais il est un sujet “imprévu”, dans le sens qu’il faut l’inventer et le construire. Il ne préexiste pas à son action.
    Ce concept de classe permet aussi de critiquer les politiques de l’identité, où les différents mouvements politiques sont toujours prêts à tomber : la classe des femmes, comme la classe ouvrière chez Marx, reussit sa révolution seulement si elle aboutit à sa propre abolition et avec elle l’abolition de l’assujettissement “femme”.

    [...]

    À partir des limites du concept de travail abstrait, on peut tirer plusieurs fils. D’abord un fil politique. Le XXe siècle est celui des révolutions, il n’y jamais eu autant de révolutions concentrées dans un temps si court dans l’histoire de l’humanité. Or, les ruptures les plus importantes ont été pratiquées par les colonisées et les femmes, c’est-à-dire par des sujets qui fournissaient du travail gratuit, du travail dévalorisé, du travail très mal payé. Les salariés, incarnation du travail abstrait, n’étaient pas au centre de ces révolutions. Les marxistes définissent le travail gratuit ou sous payé comme « non libre », comme « improductif », à la différence du travail industriel. Par conséquent, ce travail serait à négliger du point de vue révolutionnaire, car sans lien avec la « production ». Tout au contraire l’importance politique de ce travail s’avère énorme. Pendant tout le XXe siècle, il va mener à bien ses révolutions, tandis que, après 68, les innovations théoriques les plus significatives seront développées par les différents mouvements féministes.

    #Maurizio_Lazzarato #entretien #théorie #livre #classe #travail_abstrait #exploitation #classes #lutte_de_classe #capitalisme #guerre #révolution #racisme #race #colonisés #sexisme #rapports_sociaux_de_sexe #féminisme #colonialité #identités #politiques_de_l’identité #Combahee_River_Collective #Anibal_Quijano

    • cela me semble être un livre politique d’importance (lecture en cours),

      La remontée du racisme et du sexisme en France est moins liée à la question de la laïcité qu’au contrôle de cette colonisation interne. Le racisme et le sexisme reproduisent la violence sans médiation avec laquelle on a toujours contrôlé le travail gratuit, sous payé, précaire et les subjectivités soumises. Les démocraties européennes qui voilaient leur violence sans médiation parce qu’elle s’exerçait loin, au-delà de la mer et des océans, ressemblent de plus en plus aux USA dont la constitution matérielle coïncide avec la « colonisation interne » (l’esclavage des noirs après avoir éliminé les natifs). La démocratie la plus politique (selon H. Arendt) est la plus violemment raciste et génocidaire que l’histoire ait connu. Pour la même raison Israël a une fonction centrale dans la mondialisation : il constitue l’image parfaite de la colonisation interne qui ne cesse de déborder vers l’apartheid.

      #Hannah_Arendt (qui prend très cher, citations à l’appui)
      #Mario_Tronti #Karl_Marx

      #toctoc

    • (...) le capital, contrairement à ce que pensent beaucoup des marxistes est inséparable de l’État (et de la guerre). Le capitalisme est une machine à deux tètes, Capital et État, économie et politique, production et guerre qui, depuis la formation du marché mondial, agissent de concert. L’alliance Capital/État va progressivement s’intégrer, avec une accélération à partir de la Première Guerre mondiale, en produisant une bureaucratie administrative, militaire, politique qui ne se distingue en rien des capitalistes. Bureaucrates et capitalistes, en occupant des fonctions différentes à l’intérieur de la même machine politico-économique, constituent la subjectivation qui instaure et régule le rapport entre guerre de conquête et production, colonisation et ordre juridique, organisation scientifique du travail (abstrait) et pillage des natures humaines et non humaines. Le capitalisme a été toujours politique, mais pour des raisons différentes de celles avancées par Max Weber qui pointe l’imbrication des structures bureaucratiques et capitalistes. Le capitalisme a toujours été politique puisque, pour l’appréhension de sa constitution, il ne faut pas partir de la production économique mais de la distribution violente du pouvoir départageant qui commande et qui obéit. L’appropriation violente des corps des ouvriers, des femmes, des esclaves, des colonisés s’accompagne d’une société normative où l’État administratif et l’État souverain s’intègrent à l’action du Capital. La politique, l’État, l’armée, la bureaucratie administrative sont, depuis toujours, une partie constitutive du capitalisme.

      #Capital #État #guerre

    • Le changement fondamental du capitalisme au XXe siècle n’a pas été la crise financière de 1929, mais la Première Guerre mondiale (1914). La destruction est une condition du développement capitaliste (Schumpeter l’appelle « destruction créative »[créatrice, ndc]) qui, avec la « grande guerre » de relative devient absolue. La guerre de 1914 introduit une grande nouveauté : l’intégration de l’État, de l’économie des monopoles, de la guerre, du travail, de la société, de la science et de la technique dans une méga machine de production pour la guerre, une « mobilisation totale » pour la « production totale » finalisée à la destruction.
      Ernst Jünger dit dans La mobilisation totale, en 1930, que la guerre ressemble moins à un combat qu’à un énorme processus de travail. On crée, à côté des armées qui se battent au front, l’armée des communications, des transports, de la logistique, l’armée du travail, de la science et de la technique etc., pour envoyer 24h sur 24h le produit de cette mega-production, au front qui constitue le marché, lui aussi mécanisé et automatisé, où tout se consomme (se détruit)

      H : La guerre totale en est l’expression.

      M : Totale veut dire que c’est la totalité de la société qui est impliquée dans la production. La subordination de la société à la production n’a pas eu lieu dans les années 50 et 60, mais pendant la Grande Guerre. Ce que Marx appelle General Intellect naît à ce moment et il est marqué, et il le sera toujours, par la guerre.
      La « mobilisation » totale détermine un grand saut dans la production et dans la productivité, mais production et productivité sont pour la destruction. Pour la première fois dans l’histoire du capitalisme la production est « sociale », mais elle est identique à la destruction. L’augmentation de la production est finalisée à une augmentation de la capacité de détruire.

  • [Radio] Rallier la Révolution, avec Maurizio Lazzarato - Paris-luttes.info
    https://paris-luttes.info/rallier-la-revolution-12099

    Re-nouer les luttes d’émancipation avec le dépassement du capitalisme, c’est l’appel de Maurizio Lazzarato dans son dernier ouvrage publié aux éditions Amsterdam, Le Capital déteste tout le monde. Fascisme ou révolution.

    Entretien avec #Maurizio_Lazzarato.

    • Ne manquez pas cet entretien avec Maurizio Lazzarato qui revient sur les 5O ans qui ont succédé au « siècle des révolutions » et résonne plutôt pas mal avec un ensemble de questions posées par le tournant épocal en cours, dont celle d’un nouveau fascisme qui ne viendrait pas cette fois répondre à la menace de la révolution.

      À mon sens, c’est #toctoc.

      #capitalisme #réformisme #néolibéralisme #Foucault (usage critique de) and so on.

    • « Il semble aujourd’hui difficile de saisir ce que Walter Benjamin avait remarquablement vu entre les deux guerres mondiales. Et pourtant, dans l’acte de naissance du néoliberalisme, est à l’oeuvre une « violence qui fonde » une nouvelle économie, un nouveau droit et de nouvelles institutions, tandis que leur fonctionnement sera assuré par une violence qui les « conserve » – une violence souvent « latente », une violence « administrative » mais pas moins efficace que la première. Le « triomphe » du capital sur les classes subalternes n’est pas donné une fois pour toutes. Il doit être quotidiennement reproduit. Face à l’incapacité des forces capitalistes de sortir de l’effondrement financier qu’elles ont elles-mêmes causé, la « violence qui conserve » doit franchir un seuil. Elle est en train de prendre la forme des nouveaux fascismes. La conservation risque de dégénérer en autodestruction, comme c’est arrivé entre les deux guerres totales.
      Plus profondément encore, la violence qui fonde et la violence qui conserve ne se succèdent pas ; l’anomie (la suspension du droit) et la norme (la production du droit) ne sont pas deux moments successifs dans l’organisation de l’ordre politique.Nous ne vivons pas un « état d’exception permanent », mais de façon plus perverse, l’imbrication, l’indistinction de l’état d’exception et de l’Etat de droit. »

      merci @vanderling

    • me remercie pas @tintin c’est juste que j’ai mis la source de @paris
      laviemanifeste.com je me demandais même d’où tu sortais ce texte ?
      je ne connaissais pas Lazzarato, et trop peu les écrits de W.Benjamin.
      Frédéric Pajak parle de lui dans manifeste incertain , de sa vie dans
      le n°2 entre autres : http://www.leseditionsnoirsurblanc.fr/manifeste-incertain-2-frederic-pajak-9782882503220
      et c’est plus que de l’admiration.
      l’index de laviemanifeste https://laviemanifeste.com/index
      est aussi plein de réverbération https://laviemanifeste.com/reverberation
      une bonne cure de lecture et de podcast, c’est moi qui vous remercie.

  • Friedrich Nietzsche et la cruauté de la relation créanciers débiteurs dans la généalogie de la morale
    http://www.lesauterhin.eu/friedrich-nietzsche-et-la-cruaute-de-la-relation-creanciers-debiteurs-da

    L’accord européen sur la Grèce est un tel défi au bon sens qu’il fait vaciller la raison. Vite un bouc émissaire ! Tiens un casque à pointe qui passe ! Il tombe bien celui-là… Brouillage de l’esprit. Source : Le SauteRhin

    • C’est vrai que l’explication religieuse a ses limites, mais... y a pas un livre qui s’appelle « l’éthique protestante et l’esprit du capitalisme » ? Et si Nietzsche prend les Juifs comme point de départ du renversement des valeurs ("les derniers seront les premiers"), la fameuse victoire des esclaves sur les seigneurs, j’ai toujours eu l’impression que cette vision « chronologique » (généalogique en fait) avait des limites. Que les Juifs, comme premiers monothéistes, soient responsables « généalogiquement » de la prise de pouvoir de cette saloperie de morale monothéiste, franchement, je sais pas trop (et à vrai dire, on s’en fout de qui a commencé)... L’impression que le père Nietzche visait plutôt à détruire son propre protestantisme de fils de pasteur en s’attaquant à ça... Sans oublier le contexte anti-sémite du moment...

      Et puis, franchement, à part le délire religieux, je ne vois comment on peut encore croire à un tel programme :

      Efficient governments that can pay their bills are an essential precondition for economic growth. Only then can thy (sic) provide a good regulatory framework for businesses and ensure that their citizens enjoy essentials like a good education.

      http://seenthis.net/messages/392338

      #religion #monothéisme #protestantisme #morale #valeurs

    • Hum ! Vous récusez l’explication par l’éthique du protestantisme, mais vous convoquez Nietzsche – dont l’analyse est certes éclairante – et les mânes des anciens germains pour expliquer la politique du capitalisme allemand aujourd’hui. Faut-il rappeler qu’en Grèce antique, comme à Rome, une dette non remboursée conduisait à l’esclavage ? La démocratie athénienne a été fondée sur l’annulation de cette règle et les succès politiques de César ne s’explique pas seulement par ses talents militaires, mais aussi parce que l’annulation des dettes figurait à son programme. Plus prés de nous, la compagnie des Indes anglaises, puis les banques françaises et hollandaises ont utilisé l’arme de la dette pour constituer leur empire colonial. Ex : la Tunisie, l’Egypte, Bali… Ce qui est plus difficile à admettre, mais qui n’aurait certainement pas étonné Nietzsche, c’est que l’impérialisme allemand soit en train de se construire aujourd’hui un empire colonial au sein de l’Europe, réalisant par la dette ce qu’il n’a pas réussi par les armes. Chocking, isn’t ?

      http://www.lesauterhin.eu/friedrich-nietzsche-et-la-cruaute-de-la-relation-creanciers-debiteurs-dans-la-genealogie-de-la-morale/#comment-660

    • En y repensant, pour moi, l’étymologie, c’est comme l’astrologie et en fait, c’est un article d’astrologue ce truc.

      La focalisation exclusive sur la dette ne fait que renforcer son pouvoir sur les esprits.

      hahaha... Nan mais oh ? Comme si on avait choisit d’apprendre ce que sont des swaps à la vanille ? Comme si on était jouasse de se taper Nietzsche et Lazarato pour comprendre cette merde de rapport de dette ? On focalise pas mon gars, simplement tes « oikos » et tes « nomos » bidons, qui voudraient nous rappeler à une saine économie bien familiale, ça nous fait une belle jambe...

      la focalisation sur l’Allemagne seule responsable de …à peu près tout, ne fait que renforcer son pouvoir sans même qu’elle ait à chercher l’hégémonie,

      mouahaha, c’est vrai ça tiens, en fait, c’est tout de notre faute #intériorisation...

      Moi je soupçonne ce saute-rhin de #protestantisme_radical, voilà c’est dit.

      #'nimportequoicetrucenfait

  • CIP-IDF > Gouverner par la dette, lexique introductif, #Maurizio_Lazzarato
    http://www.cip-idf.org/article.php3?id_article=7089

    (…) la #dette, dans le système capitaliste, n’est pas d’abord une affaire comptable, une relation économique, mais un rapport politique d’assujettissement et d’asservissement. Elle devient infinie, inexpiable, impayable, et sert à discipliner les #populations, à imposer des réformes structurelles, à justifier des tours de vis autoritaires, voire à suspendre la démocratie au profit de « gouvernements techniques » subordonnés aux intérêts du #capital.

    La #crise économique de 2008 n’a fait qu’accélérer le rythme de formation d’un « nouveau capitalisme d’État », qui organise une gigantesque confiscation de la richesse sociale par le biais de l’impôt. Dans un inquiétant retour à la situation qui a précédé les deux guerres mondiales, l’ensemble du procès d’accumulation est tout entier gouverné par le capital financier, qui absorbe des secteurs qu’il avait jusqu’alors épargnés, comme l’éducation, et qui tend à s’identifier avec la vie même. Face à la catastrophe en cours et au désastre qui s’annonce, il est urgent de sortir de la valorisation capitaliste, de nous réapproprier nos existences, savoir-faire, technologies et de renouer avec le possible en composant, collectivement, un front du refus.

    Lexique introductif
    Austérité
    Dette publique
    Impôt
    Croissance
    Crise
    Capitalisme d’état
    Gouvernementalité
    Lutte de classe
    Finance
    Transversalité
    Capital humain
    Réformisme
    Refus du travail
    Rupture
    Destitution/Institution
    Représentation
    Possible
    Machines et signes
    Le capital est un opérateur sémiotique
    Force

  • Chômage : ce que conseille Peter Hartz à la France - Challenges
    http://www.challenges.fr/economie/20140128.CHA9725/chomage-ce-que-conseille-peter-hartz-a-la-france.html

    L’instigateur des réformes du marché du travail allemand sous Schröder vient de publier un livre en France dans lequel il donne ses conseils(…).

    Critiquées autant qu’enviées par les partis de gauche en Europe, les #lois_Hartz I à Hartz 4 ont été à l’origine du développement des « mini-jobs » payés 450 euros par mois, du durcissement des conditions d’indemnisation des chômeurs et de la mise en place d’indicateurs de performance pour les organismes de placements.

    #assistance_aux_entreprises #chômage_partiel

    Dette et austérité, le modèle allemand du #plein_emploi_précaire, #Maurizio_Lazzarato
    http://www.cip-idf.org/article.php3?id_article=6023

  • « Comment je contrôle que les chômeurs cherchent bien du travail »

    http://emploi.blog.lemonde.fr/2014/01/27/comment-je-controle-que-les-chomeurs-cherchent-bien-du-travail

    Julie (dont le prénom a été modifié à sa demande) est conseillère à Pôle emploi. Elle s’est portée volontaire à l’été 2013 pour faire partie des nouvelles équipes de contrôle de la recherche d’emploi des chômeurs, expérimentées dans la plus grande discrétion dans douze agences. Elle raconte pour Le Monde comment elle travaille. Si cette expérience est jugée concluante par la direction, elle sera étendue à partir de juin à toutes les agences.

    Je contrôle vraiment tout type de profil. Ce matin, j’ai radié une personne qui était à deux ans de la retraite. Son conseiller lui avait dit d’envoyer des candidatures, ce qu’elle n’avait pas fait. On tournait en rond. Nous radions environ 10 % des chômeurs contrôlés. Seul un tiers se réinscrit ensuite à Pôle emploi.

    #chômage #contrôle #précarité #pôle_emploi

  • Depuis 24 heures, grosse #polémique dans le petit monde de la #sociologie universitaire française, avec un clash sur #facebook entre Didier #Eribon (qui a l’air d’avoir un sacré melon) et Jean-Louis #Fabiani, qui prenait la défense de #Boltanski accusé par Eribon d’être un « idéologue catholique ».
    Gros #bordel, mais il n’est pas inintéressant de voir jusqu’où mène l’appropriation (pas si ancienne que ça dans les sciences sociales) par des #universitaires des réseaux sociaux : vers une publicité des clashs et des invectives qui restaient jusque là dans les salles de séminaires.

    REMARQUES SUR LA PENSÉE RÉACTIONNAIRE ET SUR LES OPÉRATIONS DE RECHRISTIANISATION DE LA VIE INTELLECTUELLE
    http://didiereribon.blogspot.fr/2014/01/remarques-sur-la-pensee-reactionnaire.html

    On me raconte que, pour défendre son maître Boltanski, un certain Jean-Louis Fabiani (?) m’attaque sur sa page Facebook en me reprochant de n’avoir « jamais fait » de sociologie. Il s’indigne même qu’on ait pu me donner une « chaire » dans l’université française !
    Est-ce le même Fabiani que celui qui a publié un livre pathétiquement mauvais sur l’histoire de la philosophie en France, il y a quelque chose comme 25 ans, et qui, sans doute devenu conscient de ses limites après cela, n’a plus jamais rien fait depuis ?
    Et qui, bien sûr, siège (il a tout le temps pour ça) dans toutes les instances de contrôle (le CNU) de ce qu’il considère comme « sa » discipline ?
    Si c’est le cas, je suis fier de n’avoir jamais fait de « sociologie » au sens où il l’entend, et l’on comprendra aisément pourquoi je suis favorable à la suppression du CNU : pour que de telles nullités intellectuelles ne soient plus en mesure d’exercer leur faculté de nuisance et de reproduction éternelle de leur médiocrité.

    Jean-Louis Fabiani
    https://www.facebook.com/jeanlouis.fabiani?fref=ts

    Je voudrais rappeler à ceux qui, honte à eux, osent me traiter d’homophobe que je suis le seul universitaire français à avoir accepté de diriger la thèse de Geoffroy Daniel de Lagasnerie, au nom de la liberté d’expression, sans partager un seul de ses points de vue ?

    • D’ailleurs, comme lien vers les articles ou commentaires, il faudrait essayer de trouver les vrais liens y amenant directement et non le flux général, car une semaine, une mois, un an plus tard, ce ne sera plus pareil. Souvent ces liens sont sur les dates ou horaires (twitter, facebook, seenthis, etc). Par exemple là le vrai lien c’est :
      https://www.facebook.com/jeanlouis.fabiani/posts/10152112650029651

    • C’est vrai, mais la solution supérieure serait sans doute de réussir à intégrer le message lui-même dans le corps du billet, ce qui faciliterait la lecture et permettrait de le conserver même s’il est effacé.
      Je pense notamment au système des articles sur lemonde.fr, qui réussit à intégrer le post facebook ou twitter et sa mise en forme au corps de l’article. Mais j’avoue que je n’ai aucune idée de comment ils font…

    • C’est avec #Oembed, de la même manière que pour les vidéos ou images ici : on donne l’URL uniquement, et le système sait afficher le contenu distant en interne.

      Pour Twitter, ça pourrait être ajouté à @seenthis, car on sait que c’est court, mais si chaque lien FB (je parle du vrai lien du post) était intégré en entier, ça pourrait être énorme (sans parler des droits), sauf si on force la citation en n’affichant que les premiers N caractères.

    • J’ai une petite question, je ne suis pas sur moi même : pensez-vous qu’il st intéressant de donner autant de visibilité à ces querelles microcosmique ? Je n’ai pas trop l’impression ici qu’on soit dans une critique constructive utile, qui fait avancer le schmilblick (si je puis dire), mais je m trompe peut-être, l’alternative est que ce soit un stupide règlement de compte auquel cas l’intérêt pour le public est à peu près proche de zéro.

      Mais bon, je ne sais pas trop comment interpréter cela.

      #dubitatif

    • Le sociologue Luc Boltanski a écrit des pièces de théâtre en versets claudéliens, pas nulles d’ailleurs, mais qui rejoignent clairement des positions anti-IVG dans un style catholico-mystique assez fumeux. Vu le contexte ("Manif pour Tous", interdiction de l’avortement en Espagne, etc), Didier Eribon fait son boulot en le signalant. Non ?

    • @rastapopoulos, ok, merci beaucoup, mais quels problèmes de droits ça pourrait créer, si (comme en l’occurrence) le post est public ? Tu veux dire que c’est facebook que ça pourrait gêner ?
      @reka, Effectivement vu le tour que ça prend je suis en train d’être de plus en plus dubitatif moi-même. Cela dit, à la base, c’était plutôt parce que ça permet d’identifier un certain nombre de fractures et de chapelles différentes dans le milieu, ce qui n’est pas sans influence sur le contenu des travaux. Ce n’est pas vraiment le cas ici, mais en général je trouve que ça donne un arrière-texte intéressant à avoir en tête quand on lit certaines productions (notamment des articles ou des comptes-rendus critiques), que seuls quelques habitués des séminaires (dont je ne suis pas) peuvent vraiment contextualiser au sein du paysage universitaire.

    • En effet, pas simple, oui Irène et oui Alexandre. Je signale qu’en Norvège, puisqu’on parle de régression, la droite et l’extrême droite (coalition au pouvoir) proposent un projet de loi qui permettraient aux médecins de refuser de procéder à des avortements. La Norvège aussi, donc...

    • @cie813 Peut-être, mais pour le coup je n’ai pas l’impression que ça réponde à une grande nécessité du moment, et franchement (vu le ton) ça m’a plutôt l’air d’un réglement de comptes pour des motifs extérieurs de la part d’Eribon. Je n’ai pas particulièrement entendu Boltanski ces derniers temps, et je ne vois donc pas vraiment de raison de convoquer sa personne et ses écrits passés sur le débat, d’autant que c’est assez sévèrement ad hominem :

      ce pauvre Boltanski se situait du côté de la pensée critique quand ça lui semblait être payant (il était un disciple de Bourdieu), puis a dénoncé la pensée critique quand il est devenu payant de se rattacher à la révolution néo-conservatrice (rejoignant les cénacles chrétiens et insultant Bourdieu, et jusqu’au jour de sa mort), et il est fort probable qu’il cherche désormais à récupérer la « critique » qu’il a pratiquée puis dénoncée (ou de faire croire qu’il la récupère, tout en maintenant ses options idéologiques spiritualistes en assimilant notamment la sociologie critique à une théorie paranoïaque du complot - vieux discours de la droite, vieille rengaine de la pensée bourgeoise), puisque cela redevient peut-être payant...

      Enfin, je suis un poil sceptique sur la notion de « boulot » pour un sociologue dénonçant des sociologues, surtout qu’en l’occurrence l’ironie est qu’Eribon passe son temps à se lâcher sur « les flics de la pensée »

    • @alexandre, par défaut, sans licence explicitant autre chose, un texte appartient à son auteur, et seul lui peut décider où il veut le publier. Si tu le mets autre part, tu ne peux en mettre que des petits bouts : c’est le « droit de citation ». Mais pas plus. Un texte publié (donc public) ne veut pas dire qu’il est dans le « domaine public » !

      Avec tes références au « monde universitaire », j’eus cru que tu savais cela. :)

    • @rastapopoulos Je comprends, mais en l’occurrence c’est la notion de « texte » qui me paraît problématique : un post facebook aurait ce statut et pas un tweet ? Parce que lemonde.fr (pour y revenir) ne se gêne pas pour intégrer des tweets, y compris (me semble-t-il mais je ne suis plus certain tout à coup) anciens voire effacés par leurs auteurs.
      A partir de là, j’ai supposé (sans doute abusivement) que la différence était que la publicité du message sur twitter permettait de contourner ça.
      Donc par curiosité, tu sais si c’est la licence de twitter qui permet ça, ou si c’est juste le statut journalistique du monde.fr qui fait qu’ils ne s’encombrent pas de ça en disant qu’ils ne font que rapporter des infos ?

      Mais je suis loin d’être tout-terrain sur le « monde universitaire », d’autant que (comme on le voit un peu), quand il se transfère sur le numérique ça fait un beau bordel à tous points de vue ;)

    • C’est différent suivant plusieurs critères : la longueur du texte de base, et le but et l’auteur de la citation. Lorsqu’il s’agit pour un journal de « rendre compte de l’actualité », il peut être permis de citer un texte en entier, par exemple.

      De plus Twitter c’est une phrase ou fort peu de phrases, donc à mon avis ça revient à citer une parole de quelqu’un à l’oral, qu’il aurait prononcé à la radio ou à la télé. Quand ça devient un texte de plusieurs paragraphes, ce n’est pas forcément de la même nature.

    • @cie813, entendu dire (…) que Boltanski ayant changé de femme, il a moins de goût pour le catholicisme (réac), avec la réussite de sa carrière, cela irait jusqu’à "expliquer" son retour à des thèses plus critiques (?). Mais si on ne s’en tient pas qu’à cet aspect, on lira une recension critique de son livre phare Le Nouvel Esprit du Capitalisme dont le conservatisme des thèses de Boltanski ne sortent guère indemnes :

      La thèse qui court tout au long du « Le nouvel esprit du #capitalisme » est la suivante : la #critique_artiste (fondée sur, et revendiquant la liberté, l’autonomie et l’#authenticité) et la #critique_sociale (fondée sur, et revendiquant la solidarité, la sécurité et l’#égalité) « sont le plus souvent portées par des groupes distincts » et sont « incompatibles ».[1] Le flambeau de la critique artiste, transmis par les artistes aux étudiants de #mai_68, aurait été repris par la suite par les gens « branchés » qui travaillent dans les médias, la finance, le show business, la mode, Internet, etc., c’est-à-dire, les « créatifs » du « haut de la hiérarchie socioculturelle ». La critique sociale, par contre, portée par les ouvriers de 68, aurait été reprise par les petits gens, les subordonnés, les exclus du libéralisme. Critique artiste et critique sociale sont donc « largement incompatibles ».

      La « critique artiste » suscite un malaise chez les auteurs, voir un certain mépris, qu’ils ont du mal à cacher. De leur point de vue, cela se comprend aisément, puisque la « critique artiste […] n’est pas spontanément égalitaire ; elle court même toujours le risque d’être réinterprétée dans un sens aristocratique » et « non tempérée par les considérations d’égalité et de solidarité de la critique sociale peut très rapidement faire le jeu d’un libéralisme particulièrement destructeur comme nous l’ont montré les dernières années ». D’ailleurs, la critique artiste n’est « pas en soi nécessaire à la mise en cause efficace du capitalisme comme le montrent les succès antérieurs du mouvement ouvrier sans les renforts de la critique artiste. Mai 68 était, de ce point de vue, exceptionnel ». A la lecture, on sent aussi que le livre est parcouru par un ressentiment contre mai 68 qui, depuis quelques années, traverse les élites intellectuelles françaises, et dont font les frais, ici aussi, comme chez l’ancien ministre de l’Education Nationale, Michel #Foucault, Gilles #Deleuze et Félix #Guattari, qui, en tant que maîtres de la pensée 68, auraient déposés des germes de libéralisme dans les têtes de gens sans y prendre garde.

      Donc non seulement la critique artiste n’est pas nécessaire, sinon à « modérer le trop d’égalité de la critique sociale » qui risque de « faire fi à la liberté » (sic), mais en plus elle joue le cheval de Troie du libéralisme, à qui elle est apparenté par le goût aristocratique de la liberté, de l’autonomie et de l’authenticité que les artistes auraient transmis d’abord aux « étudiants », et qui aurait ensuite transité chez les « bobos ». Boltanski et Chiapello nous rejouent ici l’opposition de la liberté et de l’égalité , de l’autonomie et de la sécurité, d’une autre époque, sur laquelle d’ailleurs se sont cassés les dents aussi bien le socialisme et le communisme,.

      extrait de Les malheurs de la « critique artiste » et de l’emploi culturel
      http://eipcp.net/transversal/0207/lazzarato/fr

      @alexandre, quand même, Didier Eribon, entre son Retour à Reims et son D’une révolution conservatrice et de ses effets sur la gauche française, où les #socialistes sont de façon tout à fait argumentée vigoureusement étrillés, c’est un des rares académiques dont les travaux relèvent au moins pour partie de la question de l’émancipation, non ?

      #Maurizio_Lazzarato

    • @colporteur, pour être très honnête je n’ai pas lu Eribon, mais j’ai lu et entendu pas mal de choses intéressantes sur ces deux livres qui m’ont effectivement plutôt donné envie de me rattraper, encore qu’il me semble que tout cela n’a un rapport qu’assez lointain avec une démarche et une méthode sociologique. Ce n’est pas un mal, et peut-être qu’une lecture détaillée montrerait que je me trompe, mais puisque toute cette histoire est partie de là (et que c’est à cause de ça qu’Eribon a pris le bourdon)…

      Cela dit, ça n’était franchement pas mon propos (d’ailleurs je n’avais pas de propos à la base, je signalais juste le truc), mais simplement ça me paraît curieux cette mentalité mi-cour de récré, mi-ubu roi, où la situation au final c’est un type qui traite la terre entière (et notamment des universitaires qui ne sont pas tout à fait insignifiants) d’intégristes cathos, de nains de la pensée et de flics universitaires, et des réactions qui se centrent autour du fait qu’il écrit des bons bouquins à côté (ce qui me paraît un peu à côté du souci du moment).

      Au final, un propos qui a quand même fini par mûrir, c’est que voir comme ça les conflits d’égos éclater en place publique numérique, ça permet de mesurer la relativité d’une certaine pondération/nuance qu’on attend généralement des chercheurs, et de se rappeler qu’un bon paquet d’entre eux attendent essentiellement de s’engueuler comme des poissonniers (c’est juste qu’on le voit).
      Et, accessoirement, qu’il me paraît vraiment très discutable de convoquer des notions de « boulot » pour une sorte de veille documentaire intellectuelle des idées de la terre entière (btw, @cie813, Eribon a sauté dessus et a repris la chose sur sa page facebook) - mais c’est discutable, et ça peut faire partie de l’éthique d’engagement de certains. Je suis loin de supporter les anti-IVG et leurs soutiens idéologiques, mais enfin Boltanski a quand même le droit de penser et d’écrire ce qu’il veut (surtout quand c’est aussi dépourvu d’intention militante que ce qu’on convoque là) sans qu’on le rabatte sur un débat où il n’a pas voulu se pointer (à ma connaissance), pour lui faire porter une responsabilité indirecte sur une bande d’allumés.

  • Denis Kessler, l’enfant terrible du patronat, fait son retour au Medef
    http://lemonde.fr/politique/article/2013/07/01/denis-kessler-l-enfant-terrible-du-patronat-fait-son-retour-au-medef_3439951

    « Il incarnait une droite dure du patronat », rappelle l’économiste Jacques Rigaudiat, ancien conseiller social de Michel Rocard et Lionel Jospin, qui garde toutefois pour lui une profonde sympathie : "Ce n’est pas le genre mec de droite pisse-vinaigre. Il est un adversaire sympathique : on peut échanger des cigarettes avec lui par-dessus les tranchées et monter ensuite à l’assaut et au combat."

    Volontiers provocateur, séducteur à ses heures, M. Kessler ne pratique pas la langue de bois, une particularité rare dans un monde patronal très balisé. À propos de la France ? "J’en viens à perdre la foi dans ce pays frappé d’hexagonalisme - le monde ne nous attendra pas." François Hollande ? "Il aurait dû davantage parcourir le monde, comme Dominique (Strauss-Kahn, ami très proche de M. Kessler) et moi l’avons fait depuis quarante ans, plutôt que de consacrer l’essentiel de son temps à la rue de Solferino."

    Kessler, #ex-mao, est l’un des initiateurs (#intellectuel_organique) de la refondation « sociale » patronale qui a donné naissance au MEDEF , et a débutée... par une #réforme du chômage (tout comme la rigueur socialiste en 1982), à ce propos :

    • « Refondation sociale » patronale : Le gouvernement par l’individualisation, #Maurizio_Lazzarato
    http://www.cip-idf.org/article.php3?id_article=3279

    • L’éthique du bouffon, Valèrie Marange
    http://www.cip-idf.org/article.php3?id_article=3183

    • Refondation sociale patronale : Le Pare, une entreprise travailliste à la française
    http://www.cip-idf.org/article.php3?id_article=3184

    #Ewald #Denis_Kessler #Medef #précarité #chômeurs #assurance #HEC

  • Un continent littéraire inépuisable que sont les" dits et écrits" de Michel Foucault. Une pensée en mouvement qui ne cesse d’interroger et penser l’histoire,l’actualité, les idées... Paru à l’époque en quatre volumes, ils existent aujourd’hui en deux volumes dans l’excellente collection #Quarto chez #Gallimard
    http://www.ina.fr/video/I07302844

    Après un extrait de « Lecture pour tous » du 15 juin 1966, François EWALD présente les « Dits et écrits » de Michel Foucault , textes écrits par le philosophe de 1954 à sa mort en 1984, en France et dans le monde entier et rassemblés dans quatre volumes. #Arlette_FARGE parle du bonheur qu’elle a eu en lisant ces textes. #François_EWALD évoque le reportage de #FOUCAULT en Iran, dont il a soutenu la révolution de 1978. Avant de mourir, Michel FOUCAULT travaillait sur la notion de l’amitié. #Jean-Pierre_FAYE se souvient de son amitié avec FOUCAULT, de son rire, de l’affaire iranienne, de sa maladie, de l’affaire Klauss Croissant, de sa défaite par rapport à l’histoire qui a été plus rapide que lui.

    #Philosphie #Histoire #littérature #Politique #Ethique

    • Il me semble utile de préciser que l’un des intervenants sur cette #vidéo, le renégat François Ewald (http://fr.wikipedia.org/wiki/François_Ewald) est aujourd’hui directeur de l’École nationale d’assurances. Il fut l’un des tenants de la « justice prolétarienne » à la G.P, c’est-à-dire d’une conception punitive de la politique à laquelle il est en quelque sorte resté fidèle tout en changeant de côté de la barricade. Si il a travaillé avec Foucault, il a fait son chemin depuis, ce qui l’a conduit à devenir un #intellectuel_organique du patronat, l’un des initiateurs de la « refondation sociale » patronale qui a présidé à la transformation du CNPF en Mouvement des entreprises de France (#MEDEF) en 1998.

      L’éthique du bouffon, Valérie Marange
      http://www.cip-idf.org/article.php3?id_article=3183

      Quand le philosophe François Ewald, colégataire de l’oeuvre de Foucault, et son compère Denis Kessler, numéro deux du Patronat, vilipendent en coeur la « démoralisation » contemporaine c’est pour faire l’éloge de l’« économie politique du #risque » et du contrat social qui « trouve sa vérité dans l’assurance » . Dans le détournement de la référence à Foucault, l’éthique de la « refondation sociale » patronale se révèle ainsi une véritable éthique du bouffon.

      "Refondation sociale" patronale : Le gouvernement par l’individualisation, #Maurizio_Lazzarato
      http://www.cip-idf.org/article.php3?id_article=3279

      Peut-on définir la « refondation sociale » du Medef comme un projet bio-politique dans le sens foucaldien du terme ? Y a-t-il un transfert de souveraineté de l’État à l’entreprise, de ses fonctions biopolitiques ? Sommes nous confrontés à une sorte de privatisation de la biopolitique ? La refondation sociale annonce une volonté de « gouverner la société » en partant de l’entreprise. Elle affiche la détermination patronale à « gérer la vie » des individus du point de vue de la logique du profit.

      Refondation sociale patronale : Le Pare, une entreprise travailliste à la française
      http://www.cip-idf.org/article.php3?id_article=3184

      Avec le Pare (Plan d’aide au retour à l’emploi) il s’agit de régler le marché du travail par le biais de restrictions dans l’accès au salaire socialisé, de prévenir et de circonvenir ainsi une mobilité qui est toujours un objet de conflit. Un dispositif qui s’inscrit parfaitement dans la volonté du Medef de définir pour toute la classe dirigeante une nouvelle discipline du travail

      Le projet du Pare (Plan d’aide au retour à l’emploi) découle directement du consensus politique autour de ce qui est communément appelé « l’activation des dépenses passives ». En ce sens, la réponse de Lionel Jospin au mouvement des chômeurs et précaires en 1997-1998 était très claire : quelques aides financières et un fonds d’urgence (« le milliard Jospin ») accompagnaient la réaffirmation d’une orientation de principe, à savoir, le choix d’ « une société fondée sur le travail et non sur l’assistance. »
      Cette réponse était une fin de non recevoir à la revendication d’un revenu garanti pour tous que portait le mouvement. Depuis, des changements au sein du patronat organisé ont permis à celui-ci de redevenir un acteur politique. Une fraction du patronat issue des « services » (assurance, banque) construit actuellement son hégémonie sur la faillite politique du patronat industriel fordien de la métallurgie. Le Medef succède ainsi au CNPF et propose un projet qui synthétise et approfondit la restructuration de l’organisation du travail et de ses marchés à l’oeuvre depuis 25 ans. Avec pour toile de fond la décomposition d’une droite en mal de projet, le Medef initie une « refondation sociale » qui a, logiquement, pour premier volet la réforme de l’assurance-chômage.

      #chômage #précarité #capitalisme #restructuration #individualisation #gouvernementalité #refondation_sociale

    • Oui ! Un échantillon (vous en trouverez davantage à l’url indiqué ci-dessus) :

      Jack Lang. (...) Protecteur des renégats
      Tu as la futilité des girouettes, et le je-m’en-foutisme élégant de l’apparatchik un peu marginal ; aussi tes « convictions » ne t’incluent-elles pas au nombre des véritables renégats, objets de ce livre. Mais tu fus, si trop futile même pour le reniement, le maquereau, le grand protecteur des nouveaux renégats. Grâce à toi, le plus fou-fou des ministres, « l’imagination au pouvoir » des murs de la Sorbonne a servi de devise et d’excuse pour le rachat, en vrac, des intellos et #artistes de toutes tendances ; pas si fou, au fond, tu as fait des écrivains, des peintres, des #journalistes, que tu as arrosés, décorés, traînés en avion de cocktails – plus du tout Molotov, sauf la vodka – en buffets-champagne, tes complices ou tes esclaves. D’accord, la « fête gauchiste » d’autrefois était un tantinet ridicule, mais le placage du verbalisme généreux sur le bal des #nantis, sur les mondanités du #Versailles #socialiste, ce fut odieux. Protecteur des Arts et Lettres, tu fus leur proxénète.

      #renégat

  • À Francfort, la solution de la crise européenne pour Soros : « L’Allemagne a le choix entre les euro-bonds et quitter la zone euro »

    La magistrale leçon d’économie de George Soros à Angela Merkel
    http://www.latribune.fr/opinions/tribunes/20130410trib000758603/la-magistrale-lecon-d-economie-de-george-soros-a-angela-merkel.html

    Pour George Soros, les origines de la crise sont à rechercher dans l’Histoire et dans l’incomplétude du Traité de Maastricht. « Les architectes de l’euro reconnaissaient qu’il y avait là une construction incomplète : une union monétaire sans union politique », explique-t-il. S’ajoute à cela la création d’une banque centrale indépendante qui a fait s’endetter les États dans une monnaie qu’ils ne contrôlaient pas, les exposant ainsi au risque de défaut. Car, rappelle George Soros, la maîtrise de la création monétaire par un État est ce qui rend son défaut impossible.

    La solution est donc le renforcement du caractère fédérale de l’Union, en complétant l’union monétaire par une union bancaire et une union politique.

    Il complète son analyse de la méthode allemande par une intéressante considération psycholinguistique 

    L’échec de la méthode allemande reposant sur la « Schuld »
    Selon lui, la principale erreur de l’Allemagne réside dans sa manière d’appréhender cette crise. Comme le Fonds monétaire international (FMI) lors de la crise bancaire internationale de 1982, l’Allemagne identifie des États non vertueux « responsables ». « Les États périphériques se voient reprocher leur manque de discipline budgétaire et d’éthique du travail, mais cela ne suffit pas. Il est certes nécessaire que les États de la périphérie procèdent à des réformes structurelles, comme le fit l’Allemagne après sa réunification. Pour autant, ignorer que l’euro lui-même présente des problèmes structurels qui doivent être corrigés revient à ignorer la cause profonde de la crise de l’euro », explique le milliardaire.

    Ainsi ne faut-il pas y voir un discours contre les réformes structurelles demandées à un pays comme la Grèce. Ce qu’il dénonce est le fait de ne voir la résolution de la crise de la zone euro que par le seul prisme de l’austérité budgétaire. Pour George Soros, le fait que le terme allemand Schuld signifie à la fois dette, responsabilité et culpabilité, n’est pas anodin. "Son utilisation a rendu naturel pour l’opinion publique allemande le fait d’accuser les États lourdement endettés de leur propre infortune. Le fait que la Grèce ait manifestement violé les règles a contribué à cet état d’esprit.

    L’alternative au renforcement de l’Union

    L’alternative au choix d’une Europe fédérale a quant à elle de quoi surprendre les Allemands. Selon George Soros, si elle ne veut pas des euro-bonds, l’Allemagne doit tout bonnement sortir de la zone euro. Ce point de vue, défendu par un certain nombre d’économistes, repose sur l’idée selon laquelle sans l’Allemagne, l’euro se déprécierait de lui même, faisant regagner les économies en difficulté en compétitivité, sans pour autant que leur dette libellée en euros ne devienne insoutenable, comme ce serait le cas si l’Italie ou l’Espagne quittaient l’Union monétaire. « En cas de départ de l’Italie, la charge de la dette du pays libellée en euro deviendrait écrasante, et il serait nécessaire de procéder à une restructuration. Ceci plongerait le reste de l’Europe, ainsi que le reste du monde, dans un effondrement financier, qui pourrait bien dépasser la capacité des autorités monétaires à le contenir », argumente George Soros.

    Le retard dans la décision, probable vues les performances de la gouvernance de l’Eurogroupe et la campagne électorale allemande, aboutirait à une aggravation et extension de la crise avec, entre autres, un impact sur la croissance allemande et une perte d’influence de l’Allemagne sur les décisions.

  • « La dette neutralise le temps, matière première de tout changement politique ou social » - Contrôle social - Basta !
    http://www.bastamag.net/article2561.html

    Emprunt, crédit, créanciers, débiteurs, déficits, remboursement, taux d’endettement, « pacte budgétaire »… La #dette est partout, elle a envahi nos vies. Or la dette n’est pas seulement économique, elle est avant tout une construction politique. Elle n’est pas une conséquence malheureuse de la crise : elle est au cœur du projet néolibéral et permet de renforcer le contrôle des individus et des sociétés. « Le remboursement de la dette, c’est une appropriation du temps. Et le temps, c’est la vie », nous explique le sociologue et philosophe Maurizio Lazzarato (La Fabrique de l’homme endetté). Entretien.

    #politique #banques #capitalisme #néolibéralisme