• Il cotone “sporco e insostenibile” di #Zara ed #H&M e la distruzione del #Cerrado

    La Ong inglese #Earthsight ha condotto un’inchiesta per un anno lungo la filiera di questa fibra tessile: i due marchi della fast fashion avrebbero immesso sul mercato 800mila tonnellate di cotone coltivato su terreni disboscati illegalmente nella savana tropicale che copre un terzo del Brasile. “Il sistema di filiera ‘etica’ su cui si basano questi colossi è fondamentalmente difettoso”

    Se negli ultimi anni avete acquistato vestiti di cotone, asciugamani o lenzuola di H&M o Zara “probabilmente sono macchiati del saccheggio del Cerrado”, un’area ricchissima di biodiversità che copre quasi un quarto della superficie del Brasile. Sam Lawson, direttore della Ong britannica Earthsight, non usa mezzi termini per commentare l’esito dell’inchiesta “Fashion crimes. The European retail giants linked to dirty Brazilian cotton”, pubblicata l’11 aprile, che analizza la lunga e insostenibile filiera di questa fibra dalla produzione (in Brasile) alla lavorazione (in Paesi come Indonesia e Bangladesh), fino alla commercializzazione in Europa (Italia compresa) dove, secondo le stime di Earthsight, i due brand avrebbero messo in commercio prodotti realizzati con 800mila tonnellate di cotone coltivato su terreni disboscati illegalmente nel Cerrado.

    Ma andiamo con ordine. L’inchiesta di Earthsigh prende le mosse proprio dal grande Paese latinoamericano che, negli ultimi dieci anni, ha guadagnato crescente importanza nel mercato globale del cotone, di cui oggi è il secondo esportatore mondiale “e si prevede che entro il 2030 supererà gli Stati Uniti”. Il cuore di questa produzione si concentra in uno degli ecosistemi più fragili e preziosi del mondo: il Cerrado, una grande savana tropicale che ospita una delle più importanti aree di biodiversità al mondo, dove vivono oltre seimila specie di alberi così come centinaia di rettili, mammiferi, anfibi e uccelli.

    La sopravvivenza di questo inestimabile patrimonio è minacciata dalla deforestazione illegale che nel 2023 ha raggiunto livelli record, con un aumento del 43% rispetto al 2022. “Circa la metà della vegetazione nativa del Cerrado è già andata perduta, soprattutto per far posto all’espansione dell’agrobusiness”, evidenzia il report. Milioni di litri d’acqua vengono prelevati regolarmente dai fiumi e dalle falde per irrigare i campi di cotone, la cui coltivazione richiede l’utilizzo di 600 milioni di litri di pesticidi ogni anno.

    L’inchiesta di Earthsight analizza in particolare il ruolo di due dei principali produttori di cotone brasiliani: il gruppo Horita e SLC Agrícola che controllano enormi aziende e centinaia di migliaia di ettari di terreno. “Nel 2014 l’agenzia ambientale dello Stato di Bahia ha rilevato 25mila ettari deforestati illegalmente nelle aziende agricole di Horita a Estrondo -si legge nel report-. Nel 2020 la stessa agenzia ha dichiarato di non essere riuscita a trovare i permessi per altri 11.700 ettari deforestati dall’azienda tra il 2010 e il 2018”. Tra il 2010 e il 2019 l’azienda è stata multata complessivamente più di venti volte, per un totale di 4,5 milioni di dollari, per violazioni ambientali.

    https://i0.wp.com/altreconomia.it/app/uploads/2024/04/7.-Cerrado-accumulated-deforestation-1987-2022.png

    Altrettanto gravi, le denunce rivolte a SLC Agrícola: tre aziende, tutte coltivate a cotone, hanno cancellato per sempre 40mila ettari di Cerrado nativo negli ultimi 12 anni. E, sebbene l’azienda abbia adottato una politica “zero deforestazione” nel 2021, è accusata di aver distrutto altri 1.356 ettari di vegetazione nel 2022. Accuse che hanno spinto il fondo pensionistico pubblico della Norvegia a ritirare i propri investimenti nella società brasiliana.

    Al termine di un lavoro d’inchiesta di un anno -durante il quale hanno analizzato migliaia di registri di spedizione, relazioni aziendali, elenchi di fornitori e siti web– i ricercatori di Earthsight hanno ricostruito la filiera che porta il cotone coltivato illegalmente nel Cerrado nei negozi di Zara ed H&M e poi negli armadi di milioni di persone. I ricercatori hanno identificato otto produttori di abbigliamento asiatici che utilizzano il cotone Horita e SLC e che allo stesso tempo forniscono alle due società di fast fashion milioni di capi di cotone finiti. Tra questi figura l’indonesiana PT Kahatex “il più grande acquirente di cotone contaminato Horita e SLC che abbiamo trovato”. H&M è il secondo cliente dell’azienda indonesiana, da cui ha acquistato milioni di paia di calzini, pantaloncini e pantaloni che sono poi stati messi in vendita nei negozi del gruppo negli Stati Uniti, in Germania, nel Regno Unito, in Svezia, nei Paesi Bassi, in Belgio, in Spagna, in Francia, in Polonia, in Irlanda, in Italia.

    Il cotone sporco del Cerrado è finito anche negli stabilimenti di Jamuna Group, uno dei maggiori conglomerati industriali del Bangladesh: “Nei negozi Zara in Europa, fino ad agosto 2023, sono stati venduti per 235 milioni di euro jeans e altri capi in denim confezionati da Jamuna, circa 21.500 paia al giorno -si legge nel report-. Inditex importa i capi prodotti da Jamuna in Spagna e nei Paesi Bassi, da dove li distribuisce ai suoi negozi Zara, Bershka e Pull&Bear in tutta Europa”. Complessivamente, secondo le stime che i ricercatori hanno elaborato consultando i registri delle spedizioni il Gruppo Horita e SLC Agrícola hanno esportato direttamente almeno 816mila tonnellate di cotone da Bahia verso i mercati esteri tra il 2014 e il 2023. Una quantità di materia prima sufficiente a produrre dieci milioni di capi d’abbigliamento e prodotti per la casa tra lenzuola, tovaglie e tende.

    Ma come è stato possibile, si sono chiesti i ricercatori, che le catene di approvvigionamento dei due marchi di moda siano state “contaminate” da cotone brasiliano legato a deforestazione e land grabbing? “Parte della risposta sta nel fatto che le loro politiche etiche sono piene di falle. Ma soprattutto, il sistema di filiera etica su cui si basano è fondamentalmente difettoso”.

    Il riferimento è al fatto che, nel tentativo di presentarsi come sostenibili e responsabili, i due brand si sono affidati a un sistema di certificazione denominato Better Cotton (BC). “Il cotone che abbiamo collegato agli abusi ambientali a Bahia ne riportava il marchio di qualità. Questo non dovrebbe sorprendere dal momento che Better Cotton è stata ripetutamente accusata di greenwashing e criticata per non aver garantito la piena tracciabilità delle catene di approvvigionamento”, scrivono i ricercatori di Earthsight nel rapporto. Evidenziando come, sebbene dal primo marzo 2024 le regole di BC siano state aggiornate, rimangano comunque una serie di criticità e di punti deboli. A partire dal fatto che il cotone proveniente da terreni disboscati illegalmente prima del 2020 venga ancora certificato.

    “È ormai molto chiaro che i crimini legati ai beni che consumiamo devono essere affrontati attraverso la regolamentazione, non attraverso le scelte dei consumatori -conclude Sam Lawson, direttore di Earthsignt-. Ciò significa che i legislatori dei Paesi consumatori dovrebbero mettere in atto leggi forti con un’applicazione rigorosa. Nel frattempo, gli acquirenti dovrebbero pensarci due volte prima di acquistare il prossimo capo di abbigliamento in cotone”.

    https://altreconomia.it/il-cotone-sporco-e-insostenibile-di-zara-ed-hm-e-la-distruzione-del-cer
    #industrie_textile #coton #mode #déforestation #Brésil #rapport #chiffres #statistiques #SLC_Agrícola #Horita #SLC #fast-fashion #land_grabbing #accaparement_de_terres #Better_Cotton #greenwashing #green-washing

    • Fashion Crimes: The European Retail Giants Linked to Dirty Brazilian Cotton


      Key Findings:

      - The world’s largest fashion brands, H&M and Zara, use cotton linked to land grabbing, illegal deforestation, violence, human rights violations and corruption in Brazil.
      - The cotton is grown by two of Brazil’s largest agribusinesses – SLC Agrícola and the Horita Group – in western Bahia state, a part of the precious Cerrado biome, which has been heavily deforested in recent decades to make way for industrial-scale agriculture.
      - Unlike in the Amazon, deforestation in the Cerrado is getting worse. The biome is home to five per cent of the world’s species. Many face extinction due to habitat loss if current deforestation trends are not reversed.
      - For centuries, traditional communities have lived in harmony with nature. These communities have seen their lands stolen and suffered attacks by greedy agribusinesses serving global cotton markets.
      - The tainted cotton in H&M and Zara’s supply chains is certified as ethical by the world’s largest cotton certification scheme, Better Cotton, which has failed to detect the illegalities committed by SLC and Horita. Better Cotton’s deep flaws will not be addressed by a recent update to its standards.
      - Failure by the fashion sector to monitor and ensure sustainability and legality in its cotton supply chains means governments in wealthy consumer markets must regulate them. Once in place, rules must be strictly enforced.

      https://www.earthsight.org.uk/fashion-crimes

  • Elections en #Inde : #Modi désigne les musulmans comme des « infiltrés » | Les Echos
    https://www.lesechos.fr/monde/asie-pacifique/elections-en-inde-modi-designe-les-musulmans-comme-des-infiltres-2090490

    Lors d’un meeting politique, le Premier ministre a décrit les musulmans indiens comme des « infiltrés » qui allaient se saisir des richesses du pays si l’opposition venait à prendre le pouvoir. Plusieurs plaintes ont été déposées contre le Premier ministre.

    • La nouvelle informatique est également une lutte. Une lutte pour la création d’un nouveau type de superorganisme qui n’aurait pas pour objectif la maximisation de l’exploitation des ressources.

      Une lutte pour la survie de l’humanité.

      La « survie de l’humanité » aurait plutôt besoin de luttes contre l’extractivisme minier et l’industrie des métaux qu’implique la simple existence de l’informatique et de l’électronique...

      Mais bon, l’empoisonnement des terres, fleuves et nappes phréatiques, le déplacement forcé de peuples autochtones et la destruction de leur milieu, etc. (cf. C. Izoard, Ruée minière au XXIe siècle , Seuil, janvier 2024) tout ça n’est certainement qu’un « détail »...

      #technophilie #modernisme_réactionnaire

  • Une littérature enchantée
    https://laviedesidees.fr/Fleur-Hopkins-Loferon-Voir-l-invisible

    Dans le premier tiers du XXe siècle, une école littéraire a brillé sous l’appellation de « merveilleux scientifique ». Puisant dans la fiction, la #science et les techniques, elle a nourri les imaginaires de la modernité.

    #Histoire #modernité #littérature
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/20240329_enchantement.pdf
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/20240329_enchantement.docx

  • se souvient que de son temps
    Le monde était en noir et blanc :
    Pas moyen pour les enfants
    De voir la vie sur grand écran.

    Aujourd’hui pour leur malheur
    Même la télé est en couleurs :
    Le sang y coule à toutes heures
    -- la Mort aussi est sans pudeur.

  • Les raisons du déclin de la recherche en France

    Dépassée par ses concurrents en termes de #productivité_scientifique, la France voit son modèle miné de l’intérieur, dessinant une trajectoire qui l’éloigne toujours plus de son rang historique.

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    https://www.lemonde.fr/sciences/article/2021/09/28/recherche-les-raisons-du-declin-francais_6096227_1650684.html

    Non seulement l’Australie n’achètera pas de sous-marins à la France, mais en plus, ses chercheurs sont sur le point de passer devant les nôtres en termes de productivité. C’est ce qui ressort des premières données provisoires sur l’année 2020, communiquées par l’Observatoire des sciences et techniques (OST) au Monde, portant sur le volume des publications scientifiques nationales.

    En 2017, l’Italie était passée devant la France, qui se retrouve désormais à la limite d’être exclue du top 10 par le Canada, l’Espagne et l’Australie, alors qu’elle en était sixième en 2009. « Décrochage rapide depuis quinze ans », écrivaient, pour qualifier la situation française, les auteurs d’un des rapports destinés à nourrir la loi de programmation pour la recherche (LPR), votée fin 2020. Celle-ci était censée stopper l’érosion mais elle a surtout réveillé les contestations d’une communauté scientifique doutant de l’intérêt des réformes structurelles, qui depuis 2005 accompagnent ce décrochage. Même si corrélation n’est pas causalité.

    Et derrière le flétrissement du prestige français, en termes de #publications, de #moyens_financiers, de #salaires, des #fractures apparaissent au sein même de la communauté scientifique nationale, entre laboratoires riches et pauvres, vedettes et secondes lignes, titulaires et précaires… signant la fin de l’exception du #modèle_français dans le paysage mondial.

    (#paywall)

    https://www.lemonde.fr/sciences/article/2021/09/28/recherche-les-raisons-du-declin-francais_6096227_1650684.html

    #it_has_begun #it_is_the_end #recherche #université #France #déclin #ESR #précarité #précarisation

  • „Modekönigin von Berlin“: Wie Regina Friedländer die Modeindustrie aufwühlte
    https://www.berliner-zeitung.de/open-source/regina-friedlaender-wie-eine-berlinerin-die-modeindustrie-aufwuehlt


    Zwei Hutmodelle von Regina Friedländer in der Berliner Modezeitschrift Styl, 1922

    A propos de la plus célèbre créatrice de mode féminine dans le Berlin de l’empire allemand et la république de Weimar

    13.03.2024 von Bettina Müller - Vor 120 Jahren gründete Regina Friedländer ihre Modefirma in Berlin. Damit trotzte sie alten Rollenbildern. Das ist ihre Geschichte.

    Extravagante Entwürfe und zeitlose Eleganz. Die fantastischen Hut-Kreationen der Regina Friedländer, im Berlin der 1920er-Jahre von Becker & Maass fotografiert, kann man heute bequem in einer Online-Ausstellung der Kunstbibliothek der Staatlichen Museen Berlin besichtigen. Es ist eine visuelle Reise in die frühe Weimarer Zeit, als noch Aufbruchstimmung in der Stadt herrschte, sodass auch die Hüte manchmal so aussahen, als hätten sie Flügel, und somit der Trägerin auch eine gewisse Leichtigkeit verliehen.

    Kaum eine Lifestyle-Zeitschrift, in denen die Kopfbedeckungen, aber auch die Pelze und Roben aus dem Hause Regina Friedländer damals nicht zu finden waren. Sie hüllte die legendäre Anita Berber und andere Schauspielerinnen in elegante Gewänder, Aristokratinnen und Ehefrauen von Diplomaten gingen in ihrem Modesalon ein und aus. Jahrelang war ihr Name ein absoluter Garant für höchste Qualität, doch heute kennt so gut wie niemand mehr ihren Namen.

    Wer war Regina Friedländer, die die Berliner Presse damals zur „Modekönigin von Berlin“ krönte? Wer war die Frau, die damals die wohlhabenden Berlinerinnen mit ihren ausgefallenen Kunstwerken des Hutmacher- und Schneiderhandwerks beglückte? Die zudem als berufstätige Frau eine unkonventionelle Ehe mit dem zehn Jahre jüngeren Schriftsteller und Lyriker Leo Heller führte, aber auch – mit zwei Kindern aus erster Ehe – Familie und Beruf vereinbaren konnte?

    Es ist bis heute unklar, wo die 1866 als Tochter des (jüdischen) Kaufmanns David Oppler geborene Regina ihren Beruf erlernt hat. Im Sommer 1894 annonciert sie im Berliner Tageblatt und bietet „jungen Damen“ einen „Lehrkurs für feinen Damenputz“ an. Noch im selben Jahr heiratet sie den Kaufmann Hugo Friedländer. Als Putzmacherin ist sie in einem Teilbereich eines aufstrebenden Wirtschaftszweiges tätig, der sich mit der Herstellung von aller Art von Hüten und Kopfbedeckungen von Frauen und Mädchen befasst.

    Friedländer bleibt berufstätig

    Und so denkt sie nach ihrer Hochzeit, während sie ihr Korsett lockert, gar nicht daran, ihren Beruf aufzugeben und an Heim und Herd verbannt zu werden, im Gegenteil. Die Geburt ihrer Kinder Rosalie (1896) und Emanuel Werner (1900) können ihre Kreativität nicht im Keim ersticken. Wie sie die darauf folgenden Jahre die Vereinbarkeit von Familie und Beruf gemeistert hat, bleibt ihr Geheimnis, die Quellen sind rar, Eigen-Aussagen fehlen.

    Am 15. April 1904 wird sie Unternehmerin und lässt ihre Firma „Regina Friedländer“ in das Firmenregister eintragen. Das ist kurios, sie darf eine Firma gründen, aber an die Wahlurne lässt man sie noch nicht.


    Frau mit Hut von Regina Friedländer; Kunstbibliothek/Staatliche Museen zu Berlin

    In diesem Jahr ist Berlin längst das Epizentrum der deutschen Modeindustrie und der Konfektion, und beherrscht teilweise sogar den Weltmarkt. Vor allem rund um den Hausvogteiplatz haben sich große Häuser angesiedelt, die für allerhöchste Qualität bürgen, zumeist haben sie jüdische Namen wie Israel, Gerson oder Manheimer. Sie versprechen ein „Paradies der Frauen“, so der Werbeslogan von Nathan Israel.

    Zwei Jahre nach der Firmengründung wird die Ehe zwischen Regina und Hugo Friedländer durch das Königliche Landgericht aufgelöst. Der Hauptgrund für die Trennung ist ein österreichischer Poet und Schriftsteller namens Leo Heller, der seit 1901 in der Stadt ist. Er war dem Ruf Ernst von Wolzogens gefolgt, der ihn als Textdichter für sein literarisches Kabarett „Überbrettl“ nach Berlin verpflichtet hatte.

    Mode und Poesie

    Es ist ein ungleiches Paar, das in der Berliner Gesellschaft auffällt, die große und stattliche Regina und der zarte Poet Leo, der seiner Regina überaus schwärmerische Gedichte schreibt, so auch 1907 in seinem Gedichtband „Präludien der Liebe“: „Ich weiß nur eines: daß mein Sein/So nah verbunden mit dem deinen,/Daß meine Seele ewig dein/Und deine Seele in der meinen“.

    In den nächsten Jahren kann sich Regina durch Fleiß und Talent einen Namen in der Berliner Modewelt machen. Bei ihrer Arbeit hat sie einen hohen künstlerischen Anspruch, betrachtet ihre Mode, ihren Beruf, so wie ihr Ehemann, auch als Kunst, und daher ist es auch kein Zufall, dass sie im Frühjahr 1910 mit ihrem Geschäft namens „Modes“ in die Potsdamer Straße umzieht. Eine Straße wie ein Magnet, bereits seit Ende des 19. Jahrhunderts zieht sie verstärkt Künstler und Intellektuelle in ihren Bann.

    Mehrere Adressenwechsel und Einstellungsannoncen in einschlägigen Tageszeitungen, in denen sie immer wieder Laufmädchen, Buchhalterinnen, Zuarbeiterinnen und Verkäuferinnen sucht, zeugen von der stetigen Expansion ihrer Firma. 1918 gilt ihr Haus für eine Moderedakteurin bereits als „eines der führenden Berliner Modellhäuser“.

    Regina Friedländer hat mittlerweile einen Salon in der Königgrätzer Straße (heute Ebertstraße) eröffnet, den der Künstler Ludwig Kainer konzipiert hat. Und der ist für ihre Kundinnen ein Traum, der sogar in einer Kunstzeitung abgebildet wird: Man sieht Licht durchflutete Räumen, Fresko-Malereien an Wänden und Decken, eine geschmackvoll-harmonische Einrichtung. Alles strahlt eine ungeheure Leichtigkeit aus, sorgt für eine ganz besondere Atmosphäre für ihre Kundinnen, die nicht nur einen simplen Hut kaufen wollen, sondern ein Gesamt-Kunstwerk. Das „Paradies der Frauen“ ist dort für sie Wirklichkeit geworden, doch nur, wenn die Damen das nötige Kleingeld dafür haben.

    Während Regina also die Reichen und Schönen der Stadt einkleidet und behütet, treibt sich ihr Ehemann derweil in ganz anderen Kreisen herum. Er hat sich in der Zwischenzeit unter anderem vom Poeten zum Kriminalberichterstatter entwickelt, pflegt beste Beziehungen zum Berliner Polizeipräsidium, ist mit mehreren Kriminalkommissaren befreundet. Mit Kriminalkommissar Ernst Engelbrecht verfasst er mehrere Bücher über die Berliner Unterwelt. Es ist ein Unterschied wie Tag und Nacht, was der Berliner Presse nicht verborgen blieb.

    Da konnte sich ein Verriss der Texte Hellers schon mal auf seine prominente Ehefrau beziehen, ohne dabei ihren Namen zu nennen: „Er kann seine Verwandtschaft zur Konfektion nicht bemänteln“.


    Frau in Kleid mit Hut von Regina FriedländerKunstbibliothek/Staatliche Museen zu Berlin

    Die 1920er-Jahre werden für das Ehepaar Heller die erfolgreichsten ihres Lebens. Leo Heller wird nicht nur zum „Kenner“ der Berliner Unterwelt, sondern auch zum Milieu-Chanson-Texter. Regina verfolgt weiterhin konsequent die Verbindung von Mode und Kunst. Vor allem 1921 wird dieser Anspruch auch durch eine neuartige Modeausstellung im Kunstgewerbemuseum von Berlin manifestiert. Und das ist kein „Mode-Tee“, wie sie zu dieser Zeit modern sind, es laufen auch keine Mannequins über den Laufsteg, sondern es werden komplett ausgestattete Salons von diversen Modefirmen ausgestellt, ebenso die schönsten Modelle der besten Hutateliers.

    Regina Friedländer zeigt einen grauen Krepphut mit Früchten und einen Florentiner Basthut mit Blumengewinde. Die Ausstellung ist ein wahres Feuerwerk an Farben und Formen, kongenial an die Räumlichkeiten angepasst, in denen Mode tatsächlich zur Poesie wird, und umgekehrt.

    Auch bei Modellhut-Ausstellungen in anderen Städten wie zum Beispiel Hamburg werden Reginas originelle Entwürfe gezeigt. Lifestyle-Zeitschriften wie Styl (Blätter für Mode und die angenehmen Dinge des Lebens), die vom Verband der deutschen Modeindustrie herausgegeben wird, zeigen Fotos ihrer Modelle. Arbeitsreiche Jahre in einer turbulenten und flirrenden Zeit, inmitten von Crepe Georgette, Plauener Spitze, Samt, Velours und anderer Geschmeide. Bei Modeschauen, Galas, Modetees und Messen wie die Berliner Durchreise oder die Berliner Woche.

    Abschwung und Krise

    In der Mitte der 1920er-Jahre hat Regina ihren Status als Modekönigin endgültig gefestigt, bietet in ihrem exklusiven Salon in der Budapester Straße Hüte, Kleider und Pelze an. 1928 wird Deutschland von einem wirtschaftlichen Abschwung erfasst, der das darauf folgende Jahr in der Weltwirtschaftskrise und auch im Niedergang der Berliner Modeindustrie enden wird.

    Und so meldet der Deutsche Reichsanzeiger am 7. Juni 1928, dass über das Vermögen der Regina Heller geb. Oppler, Inhaberin der Firma Regina Friedländer, das Konkursverfahren eröffnet worden sei. Doch sie will nicht kampflos aufgeben, und schafft auch das zunächst. Am Ende des Jahres wird die „GmbH für die Herstellung und den Vertrieb von Damenmoden und Damenputz Regina Friedländer“ gegründet, mit Regina und einem Kaufmann namens Fritz Dix, der das Stammkapital von 25.000 Reichsmark mit einbringt, als gemeinsame Geschäftsführer.

    Am 29. November 1928 wird das Konkursverfahren aufgehoben, doch dann tobt zehn Monate später im Land die Weltwirtschaftskrise. Die Zeit für Luxus ist nun endgültig vorbei. Und auch Regina schwächelt, und während das ganze Land schon bald am Boden liegt, reicht auch die Kraft der mittlerweile Anfang 60-Jährigen nicht mehr aus. Die „Modekönigin von Berlin“ erliegt am 7. März 1932 einem unbekannten Leiden. „Des Todes Dunkel Weicht des Lebens Helle. Und auch der größte Schmerz ebbt ab“, dichtet Leo Heller und verlässt Berlin für immer in Richtung Teplitz und anschließend Prag, wo er neun Jahre später verstirbt.

    Rosalie Friedländer verheiratete Voß wird 1943 im Vernichtungslager Sobibor ermordet. Der Facharzt Dr. Emanuel Werner Friedländer, der in erster Ehe mit Lotte Ury, einer Cousine des Malers Lesser Ury verheiratet war, stirbt 1948 in Montevideo/Uruguay. Die Blütezeit der jüdischen Modesalons und Konfektionshäuser von Berlin war da schon lange vorbei, so wie luftig-leichte Verbindung von Mode und Poesie in Berlin.

    Kunstbibliothek am Kulturforum:
    #Matthäikirchplatz 6
    10785 Berlin

    Kunstbibliothek im Archäologischen Zentrum:
    #Geschwister-Scholl-Straße 6
    10117 Berlin

    Kunstbibliothek im Museum für Fotografie:
    #Jebensstraße 2
    10623 Berlin

    #Berlin #Mitte #Tiergarten #Hausvogteiplatz #Potsdamer_Straße #Königgrätzer_Straße #Budapester_Straße

    #Mode #culture #histoire #économie #vie_juive

  • Von der Leyen’s EU group plans Rwanda-style asylum schemes

    Centre-right European People’s party says it wants to create deportation deals with non-EU countries to head off rise of far right.

    The European Commission chief, #Ursula_von_der_Leyen, has given her support to controversial migration reforms that would involve deporting people to third countries for asylum processing and the imposition of a quota system for those receiving protection in EU countries.

    Manfred Weber, the leader of the European People’s party (EPP), said the policies – similar to the UK’s Rwanda scheme – had been worked out with all the parties in the EPP political group, which includes von der Leyen’s Christian Democrat Union in Germany.

    Warning that “the far right wants to destroy Europe from the inside”, Weber said the EPP would be “crystal clear” about its desire to reduce immigration in the campaign for the European elections in June.

    Asked if von der Leyen – who is expected to be nominated as the EPP’s candidate for European Commission president at its annual congress in Romania – backed these policies, Weber said: “All the programmatic positions of the European People’s party are [supported] also by Ursula von der Leyen … We do this as a team together.

    He added: “What European people expect from us – and here the European People’s party will be, in the campaign, crystal clear – you have to lower the numbers of arrivals. And we have to separate the visitors who are refugees and asylum seekers who should get the protection they need.”

    The policy is seen as an initiative to head off the rise of far-right and extremist parties such as the AfD in Germany. It envisages the EU doing a series of deals with non-EU states with a view to deporting people who have arrived via irregular migration routes for asylum processing in those “safe” third countries.

    The draft law advocating the fundamental change in European asylum regime will be considered at the EPP’s annual congress in Bucharest on Wednesday as part of the party’s manifesto discussions.

    The hardening of migration policy is likely to inflame tensions within the parliament and create external political risks for von der Leyen, who must represent the interests of the entire EU and not one political bloc in parliament, where the EPP is the largest grouping.

    She is expected to be formally selected as the EPP’s official candidate for the European Commission presidency in a vote in Romania on Thursday, meaning that it will back her for a second term in office.

    One Brussels insider said “the socialists will go mad with this” – a reference to the Socialists and Democrats, the second-biggest voting bloc in the European parliament.

    Sophie in ’t Veld, a Dutch MEP and the lead representative for the liberal Renew group on the parliament’s committee for civil liberties, justice and home affairs, called the measure “yet another unsavoury EPP chunk of red meat, meant to attract the far-right vote”.

    She added: “It will not work. All the EPP strategy has achieved over the past years is making the far right bigger. So if they know it doesn’t work, why do they stubbornly repeat the same tactics each time?”

    The EPP represents centre-right parties across Europe, including government parties in Greece, Poland, Ireland, Latvia, Croatia, Lithuania, Sweden, Romania, Finland and Luxembourg.

    Its manifesto says: “We want to implement the concept of safe third countries. Anyone applying for asylum in the EU could also be transferred to a safe third country and undergo the asylum process there.” However, in what could be seen as an effort to set itself apart from the UK’s controversial Rwanda policy, the manifesto stresses that the “criteria for safe countries shall be in line with the core obligations of the Geneva refugee convention and the European convention on human rights”.

    It says that neither of the conventions “include the right to freely choose the country of protection”.

    Developing the theme further, it says that after the “implementation of the third country concept”, it proposes the EU then “admit a quota of people in need of protection through annual humanitarian quotas of vulnerable individuals”.

    The publication of the manifesto and the launch of the EPP campaign could be start of a tricky period for von der Leyen. “I don’t think she will have any difficulty among member states, but the parliamentary vote is another game altogether,” said one diplomat.

    While very little legislation is left to negotiate, the bumps on the road to June act as a reminder of how von der Leyen came to power in 2019 – as a last-minute compromise candidate who was voted in with a wafer-thin majority.

    https://www.theguardian.com/world/2024/mar/06/eu-group-european-peoples-party-von-der-leyen-migration-reforms

    #UE #externalisation #Union_européenne #EU #procédure_d'asile #externalisation_de_la_procédure #modèle_australien #Rwanda #Rwanda-style

    –—

    ajouté à la #métaliste sur les tentatives de différentes pays européens d’#externalisation non seulement des contrôles frontaliers (►https://seenthis.net/messages/731749), mais aussi de la #procédure_d'asile dans des #pays_tiers :
    https://seenthis.net/messages/900122

  • #Ikea, le seigneur des forêts

    Derrière son image familiale et écolo, le géant du meuble suédois, plus gros consommateur de bois au monde, révèle des pratiques bien peu scrupuleuses. Une investigation édifiante sur cette firme à l’appétit démesuré.

    C’est une des enseignes préférées des consommateurs, qui équipe depuis des générations cuisines, salons et chambres d’enfants du monde entier. Depuis sa création en 1943 par le visionnaire mais controversé Ingvar Kamprad, et au fil des innovations – meubles en kit, vente par correspondance, magasins en self-service… –, la petite entreprise a connu une croissance fulgurante, et a accompagné l’entrée de la Suède dans l’ère de la consommation de masse. Aujourd’hui, ce fleuron commercial, qui participe pleinement au rayonnement du pays à l’international, est devenu un mastodonte en expansion continue. Les chiffres donnent le tournis : 422 magasins dans cinquante pays ; près d’un milliard de clients ; 2 000 nouveaux articles au catalogue par an… et un exemplaire de son produit phare, la bibliothèque Billy, vendu toutes les cinq secondes. Mais le modèle Ikea a un coût. Pour poursuivre son développement exponentiel et vendre toujours plus de meubles à bas prix, le géant suédois dévore chaque année 20 millions de mètres cubes de bois, soit 1 % des réserves mondiales de ce matériau… Et si la firme vante un approvisionnement responsable et une gestion durable des forêts, la réalité derrière le discours se révèle autrement plus trouble.

    Greenwashing
    Pendant plus d’un an, les journalistes d’investigation Xavier Deleu (Épidémies, l’empreinte de l’homme) et Marianne Kerfriden ont remonté la chaîne de production d’Ikea aux quatre coins du globe. Des dernières forêts boréales suédoises aux plantations brésiliennes en passant par la campagne néo-zélandaise et les grands espaces de Pologne ou de Roumanie, le documentaire dévoile les liens entre la multinationale de l’ameublement et l’exploitation intensive et incontrôlée du bois. Il révèle comment la marque au logo jaune et bleu, souvent via des fournisseurs ou sous-traitants peu scrupuleux, contribue à la destruction de la biodiversité à travers la planète et alimente le trafic de bois. Comme en Roumanie, où Ikea possède 50 000 hectares de forêts, et où des activistes se mobilisent au péril de leur vie contre une mafia du bois endémique. Derrière la réussite de l’une des firmes les plus populaires au monde, cette enquête inédite éclaire l’incroyable expansion d’un prédateur discret devenu un champion du greenwashing.

    https://www.arte.tv/fr/videos/112297-000-A/ikea-le-seigneur-des-forets
    #film #film_documentaire #documentaire #enquête
    #greenwashing #green-washing #bois #multinationale #meubles #Pologne #Mazovie #Mardom_House #pins #Ingvar_Kamprad #délocalisation #société_de_consommation #consumérisme #résistance #justice #Fondation_Forêt_et_citoyens #Marta_Jagusztyn #Basses-Carpates #Carpates #coupes_abusives #exploitation #exploitation_forestière #consommation_de_masse #collection #fast-furniture #catalogue #mode #marketing #neuro-marketing #manipulation #sous-traitance #chaîne_d'approvisionnement #Sibérie #Russie #Ukraine #Roumanie #accaparement_de_terres #Agent_Green #trafic_de_bois #privatisation #Gabriel_Paun #pillage #érosion_du_sol #image #prix #impact_environnemental #FSC #certification #norme #identité_suédoise #modèle_suédois #nation_branding #Estonie #Lettonie #Lituanie #lobby #mafia_forestière #coupes_rases #Suède #monoculture #sylviculture #Sami #peuples_autochtones #plantation #extrême_droite #Brésil #Parcel_Reflorestadora #Artemobili #code_de_conduite #justice #responsabilité #abattage #Nouvelle-Zélande #neutralité_carbone #compensation_carbone #maori #crédits-carbone #colonisation

    • #fsc_watch

      This site has been developed by a group of people, FSC supporters and members among them, who are very concerned about the constant and serious erosion of the FSC’s reliability and thus credibility. The group includes Simon Counsell, one of the Founder Members of the FSC; Hermann Edelmann, working for a long term FSC member organisation; and Chris Lang, who has looked critically at several FSC certifications in Thailand, Laos, Brazil, USA, New Zealand, South Africa and Uganda – finding serious problems in each case.

      As with many other activists working on forests worldwide, we share the frustration that whilst the structural problems within the FSC system have been known for many years, the formal mechanisms of governance and control, including the elected Board, the General Assembly, and the Complaints Procedures have been highly ineffective in addressing these problems. The possibility of reforming – and thus ‘saving’ – the FSC through these mechanisms is, we feel, declining, as power within the FSC is increasingly captured by vested commercial interest.

      We feel that unless drastic action is taken, the FSC is doomed to failure. Part of the problem, in our analysis, is that too few FSC members are aware of the many profound problems within the organisation. The FSC Secretariat continues to pour out ‘good news stories’ about its ‘successes’, without acknowledging, for example, the numerous complaints against certificates and certifiers, the cancellation of certificates that should never have been awarded in the first place, the calls for FSC to cease certifying where there is no local agreement to do so, the walk-outs of FSC members from national processes because of their disillusionment with the role of the economic chamber, etc. etc. etc.

      There has been no honest evaluation of what is working and what is not what working in the FSC, and no open forum for discussing these issues. This website is an attempt to redress this imbalance. The site will also help people who are normally excluded from the FSC’s processes to express their views and concerns about the FSC’s activities.

      Please share your thoughts or information. Feel free to comment on our postings or send us any information that you consider valuable for the site.

      UPDATE (25 March 2010): A couple of people have requested that we explain why we are focussing on FSC rather than PEFC. Shortly after starting FSC-Watch we posted an article titled: FSC vs PEFC: Holy cows vs the Emperor’s new clothes. As this is somewhat buried in the archives, it’s reproduced in full here (if you want to discuss this, please click on the link to go to the original post):
      FSC vs PEFC: Holy cows vs the Emperor’s new clothes

      One of the reasons I am involved in this website is that I believe that many people are aware of serious problems with FSC, but don’t discuss them publicly because the alternative to FSC is even worse. The alternative, in this case is PEFC (Programme for the Endorsement of Forest Certification schemes) and all the other certification schemes (Cerflor, Certflor, the Australian Forestry Standard, the Malaysian Timber Certification Council and so on). One person has suggested that we should set up PEFC-Watch, in order “to be even-handed”.

      The trouble with this argument is that PEFC et al have no credibility. No NGOs, people’s organisations or indigenous peoples’ organisations were involved in setting them up. Why bother spending our time monitoring something that amounts to little more than a rubber stamp? I can just see the headlines: “Rubber stamp PEFC scheme rubber stamps another controversial logging operation!” Shock, horror. The Emperor is stark bollock naked, and it’s not just some little boy pointing this out – it’s plain for all to see, isn’t it?

      One way of countering all these other schemes would be to point out that FSC is better. But, if there are serious problems with FSC – which there are, and if we can see them, so can anyone else who cares to look – then the argument starts to look very shaky.

      FSC standards aren’t bad (apart from Principle 10, which really isn’t much use to anyone except the pulp and paper industry). They say lots of things we’d probably want forest management standards to say. The trouble is that the standards are not being applied in practice. Sure, campaign against PEFC, but if FSC becomes a Holy Cow which is immune to criticism (not least because all the criticism takes place behind closed doors), then we can hardly present it as an alternative, can we?…”

      By the way, anyone who thinks that PEFC and FSC are in opposition should read this interview with Heiko Liedeker (FSC’s Executive Director) and Ben Gunneberg (PEFC’s General Secretary). In particular this bit (I thought at first it must be a mix up between FSC and PEFC, or Liedeker and Gunneberg):

      Question: As a follow-up question, Heiko Liedeker, from your perspective, is there room ultimately for programs like the Australian Forestry Standard, Certfor and others to operate under the FSC umbrella?

      Heiko Liedeker: Absolutely. FSC was a scheme that was set-up to provide mutual recognition between national standard-setting initiatives. Every national initiative sets its standard. Some of them are called FSC working groups, some of them are called something else. In the UK they are called UKWAS. We’ve been in dialogue with Edwardo Morales at Certfor Chile. They are some of the FSC requirements listed for endorsement, we certainly entered into discussion. We’ve been in discussion with the Australian Forestry Standard and other standard-setting initiatives. What FSC does not do is, it has one global scheme for recognizing certification. So we do not, and that’s one of the many differences between FSC and PEFC, we do not require the development of a certification program as such. A standard-setting program is sufficient to participate in the network.

      https://fsc-watch.com

    • Complicit in destruction: new investigation reveals IKEA’s role in the decimation of Romania’s forests

      IKEA claims to be people and planet positive, yet it is complicit in the degradation and destruction of Romania’s forests. A new report by Agent Green and Bruno Manser Fonds documents this destruction and presents clear requests to the furniture giant.

      A new investigative report (https://www.bmf.ch/upload/Kampagnen/Ikea/AG_BMF_report_IKEA_web_EN.pdf) by Agent Green and Bruno Manser Fonds shows a consistent pattern of destructive logging in IKEA-linked forests in Romania, with massive consequences for nature and climate. The findings are based on an analysis of official documents and field investigations of nine forest areas in Romania. Seven of them are owned by the IKEA-related company Ingka Investments and two are public forests supplying factories that produce for IKEA. The analysis uncovers over 50 suspected law violations and bad forest management practices. Biodiversity rich forest areas cut to the ground, intensive commercial logging conducted in ecologically sensitive or even old-growth forests without environmental assessments, dozens of meters deep tractor roads cutting through the forest are just a few of the issues documented.

      Most of the visited forests are fully or partially overlapping with EU protected areas. Some of these forests were strictly protected or under low-intensity logging before Ingka took over. Now they are all managed to maximize wood extraction, with no regard to forest habitats and their vital role for species. Only 1.04% of the total Ingka property in Romania are under a strict protection regime and 8.24% under partial protection. This is totally insufficient to meet EU goals. The EU biodiversity strategy requires the protection of a minimum of 30% of EU land area, from which 10% need to be strictly protected. One key goal is to strictly protect all remaining primary and old-growth forests in the EU.

      At the press conference in Bucharest Gabriel Păun, President of Agent Green, stated: “IKEA/Ingka seem to manage their forests like agricultural crops. Letting trees grow old is not in their culture. Removing entire forests in a short period of time is a matter of urgency for IKEA, the tree hunter. The entity disregards both the written laws and the unwritten ways of nature. IKEA does not practice what they preach regardless of whether it is the European Union nature directives, Romanian national legislation, or the FSC forest certification standard. But as a company with revenues of billions of Euros and Romania’s largest private forest owner, IKEA / Ingka should be an example of best practice.”

      Ines Gavrilut, Eastern Europe Campaigner at the Bruno Manser Fonds, added: “It is high time that IKEA started to apply its declared sustainability goals. IKEA could do so much good if it really wanted to set a good example as a forest owner, administrator, and large wood consumer in Romania and beyond. Needs could also be covered without resorting to destructive logging, without converting natural forests into plantations – but this requires tackling difficult issues such as the core of IKEA’s business model of “fast furniture”. Wood products should not be for fast consumption but should be made to last for decades.”

      Agent Green and Bruno Manser Fonds urge IKEA and the Ingka Group to get a grip on their forest operations in Romania to better control logging companies, not to source wood from national or natural parks, to effectively increase protection and apply forestry close to nature in own forests, to ensure full traceability and transparency of the IKEA supply chain, and allow independent forest oversight by civil society and investigative journalists.

      In August 2021, Agent Green published its first report documenting destruction in IKEA-linked forests in Romania. In May 2023, Agent Green and Bruno Manser Fonds sent an open letter of concern to the Ingka Group and IKEA Switzerland. BMF also started a petition demanding IKEA to stop deforestation in Romania’s protected forest areas and other high conservation value forests.

      The ARTE documentary IKEA, the tree hunter brilliantly tells the story of the real cost of IKEA furniture, the uncontrolled exploitation of wood and human labour.

      https://bmf.ch/en/news/neue-untersuchung-belegt-ikeas-beteiligung-an-der-waldzerstorung-in-rumanien-256

      #rapport

  • #Alfonsina

    Alfonsina Storni (1892–1938) est une légende en Argentine. Dans la chanson « Alfonsina et la mer », créée dans les années 1960 et encore chantée partout aujourd’hui, Alfonsina est célébrée en héroïne qui se jette dans les flots de l’Atlantique avec la bénédiction divine. La légende qui voit en elle une féministe intrépide et une poétesse aux vers scandaleux, briseuse de tabous, est née de son vivant déjà.

    https://www.swissfilms.ch/fr/movie/alfonsina/A9A534B6233A476081C99E78F53E2855
    #film #Alfonsina_Storni #poésie #Argentine #féminisme #anarchisme #modération

  • La forêt de mademoiselle Tang

    Après « Funan », récompensé en 2018 par le Cristal du long métrage au Festival d’Annecy, Denis Do balaie dans un superbe film d’animation deux siècles de l’histoire d’une famille chinoise.

    Swatow, aujourd’hui Shantou, ville du sud de la Chine. En 1886, les Occidentaux leur ayant interdit l’accès au port, Tang Hio, menuisier, n’a pu expédier par bateau la commande qu’il avait préparée avec sa femme Tang Leng Kung pour leur communauté installée au Cambodge. Pour s’occuper les mains, il part dans la forêt, où son épouse plante de jeunes pousses d’arbres, afin d’y chercher un beau tronc dans lequel réaliser une armoire pour y entreposer ce qu’ils ont de précieux. En 1922, peu après le terrible typhon qui s’est abattu sur la région, leur fils Siao Yi, devenu père de famille, songe à partir lui aussi au Cambodge. Mais ce n’est que sous l’occupation japonaise, en 1940, que son seul fils choisit l’exil…

    Héritage culturel
    Récompensé en 2018 à Annecy pour Funan, son premier long métrage d’animation inspiré du parcours de sa mère, Denis Do, réalisateur français d’origine cambodgienne, poursuit son exploration de la mémoire, de la transmission et de l’héritage familial, culturel et environnemental. Dialogué en dialecte teochew, en usage dans la province chinoise du Guandong, son moyen métrage animé nous entraîne, sur six générations et près de deux siècles, dans une évocation elliptique des grands bouleversements qui ont marqué l’histoire de la Chine, au travers d’une fresque familiale intimiste et sensible.

    https://www.arte.tv/fr/videos/090564-000-A/la-foret-de-mademoiselle-tang
    #film #court-métrage #Chine #histoire #film_d'animation #histoire_familiale #modernisation

  • Décoloniser le changement climatique

    Les destructions des écosystèmes se sont accélérées et ont exacerbé les #relations_de_dominations entre Nord et Sud globaux. L’#environnementalisme_occidental, par son exclusion d’une partie des peuples de la Terre, a échoué à proposer des outils théoriques, pratiques et politiques pour véritablement confronter la #crise_écologique globale et construire un monde plus juste. En partant des expériences des #peuples_autochtones et subalternes du Sud et Nord, et des territoires anciennement colonisés y compris des « #Outre-mer », Plurivers offre une approche plurielle des pensées de l’#écologie allant au-delà de la #modernité occidentale. Internationale, interdisciplinaire et plurilingue, cette revue permet de penser les possibilités d’action selon notre position sociale et géographique ; elle dessine différents possibles afin de #faire-monde en commun à l’heure où les conditions d’#habitabilité de la Terre sont en péril.

    https://www.editionsducommun.org/products/plurivers-1-fevrier-2024

    #changement_climatique #climat #revue #décolonial

  • L’Open Source INTelligence, une révolution de la preuve

    Le « renseignement de sources ouvertes », plus connu sous l’acronyme anglais #OSINT (#Open_Source_INTelligence), désigne la capacité de collecter et d’exploiter des données ouvertes, disponibles sans avoir besoin de recourir à des moyens légaux ou coercitifs, ni à la ruse ou au piratage.

    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/esprit-de-justice/l-open-source-intelligence-une-revolution-de-la-preuve-8810804
    #preuve #justice #traces_numériques

    #audio #podcast #images #données

  • Kauna, modératrice pour Facebook au Kenya : « J’ai vu beaucoup de suicides en vidéo » - L’Humanité
    https://www.humanite.fr/social-et-economie/facebook/kauna-moderatrice-pour-facebook-au-kenya-jai-vu-beaucoup-de-suicides-en-vid


    Attention, elle parle un peu des contenus à modérer et ça craint.

    Facebook prétend que ces contenus sont majoritairement modérés par des IA…

    C’est un #mensonge et c’est triste. Nous faisons le gros de ce travail. Mais, comme c’est caché, dans le back-office de Facebook, il est impossible de s’en rendre compte si on n’y a pas accès. On apprend à l’algorithme à repérer les contenus problématiques, mais nous devons les vérifier avant de les supprimer. C’est sûr qu’on se sent invisibilisé. Ce système devrait être expliqué, montré à tout le monde : ces entreprises technologiques font faire le travail ingrat à des travailleurs payés à peine plus d’un dollar de l’heure en Afrique.

    #IA

  • « La vraie #souveraineté_alimentaire, c’est faire évoluer notre #modèle_agricole pour préparer l’avenir »

    Professeur à l’université Paris-Saclay AgroParisTech, l’économiste de l’environnement #Harold_Levrel estime que le concept de « souveraineté alimentaire » a été détourné de sa définition originelle pour justifier un modèle exportateur et productiviste.

    Hormis les denrées exotiques, dans la plupart des secteurs, la #production_agricole nationale pourrait suffire à répondre aux besoins des consommateurs français, sauf dans quelques domaines comme les fruits ou la volaille. Or, les #importations restent importantes, en raison d’un #modèle_intensif tourné vers l’#exportation, au risque d’appauvrir les #sols et de menacer l’avenir même de la production. D’où la nécessité de changer de modèle, plaide l’économiste.

    Comment définir la souveraineté alimentaire ?

    Selon la définition du mouvement altermondialiste Via Campesina lors du sommet mondial sur l’alimentation à Rome en 1996, c’est le droit des Etats et des populations à définir leur #politique_agricole pour garantir leur #sécurité_alimentaire, sans provoquer d’impact négatif sur les autres pays. Mais les concepts échappent souvent à ceux qui les ont construits. Mais aujourd’hui, cette idée de solidarité entre les différents pays est instrumentalisée pour justifier une stratégie exportatrice, supposée profiter aux pays du Sud en leur fournissant des denrées alimentaires. Le meilleur moyen de les aider serait en réalité de laisser prospérer une #agriculture_vivrière et de ne pas les obliger à avoir eux aussi des #cultures_d’exportation. Au lieu de ça, on maintient les rentes de pays exportateurs comme la France. Quand le gouvernement et d’autres parlent d’une perte de souveraineté alimentaire, ça renvoie en réalité à une baisse des exportations dans certains secteurs, avec un état d’esprit qu’on pourrait résumer ainsi : « Make French agriculture great again. » Depuis le Covid et la guerre en Ukraine, la souveraineté alimentaire est devenue l’argument d’autorité pour poursuivre des pratiques qui génèrent des catastrophes écologiques et humaines majeures.

    Nous n’avons donc pas en soi de problème d’#autonomie_alimentaire ?

    Ça dépend dans quel domaine. Les défenseurs d’un modèle d’exploitation intensif aiment à rappeler que notre « #dépendance aux importations » est de 70 % pour le #blé dur, 40 % pour le #sucre, et 29 % pour le #porc. Mais omettent de préciser que nos taux d’auto-approvisionnement, c’est-à-dire le rapport entre la production et la consommation françaises, sont de 123 % pour le blé dur, 165 % pour le sucre, et 99 % pour le porc. Ça signifie que dans ces secteurs, la production nationale suffit en théorie à notre consommation, mais que l’on doit importer pour compenser l’exportation. Il y a en réalité très peu de produits en France sur lesquels notre production n’est pas autosuffisante. Ce sont les fruits exotiques, l’huile de palme, le chocolat, et le café. On a aussi des vrais progrès à faire sur les fruits tempérés et la viande de #volaille, où l’on est respectivement à 82 et 74 % d’auto-approvisionnement. Là, on peut parler de déficit réel. Mais il ne serait pas très difficile d’infléchir la tendance, il suffirait de donner plus d’aides aux maraîchers et aux éleveurs, qu’on délaisse complètement, et dont les productions ne sont pas favorisées par les aides de la #Politique_agricole_commune (#PAC), qui privilégient les grands céréaliers. En plus, l’augmentation de la production de #fruits et #légumes ne nécessite pas d’utiliser plus de #pesticides.

    Que faire pour être davantage autonomes ?

    A court terme, on pourrait juste rebasculer l’argent que l’on donne aux #céréaliers pour soutenir financièrement les #éleveurs et les #maraîchers. A moyen terme, la question de la souveraineté, c’est : que va-t-on être capable de produire dans dix ans ? Le traitement de l’#eau polluée aux pesticides nous coûte déjà entre 500 millions et 1 milliard d’euros chaque année. Les pollinisateurs disparaissent. Le passage en #bio, c’est donc une nécessité. On doit remettre en état la #fertilité_des_sols, ce qui suppose d’arrêter la #monoculture_intensive de #céréales. Mais pour cela, il faut évidemment réduire certaines exportations et investir dans une vraie souveraineté alimentaire, qui nécessite de faire évoluer notre modèle agricole pour préparer l’avenir.

    https://www.liberation.fr/environnement/agriculture/la-vraie-souverainete-alimentaire-cest-faire-evoluer-notre-modele-agricol
    #agriculture_intensive #industrie_agroalimentaire

  • #Destruction des #haies : la grande accélération

    Malgré les règlementations et les subventions, le bocage continue de disparaître et de se dégrader. Pour éclairer le sujet de ce bocage qui régresse, le média Splann ! a mené l’enquête dans une partie du #Trégor, au nord-ouest de la #Bretagne.

    Le bocage joue pourtant un rôle clé et structurant dans le paysage et la qualité environnementale des espaces cultivables.

    Loin d’être des alliées les haies sont devenues des plaies pour une partie des agriculteurs. Pour entretenir un bocage et des haies, il faut de la main-d’œuvre et des #savoir-faire parfois perdus. Autrefois faisant l’usage de limite entre parcelles, la haie a perdu son sens avec les nouvelles formes d’#agriculture. En Bretagne en 10 ans les exploitations ont grossi de 14ha en moyenne.

    « La disparition des haies est une conséquence de la disparition des élevages laitiers, de l’agrandissement des exploitations et de l’intensification du #modèle_agricole. 159,2km de haies détruits en 20 ans sur un territoire sensibles aux algues vertes et exceptionnel par son fleuve sauvage : la #vallée_du_Léguer. »

    https://www.radiofrance.fr/franceinter/podcasts/la-terre-au-carre/la-terre-au-carre-du-mercredi-28-fevrier-2024-8031910
    #bocage #France #agriculture_intensive #élevage

    • En Bretagne, la #dégradation du bocage continue

      Le bocage est globalement en mauvais état. D’importants arrachages de haies ont lieu en Bretagne dans des zones jusque-là préservées, en raison de l’agrandissement des fermes.

      – L’érosion qualitative du bocage se poursuit malgré les investissements publics.
      - Les zones bocagères du Centre Bretagne subissent d’importants arasements de haies sur talus.
      – La disparition des haies est une conséquence de la disparition des élevages laitiers, de l’agrandissement des exploitations et de l’intensification du modèle agricole.
      - 159,2 km de haies détruits en vingt ans sur un territoire sensible aux algues vertes et exceptionnel par son fleuve sauvage : la vallée du Léguer.

      « Quand ils ont repris mes terres, ils ont tout rasé, mis tout ça « propre ». Il y avait quatre parcelles, il n’y en a plus qu’une. J’avais des beaux chênes, c’est moi qui les avais élevés, quand même. Ça m’a fait mal au ventre, je peux te dire. » Maurice, paysan retraité dans le Goëlo (22), est amer de constater la dégradation du paysage dont il a eu la charge. C’est loin d’être un cas isolé. Les paysages et la biodiversité du bocage du nord-ouest de la France s’appauvrissent à une vitesse qui impressionne même les chercheurs.

      « C’est une période de rupture paysagère. On a été surpris par l’ampleur, l’intensité de cette transformation des paysages, qui est identique quelle que soit la zone étudiée » (— Thibaut Preux, auteur d’une thèse sur la transformation du bocage normand, et actuellement en travail d’étude dans le Centre Bretagne.)

      Les haies continuent de subir un déclin de grande ampleur. Pire : le rythme s’accélère depuis la dernière décennie. Chaque année, environ 23.500 km de haies disparaissent en France. 70 % ont été rayées de la carte depuis les remembrements des années 1950. La tendance n’est pas près de s’inverser : « La disparition et la dégradation des haies sont des conséquences inéluctables de l’évolution de notre modèle agricole, explique le rapport du Conseil général de l’alimentation, de l’agriculture et des espaces ruraux (CGAAER), remis au ministère de l’Agriculture en avril 2023. L’intensification des productions, la régression de l’élevage à l’herbe, la baisse constante du nombre d’agriculteurs avec en corollaire l’augmentation de la taille des exploitations ont fait des haies une contrainte pour l’exploitant agricole. » Cette analyse est partagée par les chambres d’agriculture de Bretagne qui désignent « l’évolution du parcellaire et des exploitations – reprises de parcelles, échanges, agrandissements d’entrée de champ » parmi les causes des arrachages.

      Pourtant, le déclin de la haie revient à perdre une alliée précieuse face à l’effondrement de la biodiversité et aux conséquences du dérèglement climatique : inondations catastrophiques, sécheresses interminables, pollution de l’eau, canicules étouffantes, autant de catastrophes accentuées par l’arrachage des talus et des haies. À l’heure où le pays se prépare à affronter un réchauffement de +4 °C, préserver le bocage est crucial tant pour l’agriculture que pour l’ensemble de la société.

      En Bretagne, la qualité du bocage s’érode toujours

      Face à cet appauvrissement du paysage, la Région Bretagne a lancé dès 2007 un programme de replantation : Breizh Bocage. En Loire-Atlantique, c’est le cadre régional « Liger Bocage et Agroforesterie » qui a été lancé en 2021. Les efforts en termes de plantations et de subventions sont indéniables (6.500 km de haies plantées depuis 2008 par la Région Bretagne). Mais le rapport du CGAAER souligne la limite des politiques publiques en faveur du bocage : « Si l’accent est souvent mis sur la création de nouvelles haies, il convient avant tout de mieux protéger le linéaire existant ».

      Le nombre de kilomètres de haies en Bretagne administrative semble stabilisé depuis 2020. Mais il faut nuancer cette avancée. Le bocage, ce ne sont pas que des haies, mais aussi des talus sans arbres et des lisières de forêt. Et quand on tient compte de tous ces éléments, on note un recul de 4 % du bocage.
      Compenser une haie fonctionnelle est impossible

      Le problème, c’est que la plupart des chiffres raisonnent en linéaires, c’est-à-dire en longueur de haies. Ils ne tiennent pas compte de la qualité effective des haies : le bocage breton est en très mauvais état. 80 % des haies sont mal entretenues [lire notre article « Le bocage, lourde charge pour les agriculteurs »], et dépérissent. C’est même la principale cause de l’érosion du bocage, avant les arasements. L’autre biais, de taille, est que la politique agricole commune (PAC) considère dans certains cas qu’on peut remplacer une haie existante par une jeune plantation : un exploitant peut donc arracher autant qu’il veut, tant qu’il compense en replantant le même équivalent linéaire un peu plus loin.

      « Un linéaire qui fonctionne bien, dense, avec des arbres anciens, on ne le compense pas avec une jeune haie avec des arbres de deux ans le long d’un bâtiment », explique Julie Le Pollès, technicienne bocage au syndicat de la baie de Douarnenez (Epab, 29). Faute de suivi et d’entretien [lire « Champ libre aux destructions »], de nombreuses haies issues de compensations périclitent : « Si ce n’est pas accompagné, on peut avoir un taux de reprise [survie des plants, NDLR] de 20-30 %. Il n’y a pas d’attente qualitative, on n’est que sur du quantitatif, et c’est là qu’il y a un problème. »

      Rupture paysagère en Centre Bretagne

      En 2022, à Spézet (29), quatre kilomètres de haies sur talus ont été arrachés et « compensés », le tout dans une zone très bocagère. Cet épisode suscite une forte indignation d’une partie de la population en Centre Bretagne, qui s’est organisée en collectifs « Kleuzioù » (« talus », en breton) pour défendre ce patrimoine paysager.

      Le sujet est sensible, car dans cette partie de la Bretagne, nombre de fermes laitières cessent leur activité et partent à l’agrandissement des exploitations voisines, faute de jeunes repreneurs. « La filière est en train de se restructurer à une vitesse grand V, parce qu’elle est pilotée de plus en plus par les industries laitières, notamment les grands groupes comme Lactalis, ou les grandes coop’ comme Agrial…, explique l’universitaire Thibaut Preux. Il est très probable que la restructuration de la filière ait des conséquences sur les paysages et notamment sur le maintien des particularités que sont les bocages, le maintien des prairies permanentes, et sur la qualité de l’eau. »

      Les disparités sont fortes entre les terroirs bretons. Dans des secteurs où le bocage a déjà été simplifié depuis les années 1970, on note peu d’évolution. Par endroits, le gain en termes de linéaires de haie est notable, grâce à Breizh Bocage : sur le bassin versant de Douarnenez, classé bassin algues vertes, une soixantaine de kilomètres de haies environ a été gagnée, selon les estimations fournies par la technicienne Julie Le Pollès.

      La dynamique est tout autre au centre de la péninsule : des Monts d’Arrée au Kreiz Breizh en passant par le Sud-Trégor, où le maillage de haies sur talus est encore dense, l’érosion qualitative récente et rapide du bocage ne fait aucun doute.

      De la source du Léguer à son embouchure, 159 km de haies détruites en vingt ans

      Difficile, à l’échelle de la Bretagne, de savoir combien de haies et talus ont ainsi disparu. Des associations, comme Eau et Rivières de Bretagne et le site Sentinelles de la Nature, s’emploient à recenser celles dont elles ont connaissance, sans parvenir à une vision exhaustive. Splann ! s’y est attelé dans une partie du Trégor, autour de la baie de Lannion, sur le territoire du Sage, un document qui élabore la stratégie locale en matière de gestion de l’eau. Le résultat est net : 159,2 km de linéaire bocager ont été détruits entre 2003 et 2023. Sollicités sur ces chiffres, ni Lannion-Trégor Communauté, ni Guingamp-Paimpol Agglomération n’ont répondu à nos questions.

      2015 : année catastrophique pour le bocage

      Point culminant des arrachages en France : la catastrophique période 2014-2016, juste avant l’entrée en vigueur de la nouvelle PAC (Politique agricole commune). L’Europe décide de passer les haies en « surfaces non-agricoles » et d’interdire leur arrachage, tout en précisant qu’elles restent éligibles aux aides. Il s’ensuit une certaine confusion : de nombreux agriculteurs s’attendent à ce que les haies diminuent les subventions auxquelles ils ont droit, qui sont calculées en fonction de la taille de leurs parcelles. De peur que leurs haies soient sanctuarisées et qu’ils ne puissent plus y toucher, de nombreux agriculteurs préfèrent les faire disparaître avant qu’elles ne figurent sur les cartes. Cette nouvelle PAC, qui avait pour objectif de protéger les haies, a finalement entraîné beaucoup de destructions.

      Combien de kilomètres de haies ont été détruits à cette période ? Difficile à dire, d’autant plus que des haies ont été gommées des cartes : les allers-retours entre services et les sous-déclarations faites par des agriculteurs ont « abouti à une forte sous-estimation du linéaire de haies », soit « plus de 30 % des linéaires qui ne sont pas protégés », estime l’association de promotion de la haie Afac-Agroforesterie dans un rapport consacré à cette mesure de « protection des haies » de la PAC. « Ils n’auraient pas interdit l’arrachage des haies, ça s’en serait pas arraché la moitié », rapporte ainsi un agriculteur, cité dans la thèse de Léo Magnin, consacrée à l’application des Bonnes conditions agricoles et environnementales (BCAE 7).
      « On ne sait pas combien de haies ont été détruites »

      Aujourd’hui, le bocage est suivi par des techniciens qui travaillent pour des collectivités locales ou syndicats de bassin versant. Suivant leurs fiches de poste et agréments, ils sont chargés de déployer les plantations du programme régional Breizh Bocage, de conseiller les agriculteurs qui souhaitent « déplacer » une haie (comprendre : « détruire » et « compenser »), et d’observer l’évolution de la maille bocagère sur l’ensemble du territoire qu’ils couvrent. Mais la tâche est ardue : obtenir des chiffres fiables et actualisés est presque impossible.

      Les données cartographiques, malgré un travail d’amélioration en cours, sont incomplètes et erronées, notamment parce que les services de l’État ont eu recours, pour identifier les éléments bocagers, à l’aide de photos aériennes, à des « travailleurs du clic » à l’étranger. Les Directions départementales des territoires et de la mer (DDTM) ont une vue d’ensemble sur les dossiers d’arrachages déclarés, mais les techniciens bocage locaux, bien souvent, n’y ont pas accès. « On ne sait pas combien de linéaire a été détruit, déplore Gwenaëlle*, technicienne bocage en Bretagne-Sud. À chaque fois on redemande à la DDTM pourquoi les arasements dont ils ont connaissance ne sont pas numérisés, on ne comprend pas comment est traité ce volet-là. »

      Aux techniciens de se débrouiller seuls pour obtenir des données sur les évolutions du maillage bocager de leur territoire, de mener leur propre travail de cartographie, très chronophage. « On n’est pas aidés par la DDTM, et ce n’est pas un euphémisme », appuie Erwan*, technicien bocage dans une collectivité, qui affirme être parvenu à obtenir, « par des chemins détournés », un jeu de données cartographiques détenu par les services de l’État. « Il y a un verrou de la part de la DDTM pour ne pas donner ça aux opérateurs de terrain », constate-t-il. Julie Le Pollès, technicienne à Douarnenez, prend l’exemple de son territoire, où la DDTM aurait consenti à donner le nombre de dossiers traités, mais pas les emplacements précis des linéaires : « Ça complique le suivi du maillage bocager. On estime que 14 km de haies ont été détruits depuis 2015, dont 9 qui étaient déclarés à la PAC. On sait qu’on a 1,7 km de compensé, mais le reste on n’en sait rien. » Contactées par Splann !, aucune des DDTM de Bretagne administrative n’a répondu à nos questions.
      « Les arasements non déclarés seraient le plus gros des arasements »

      « Sans inventaire en temps réel, c’est compliqué de dire que le bocage est stabilisé, entre ce qui est détruit et ce qui est créé, commente Ronan*, technicien bocage dans le Finistère. Si ça se trouve, il y a deux fois plus de linéaires qui ont été arasés et on ne le sait pas, en fait. » Le suivi du bocage est encore plus ardu quand les arrachages sont faits sans déclaration. Par exemple, dans le bassin versant de l’Aulne, un comptage effectué par un naturaliste pour l’association Bretagne Vivante a recensé au moins 55 km de haies détruits dans seulement six communes allant de Saint-Rivoal à Scrignac entre 2005 et 2022. D’après nos informations, la grande majorité n’aurait pas fait l’objet de déclaration ni de compensation.

      À titre de comparaison, le syndicat de bassin versant a planté une trentaine de kilomètres de haies depuis 2013, sur un territoire à cheval sur 49 communes. Bien au-dessous des destructions répertoriées sur une fraction de son territoire. « Les arasements non déclarés et que personne ne voit, je dirai que c’est le plus gros des arasements qui existent. Donc, ça reste inconnu à tous », poursuit Ronan, le technicien bocage. « C’est trop tard, on ne reviendra pas en arrière, assène Maurice, l’exploitant retraité du Goëlo (22). Et comme il y a de moins en moins de paysans, et qu’il va continuer à y en avoir de moins en moins, il y aura encore des regroupements d’exploitations, et y’aura l’arasement des talus automatiquement. Ça, il ne faut pas se voiler la face. »

      * Les prénoms ont été modifiés.

      https://splann.org/enquete/bocage/degradation-bocage-continue

  • « Sur l’environnement, le divorce entre la Macronie et la communauté scientifique est désormais consommé », Stéphane Foucart
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2024/02/18/sur-l-environnement-le-divorce-entre-la-macronie-et-la-communaute-scientifiq

    Que le pouvoir en place bloque la publication d’un rapport d’expertise n’est jamais anodin. En des temps pas si reculés, cette rupture d’une forme de pacte démocratique entre la #science et l’expertise, d’une part, et les responsables aux affaires, de l’autre, apparaissait même comme une transgression majeure et inacceptable, au point d’alimenter l’indignation des revues scientifiques internationales. A l’automne 1997, on se souvient que Nature avait consacré une couverture sans concession aux tentatives de Claude Allègre, alors ministre de la recherche, de bloquer la publication du rapport d’expertise de l’Institut national de la santé et de la recherche médicale (Inserm) sur l’amiante.

    Un quart de siècle s’est écoulé, et les mêmes manœuvres apparaissent désormais si normales et bénignes que leurs auteurs présumés ne prennent même plus la peine de les démentir. Le ministre de l’agriculture, Marc ["tu as vu, j’ai dit du bien des pesticides"] Fesneau, est ainsi, depuis mi-janvier, en possession d’un rapport de l’Agence nationale de sécurité sanitaire de l’#alimentation, de l’#environnement et du travail (#Anses) sur les plantes issues des nouvelles techniques génomiques, autrement appelées « nouveaux OGM ».

    De longue date, l’Anses avait annoncé la publication de cette expertise pour début février, c’est-à-dire avant que les députés européens ne se prononcent sur les conditions d’un assouplissement réglementaire de ces nouvelles cultures (ce qu’ils ont fait le 7 février).

    Multiplication de tribunes

    Sur cette question controversée, des lettres ouvertes signées par des centaines de scientifiques circulent et s’opposent, certaines favorables, d’autres hostiles à la dérégulation des nouvelles techniques génomiques. Dès lors, donner accès à une expertise en bonne et due forme sur le sujet aurait été nécessaire à un vote éclairé des eurodéputés. Cela n’a pas été le cas. Selon nos informations, ce rapport de l’Anses a été bloqué sur pression politique et, à l’heure où ces lignes sont écrites, il n’est toujours pas public. On ignore ce qu’il contient, mais il est fort probable qu’il ne soit pas aussi enthousiaste que l’aurait désiré le gouvernement, favorable au déploiement de ces « nouveaux #OGM ». Interrogé le 8 février par Le Monde, le cabinet de M. Fesneau n’a pas démenti le blocage du rapport de l’Anses, se bornant à répondre, deux relances et quarante-huit heures plus tard : « Pas de commentaires pour nous pour l’instant. »

    C’est un autre signe que, sur l’environnement, le divorce entre la Macronie et la communauté scientifique est désormais consommé. Il suffit de parcourir les pages « Débats » des journaux pour réaliser l’étendue de ce désamour. Le 7 février, dans Le Monde, près de 80 chercheurs des organismes publics (CNRS, Inrae, Inserm…), spécialistes des impacts des #pesticides sur l’environnement et la #santé, dénonçaient « une mise au placard des connaissances scientifiques » sur leurs sujets d’expertise.

    La veille, dans L’Obs, plus de 500 chercheurs estimaient que les décisions du gouvernement pour sortir du conflit avec les #agriculteurs contournent les questions structurelles posées par le mouvement et ne font que « préparer la prochaine crise » du secteur. Deux jours plus tard, dans La Croix, 140 autres contestaient la mise à l’arrêt du plan national de réduction des pesticides, expliquant que « l’impact délétère [de ceux-ci] sur la santé et sur l’environnement n’est pas une opinion mais un fait scientifique ». Un peu plus tôt, près de 1 600 scientifiques demandaient, dans une lettre ouverte, l’abandon du chantier de l’A69, l’autoroute entre Toulouse et Castres (Tarn). D’autres prises de position collectives, sur la gestion de l’eau notamment, ne devraient pas tarder.

    Pilule amère pour les chercheurs

    Pour les chercheurs qui constatent que des années d’efforts et de travail, de publications scientifiques et de rapports d’expertise ne servent, en définitive, à rien d’autre qu’à alimenter les indices bibliométriques de leurs organismes, la pilule est amère. Au point que la direction scientifique d’un organisme comme l’Inrae a pris sa plus belle plume pour adresser à tous ses chercheurs engagés dans le programme « Cultiver et protéger autrement » un mot « de soutien, et d’encouragement à continuer nos recherches ».

    Un message d’une nature inédite, qui en dit long sur le moral des troupes. Le directeur scientifique pour l’agriculture de l’Inrae, Christian Huyghe, leur rappelle l’utilité et la nécessité de leurs travaux. « La recherche publique est au bon endroit en pensant loin », leur écrit-il, citant quelques résultats récents montrant l’insoutenabilité du #modèle_agricole dominant actuel. M. Huyghe cite en particulier une étude publiée à l’été 2023 indiquant une chute de 95 % de la biomasse d’insectes au cours des vingt-quatre dernières années, dans les zones de grandes cultures allemandes. Des résultats inquiétants, même s’il est plus terrifiant encore de penser que ceux qui décident aujourd’hui de l’agriculture de demain n’en ont aucune connaissance, n’en comprennent manifestement pas la gravité ou, peut-être, s’en moquent complètement.

    A la seule évolution de son rapport aux sciences de l’environnement, on mesure toute l’amplitude de la trajectoire du macronisme le long du spectre politique. On s’en souvient : en 2017, l’un des gestes forts du premier quinquennat d’Emmanuel Macron fut d’opposer au MAGA (« Make America great again ») de Donald Trump, le Mopga (« Make our planet great again ») du chef de l’Etat français – programme dont le but premier était d’accueillir en France des scientifiques brimés aux Etats-Unis, parce que travaillant sur le climat ou sur la biodiversité. En moins de dix ans, le renversement aura donc été total. Le Mopga, glisse un chercheur désabusé pastichant les codes du marketing politique de la Macronie, est devenu une sorte de Mopdaa (« Make our planet dead after all », « Faire mourir notre planète finalement »).

    #écologie

    • Comment une partie du CNRS a relayé une campagne d’influence en faveur des « nouveaux OGM »
      https://www.lemonde.fr/planete/article/2024/02/09/comment-une-partie-du-cnrs-a-relaye-une-campagne-d-influence-en-faveur-des-n


      Des membres de l’Institut de biologie moléculaire des plantes (IBMP) de Strasbourg posent avec un message en faveur des nouvelles techniques génomiques. Photo postée le 5 février 2023 sur X par le compte de l’IBMP. @CNRS_IBMP / X

      Le vote des eurodéputés sur la législation encadrant les nouvelles #techniques_génomiques, le 7 février, a donné lieu à une opération de communication impliquant des instances de l’organisation scientifique. Au grand dam de nombre de ses chercheurs.
      Par Stéphane Foucart, le 09 février 2024

      Le recours à l’#autorité_scientifique est un levier politique puissant. En amont du vote des eurodéputés, mercredi 7 février, sur les conditions d’autorisation en Europe des « nouveaux OGM » (organismes génétiquement modifiés), l’organisation WePlanet a orchestré sur les réseaux sociaux une campagne d’influence fondée sur la mise en avant de chercheurs favorables à la dérégulation de la diffusion de ces plantes, issues des nouvelles techniques génomiques (#NGT pour New Genomic Techniques). L’organisation, qui se présente comme une « ONG éco-moderniste » et milite pour le nucléaire, les OGM et le développement de l’alimentation cellulaire, a bénéficié d’un appui appréciable en France : celui d’une partie du Centre national de la recherche scientifique (#CNRS).

      Deux jours avant le vote, de hautes instances du vaisseau amiral de la recherche française ont, selon les informations du Monde, invité les chercheurs de l’#institut_de_biologie, l’un des dix départements principaux du CNRS, à participer à la campagne de WePlanet, en leur transmettant les éléments de communication concoctés par l’organisation : hashtags, tweets prérédigés, consignes d’interpellation des parlementaires, etc.
      Daté du 5 février, le courriel est adressé par le secrétariat de l’institut de biologie du CNRS à une quinzaine de directeurs d’unités. Sa fuite, dans des listes de diffusion de chercheurs d’universités et d’organismes publics, alimente de nombreux commentaires. Interrogée, la direction de la communication du CNRS assure que la décision de relayer la campagne de WePlanet relève d’une décision de son institut de biologie, « adressée uniquement aux chercheurs de cet institut ».

      « Hold-up »

      « Le CNRS est en faveur d’un assouplissement de la réglementation des OGM sur les NGT afin d’accélérer la recherche et l’innovation à partir de ces nouvelles techniques, lit-on dans le message. A l’occasion de ce débat, #WePlanet a coordonné l’écriture d’une lettre ouverte, notamment signée par Emmanuelle Charpentier et Jennifer Doudna, Prix Nobel de chimie 2020, et envoyée aux membres du Parlement européen pour les inciter à voter en faveur d’une réglementation assouplie pour les nouvelles techniques génomiques. »
      Le message relaie la proposition de WePlanet aux scientifiques « de se prendre en photo devant leur laboratoire et de publier leur image sur les réseaux sociaux en utilisant le #GiveGenesAChance [“Donnez une chance aux gènes”] et #NGTs ».

      La lettre ouverte coordonnée par l’organisation WePlanet et relayée par l’institut de biologie du CNRS appelle les parlementaires européens à « examiner attentivement les avantages de l’adoption des NGT », à « rejeter les ténèbres de l’alarmisme anti-science et à se tourner vers la lumière de la prospérité et du progrès ».
      Le texte a été signé par environ 1 500 scientifiques européens, souvent chercheurs en biologie moléculaire ou en génétique végétale, dont un peu moins d’une vingtaine déclarant une affiliation au CNRS. Les NGT sont toutefois l’objet de grandes divergences d’opinions au sein de la communauté scientifique, souvent selon les champs disciplinaires.

      En écologie et évolution, parmi de nombreux chercheurs interrogés par Le Monde, ou s’étant exprimés sur des listes de diffusion scientifiques, la stupéfaction et la réprobation dominent. « Un hold-up de quelques-uns sur la voix et la réputation de nos institutions », grince un professeur du Muséum national d’histoire naturelle. « Consterné par une prise de position publique de certains acteurs au CNRS qui prend en otage l’ensemble de l’établissement », confie au Monde un écologue, directeur de recherche au CNRS. « Hallucinant et scandaleux », dit un autre, généticien à l’Institut national de recherche pour l’agriculture, l’alimentation et l’environnement.

      « Texte partisan »

      Le biologiste François Parcy, médaille d’argent du CNRS, a pour sa part signé la lettre ouverte de WePlanet et a posté sur son compte X une photo en faveur des NGT. « Je l’ai fait par adhésion au message véhiculé, sans avoir reçu ce mail d’invitation du CNRS, dit-il. Cette démarche est surprenante au regard de la frilosité de nos organismes sur ces sujets, mais je trouve bien que l’institut de biologie [du CNRS] s’engage sur ce sujet, alors que de nombreux chercheurs favorables à ces technologies n’osent pas prendre la parole publiquement. »

      « Ce texte apparaît partisan et néglige les données scientifiques en écologie et en évolution sur les conséquences désastreuses pour l’environnement des OGM, qui n’ont fait qu’augmenter les quantités de pesticides répandues sans améliorer les rendements et ont permis de l’appropriation du vivant par des brevets », fait valoir une chercheuse en génétique et écologie évolutives, directrice de recherche au CNRS et membre de l’Académie des sciences.

      L’institut de biologie du CNRS dit ne pas disposer d’« informations précises » sur l’association. Les responsables de WePlanet assurent, eux, que leur organisation a été fondée en février 2022. Installée à Bruxelles, elle dispose de représentants dans plusieurs pays européens – sa représentante en France est une ex-cadre d’Areva, fondatrice de l’association Voix du nucléaire.

      « Permettre un débat contradictoire »

      Selon l’institut de biologie, « la position officielle du CNRS [en faveur d’une dérégulation des NGT] a été établie au terme de réunions avec cinq autres instituts de recherche européens ». La direction du CNRS reconnaît cependant que cette position n’est pas le fruit d’une confrontation pluridisciplinaire de points de vue.
      La juriste Christine Noiville, directrice de recherche au CNRS et présidente de son comité d’éthique (Comets), dit comprendre que, derrière la position du CNRS, « il y a le spectre des arrachages d’OGM qui plane encore et la nécessité de respecter la liberté académique ». Mme Noiville rappelle toutefois l’un des avis récents du Comets selon lequel « si le CNRS venait à décider de s’engager en tant qu’institution, c’est-à-dire s’il prenait des positions publiques et normatives sur des sujets de société, (…) il devrait respecter les règles qui s’appliquent aux #chercheurs – faire connaître clairement sa position, expliciter les objectifs et valeurs qui la sous-tendent – et permettre un débat contradictoire au sein de l’institution ».

      La physicienne Michèle Leduc, directrice de recherche émérite au CNRS, ancienne présidente du Comets, se dit pour sa part très surprise par cette initiative de l’institut de biologie, qui « s’adresse directement à ses directeurs de laboratoire avec des injonctions précises et sans justifier ses options, sur un sujet qui fait l’objet de vifs débats scientifiques, non totalement tranchés et porteurs de graves enjeux politiques ». Elle rappelle « la nécessité du #débat_démocratique éclairé par les scientifiques sur les questions économiques et sociétales ».

      Cet article a été modifié samedi 10 février 2024 pour supprimer les propos d’une chercheuse qui ne souhaite pas être citée.

  • #Université, service public ou secteur productif ?

    L’#annonce d’une “vraie #révolution de l’Enseignement Supérieur et la Recherche” traduit le passage, organisé par un bloc hégémonique, d’un service public reposant sur des #carrières, des #programmes et des diplômes à l’imposition autoritaire d’un #modèle_productif, au détriment de la #profession.

    L’annonce d’une « #vraie_révolution » de l’Enseignement Supérieur et la Recherche (ESR) par Emmanuel Macron le 7 décembre, a pour objet, annonce-t-il, d’« ouvrir l’acte 2 de l’#autonomie et d’aller vers la #vraie_autonomie avec des vrais contrats pluriannuels où on a une #gouvernance qui est réformée » sans recours à la loi, avec un agenda sur dix-huit mois et sans modifications de la trajectoire budgétaire. Le président sera accompagné par un #Conseil_présidentiel_de_la_science, composé de scientifiques ayant tous les gages de reconnaissance, mais sans avoir de lien aux instances professionnelles élues des personnels concernés. Ce Conseil pilotera la mise en œuvre de cette « révolution », à savoir transformer les universités, en s’appuyant sur celles composant un bloc d’#excellence, et réduire le #CNRS en une #agence_de_moyen. Les composantes de cette grande transformation déjà engagée sont connues. Elle se fera sans, voire contre, la profession qui était auparavant centrale. Notre objet ici n’est ni de la commenter, ni d’en reprendre l’historique (Voir Charle 2021).

    Nous en proposons un éclairage mésoéconomique que ne perçoit ni la perspective macroéconomique qui pense à partir des agrégats, des valeurs d’ensemble ni l’analyse microéconomique qui part de l’agent et de son action individuelle. Penser en termes de mésoéconomie permet de qualifier d’autres logiques, d’autres organisations, et notamment de voir comment les dynamiques d’ensemble affectent sans déterminisme ce qui s’organise à l’échelle méso, et comment les actions d’acteurs structurent, elles aussi, les dynamiques méso.

    La transformation de la régulation administrée du #système_éducatif, dont nombre de règles perdurent, et l’émergence d’une #régulation_néolibérale de l’ESR, qui érode ces règles, procède par trois canaux : transformation du #travail et des modalités de construction des #carrières ; mise en #concurrence des établissements ; projection dans l’avenir du bloc hégémonique (i.e. les nouveaux managers). L’action de ces trois canaux forment une configuration nouvelle pour l’ESR qui devient un secteur de production, remodelant le système éducatif hier porté par l’État social. Il s’agissait de reproduire la population qualifiée sous l’égide de l’État. Aujourd’hui, nous sommes dans une nouvelle phase du #capitalisme, et cette reproduction est arrimée à l’accumulation du capital dans la perspective de #rentabilisation des #connaissances et de contrôle des professionnels qui l’assurent.

    Le couplage de l’évolution du système d’ESR avec la dynamique de l’#accumulation, constitue une nouvelle articulation avec le régime macro. Cela engendre toutefois des #contradictions majeures qui forment les conditions d’une #dégradation rapide de l’ESR.

    Co-construction historique du système éducatif français par les enseignants et l’État

    Depuis la Révolution française, le système éducatif français s’est déployé sur la base d’une régulation administrée, endogène, co-construite par le corps enseignant et l’État ; la profession en assumant de fait la charge déléguée par l’État (Musselin, 2022). Historiquement, elle a permis la croissance des niveaux d’éducation successifs par de la dépense publique (Michel, 2002). L’allongement historique de la scolarité (fig.1) a permis de façonner la force de travail, facteur décisif des gains de productivité au cœur de la croissance industrielle passée. L’éducation, et progressivement l’ESR, jouent un rôle structurant dans la reproduction de la force de travail et plus largement de la reproduction de la société - stratifications sociales incluses.

    À la fin des années 1960, l’expansion du secondaire se poursuit dans un contexte où la détention de diplômes devient un avantage pour s’insérer dans l’emploi. D’abord pour la bourgeoisie. La massification du supérieur intervient après les années 1980. C’est un phénomène décisif, visible dès les années 1970. Rapidement cela va télescoper une période d’austérité budgétaire. Au cours des années 2000, le pilotage de l’université, basé jusque-là sur l’ensemble du système éducatif et piloté par la profession (pour une version détaillée), s’est effacé au profit d’un pilotage pour et par la recherche, en lien étroit avec le régime d’accumulation financiarisé dans les pays de l’OCDE. Dans ce cadre, l’activité économique est orientée par l’extraction de la valeur financière, c’est à dire principalement par les marchés de capitaux et non par l’activité productive (Voir notamment Clévenot 2008).
    L’ESR : formation d’un secteur productif orienté par la recherche

    La #massification du supérieur rencontre rapidement plusieurs obstacles. Les effectifs étudiants progressent plus vite que ceux des encadrants (Piketty met à jour un graphique révélateur), ce qui entrave la qualité de la formation. La baisse du #taux_d’encadrement déclenche une phase de diminution de la dépense moyenne, car dans l’ESR le travail est un quasi-coût fixe ; avant que ce ne soit pour cette raison les statuts et donc la rémunération du travail qui soient visés. Ceci alors que pourtant il y a une corrélation étroite entre taux d’encadrement et #qualité_de_l’emploi. L’INSEE montre ainsi que le diplôme est un facteur d’amélioration de la productivité, alors que la productivité plonge en France (voir Aussilloux et al. (2020) et Guadalupe et al. 2022).

    Par ailleurs, la massification entraine une demande de différenciation de la part les classes dominantes qui perçoivent le #diplôme comme un des instruments de la reproduction stratifiée de la population. C’est ainsi qu’elles se détournent largement des filières et des établissements massifiés, qui n’assurent plus la fonction de « distinction » (voir le cas exemplaire des effectifs des #écoles_de_commerce et #grandes_écoles).

    Dans le même temps la dynamique de l’accumulation suppose une population formée par l’ESR (i.e. un niveau de diplomation croissant). Cela se traduit par l’insistance des entreprises à définir elles-mêmes les formations supérieures (i.e. à demander des salariés immédiatement aptes à une activité productive, spécialisés). En effet la connaissance, incorporée par les travailleurs, est devenue un actif stratégique majeur pour les entreprises.

    C’est là qu’apparaît une rupture dans l’ESR. Cette rupture est celle de la remise en cause d’un #service_public dont l’organisation est administrée, et dont le pouvoir sur les carrières des personnels, sur la définition des programmes et des diplômes, sur la direction des établissements etc. s’estompe, au profit d’une organisation qui revêt des formes d’un #secteur_productif.

    Depuis la #LRU (2007) puis la #LPR (2020) et la vague qui s’annonce, on peut identifier plusieurs lignes de #transformation, la #mise_en_concurrence conduisant à une adaptation des personnels et des établissements. Au premier titre se trouvent les instruments de #pilotage par la #performance et l’#évaluation. À cela s’ajoute la concurrence entre établissements pour l’#accès_aux_financements (type #Idex, #PIA etc.), aux meilleures candidatures étudiantes, aux #labels et la concurrence entre les personnels, pour l’accès aux #dotations (cf. agences de programmes, type #ANR, #ERC) et l’accès aux des postes de titulaires. Enfin le pouvoir accru des hiérarchies, s’exerce aux dépens de la #collégialité.

    La généralisation de l’évaluation et de la #sélection permanente s’opère au moyen d’#indicateurs permettant de classer. Gingras évoque une #Fièvre_de_l’évaluation, qui devient une référence définissant des #standards_de_qualité, utilisés pour distribuer des ressources réduites. Il y a là un instrument de #discipline agissant sur les #conduites_individuelles (voir Clémentine Gozlan). L’important mouvement de #fusion des universités est ainsi lié à la recherche d’un registre de performance déconnecté de l’activité courante de formation (être université de rang mondial ou d’université de recherche), cela condensé sous la menace du #classement_de_Shanghai, pourtant créé dans un tout autre but.

    La remise en question du caractère national des diplômes, revenant sur les compromis forgés dans le temps long entre les professions et l’État (Kouamé et al. 2023), quant à elle, assoit la mise en concurrence des établissements qui dépossède en retour la profession au profit des directions d’établissement.

    La dynamique de #mise_en_concurrence par les instruments transforme les carrières et la relation d’#emploi, qui reposaient sur une norme commune, administrée par des instances élues, non sans conflit. Cela fonctionne par des instruments, au sens de Lascoumes et Legalès, mais aussi parce que les acteurs les utilisent. Le discours du 7 décembre est éloquent à propos de la transformation des #statuts pour assurer le #pilotage_stratégique non par la profession mais par des directions d’établissements :

    "Et moi, je souhaite que les universités qui y sont prêtes et qui le veulent fassent des propositions les plus audacieuses et permettent de gérer la #ressource_humaine (…) la ministre m’a interdit de prononcer le mot statut. (…) Donc je n’ai pas dit qu’on allait réformer les statuts (…) moi, je vous invite très sincèrement, vous êtes beaucoup plus intelligents que moi, tous dans cette salle, à les changer vous-mêmes."

    La démarche est caractéristique du #new_management_public : une norme centrale formulée sur le registre non discutable d’une prétérition qui renvoie aux personnes concernées, celles-là même qui la refuse, l’injonction de s’amputer (Bechtold-Rognon & Lamarche, 2011).

    Une des clés est le transfert de gestion des personnels aux établissements alors autonomes : les carrières, mais aussi la #gouvernance, échappent progressivement aux instances professionnelles élues. Il y a un processus de mise aux normes du travail de recherche, chercheurs/chercheuses constituant une main d’œuvre qui est atypique en termes de formation, de types de production fortement marqués par l’incertitude, de difficulté à en évaluer la productivité en particulier à court terme. Ce processus est un marqueur de la transformation qui opère, à savoir, un processus de transformation en un secteur. La #pénurie de moyen public est un puissant levier pour que les directions d’établissement acceptent les #règles_dérogatoires (cf. nouveaux contrats de non titulaires ainsi que les rapports qui ont proposé de spécialiser voire de moduler des services).

    On a pu observer depuis la LRU et de façon active depuis la LPR, à la #destruction régulière du #compromis_social noué entre l’État social et le monde enseignant. La perte spectaculaire de #pouvoir_d’achat des universitaires, qui remonte plus loin historiquement, en est l’un des signaux de fond. Il sera progressivement articulé avec l’éclatement de la relation d’emploi (diminution de la part de l’emploi sous statut, #dévalorisation_du_travail etc.).

    Arrimer l’ESR au #régime_d’accumulation, une visée utilitariste

    L’État est un acteur essentiel dans l’émergence de la production de connaissance, hier comme commun, désormais comme résultat, ou produit, d’un secteur productif. En dérégulant l’ESR, le principal appareil de cette production, l’État délaisse la priorité accordée à la montée de la qualification de la population active, au profit d’un #pilotage_par_la_recherche. Ce faisant, il radicalise des dualités anciennes entre système éducatif pour l’élite et pour la masse, entre recherche utile à l’industrie et recherche vue comme activité intellectuelle (cf. la place des SHS), etc.

    La croissance des effectifs étudiants sur une période assez longue, s’est faite à moyens constants avec des effectifs titulaires qui ne permettent pas de maintenir la qualité du travail de formation (cf. figure 2). L’existence de gisements de productivité supposés, à savoir d’une partie de temps de travail des enseignants-chercheurs inutilisé, a conduit à une pénurie de poste et à une recomposition de l’emploi : alourdissement des tâches des personnels statutaires pour un #temps_de_travail identique et développement de l’#emploi_hors_statut. Carpentier & Picard ont récemment montré, qu’en France comme ailleurs, le recours au #précariat s’est généralisé, participant par ce fait même à l’effritement du #corps_professionnel qui n’a plus été à même d’assurer ni sa reproduction ni ses missions de formation.

    C’est le résultat de l’évolution longue. L’#enseignement est la part délaissée, et les étudiants et étudiantes ne sont plus au cœur des #politiques_universitaires : ni par la #dotation accordée par étudiant, ni pour ce qui structure la carrière des universitaires (rythmée par des enjeux de recherche), et encore moins pour les dotations complémentaires (associées à une excellence en recherche). Ce mouvement se met toutefois en œuvre en dehors de la formation des élites qui passent en France majoritairement par les grandes écoles (Charle et Soulié, 2015). Dès lors que les étudiants cessaient d’être le principe organisateur de l’ESR dans les universités, la #recherche pouvait s’y substituer. Cela intervient avec une nouvelle convention de qualité de la recherche. La mise en œuvre de ce principe concurrentiel, initialement limité au financement sur projets, a été élargie à la régulation des carrières.

    La connaissance, et de façon concrète le niveau de diplôme des salariés, est devenu une clé de la compétitivité, voire, pour les gouvernements, de la perspective de croissance. Alors que le travail de recherche tend à devenir une compétence générale du travail qualifié, son rôle croissant dans le régime d’accumulation pousse à la transformation du rapport social de travail de l’ESR.

    C’est à partir du système d’#innovation, en ce que la recherche permet de produire des actifs de production, que l’appariement entre recherche et profit participe d’une dynamique nouvelle du régime d’accumulation.

    Cette dynamique est pilotée par l’évolution jointe du #capitalisme_financiarisé (primauté du profit actionnarial sur le profit industriel) et du capitalisme intensif en connaissance. Les profits futurs des entreprises, incertains, sont liés d’une part aux investissements présents, dont le coût élevé repose sur la financiarisation tout en l’accélérant, et d’autre part au travail de recherche, dont le contrôle échappe au régime historique de croissance de la productivité. La diffusion des compétences du travail de recherche, avec la montée des qualifications des travailleurs, et l’accumulation de connaissances sur lequel il repose, deviennent primordiaux, faisant surgir la transformation du contenu du travail par l’élévation de sa qualité dans une division du travail qui vise pourtant à l’économiser. Cela engendre une forte tension sur la production des savoirs et les systèmes de transmission du savoir qui les traduisent en connaissances et compétences.

    Le travail de recherche devenant une compétence stratégique du travail dans tous les secteurs d’activité, les questions posées au secteur de recherche en termes de mesure de l’#efficacité deviennent des questions générales. L’enjeu en est l’adoption d’une norme d’évaluation que les marchés soient capables de faire circuler parmi les secteurs et les activités consommatrices de connaissances.

    Un régime face à ses contradictions

    Cette transformation de la recherche en un secteur, arrimé au régime d’accumulation, suppose un nouveau compromis institutionnalisé. Mais, menée par une politique néolibérale, elle se heurte à plusieurs contradictions majeures qui détruisent les conditions de sa stabilisation sans que les principes d’une régulation propre ne parviennent à émerger.

    Quand la normalisation du travail de recherche dévalorise l’activité et les personnels

    Durant la longue période de régulation administrée, le travail de recherche a associé le principe de #liberté_académique à l’emploi à statut. L’accomplissement de ce travail a été considéré comme incompatible avec une prise en charge par le marché, ce dernier n’étant pas estimé en capacité de former un signal prix sur les services attachés à ce type de travail. Ainsi, la production de connaissance est un travail entre pairs, rattachés à des collectifs productifs. Son caractère incertain, la possibilité de l’erreur sont inscrits dans le statut ainsi que la définition de la mission (produire des connaissances pour la société, même si son accaparement privé par la bourgeoisie est structurel). La qualité de l’emploi, notamment via les statuts, a été la clé de la #régulation_professionnelle. Avec la #mise_en_concurrence_généralisée (entre établissements, entre laboratoires, entre Universités et grandes écoles, entre les personnels), le compromis productif entre les individus et les collectifs de travail est rompu, car la concurrence fait émerger la figure du #chercheur_entrepreneur, concerné par la #rentabilisation des résultats de sa recherche, via la #valorisation sous forme de #propriété_intellectuelle, voire la création de #start-up devenu objectifs de nombre d’université et du CNRS.

    La réponse publique à la #dévalorisation_salariale évoquée plus haut, passe par une construction différenciée de la #rémunération, qui rompt le compromis incarné par les emplois à statut. Le gel des rémunérations s’accompagne d’une individualisation croissante des salaires, l’accès aux ressources étant largement subordonné à l’adhésion aux dispositifs de mise en concurrence. La grille des rémunérations statutaires perd ainsi progressivement tout pouvoir organisationnel du travail. Le rétrécissement de la possibilité de travailler hors financements sur projet est indissociable du recours à du #travail_précaire. La profession a été dépossédée de sa capacité à défendre son statut et l’évolution des rémunérations, elle est inopérante à faire face à son dépècement par le bloc minoritaire.

    La contradiction intervient avec les dispositifs de concurrence qui tirent les instruments de la régulation professionnelle vers une mise aux normes marchandes pour une partie de la communauté par une autre. Ce mouvement est rendu possible par le décrochage de la rémunération du travail : le niveau de rémunération d’entrée dans la carrière pour les maîtres de conférences est ainsi passé de 2,4 SMIC dans les années 1980 à 1,24 aujourd’hui.

    Là où le statut exprimait l’impossibilité d’attacher une valeur au travail de recherche hors reconnaissance collective, il tend à devenir un travail individualisable dont le prix sélectionne les usages et les contenus. Cette transformation du travail affecte durablement ce que produit l’université.

    Produire de l’innovation et non de la connaissance comme communs

    Durant la période administrée, c’est sous l’égide de la profession que la recherche était conduite. Définissant la valeur de la connaissance, l’action collective des personnels, ratifiée par l’action publique, pose le caractère non rival de l’activité. La possibilité pour un résultat de recherche d’être utilisé par d’autres sans coût de production supplémentaire était un gage d’efficacité. Les passerelles entre recherche et innovation étaient nombreuses, accordant des droits d’exploitation, notamment à l’industrie. Dans ce cadre, le lien recherche-profit ou recherche-utilité économique, sans être ignoré, ne primait pas. Ainsi, la communauté professionnelle et les conditions de sa mise au travail correspondait à la nature de ce qui était alors produit, à savoir les connaissances comme commun. Le financement public de la recherche concordait alors avec la nature non rivale et l’incertitude radicale de (l’utilité de) ce qui est produit.

    La connaissance étant devenue un actif stratégique, sa valorisation par le marché s’est imposée comme instrument d’orientation de la recherche. Finalement dans un régime d’apparence libérale, la conduite politique est forte, c’est d’ailleurs propre d’un régime néolibéral tel que décrit notamment par Amable & Palombarini (2018). Les #appels_à_projet sélectionnent les recherches susceptibles de #valorisation_économique. Là où la #publication fait circuler les connaissances et valide le caractère non rival du produit, les classements des publications ont pour objet de trier les résultats. La priorité donnée à la protection du résultat par la propriété intellectuelle achève le processus de signalement de la bonne recherche, rompant son caractère non rival. La #rivalité exacerbe l’effectivité de l’exclusion par les prix, dont le niveau est en rapport avec les profits anticipés.

    Dans ce contexte, le positionnement des entreprises au plus près des chercheurs publics conduit à une adaptation de l’appareil de production de l’ESR, en créant des lieux (#incubateurs) qui établissent et affinent l’appariement recherche / entreprise et la #transférabilité à la #valorisation_marchande. La hiérarchisation des domaines de recherche, des communautés entre elles et en leur sein est alors inévitable. Dans ce processus, le #financement_public, qui continue d’endosser les coûts irrécouvrables de l’incertitude, opère comme un instrument de sélection et d’orientation qui autorise la mise sous contrôle de la sphère publique. L’ESR est ainsi mobilisée par l’accumulation, en voyant son autonomie (sa capacité à se réguler, à orienter les recherches) se réduire. L’incitation à la propriété intellectuelle sur les résultats de la recherche à des fins de mise en marché est un dispositif qui assure cet arrimage à l’accumulation.

    Le caractère appropriable de la recherche, devenant essentiel pour la légitimation de l’activité, internalise une forme de consentement de la communauté à la perte du contrôle des connaissances scientifiques, forme de garantie de sa circulation. Cette rupture de la non-rivalité constitue un coût collectif pour la société que les communautés scientifiques ne parviennent pas à rendre visible. De la même manière, le partage des connaissances comme principe d’efficacité par les externalités positives qu’il génère n’est pas perçu comme un principe alternatif d’efficacité. Chemin faisant, une recherche à caractère universel, régulée par des communautés, disparait au profit d’un appareil sous doté, orienté vers une utilité de court terme, relayé par la puissance publique elle-même.

    Un bloc hégémonique réduit, contre la collégialité universitaire

    En tant que mode de gouvernance, la collégialité universitaire a garanti la participation, et de fait la mobilisation des personnels, car ce n’est pas la stimulation des rémunérations qui a produit l’#engagement. Les collectifs de travail s’étaient dotés d’objectifs communs et s’étaient accordés sur la #transmission_des_savoirs et les critères de la #validation_scientifique. La #collégialité_universitaire en lien à la définition des savoirs légitimes a été la clé de la gouvernance publique. Il est indispensable de rappeler la continuité régulatrice entre liberté académique et organisation professionnelle qui rend possible le travail de recherche et en même temps le contrôle des usages de ses produits.

    Alors que l’université doit faire face à une masse d’étudiants, elle est évaluée et ses dotations sont accordées sur la base d’une activité de recherche, ce qui produit une contradiction majeure qui affecte les universités, mais pas toutes. Il s’effectue un processus de #différenciation_territoriale, avec une masse d’établissements en souffrance et un petit nombre qui a été retenu pour former l’élite. Les travaux de géographes sur les #inégalités_territoriales montrent la très forte concentration sur quelques pôles laissant des déserts en matière de recherche. Ainsi se renforce une dualité entre des universités portées vers des stratégies d’#élite et d’autres conduites à accepter une #secondarisation_du_supérieur. Une forme de hiatus entre les besoins technologiques et scientifiques massifs et le #décrochage_éducatif commence à être diagnostiquée.

    La sectorisation de l’ESR, et le pouvoir pris par un bloc hégémonique réduit auquel participent certaines universités dans l’espoir de ne pas être reléguées, ont procédé par l’appropriation de prérogatives de plus en plus larges sur les carrières, sur la valorisation de la recherche et la propriété intellectuelle, de ce qui était un commun de la recherche. En cela, les dispositifs d’excellence ont joué un rôle marquant d’affectation de moyens par une partie étroite de la profession. De cette manière, ce bloc capte des prébendes, assoit son pouvoir par la formation des normes concurrentielles qu’il contrôle et développe un rôle asymétrique sur les carrières par son rôle dominant dans l’affectation de reconnaissance professionnelle individualisée, en contournant les instances professionnelles. Il y a là création de nouveaux périmètres par la norme, et la profession dans son ensemble n’a plus grande prise, elle est mise à distance des critères qui servent à son nouveau fonctionnement et à la mesure de la performance.

    Les dispositifs mis en place au nom de l’#excellence_scientifique sont des instruments pour ceux qui peuvent s’en emparer et définissant les critères de sélection selon leur représentation, exercent une domination concurrentielle en sélectionnant les élites futures. Il est alors essentiel d’intégrer les Clubs qui en seront issus. Il y a là une #sociologie_des_élites à préciser sur la construction d’#UDICE, club des 10 universités dites d’excellence. L’évaluation de la performance détermine gagnants et perdants, via des labels, qui couronnent des processus de sélection, et assoit le pouvoir oligopolistique et les élites qui l’ont porté, souvent contre la masse de la profession (Musselin, 2017).

    Le jeu des acteurs dominants, en lien étroit avec le pouvoir politique qui les reconnait et les renforce dans cette position, au moyen d’instruments de #rationalisation de l’allocation de moyens pénuriques permet de définir un nouvel espace pour ceux-ci, ségrégué du reste de l’ESR, démarche qui est justifié par son arrimage au régime d’accumulation. Ce processus s’achève avec une forme de séparatisme du nouveau bloc hégémonique composé par ces managers de l’ESR, composante minoritaire qui correspond d’une certaine mesure au bloc bourgeois. Celles- et ceux-là même qui applaudissent le discours présidentiel annonçant la révolution dont un petit fragment tirera du feu peu de marrons, mais qui seront sans doute pour eux très lucratifs. Toutefois le scénario ainsi décrit dans sa tendance contradictoire pour ne pas dire délétère ne doit pas faire oublier que les communautés scientifiques perdurent, même si elles souffrent. La trajectoire choisie de sectorisation déstabilise l’ESR sans ouvrir d’espace pour un compromis ni avec les personnels ni pour la formation. En l’état, les conditions d’émergence d’un nouveau régime pour l’ESR, reliant son fonctionnement et sa visée pour la société ne sont pas réunies, en particulier parce que la #rupture se fait contre la profession et que c’est pourtant elle qui reste au cœur de la production.

    https://laviedesidees.fr/Universite-service-public-ou-secteur-productif
    #ESR #facs #souffrance

  • Une organisation en #souffrance

    Les Français seraient-ils retors à l’effort, comme le laissent entendre les mesures visant à stigmatiser les chômeurs ? Et si le nombre de #démissions, les chiffres des #accidents et des #arrêts_de_travail étaient plutôt le signe de #conditions_de_travail délétères.

    Jeté dans une #concurrence accrue du fait d’un #management personnalisé, évalué et soumis à la culture froide du chiffre, des baisses budgétaires, le travailleur du XXIe siècle est placé sous une #pression inédite...

    L’étude de 2019 de la Darès (Ministère du Travail) nous apprend que 37% des travailleurs.ses interrogés se disent incapables de poursuivre leur activité jusqu’à la retraite. Que l’on soit hôtesse de caisse (Laurence) ou magistrat (Jean-Pierre), tous témoignent de la dégradation de leurs conditions de travail et de l’impact que ces dégradations peuvent avoir sur notre #santé comme l’explique le psychanalyste Christophe Dejours : “Il n’y a pas de neutralité du travail vis-à-vis de la #santé_mentale. Grâce au travail, votre #identité s’accroît, votre #amour_de_soi s’accroît, votre santé mentale s’accroît, votre #résistance à la maladie s’accroît. C’est extraordinaire la santé par le travail. Mais si on vous empêche de faire du travail de qualité, alors là, la chose risque de très mal tourner.”

    Pourtant, la #quête_de_sens est plus que jamais au cœur des revendications, particulièrement chez les jeunes. Aussi, plutôt que de parler de la semaine de quatre jours ou de développer une sociabilité contrainte au travail, ne serait-il pas temps d’améliorer son #organisation, d’investir dans les métiers du « soin » afin de renforcer le #lien_social ?

    Enfin, la crise environnementale n’est-elle pas l’occasion de réinventer le travail, loin du cycle infernal production/ consommation comme le pense la sociologue Dominique Méda : “Je crois beaucoup à la reconversion écologique. Il faut prendre au sérieux la contrainte écologique comme moyen à la fois de créer des emplois, comme le montrent les études, mais aussi une possibilité de changer radicalement le travail en profondeur.”

    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/lsd-la-serie-documentaire/une-organisation-en-souffrance-5912905

    #travail #audio #sens #reconnaissance #podcast #déshumanisation #grande_distribution #supermarchés #Carrefour #salariat #accidents_du_travail # location-gérance #jours_de_carence #délai_de_carence #financiarisation #traçabilité #performance #néo-taylorisme #taylorisme_numérique #contrôle #don #satisfaction #modernisation #mai_68 #individualisation #personnalisation #narcissisation #collectif #entraide #épanouissement #marges_de_manoeuvre #intensification_du_travail #efficacité #rentabilité #pression #sous-traitance #intensité_du_travail #santé_au_travail #santé #épidémie #anxiété #dépression #santé_publique #absentéisme #dégradation_des_conditions_de_travail #sommeil #identité #amour_de_soi #santé_par_le_travail #tournant_gestionnaire #gouvernance_de_l'entreprise #direction_d'entreprise #direction #règles #lois #gestionnaires #ignorance #objectifs_quantitatifs #objectifs #performance #mesurage #évaluation #traçabilité #quantification #quantitatif #qualitatif #politique_du_chiffre #flux #justice #charge_de_travail

    25’40 : #Jean-Pierre_Bandiera, ancien président du tribunal correctionnel de Nîmes :

    « On finit par oublier ce qu’on a appris à l’école nationale de la magistrature, c’est-à-dire la motivation d’un jugement... On finit par procéder par affirmation, ce qui fait qu’on gagne beaucoup de temps. On a des jugements, dès lors que la culpabilité n’est pas contestée, qui font abstraction de toute une série d’éléments qui sont pourtant importants : s’attarder sur les faits ou les expliquer de façon complète. On se contente d’une qualification développée : Monsieur Dupont est poursuivi pour avoir frauduleusement soustrait 3 véhicules, 4 téléviseurs au préjudice de Madame Durant lors d’un cambriolage » mais on n’est pas du tout en mesure après de préciser que Monsieur Dupont était l’ancien petit ami de Madame Durant ou qu’il ne connaissait absolument pas Madame Durant. Fixer les conditions dans lesquelles ce délit a été commis de manière ensuite à expliquer la personnalisation de la peine qui est quand même la mission essentielle du juge ! Il faut avoir à chaque fois qu’il nous est demandé la possibilité d’adapter au mieux la peine à l’individu. C’est très important. On finit par mettre des tarifs. Quelle horreur pour un juge ! On finit par oublier la quintessence de ce métier qui est de faire la part des choses entre l’accusation, la défense, l’auteur de faits, la victime, et essayer d’adopter une sanction qui soit la plus adaptée possible. C’est la personnalisation de la peine, c’est aussi le devenir de l’auteur de cette infraction de manière à éviter la récidive, prévoir sa resocialisation. Bref, jouer à fond le rôle du juge, ce qui, de plus en plus, est ratatiné à un rôle de distributeur de sanctions qui sont plus ou moins tarifées. Et ça c’est quelque chose qui, à la fin de ma carrière, c’est quelque chose qui me posait de véritables problèmes d’éthique, parce que je ne pensais pas ce rôle du juge comme celui-là. Du coup, la qualité de la justice finit par souffrir, incontestablement. C’est une évolution constante qui est le fruit d’une volonté politique qui, elle aussi, a été constante, de ne pas consacrer à la justice de notre pays les moyens dont elle devait disposer pour pouvoir fonctionner normalement. Et cette évolution n’a jamais jamais, en dépit de tout ce qui a pu être dit ou écrit, n’ai jamais été interrompue. Nous sommes donc aujourd’hui dans une situation de détresse absolue. La France est donc ??? pénultième au niveau européen sur les moyens budgétaires consacrés à sa justice. Le Tribunal de Nîme comporte 13 procureurs, la moyenne européenne nécessiterait qu’ils soient 63, je dis bien 63 pour 13. Il y a 39 juges au Tribunal de Nîmes, pour arriver dans la moyenne européenne il en faudrait 93. Et de mémoire il y a 125 greffiers et il en faudrait 350 je crois pour être dans la moyenne. Il y avait au début de ma carrière à Nîmes 1 juge des Libertés et de la détention, il y en a aujourd’hui 2. On a multiplié les chiffres du JLD par 10. Cela pose un problème moral et un problème éthique. Un problème moral parce qu’on a le sentiment de ne pas satisfaire au rôle qui est le sien. Un problème éthique parce qu’on finit par prendre un certain nombre de recul par rapport aux valeurs que l’on a pourtant porté haut lorsqu’on a débuté cette carrière. De sorte qu’une certaine mélancolie dans un premier temps et au final un certain découragement me guettaient et m’ont parfois atteint ; mes périodes de vacances étant véritablement chaque année un moment où la décompression s’imposait sinon je n’aurais pas pu continuer dans ces conditions-là. Ce sont des heures de travail qui sont très très chargés et qui contribuent aussi à cette fatigue aujourd’hui au travail qui a entraîné aussi beaucoup de burn-out chez quelques collègues et puis même, semble-t-il, certains sont arrivés à des extrémités funestes puisqu’on a eu quelques collègues qui se sont suicidés quasiment sur place, vraisemblablement en grande partie parce que... il y avait probablement des problèmes personnels, mais aussi vraisemblablement des problèmes professionnels. Le sentiment que je vous livre aujourd’hui est un sentiment un peu partagé par la plupart de mes collègues. Après la réaction par rapport à cette situation elle peut être une réaction combative à travers des engagements syndicaux pour essayer de parvenir à faire bouger l’éléphant puisque le mammouth a déjà été utilisé par d’autres. Ces engagements syndicaux peuvent permettre cela. D’autres ont plus ou moins rapidement baissé les bras et se sont satisfaits de cette situation à défaut de pouvoir la modifier. Je ne regrette rien, je suis parti serein avec le sentiment du devoir accompli, même si je constate que en fermant la porte du tribunal derrière moi je laisse une institution judiciaire qui est bien mal en point."

    Min. 33’15, #Christophe_Dejours, psychanaliste :

    « Mais quand il fait cela, qu’il sabote la qualité de son travail, qu’il bâcle son travail de juge, tout cela, c’est un ensemble de trahisons. Premièrement, il trahi des collègues, parce que comme il réussi à faire ce qu’on lui demande en termes de quantité... on sait très bien que le chef va se servir du fait qu’il y en a un qui arrive pour dire aux autres : ’Vous devez faire la même chose. Si vous ne le faites pas, l’évaluation dont vous allez bénéficier sera mauvaise pour vous, et votre carrière... vous voulez la mutation ? Vous ne l’aurez pas !’ Vous trahissez les collègues. Vous trahissez les règles de métier, vous trahissez le justiciable, vous trahissez les avocats, vous leur couper la parole parce que vous n’avez pas le temps : ’Maître, je suis désolé, il faut qu’on avance.’ Vous maltraitez les avocats, ce qui pose des problèmes aujourd’hui assez compliqués entre avocats et magistrats. Les relations se détériorent. Vous maltraitez le justiciable. Si vous allez trop vite... l’application des peines dans les prisons... Quand vous êtes juges des enfants, il faut écouter les enfants, ça prend du temps ! Mais non, ’va vite’. Vous vous rendez compte ? C’est la maltraitance des justiciables sous l’effet d’une justice comme ça. A la fin vous trahissez la justice, et comme vous faites mal votre travail, vous trahissez l’Etat de droit. A force de trahir tous ces gens qui sont... parce que c’est des gens très mobilisés... on ne devient pas magistrat comme ça, il faut passer des concours... c’est le concours le plus difficile des concours de la fonction publique, c’est plus difficile que l’ENA l’Ecole nationale de magistrature... C’est des gens hyper engagés, hyper réglo, qui ont un sens de la justice, et vous leur faites faire quoi ? Le contraire. C’est ça la dégradation de la qualité. Donc ça conduit, à un moment donné, à la trahison de soi. Ça, ça s’appelle la souffrance éthique. C’est-à-dire, elle commence à partir du moment où j’accepte d’apporter mon concours à des actes ou à des pratiques que le sens moral réprouve. Aujourd’hui c’est le cas dans la justice, c’est le cas dans les hôpitaux, c’est le cas dans les universités, c’est le cas dans les centres de recherche. Partout dans le secteur public, où la question éthique est décisive sur la qualité du service public, vous avez des gens qui trahissent tout ça, et qui entrent dans le domaine de la souffrance éthique. Des gens souffrent dans leur travail, sauf que cette souffrance, au lieu d’être transformée en plaisir, elle s’aggrave. Les gens vont de plus en plus mal parce que le travail leur renvoie d’eux-mêmes une image lamentable. Le résultat c’est que cette trahison de soi quelques fois ça se transforme en haine de soi. Et c’est comme ça qu’à un moment donné les gens se suicident. C’est comme ça que vous avez des médecins des hôpitaux, professeurs de médecine de Paris qui sautent par la fenêtre. Il y a eu le procès Mégnien, au mois de juin. Il a sauté du 5ème étage de Georges-Pompidou. Il est mort. Comment on en arrive là ? C’est parce que les gens ont eu la possibilité de réussir un travail, de faire une oeuvre, et tout à coup on leur casse le truc. Et là vous cassez une vie. C’est pour cela que les gens se disent : ’Ce n’est pas possible, c’est tout ce que j’ai mis de moi-même, tous ces gens avec qui j’ai bossé, maintenant il faut que ça soit moi qui donne le noms des gens qu’on va virer. Je ne peux pas faire ça, ce n’est pas possible.’ Vous les obligez à faire l’inverse de ce qu’ils croient juste, de ce qu’ils croient bien. Cette organisation du travail, elle cultive ce qu’il y a de plus mauvais dans l’être humain. »

    #suicide #trahison #souffrance_éthique

    • Quels facteurs influencent la capacité des salariés à faire le même travail #jusqu’à_la_retraite ?

      En France, en 2019, 37 % des salariés ne se sentent pas capables de tenir dans leur travail jusqu’à la retraite. L’exposition à des #risques_professionnels – physiques ou psychosociaux –, tout comme un état de santé altéré, vont de pair avec un sentiment accru d’#insoutenabillité du travail.

      Les métiers les moins qualifiés, au contact du public ou dans le secteur du soin et de l’action sociale, sont considérés par les salariés comme les moins soutenables. Les salariés jugeant leur travail insoutenable ont des carrières plus hachées que les autres et partent à la retraite plus tôt, avec des interruptions, notamment pour des raisons de santé, qui s’amplifient en fin de carrière.

      Une organisation du travail qui favorise l’#autonomie, la participation des salariés et limite l’#intensité_du_travail tend à rendre celui-ci plus soutenable. Les mobilités, notamment vers le statut d’indépendant, sont également des moyens d’échapper à l’insoutenabilité du travail, mais ces trajectoires sont peu fréquentes, surtout aux âges avancés.

      https://dares.travail-emploi.gouv.fr/publication/quels-facteurs-influencent-la-capacite-des-salaries-faire-
      #statistiques #chiffres

  • Les commerçants bientôt autorisés à afficher la photo de leurs voleurs ?
    https://france3-regions.francetvinfo.fr/provence-alpes-cote-d-azur/alpes-maritimes/nice/les-commercants-bientot-autorises-a-afficher-la-photo-d
    https://france3-regions.francetvinfo.fr/image/yWlUQcSzmjkSM28lN854KplhCtg/930x620/regions/2024/02/05/maxnewsworldtwo931167-65c11ca7c5178432348491.jpg

    Une proposition de loi pour autoriser les commerçants à afficher les visages de leurs voleurs a été déposée à l’Assemblée nationale. Elle répond à l’attente des commerçants qui ne veulent plus être considérés comme délinquants en diffusant les images de ceux qui commettent des vols dans leurs magasins.

    Ils n’en peuvent plus ! Les commerçants des grandes ou petites enseignes affichent régulièrement dans leurs magasins (ou sur les réseaux sociaux) le visage de ceux prit la main dans le sac.
    Et les cas dans la région PACA sont nombreux. À Ollioules dans le Var par exemple, un commerçant s’est fait voler sa caisse le 28 décembre dernier. Les trois femmes enregistrées par les caméras de surveillance se sont retrouvées sur les réseaux sociaux et affichées dans le magasin. Le propriétaire a dû les retirer par crainte de poursuites judiciaires. 

    Dernier en date, le gérant d’une grande surface à Nice qui dénonçait ces agissements en affichant directement le visage des présumés voleurs à l’entrée de son supermarché. Pour lui, 10% de la clientèle commettrait ce genre de délit pour un montant annuel qui avoisine les 150 000 euros. 
    Selon ses propos, recueillis par Nice-Matin, il déclare subir un vrai préjudice : « je ne dis pas que c’est une bonne solution, mais j’assume. »

    Que risquent-ils ?

    Effectivement, au regard de l’article 226-1 du Code pénal, afficher le visage d’une personne même ayant commis un #vol constitue un délit. 

    Est puni d’un an d’emprisonnement et de 45 000 euros d’amende le fait, au moyen d’un procédé quelconque, volontairement de porter atteinte à l’intimité de la vie privée d’autrui : En fixant, enregistrant ou transmettant, sans le consentement de celle-ci, l’image d’une personne se trouvant dans un lieu privé.
    Comprenez qu’il est interdit d’afficher le visage d’une personne sans son consentement. 

    Un projet de loi est donc rédigé par le député de l’Ain Romain Daubié (#Modem) pour inverser la tendance.

    Il y a comme une marée brune qui remonte par tous les égouts, parlementaires inclus.

  • #Productivisme et destruction de l’#environnement : #FNSEA et #gouvernement marchent sur la tête

    Répondre à la #détresse des #agriculteurs et agricultrices est compatible avec le respect de l’environnement et de la #santé_publique, expliquent, dans cette tribune à « l’Obs », les Scientifiques en rébellion, à condition de rejeter les mesures productivistes et rétrogrades du duo FNSEA-gouvernement.

    La #crise de l’agriculture brasse croyances, savoirs, opinions, émotions. Elle ne peut laisser quiconque insensible tant elle renvoie à l’un de nos #besoins_fondamentaux – se nourrir – et témoigne du #désarroi profond d’une partie de nos concitoyen·nes qui travaillent pour satisfaire ce besoin. Reconnaître la #souffrance et le désarroi du #monde_agricole n’empêche pas d’examiner les faits et de tenter de démêler les #responsabilités dans la situation actuelle. Une partie de son #traitement_médiatique tend à faire croire que les agriculteurs et agricultrices parleraient d’une seule voix, celle du président agro-businessman de la FNSEA #Arnaud_Rousseau. Ce directeur de multinationale, administrateur de holding, partage-t-il vraiment la vie de celles et ceux qui ne parviennent plus à gagner la leur par le travail de la terre ? Est-ce que les agriculteur·ices formeraient un corps uniforme, qui valoriserait le productivisme au mépris des #enjeux_environnementaux qu’ils et elles ne comprendraient soi-disant pas ? Tout cela est difficile à croire.

    Ce que la science documente et analyse invariablement, en complément des savoirs et des observations de nombre d’agriculteur·ices, c’est que le #modèle_agricole industriel et productiviste conduit à une #catastrophe sociale et environnementale. Que ce modèle concurrence dangereusement les #alternatives écologiquement et socialement viables. Que cette agriculture ne s’adaptera pas indéfiniment à un environnement profondément dégradé. Qu’elle ne s’adaptera pas à un #réchauffement_climatique de +4 °C pour la France et une ressource en #eau fortement diminuée, pas plus qu’à une disparition des #insectes_pollinisateurs.

    Actuellement, comme le rappelle le Haut Conseil pour le Climat (HCC), l’agriculture représente le deuxième secteur d’émissions de #gaz_à_effet_de_serre, avec 18 % du total français, derrière les transports. La moitié de ces émissions agricoles (en équivalent CO2) provient de l’#élevage_bovin à cause du #méthane produit par leur digestion, 14 % des #engrais_minéraux qui libèrent du #protoxyde_d’azote et 13 % de l’ensemble des #moteurs, #engins et #chaudières_agricoles. Le HCC rappelle aussi que la France s’est engagée lors de la COP26 à baisser de 30 % ses émissions de méthane d’ici à 2030, pour limiter le réchauffement climatique. L’agriculture, bien que répondant à un besoin fondamental, doit aussi revoir son modèle dominant pour répondre aux enjeux climatiques. De ce point de vue, ce qu’indique la science, c’est que, si l’on souhaite faire notre part dans le respect de l’accord de Paris, la consommation de #viande et de #produits_laitiers doit diminuer en France. Mais la solidarité avec nos agriculteur.ices ainsi que l’objectif légitime de souveraineté et #résilience_alimentaire nous indiquent que ce sont les importations et les élevages intensifs de ruminants qui devraient diminuer en premier.

    Côté #biodiversité, la littérature scientifique montre que l’usage des #pesticides est la deuxième cause de l’effondrement des populations d’#insectes, qui atteint 80 % dans certaines régions françaises. Les #oiseaux sont en déclin global de 25 % en quarante ans, mais ce chiffre bondit à 60 % en milieux agricoles intensifs : le printemps est devenu particulièrement silencieux dans certains champs…

    D’autres voies sont possibles

    Le paradoxe est que ces bouleversements environnementaux menacent particulièrement les agriculteur·ices, pour au moins trois raisons bien identifiées. Tout d’abord environnementale, à cause du manque d’eau, de la dégradation des sols, des événements météorologiques extrêmes (incendies ou grêles), ou du déclin des insectes pollinisateurs, qui se traduisent par une baisse de production. Sanitaires, ensuite : par leur exposition aux #produits_phytosanitaires, ils et elles ont plus de risque de développer des #cancers (myélome multiple, lymphome) et des #maladies_dégénératives. Financière enfin, avec l’interminable fuite en avant du #surendettement, provoqué par la nécessité d’actualiser un équipement toujours plus performant et d’acheter des #intrants pour pallier les baisses de production engendrées par la dégradation environnementale.

    Depuis des décennies, les #traités_de_libre-échange et la compétition intra-européenne ont privé la grande majorité des agriculteur·ices de leur #autonomie, dans un cercle vicieux aux répercussions sociales tragiques pouvant mener au #suicide. Si la FNSEA, les #JA, ou la #Coordination_rurale réclament une forme de #protectionnisme_agricole, d’autres de leurs revendications portent en revanche sur une baisse des #contraintes_environnementales et sanitaires qui font porter le risque de la poursuite d’un modèle délétère sur le long terme. Ce sont justement ces revendications que le gouvernement a satisfaites avec, en particulier, la « suspension » du #plan_Ecophyto, accueilli par un satisfecit de ces trois organisations syndicales rappelant immédiatement « leurs » agriculteurs à la ferme. Seule la #Confédération_paysanne refuse ce compromis construit au détriment de l’#écologie.

    Pourtant, des pratiques et des modèles alternatifs existent, réduisant significativement les émissions de gaz à effet de serre et préservant la biodiversité ; ils sont déjà mis en œuvre par des agriculteur·ices qui prouvent chaque jour que d’autres voies sont possibles. Mais ces alternatives ont besoin d’une réorientation des #politiques_publiques (qui contribuent aujourd’hui pour 80 % au #revenu_agricole). Des propositions cohérentes de politiques publiques répondant à des enjeux clés (#rémunération digne des agriculteur·ices non soumis aux trusts’de la grande distribution, souveraineté alimentaire, considérations climatiques et protection de la biodiversité) existent, comme les propositions relevant de l’#agroécologie, qu’elles émanent du Haut Conseil pour le Climat, de la fédération associative Pour une autre PAC, de l’IDDRI, ou encore de la prospective INRAE de 2023 : baisse de l’#élevage_industriel et du cheptel notamment bovin avec soutien à l’#élevage_extensif à l’herbe, généralisation des pratiques agro-écologiques et biologiques basées sur la valorisation de la biodiversité (cultures associées, #agro-foresterie, restauration des #haies favorisant la maîtrise des bio-agresseurs) et arrêt des #pesticides_chimiques_de_synthèse. Ces changements de pratiques doivent être accompagnés de mesures économiques et politiques permettant d’assurer le #revenu des agriculteur·ices, leur #accès_à_la_terre et leur #formation, en cohérence avec ce que proposent des syndicats, des associations ou des réseaux (Confédération paysanne, Atelier paysan, Terre de liens, Fédérations nationale et régionales d’Agriculture biologique, Réseau salariat, …).

    Nous savons donc que les politiques qui maintiennent le #modèle_agro-industriel sous perfusion ne font qu’empirer les choses et qu’une réorientation complète est nécessaire et possible pour la #survie, la #dignité, la #santé et l’#emploi des agriculteur·ices. Nombre d’enquêtes sociologiques indiquent qu’une bonne partie d’entre elles et eux le savent très bien, et que leur détresse témoigne aussi de ce #conflit_interne entre le modèle productiviste qui les emprisonne et la nécessité de préserver l’environnement.

    Une #convention_citoyenne

    Si le gouvernement convient que « les premières victimes du dérèglement climatique sont les agriculteurs », les mesures prises démontrent que la priorité gouvernementale est de sanctuariser le modèle agro-industriel. La remise en cause du plan Ecophyto, et la reprise en main de l’#Anses notamment, sont en totale contradiction avec l’urgence de s’attaquer à la dégradation environnementale couplée à celle des #conditions_de_vie et de travail des agriculteur·ices. Nous appelons les citoyen·nes et les agriculteur·rices à soutenir les changements de politique qui iraient réellement dans l’intérêt général, du climat, de la biodiversité. Nous rappelons que le sujet de l’agriculture et de l’#alimentation est d’une redoutable complexité, et qu’identifier les mesures les plus pertinentes devrait être réalisé collectivement et démocratiquement. Ces mesures devraient privilégier l’intérêt général et à long-terme, par exemple dans le cadre de conventions citoyennes dont les conclusions seraient réellement traduites dans la législation, a contrario a contrario de la précédente convention citoyenne pour le climat.

    https://www.nouvelobs.com/opinions/20240203.OBS84041/tribune-productivisme-et-destruction-de-l-environnement-fnsea-et-gouverne
    #tribune #scientifiques_en_rébellion #agriculture #souveraineté_alimentaire #industrie_agro-alimentaire

  • L’#Europe et la fabrique de l’étranger

    Les discours sur l’ « #européanité » illustrent la prégnance d’une conception identitaire de la construction de l’Union, de ses #frontières, et de ceux qu’elle entend assimiler ou, au contraire, exclure au nom de la protection de ses #valeurs particulières.

    Longtemps absente de la vie démocratique de l’#Union_européenne (#UE), la question identitaire s’y est durablement installée depuis les années 2000. Si la volonté d’affirmer officiellement ce que « nous, Européens » sommes authentiquement n’est pas nouvelle, elle concernait jusqu’alors surtout – à l’instar de la Déclaration sur l’identité européenne de 1973 – les relations extérieures et la place de la « Communauté européenne » au sein du système international. À présent, elle renvoie à une quête d’« Européanité » (« Europeanness »), c’est-à-dire la recherche et la manifestation des #trait_identitaires (héritages, valeurs, mœurs, etc.) tenus, à tort ou à raison, pour caractéristiques de ce que signifie être « Européens ». Cette quête est largement tournée vers l’intérieur : elle concerne le rapport de « nous, Européens » à « nous-mêmes » ainsi que le rapport de « nous » aux « autres », ces étrangers et étrangères qui viennent et s’installent « chez nous ».

    C’est sous cet aspect identitaire qu’est le plus fréquemment et vivement discuté ce que l’on nomme la « #crise_des_réfugiés » et la « #crise_migratoire »

    L’enjeu qui ferait de l’#accueil des exilés et de l’#intégration des migrants une « #crise » concerne, en effet, l’attitude que les Européens devraient adopter à l’égard de celles et ceux qui leur sont « #étrangers » à double titre : en tant qu’individus ne disposant pas de la #citoyenneté de l’Union, mais également en tant que personnes vues comme les dépositaires d’une #altérité_identitaire les situant à l’extérieur du « #nous » – au moins à leur arrivée.

    D’un point de vue politique, le traitement que l’Union européenne réserve aux étrangères et étrangers se donne à voir dans le vaste ensemble de #discours, #décisions et #dispositifs régissant l’#accès_au_territoire, l’accueil et le #séjour de ces derniers, en particulier les accords communautaires et agences européennes dévolus à « une gestion efficace des flux migratoires » ainsi que les #politiques_publiques en matière d’immigration, d’intégration et de #naturalisation qui restent du ressort de ses États membres.

    Fortement guidées par des considérations identitaires dont la logique est de différencier entre « nous » et « eux », de telles politiques soulèvent une interrogation sur leurs dynamiques d’exclusion des « #autres » ; cependant, elles sont aussi à examiner au regard de l’#homogénéisation induite, en retour, sur le « nous ». C’est ce double questionnement que je propose de mener ici.

    En quête d’« Européanité » : affirmer la frontière entre « nous » et « eux »

    La question de savoir s’il est souhaitable et nécessaire que les contours de l’UE en tant que #communauté_politique soient tracés suivant des #lignes_identitaires donne lieu à une opposition philosophique très tranchée entre les partisans d’une défense sans faille de « l’#identité_européenne » et ceux qui plaident, à l’inverse, pour une « #indéfinition » résolue de l’Europe. Loin d’être purement théorique, cette opposition se rejoue sur le plan politique, sous une forme tout aussi dichotomique, dans le débat sur le traitement des étrangers.

    Les enjeux pratiques soulevés par la volonté de définir et sécuriser « notre » commune « Européanité » ont été au cœur de la controverse publique qu’a suscitée, en septembre 2019, l’annonce faite par #Ursula_von_der_Leyen de la nomination d’un commissaire à la « #Protection_du_mode_de_vie_européen », mission requalifiée – face aux critiques – en « #Promotion_de_notre_mode_de_vie_européen ». Dans ce portefeuille, on trouve plusieurs finalités d’action publique dont l’association même n’a pas manqué de soulever de vives inquiétudes, en dépit de la requalification opérée : à l’affirmation publique d’un « #mode_de_vie » spécifiquement « nôtre », lui-même corrélé à la défense de « l’#État_de_droit », « de l’#égalité, de la #tolérance et de la #justice_sociale », se trouvent conjoints la gestion de « #frontières_solides », de l’asile et la migration ainsi que la #sécurité, le tout placé sous l’objectif explicite de « protéger nos citoyens et nos valeurs ».

    Politiquement, cette « priorité » pour la période 2019-2024 s’inscrit dans la droite ligne des appels déjà anciens à doter l’Union d’un « supplément d’âme
     » ou à lui « donner sa chair » pour qu’elle advienne enfin en tant que « #communauté_de_valeurs ». De tels appels à un surcroît de substance spirituelle et morale à l’appui d’un projet européen qui se devrait d’être à la fois « politique et culturel » visaient et visent encore à répondre à certains problèmes pendants de la construction européenne, depuis le déficit de #légitimité_démocratique de l’UE, si discuté lors de la séquence constitutionnelle de 2005, jusqu’au défaut de stabilité culminant dans la crainte d’une désintégration européenne, rendue tangible en 2020 par le Brexit.

    Précisément, c’est de la #crise_existentielle de l’Europe que s’autorisent les positions intellectuelles qui, poussant la quête d’« Européanité » bien au-delà des objectifs politiques évoqués ci-dessus, la déclinent dans un registre résolument civilisationnel et défensif. Le geste philosophique consiste, en l’espèce, à appliquer à l’UE une approche « communautarienne », c’est-à-dire à faire entièrement reposer l’UE, comme ensemble de règles, de normes et d’institutions juridiques et politiques, sur une « #communauté_morale » façonnée par des visions du bien et du monde spécifiques à un groupe culturel. Une fois complétée par une rhétorique de « l’#enracinement » desdites « #valeurs_européennes » dans un patrimoine historique (et religieux) particulier, la promotion de « notre mode de vie européen » peut dès lors être orientée vers l’éloge de ce qui « nous » singularise à l’égard d’« autres », de « ces mérites qui nous distinguent » et que nous devons être fiers d’avoir diffusés au monde entier.

    À travers l’affirmation de « notre » commune « Européanité », ce n’est pas seulement la reconnaissance de « l’#exception_européenne » qui est recherchée ; à suivre celles et ceux qui portent cette entreprise, le but n’est autre que la survie. Selon #Chantal_Delsol, « il en va de l’existence même de l’Europe qui, si elle n’ose pas s’identifier ni nommer ses caractères, finit par se diluer dans le rien. » Par cette #identification européenne, des frontières sont tracées. Superposant Europe historique et Europe politique, Alain Besançon les énonce ainsi : « l’Europe s’arrête là où elle s’arrêtait au XVIIe siècle, c’est-à-dire quand elle rencontre une autre civilisation, un régime d’une autre nature et une religion qui ne veut pas d’elle. »

    Cette façon de délimiter un « #nous_européen » est à l’exact opposé de la conception de la frontière présente chez les partisans d’une « indéfinition » et d’une « désappropriation » de l’Europe. De ce côté-ci de l’échiquier philosophique, l’enjeu est au contraire de penser « un au-delà de l’identité ou de l’identification de l’Europe », étant entendu que le seul « crédit » que l’on puisse « encore accorder » à l’Europe serait « celui de désigner un espace de circulation symbolique excédant l’ordre de l’identification subjective et, plus encore, celui de la #crispation_identitaire ». Au lieu de chercher à « circonscri[re] l’identité en traçant une frontière stricte entre “ce qui est européen” et “ce qui ne l’est pas, ne peut pas l’être ou ne doit pas l’être” », il s’agit, comme le propose #Marc_Crépon, de valoriser la « #composition » avec les « #altérités » internes et externes. Animé par cette « #multiplicité_d’Europes », le principe, thématisé par #Etienne_Balibar, d’une « Europe comme #Borderland », où les frontières se superposent et se déplacent sans cesse, est d’aller vers ce qui est au-delà d’elle-même, vers ce qui l’excède toujours.

    Tout autre est néanmoins la dynamique impulsée, depuis une vingtaine d’années, par les politiques européennes d’#asile et d’immigration.

    La gouvernance européenne des étrangers : l’intégration conditionnée par les « valeurs communes »

    La question du traitement public des étrangers connaît, sur le plan des politiques publiques mises en œuvre par les États membres de l’UE, une forme d’européanisation. Celle-ci est discutée dans les recherches en sciences sociales sous le nom de « #tournant_civique ». Le terme de « tournant » renvoie au fait qu’à partir des années 2000, plusieurs pays européens, dont certains étaient considérés comme observant jusque-là une approche plus ou moins multiculturaliste (tels que le Royaume-Uni ou les Pays-Bas), ont développé des politiques de plus en plus « robustes » en ce qui concerne la sélection des personnes autorisées à séjourner durablement sur leur territoire et à intégrer la communauté nationale, notamment par voie de naturalisation. Quant au qualificatif de « civique », il marque le fait que soient ajoutés aux #conditions_matérielles (ressources, logement, etc.) des critères de sélection des « désirables » – et, donc, de détection des « indésirables » – qui étendent les exigences relatives à une « #bonne_citoyenneté » aux conduites et valeurs personnelles. Moyennant son #intervention_morale, voire disciplinaire, l’État se borne à inculquer à l’étranger les traits de caractère propices à la réussite de son intégration, charge à lui de démontrer qu’il conforme ses convictions et comportements, y compris dans sa vie privée, aux « valeurs » de la société d’accueil. Cette approche, centrée sur un critère de #compatibilité_identitaire, fait peser la responsabilité de l’#inclusion (ou de l’#exclusion) sur les personnes étrangères, et non sur les institutions publiques : si elles échouent à leur assimilation « éthique » au terme de leur « #parcours_d’intégration », et a fortiori si elles s’y refusent, alors elles sont considérées comme se plaçant elles-mêmes en situation d’être exclues.

    Les termes de « tournant » comme de « civique » sont à complexifier : le premier car, pour certains pays comme la France, les dispositifs en question manifestent peu de nouveauté, et certainement pas une rupture, par rapport aux politiques antérieures, et le second parce que le caractère « civique » de ces mesures et dispositifs d’intégration est nettement moins évident que leur orientation morale et culturelle, en un mot, identitaire.

    En l’occurrence, c’est bien plutôt la notion d’intégration « éthique », telle que la définit #Jürgen_Habermas, qui s’avère ici pertinente pour qualifier ces politiques : « éthique » est, selon lui, une conception de l’intégration fondée sur la stabilisation d’un consensus d’arrière-plan sur des « valeurs » morales et culturelles ainsi que sur le maintien, sinon la sécurisation, de l’identité et du mode de vie majoritaires qui en sont issus. Cette conception se distingue de l’intégration « politique » qui est fondée sur l’observance par toutes et tous des normes juridico-politiques et des principes constitutionnels de l’État de droit démocratique. Tandis que l’intégration « éthique » requiert des étrangers qu’ils adhèrent aux « valeurs » particulières du groupe majoritaire, l’intégration « politique » leur demande de se conformer aux lois et d’observer les règles de la participation et de la délibération démocratiques.

    Or, les politiques d’immigration, d’intégration et de naturalisation actuellement développées en Europe sont bel et bien sous-tendues par cette conception « éthique » de l’intégration. Elles conditionnent l’accès au « nous » à l’adhésion à un socle de « valeurs » officiellement déclarées comme étant déjà « communes ». Pour reprendre un exemple français, cette approche ressort de la manière dont sont conçus et mis en œuvre les « #contrats_d’intégration » (depuis le #Contrat_d’accueil_et_d’intégration rendu obligatoire en 2006 jusqu’à l’actuel #Contrat_d’intégration_républicaine) qui scellent l’engagement de l’étranger souhaitant s’installer durablement en France à faire siennes les « #valeurs_de_la_République » et à les « respecter » à travers ses agissements. On retrouve la même approche s’agissant de la naturalisation, la « #condition_d’assimilation » propre à cette politique donnant lieu à des pratiques administratives d’enquête et de vérification quant à la profondeur et la sincérité de l’adhésion des étrangers auxdites « valeurs communes », la #laïcité et l’#égalité_femmes-hommes étant les deux « valeurs » systématiquement mises en avant. L’étude de ces pratiques, notamment les « #entretiens_d’assimilation », et de la jurisprudence en la matière montre qu’elles ciblent tout particulièrement les personnes de religion et/ou de culture musulmanes – ou perçues comme telles – en tant qu’elles sont d’emblée associées à des « valeurs » non seulement différentes, mais opposées aux « nôtres ».

    Portées par un discours d’affrontement entre « systèmes de valeurs » qui n’est pas sans rappeler le « #choc_des_civilisations » thématisé par #Samuel_Huntington, ces politiques, censées « intégrer », concourent pourtant à radicaliser l’altérité « éthique » de l’étranger ou de l’étrangère : elles construisent la figure d’un « autre » appartenant – ou suspecté d’appartenir – à un système de « valeurs » qui s’écarterait à tel point du « nôtre » que son inclusion dans le « nous » réclamerait, de notre part, une vigilance spéciale pour préserver notre #identité_collective et, de sa part, une mise en conformité de son #identité_personnelle avec « nos valeurs », telles qu’elles s’incarneraient dans « notre mode de vie ».

    Exclusion des « autres » et homogénéisation du « nous » : les risques d’une « #Europe_des_valeurs »

    Le recours aux « valeurs communes », pour définir les « autres » et les conditions de leur entrée dans le « nous », n’est pas spécifique aux politiques migratoires des États nationaux. L’UE, dont on a vu qu’elle tenait à s’affirmer en tant que « communauté morale », a substitué en 2009 au terme de « #principes » celui de « valeurs ». Dès lors, le respect de la dignité humaine et des droits de l’homme, la liberté, la démocratie, l’égalité, l’État de droit sont érigés en « valeurs » sur lesquelles « l’Union est fondée » (art. 2 du Traité sur l’Union européenne) et revêtent un caractère obligatoire pour tout État souhaitant devenir et rester membre de l’UE (art. 49 sur les conditions d’adhésion et art. 7 sur les sanctions).

    Reste-t-on ici dans le périmètre d’une « intégration politique », au sens où la définit Habermas, ou franchit-on le cap d’une « intégration éthique » qui donnerait au projet de l’UE – celui d’une intégration toujours plus étroite entre les États, les peuples et les citoyens européens, selon la formule des traités – une portée résolument identitaire, en en faisant un instrument pour sauvegarder la « #civilisation_européenne » face à d’« autres » qui la menaceraient ? La seconde hypothèse n’a certes rien de problématique aux yeux des partisans de la quête d’« Européanité », pour qui le projet européen n’a de sens que s’il est tout entier tourné vers la défense de la « substance » identitaire de la « civilisation européenne ».

    En revanche, le passage à une « intégration éthique », tel que le suggère l’exhortation à s’en remettre à une « Europe des valeurs » plutôt que des droits ou de la citoyenneté, comporte des risques importants pour celles et ceux qui souhaitent maintenir l’Union dans le giron d’une « intégration politique », fondée sur le respect prioritaire des principes démocratiques, de l’État de droit et des libertés fondamentales. D’où également les craintes que concourt à attiser l’association explicite des « valeurs de l’Union » à un « mode de vie » à préserver de ses « autres éthiques ». Deux risques principaux semblent, à cet égard, devoir être mentionnés.

    En premier lieu, le risque d’exclusion des « autres » est intensifié par la généralisation de politiques imposant un critère de #compatibilité_identitaire à celles et ceux que leur altérité « éthique », réelle ou supposée, concourt à placer à l’extérieur d’une « communauté de valeurs » enracinée dans des traditions particulières, notamment religieuses. Fondé sur ces bases identitaires, le traitement des étrangers en Europe manifesterait, selon #Etienne_Tassin, l’autocontradiction d’une Union se prévalant « de la raison philosophique, de l’esprit d’universalité, de la culture humaniste, du règne des droits de l’homme, du souci pour le monde dans l’ouverture aux autres », mais échouant lamentablement à son « test cosmopolitique et démocratique ». Loin de représenter un simple « dommage collatéral » des politiques migratoires de l’UE, les processus d’exclusion touchant les étrangers constitueraient, d’après lui, « leur centre ». Même position de la part d’Étienne Balibar qui n’hésite pas à dénoncer le « statut d’#apartheid » affectant « l’immigration “extracommunautaire” », signifiant par là l’« isolement postcolonial des populations “autochtones” et des populations “allogènes” » ainsi que la construction d’une catégorie d’« étrangers plus qu’étrangers » traités comme « radicalement “autres”, dissemblables et inassimilables ».

    Le second risque que fait courir la valorisation d’un « nous » européen désireux de préserver son intégrité « éthique », touche au respect du #pluralisme. Si l’exclusion des « autres » entre assez clairement en tension avec les « valeurs » proclamées par l’Union, les tendances à l’homogénéisation résultant de l’affirmation d’un consensus fort sur des valeurs déclarées comme étant « toujours déjà » communes aux Européens ne sont pas moins susceptibles de contredire le sens – à la fois la signification et l’orientation – du projet européen. Pris au sérieux, le respect du pluralisme implique que soit tolérée et même reconnue une diversité légitime de « valeurs », de visions du bien et du monde, dans les limites fixées par l’égale liberté et les droits fondamentaux. Ce « fait du pluralisme raisonnable », avec les désaccords « éthiques » incontournables qui l’animent, est le « résultat normal » d’un exercice du pouvoir respectant les libertés individuelles. Avec son insistance sur le partage de convictions morales s’incarnant dans un mode de vie culturel, « l’Europe des valeurs » risque de produire une « substantialisation rampante » du « nous » européen, et d’entériner « la prédominance d’une culture majoritaire qui abuse d’un pouvoir de définition historiquement acquis pour définir à elle seule, selon ses propres critères, ce qui doit être considéré comme la culture politique obligatoire de la société pluraliste ».

    Soumis aux attentes de reproduction d’une identité aux frontières « éthiques », le projet européen est, en fin de compte, dévié de sa trajectoire, en ce qui concerne aussi bien l’inclusion des « autres » que la possibilité d’un « nous » qui puisse s’unir « dans la diversité ».

    https://laviedesidees.fr/L-Europe-et-la-fabrique-de-l-etranger
    #identité #altérité #intégration_éthique #intégration_politique #religion #islam

    • Politique de l’exclusion

      Notion aussi usitée que contestée, souvent réduite à sa dimension socio-économique, l’exclusion occupe pourtant une place centrale dans l’histoire de la politique moderne. Les universitaires réunis autour de cette question abordent la dimension constituante de l’exclusion en faisant dialoguer leurs disciplines (droit, histoire, science politique, sociologie). Remontant à la naissance de la citoyenneté moderne, leurs analyses retracent l’invention de l’espace civique, avec ses frontières, ses marges et ses zones d’exclusion, jusqu’à l’élaboration actuelle d’un corpus de valeurs européennes, et l’émergence de nouvelles mobilisations contre les injustices redessinant les frontières du politique.

      Tout en discutant des usages du concept d’exclusion en tenant compte des apports critiques, ce livre explore la manière dont la notion éclaire les dilemmes et les complexités contemporaines du rapport à l’autre. Il entend ainsi dévoiler l’envers de l’ordre civique, en révélant la permanence d’une gouvernementalité par l’exclusion.

      https://www.puf.com/politique-de-lexclusion

      #livre

  • Position et appel des Soulèvements de la terre sur le mouvement agricole en cours
    https://lundi.am/Position-et-appel-des-Soulevements-de-la-terre-sur-le-mouvement-agricole-en

    Si nous nous soulevons, c’est en grande partie contre les ravages de ce complexe agro-industriel, avec le vif souvenir des fermes de nos familles que nous avons vu disparaître et la conscience aiguë des abîmes de difficultés que nous rencontrons dans nos propres parcours d’installation. Ce sont ces industries et les méga-sociétés cumulardes qui les accompagnent, avalant les #terres et les fermes autour d’elles, accélérant le devenir firme de la production agricole, et qui ainsi tuent à bas bruit le monde #paysan. Ce sont ces industries que nous ciblons dans nos actions depuis le début de notre mouvement - et non la classe paysanne.

    Si nous clamons que la liquidation sociale et économique de la paysannerie et la destruction des milieux de vie sont étroitement corrélées - les fermes disparaissant au même rythme que les oiseaux des champs et le complexe agro-industriel resserrant son emprise tandis que le réchauffement climatique s’accélère - nous ne sommes pas dupes des effet délétères d’une certaine écologie industrielle, gestionnaire et technocratique. La gestion par les normes environnementales-sanitaires de l’#agriculture est à ce titre absolument ambigüe. À défaut de réellement protéger la santé des populations et des milieux de vie, elle a, derrière de belles intentions, surtout constitué un nouveau vecteur d’industrialisation des exploitations. Les investissements colossaux exigés par les mises aux normes depuis des années ont accéléré, partout, la concentration des structures, leur #bureaucratisation sous contrôles permanents et la perte du sens du métier.

    Nous refusons de séparer la question écologique de la question sociale, ou d’en faire une affaire de consom’acteurs citoyens responsables, de changement de pratiques individuelles ou de « transitions personnelles » : il est impossible de réclamer d’un éleveur piégé dans une filière hyperintégré qu’il bifurque et sorte d’un mode de production industriel, comme il est honteux d’exiger que des millions de personnes qui dépendent structurellement de l’aide alimentaire se mettent à « consommer bio et local ». Pas plus que nous ne voulons réduire la nécessaire écologisation du travail de la terre à une question de « réglementations » ou de « jeu de normes » : le salut ne viendra pas en renforçant l’emprise des bureaucraties sur les pratiques paysannes. Aucun changement structurel n’adviendra tant que nous ne déserrerons pas l’étau des contraintes économiques et technocratiques qui pèsent sur nos vies : et nous ne pourrons nous en libérer que par la lutte.

    Si nous n’avons pas de leçons à donner aux agriculteur·rices ni de fausses promesses à leur adresser, l’expérience de nos combats aux côtés des paysan·nes - que ce soit contre des grands projets inutiles et imposés, contre les méga-bassines, ou pour se réapproprier les fruits de l’accaparement des terres - nous a offert quelques certitudes, qui guident nos paris stratégiques.

    L’écologie sera paysanne et populaire ou ne sera pas. La #paysannerie disparaîtra en même temps que la sécurité alimentaire des populations et nos dernières marges d’autonomie face aux complexes industriels si ne se lève pas un vaste mouvement social de #reprise_des_terres face à leur #accaparement et leur #destruction. Si nous ne faisons pas sauter les verrous (traités de #libre-échange, dérégulation des prix, emprise monopolistique de l’#agro-alimentaire et des hypermarchés sur la consommation des ménages) qui scellent l’emprise du marché sur nos vies et l’agriculture. Si n’est pas bloquée la fuite en avant techno-solutionniste (le tryptique biotechnologies génétiques - robotisation - numérisation). Si ne sont pas neutralisés les méga-projets clés de la restructuration du modèle agro-industriel. Si nous ne trouvons pas les leviers adéquats de socialisation de l’#alimentation qui permettent de sécuriser les revenus des producteurs et de garantir le droit universel à l’alimentation.

    #revenu #écologie

    (pour mémoire : bucolisme et conflictualité)

    • C’est signé « Les Soulèvements de la Terre - le 30 janvier 2024 » ; c’est pas lundiamiste, c’est SDLTique :-)

    • 😁 merci @colporteur 🙏

      je colle ici un ou deux bouts de l’appel du lundiisme soulevementier, y’a une synthèse paysano-intello avec des chiffres

      Dans le monde, le pourcentage du prix de vente qui revient aux agriculteurs est passé de 40 % en 1910 à 7 % en 1997, selon l’Organisation des Nations unies pour l’agriculture et l’alimentation (FAO). De 2001 à 2022, les distributeurs et les entreprises agroalimentaires de la filière lait ont vu leur marge brute s’envoler de respectivement 188% et 64%, alors même que celle des producteurs stagne quand elle n’est pas simplement négative.
      [...]
      C’est ce pillage de la valeur ajoutée organisé par les filières qui explique, aujourd’hui, que sans les subventions qui jouent un rôle pervers de béquilles du système (en plus de profiter essentiellement aux plus gros) 50% des exploitant·es auraient un résultat courant avant impôts négatif : en bovins lait, la marge hors subvention qui était de 396€/ha en moyenne entre 1993 et 1997 est devenue négative à la fin des années 2010 (-16€/ha en moyenne), tandis que le nombre de paysans pris en compte par le Réseau d’information comptable agricole dans cette filière passe sur cette période de 134 000 à 74 000.