• La Ronde des hirondelles

    La Ronde des hirondelles dépeint le quotidien d’hommes exilés au cœur des Hautes-Alpes. Ils y sont dans un état latent — après des semaines de longues marches. L’interaction avec le paysage, l’immersion et la contemplation ont rythmé ces temps. La #marche est ici perçue comme un exutoire, un état réflexif ; une échappatoire au quotidien parfois morose.

    La #tapisserie que Florence souhaite réaliser a pour ambition de symboliser les voyages de ceux qui ont été contraints de fuir. Confectionné dans le style des tapis Azilal de la région du Tadla-Azilal dans le Haut Atlas, cette pièce décrit les chemins empruntés par les exilés sous la forme de lignes vives, dynamiques et colorées. Chaque tapisserie berbère a une signification profonde et multiforme, englobant des croyances, rituels et modes de pensée intrinsèques à cette culture. La tisserande incorpore son propre choix de motifs, inspirés par la résonance émotionnelle des histoires d’exil du peuple nomade Azilal.

    L’artiste installe son atelier dans les locaux du CADA afin de le rendre accessible à toustes. Il accueille des séances de portrait au cyanotype. Des séances de prise de parole et des ateliers d’écriture se tiennent également à cet endroit.

    L’objectif central est de faciliter le processus de reconstruction de la confiance en soi et de réévaluation de la perception de soi pour les personnes en situation d’exil. Ce projet vise à donner aux individus les moyens de se réapproprier leur corps, leur histoire et leur identité et de leur rendre leur droit à l’image.

    https://www.ateliersmedicis.fr/le-reseau/projet/la-ronde-des-hirondelles-31761
    #photographie #Hautes-Alpes #migrations #errance #montagne #Florence_Cuschieri #Gap #art #art_et_politique
    via @karine4

  • Chi si oppone a una nuova grande diga tra Veneto e Trentino per irrigare la pianura

    Il torrente #Vanoi che scorre in #Val_Cortella è minacciato da un progetto di sbarramento alto 116 metri dai costi ambientali ed economici elevatissimi. La Giunta Zaia parla di “difesa idraulica” e “tesaurizzazione idrica” mentre le comunità locali sono state escluse e l’area è segnata da smottamenti e frane. Le alternative esistono.

    L’incontro con Daniele Gubert è nei pressi del lago Schenèr, al confine tra Veneto e Trentino. Gubert fa parte del “Comitato per la difesa del torrente Vanoi e delle acque dolci” nato nel 1998 per scongiurare la costruzione di uno sbarramento del corso d’acqua che scorre in Val Cortella. “Non pensavo di dover tornare a lottare per il Vanoi”, racconta, ricordando le battaglie di vent’anni fa.

    In #Primiero, nel Trentino orientale, il settore idroelettrico ha già alterato profondamente l’assetto idrografico di vari torrenti, tant’è che si possono contare ben quattro bacini artificiali, realizzati da inizio Novecento, nell’arco di poche decine di chilometri quadrati.

    Dal lago ci si sposta a piedi fino al torrente Vanoi per visitare il sito in cui è prevista la costruzione di un’ulteriore diga, ad appena un chilometro in linea d’aria dallo sbarramento già esistente sullo #Schenèr. Nonostante la valle sia difficilmente accessibile, i tentativi per raggiungerla vengono ricompensati dalla bellezza che caratterizza la natura selvaggia dell’intero letto fluviale. “È uno dei pochi posti in Trentino dove la trota marmorata, specie endemica e in via di estinzione, riesce a riprodursi”, spiega Gubert, aggiungendo che per deporre le uova il pesce deve risalire il fiume per diversi chilometri. A confermare la rilevanza ecologica della valle sono due siti Rete natura 2000, di grande importanza per la presenza di boschi di abete bianco, in regressione su tutta la catena alpina, e di specie animali in forte diminuzione.

    Alto 116 metri, lo sbarramento poggerebbe a destra nella parte più settentrionale di Lamon, Comune bellunese, mentre la maggior parte dell’invaso (da 40 milioni di metri cubi di volume), ricadrebbe in Trentino. “Se il progetto venisse realizzato segnerebbe il territorio, e le relative opportunità turistiche, in modo irreparabile -continua Gubert-. La narrativa dominante associa il concetto di rinnovabile al settore idroelettrico, ma dovremmo parlare piuttosto di prassi usa e getta delle valli alpine, poiché i bacini esistenti sono pieni di sedimenti, molti risalenti all’alluvione del 1966, e invece di ripulirli e fare le opportune manutenzioni se ne progettano di nuovi”.

    Considerato e archiviato a più riprese fin dagli anni Venti del secolo scorso, a fine 2020 la Giunta regionale del Veneto guidata da #Luca_Zaia inserisce nel Piano regionale per la ripresa e la resilienza il progetto “Difesa idraulica e tesaurizzazione idrica tramite il nuovo serbatoio del Vanoi nel bacino del fiume Brenta”, motivando l’opera come necessaria per la difesa idraulica nelle province di Vicenza e Padova. Nel 2022 viene concesso un milione di euro, con fondi ministeriali, al Consorzio di bonifica del Brenta per l’esecuzione della progettazione e, poco dopo, il Consiglio regionale approva la realizzazione della diga. A maggio dell’anno successivo, la Provincia autonoma di Trento lamenta il mancato coinvolgimento nelle operazioni che hanno portato all’affidamento dell’opera e ricorda che, secondo la Carta di sintesi della pericolosità di Trento, l’area dove dovrebbe sorgere l’invaso è classificata con il massimo grado di rischio idrogeologico.

    Di quest’ultimo punto è facile rendersene conto: i fianchi della valle mostrano numerosi smottamenti e frane, che hanno reso addirittura impraticabile la strada della Cortella. Alfonso Tollardo, geologo intervenuto in occasione di un incontro pubblico organizzato a Lamon dal Partito democratico “Belluno Dolomiti” a inizio febbraio, e dedicato al progetto della diga sul Vanoi, ha dichiarato che, sebbene non ci siano le stesse condizioni geologiche del disastro del Vajont del 1963, c’è comunque la possibilità che del materiale franoso cada, con conseguente rischio per la diga e le comunità a valle. Il geologo ha descritto, inoltre, il grande impatto che avrà la costruzione dell’opera (per la quale sono previsti 24mila metri cubi di calcestruzzo, ovvero decine di migliaia di camion carichi di materiale che causerebbero non pochi disagi alla viabilità locale basata su un’unica via d’accesso) e il suo cantiere, per il quale si costruiranno ponti, gallerie, strade e terrazzamenti. In poche parole, il versante orografico destro verrebbe devastato.

    “A maggio del 2023 il presidente della Regione Veneto Zaia ha trasmesso l’elenco degli interventi di urgente realizzazione per il contrasto alla scarsità idrica al ministero delle Infrastrutture e dei trasporti. Tra questi anche quello della diga sul Vanoi, con una richiesta di finanziamento pari a 150 milioni di euro -ricorda da Belluno Alessandro Del Bianco, segretario provinciale del Partito democratico-. Abbiamo raccolto migliaia di firme e presentato un ordine del giorno ai consigli comunali e a quello provinciale contro l’invaso, oltre che una nuova mozione in consiglio regionale e un’interrogazione in Parlamento per chiedere la sospensione del finanziamento al progetto. Molte amministrazioni comunali si sono pronunciate contro, come anche le Province di Belluno e di Trento”. “Di questa faccenda contestiamo l’assenza di trasparenza”, dice riferendosi al diniego ricevuto dalla Provincia autonoma di Trento di accesso agli atti relativi all’assegnazione della progettazione al Consorzio di bonifica Brenta. “L’Autorità nazionale anticorruzione ha sollevato una serie di perplessità sull’affidamento della progettazione”, avverte il segretario parlando, inoltre, di una strumentalizzazione della questione climatica per giustificare l’urgenza del progetto.

    E a proposito di urgenza, in occasione di Fieragricola 2024, il commissario straordinario per la crisi idrica, Nicola dell’Acqua, ha dichiarato che se un territorio ne ha la necessità, si devono realizzare anche le dighe. “Affermazione perentoria e autoreferenziale quella del commissario, per altro organo tecnico amministrativo privo di legittimazione democratica, che fa intendere, attraverso parametri fattuali di necessità e urgenza, la determinazione di disconoscere e rimuovere buone ragioni di dissenso e unitarie azioni di opposizioni delle comunità territoriali contro alcuni interventi strutturali anacronistici e insostenibili”, commenta Valter Bonan, ex presidente del Parco nazionale dolomiti bellunesi. “Questo approccio anomalo e centralistico è messo in pratica dal Decreto legge n. 39 del 2023, o Decreto siccità, che presenta evidenti torsioni di quasi una decina di articoli costituzionali e un pericoloso utilizzo dei poteri sostitutivi dello Stato rispetto alle competenze istituzionali decentrate e al diritto fondamentale di partecipazione dei cittadini nel governo dei beni comuni”.

    Eppure di alternative alla diga ce ne sarebbero, come le aree forestali di infiltrazione che facilitano la ricarica degli acquiferi tramite sistemi costituiti da apposite scoline e specie vegetali. Questa soluzione è stata suggerita da Arturo Lorenzoni, docente di Economia dell’energia presso l’Università di Padova, sempre in occasione dell’incontro informativo del 4 febbraio, dove ha spiegato come per il cambiamento climatico le precipitazioni siano sempre più concentrate e facciano fatica a penetrare nel suolo, da qua la necessità di aumentarne la permeabilità. Almeno di quel poco che ne rimane, considerato che il Veneto è la seconda Regione in Italia per consumo di suolo.

    “Con la realizzazione della diga sul Vanoi si rischia di scatenare un’inedita guerra, tra ricchi, per l’acqua -conclude Daniele Gubert-. L’acqua è di tutti e, in Trentino come in Veneto, vanno adottate misure per risparmiarla e alternative sostenibili prima di invocare la grande opera”.

    https://altreconomia.it/chi-si-oppone-a-una-nuova-grande-diga-tra-veneto-e-trentino-per-irrigar


    https://www.agenziagiornalisticaopinione.it/lettere-al-direttore/comitato-difesa-torrente-vanoi-opere-la-val-cortella-e-

    #Italie #Alpes #montagne #résistance #barrage_hydro-électrique #eau #barrages

  • "Nos logements sont indignes, nos salaires dérisoires" : les bergers dépités par l’arrêt des négociations sur leurs #conditions_de_travail

    Dans les #Alpes, les #bergers dénoncent l’arrêt des négociations sur leurs conditions de travail. Depuis deux ans, ils luttent pour une meilleure #rémunération mais aussi des #habitats plus dignes. Alors que des pourparlers devaient se tenir, les représentants des éleveurs ont annulé les discussions.

    « Pas de gaz pour cuisiner, pas d’chauffage sans incendier, pas de place pour se relever, un matelas pour tout plancher » : il y a un peu moins d’un an, Pastor X & the Black PatouX dénonçait dans un clip de rap montagnard, les conditions dans lesquelles certains bergers travaillent en #estive, notamment en #Savoie, dans le parc national de la #Vanoise.

    Ils vivent dans des #cabanes de 4 mètres carrés, sans toilettes, ni gaz, ni eau potable. Des #abris_d'urgence dans l’attente de construction de chalets d’#alpage. Mais ces solutions, censées être temporaires, sont devenues insoutenables pour les premiers intéressés (voir notre reportage ci-dessous).

    90 heures de travail au lieu des 44 réglementaires

    « On estime qu’on a des conditions de logement qui sont indignes en alpage mais aussi ailleurs », déclare Tomas Bustarret, membre du syndicat de gardiens de troupeaux de l’Isère.

    #Promiscuité et #insalubrité viennent s’ajouter à des conditions de travail que les bergers jugent intolérables.

    « Les #salaires varient entre 1500 et 2500 euros, la moyenne est autour de 1900-2000 euros pour 44 heures de travail légales. Mais, dans les faits, on fait 70 à 90 heures de travail. Donc, rapporté au nombre d’heures travaillées, ces salaires sont dérisoires », poursuit-il.

    Des #frais_professionnels s’élevant à 1000 euros

    D’autant que les bergers fournissent leurs propres « équipements » en alpage : les vêtements pour résister aux conditions météo mais aussi les chiens de conduite des troupeaux (Border collie).

    « L’utilisation des #chiens n’est pas reconnue au niveau de nos frais », déplore Tomas Bustarret. « C’est nous qui payons la nourriture, les frais de vétérinaire des chiens et aussi nos vêtements qui nous servent pour le travail », dit-il, estimant que ces frais professionnels s’élèvent à un millier d’euros par saison.

    La pilule a d’autant plus de mal à passer que l’#élevage ovin est subventionné dans le cadre du #plan_loup, pour faire face au prédateur.

    Un secteur très subventionné par l’Etat

    « On pourrait être payés plus, ça ne ferait pas s’effondrer l’économie de nos employeurs », ajoute le jeune homme. « Les salaires sont subventionnés par le plan #loup pour les gardiens d’ovins à 80%, jusqu’à 2 500 euros. Du coup, nous, on tombe un peu des nues quand on nous refuse 200 euros ou 400 euros de plus par mois », dit-il.

    Les gardiens de troupeaux, grands oubliés de la colère agricole ?

    Cohabitation avec les usagers de la #montagne, retour du loup, mesures environnementales, le métier de berger évolue. Pour toutes ces raisons, les gardiens de troupeaux se sont regroupés en syndicat, affilié à la CGT, pour faire entendre leur voix.

    « L’idée, c’est d’améliorer par la réglementation les conditions de travail des bergers en empêchant les mauvaises pratiques de certains employeurs », avance Tomas Bustarret.

    En avril 2023, ils avaient mené une action devant la maison des agriculteurs de l’Isère.

    Les négociations au point mort

    « C’est une négociation. On ne peut pas leur donner satisfaction à 200 % mais on essayera d’aller dans leur sens le plus possible », assurait alors Guy Durand, éleveur et représentant pour l’Isère de la FDSEA, au micro de France 3 Alpes.

    Mais ces négociations n’ont abouti à rien de concret pour l’instant. Pire, celles qui devaient avoir lieu le 7 mars, ont été annulées par la Fédération nationale des syndicats d’exploitants agricoles. Les rendez-vous à l’échelle départementale et nationale sur le statut des ouvriers agricoles sont également au point mort.

    La remise en cause des #conventions_collectives ?

    Une commission paritaire devrait avoir lieu le 14 mars avec la fédération départementale de l’Isère, « mais la dernière a été annulée deux jours avant donc on ne sait pas si elle va se tenir », dit encore le jeune homme.

    Dans chaque département, une convention collective territoriale est établie. « Dans l’Ain, la FNSEA tente de supprimer des accords territoriaux qui assurent des droits spécifiques aux salariés agricoles », indique Tomas Bustarret.

    Les bergers et les gardiens de troupeaux se disent prêts à multiplier les actions pour obliger les exploitants agricoles à revenir à la table des négociations.

    https://france3-regions.francetvinfo.fr/auvergne-rhone-alpes/isere/temoignage-nos-logements-sont-indignes-nos-salaires-der
    #travail #montagne #logement

  • Alpinisme & anarchisme

    Né au XIXe siècle au sein de la haute société britannique, l’alpinisme n’est pas pour autant resté l’apanage des dominants. L’idée de grimper les montagnes a aussi fait son chemin parmi les exploités, à la faveur des premiers #congés_payés. Mais la montagne n’est pas qu’un terrain de jeu ou une frontière naturelle, c’est aussi un #refuge pour les opprimés, un lieu de #passage_clandestin, un terrain d’expression privilégié pour les #luttes écologiques et sociales. Un environnement qui peut sembler hostile, aussi, et qui impose que ceux qui s’y aventurent s’écoutent et s’entraident. Un monde où la #solidarité et la #liberté forment un socle de #valeurs_communes entre l’alpinisme et l’anarchisme.

    https://www.nada-editions.fr/produit/alpinisme-anarchisme

    #alpinisme #montagne #anarchisme #livre #entraide

  • #Monte_Verità

    1906. Hanna ne veut rien d’autre que se libérer de son corset bourgeois. Lorsqu’elle s’enfuit au célèbre Monte Verità, laissant ses filles derrière elle, elle est d’abord réticente à accepter le mode de vie libre de ceux qui cherchent un sens à leur vie. Mais lorsqu’elle commence à photographier les invités, elle se dépasse. Dans sa dévotion à l’art, elle doit se demander : peut-elle retourner dans sa famille sans se renier ?

    https://www.swissfilms.ch/fr/movie/monte-verita/030D2745C6844CEBB173B407A434D520
    #film #Ascona #Tessin #Suisse #liberté #montagne

  • #Transhumance hivernale à travers le #Jura

    Le Quotidien Jurassien prend cette semaine le pas de la transhumance hivernale de la #Bergerie_de_Froidevaux à travers le Jura. Un périple nomade de quatre mois, sous la pluie, la neige, le vent et la bonne étoile d’une jeune bergère.

    (#paywall)
    https://www.lqj.ch/series/transhumance-hivernale-a-travers-le-jura
    #hiver #Glovelier #montagne

  • Face au manque de neige, les habitants font revivre les stations délaissées

    Alors que la neige manque et que les stations de ski ne sont plus rentables, des habitants du massif de la Chartreuse tentent de faire revivre, sous forme associative, celles de leur village.

    « C’est une saison noire… ou plutôt une saison verte ! » La situation n’est pas réjouissante, mais Pascual Lacroix garde son sens de l’humour. En pleines vacances de février, l’herbe est détrempée sur les pentes de la station de ski de Saint-Hilaire-du-Touvet, dans le massif de la Chartreuse (Isère), parsemée ça et là de petits monticules de neige. Les flocons tant espérés ne sont jamais vraiment tombés, et les températures, bien trop douces, ont vite entamé les quelques centimètres de poudreuse.

    Pourtant, tout était prêt. Depuis des mois, Pascual Lacroix et les autres bénévoles de l’association Ag’Hil, Agir pour la station de Saint-Hil’, ne comptaient pas leurs heures, en dehors de leurs horaires de travail pour certains, les soirs, les week-ends, pour tout installer : dameuses remises d’aplomb, téléskis en place, abords des pistes débroussaillés, planning des postes programmé. L’association s’est constituée au printemps 2023, bien déterminée à rouvrir la station de ski pour la saison 2023-2024.

    Fin 2021, la station de ski (11 pistes et 5 téléskis) était mise à l’arrêt après de gros éboulements ayant détruit en grande partie le funiculaire de Saint-Hilaire-du-Touvet. Première infrastructure touristique de la commune du Plateau-des-Petites-Roches, le funiculaire permettait de financer le fonctionnement de la station de ski, « structurellement déficitaire », explique la maire de la commune, Dominique Clouzeau, les deux infrastructures étant sous régie municipale. « Après les éboulements, on a dû se résoudre à licencier les trois salariés de la régie, et à tout mettre en pause. »

    « Il fallait être un peu fous »

    Quand la question de rouvrir ou non la station de ski s’est posée, avec un funiculaire toujours à l’arrêt, le constat de la commune fut sans appel : impossible de mobiliser les 150 000 euros que coûterait l’ouverture de la station sur la saison hivernale, alors que l’enneigement est de plus en plus incertain. Une habitante du village, Perrine Broust, a malgré tout écrit une lettre ouverte à la municipalité, qui a réuni « 200 signatures en vingt-quatre heures », se souvient la quarantenaire.

    Petit à petit, l’idée d’une structure associative pour reprendre la gestion des remontées mécaniques, « utopique au début », fait son chemin. Même si les défis, notamment administratifs et financiers, sont énormes : « Il fallait être un peu fous pour faire ça », rient Perrine et Pascual. « Mais nous, on a skié ici, on a appris à nos enfants à skier ici. La station, c’est un lieu de convivialité essentiel, on ne voulait pas perdre ça. »

    En quelques mois, l’association en devenir a réuni plus de 200 adhérents, habitants de Chartreuse et d’ailleurs. Chacun a apporté ses compétences, son savoir-faire ou tout simplement son énergie : l’ancien garagiste du village s’est porté volontaire pour réparer la dameuse, les anciens salariés de la station sont venus donner des conseils, de nombreux bénévoles se sont formés aux remontées mécaniques. « Cela a rassuré le SRMTG [le Service technique des remontées mécaniques et des transports guidés, qui donne les autorisations d’exploiter le matériel] et les assurances de voir que l’on avait tout ce qu’il fallait pour que tout fonctionne bien », souligne Pascual.
    Un modèle associatif qui essaime

    Face à un enneigement toujours plus aléatoire — la plupart des stations de ski sont situées à un peu plus de 1 000 mètres, et la plus haute à 1 300 mètres d’altitude — et des équations financières impossibles à tenir pour les communes lorsque les gestionnaires privés ont déserté, le modèle associatif s’impose progressivement dans le massif de la Chartreuse. La flexibilité financière et organisationnelle que permet le modèle associatif a déjà séduit la moitié des huit stations de Chartreuse. « On ne s’appelle pas Ag’hil pour rien », souligne Perrine, malicieuse. « Si demain il neige, on envoie un mail aux bénévoles et on est prêt à ouvrir ! »

    La station voisine du Planolet, située à 1 100 mètres d’altitude au cœur du massif, a pu ouvrir quelques jours début janvier. Là aussi, Nouvelles traces en Chartreuse, la toute nouvelle association qui s’occupe depuis cette année des remontées mécaniques, a fédéré habitants et sympathisants de la station, après une saison 2022-2023 gérée de manière spontanée par un collectif d’habitants. Loueur à la retraite, restaurateur de la station, ancien pisteur… « Toutes des personnes qui ont envie de sauver la station », résume Yann Daniel, directeur de l’école de ski de Saint-Pierre-de-Chartreuse et membre de l’association.

    Tout au nord du massif de la Chartreuse, l’association Les skieurs du Granier, qui regroupe 115 bénévoles, gère depuis 2019 le domaine de ski du même nom, après avoir bénéficié d’une délégation de service public de la Communauté de communes Cœur de Chartreuse. « La station n’était pas viable économiquement, c’est pour ça qu’on a créé une association », raconte Violaine Rey, bénévole depuis les débuts. « On s’est aussi rendu compte que c’était un argument auprès des gens qui viennent dans la station, ils apprécient la convivialité qui découle du modèle associatif : tout le monde se connnait et la station est à taille humaine. »
    Penser « l’après-ski »

    Cette année, l’enneigement catastrophique contrarie quelque peu ces élans tout neufs. « C’est la première année “blanche” depuis qu’on a repris la station avec l’association », se désole Violaine Rey. « On savait que ça n’allait pas durer cinquante ans, mais ça fait bizarre de voir que ça y est, c’est sûrement la fin d’une ère », regrette la jeune femme qui a appris à skier dans la station et y a même été saisonnière. La suite ? « Elle est assez floue, on réfléchira à tête froide », concède Violaine Rey. « Il y aura évidemment des questions à se poser à l’issue de cette non-saison. »

    « C’est un peu la gueule de bois », reconnaissent de leur côté Perrine et Pascual. « On a tellement travaillé, tellement de choses ont été mises en place… On retente l’aventure l’année prochaine ! » Au-delà du ski, les bénévoles sont lucides : comme beaucoup de stations de ski de moyenne montagne, il faudra penser « l’après-ski »... et diversifier le modèle économique. « On réfléchit aux “quatre saisons”, avec la randonnée, les raquettes, le VTT », abonde la maire du #Plateau-des-Petites-Roches Dominique Clouzeau, pour qui l’horizon est clair : « On ne veut pas devenir un village-dortoir. »

    https://reporterre.net/Face-au-manque-de-neige-les-habitants-font-revivre-les-stations-delaisse

    #Saint-Hilaire-du-Touvet #neige #Chartreuse #ski #enneigement #stations_de_ski #montagne #association #Ag’Hil #Planolet #remontées_mécaniques #Les_skieurs_du_Granier #bénévolat #convivialité #moyenne_montagne

  • Widespread contamination of soils and vegetation with current use pesticide residues along altitudinal gradients in a European Alpine valley

    Pesticides are transferred outside of cropland and can affect animals and plants. Here we investigated the distribution of 97 current use pesticides in soil and vegetation as central exposure matrices of insects. Sampling was conducted on 53 sites along eleven altitudinal transects in the Vinschgau valley (South Tyrol, Italy), in Europe’s largest apple growing area. A total of 27 pesticides (10 insecticides, 11 fungicides and 6 herbicides) were detected, originating mostly from apple orchards. Residue numbers and concentrations decreased with altitude and distance to orchards, but were even detected at the highest sites. Predictive, detection-based mapping indicates that pesticide mixtures can occur anywhere from the valley floor to mountain peaks. This study demonstrates widespread pesticide contamination of Alpine environments, creating contaminated landscapes. As residue mixtures have been detected in remote alpine ecosystems and conservation areas, we call for a reduction of pesticide use to prevent further contamination and loss of biodiversity.


    https://www.nature.com/articles/s43247-024-01220-1
    #montagne #Alpes #Tyrol_du_sud #contamination_du_sol #sols #sol #pollution #agriculture #pollution_du_sol #pommes #pesticides #Sud-Tyrol #Italie #cartographie #visualisation

  • Viaggio sulle tracce che le Olimpiadi di Torino 2006 hanno lasciato tra le valli piemontesi: un racconto fotografico che porta a riflettere su Milano Cortina 2026

    Il cicloviaggiatore #Michele_Filippucci ha esplorato e fotografato l’alta val di Susa e la val Chisone per documentare gli effetti delle Olimpiadi di Torino 2006 sulle valli accanto alle quali è cresciuto. Un racconto che si sviluppa per immagini e ci spinge a riflettere sui Giochi di Milano Cortina 2026

    https://www.ildolomiti.it/altra-montagna/sport/2024/viaggio-sulle-tracce-che-le-olimpiadi-di-torino-2006-hanno-lasciato-tra-l

    #traces #JO #jeux_olympiques #montagne #Turin #2006 #paysage #photographie

  • La #mine de #lithium à la loupe : violations des droits et saccages à #Fiambalá

    En prévision d’un événement de solidarité avec les #luttes contre l’#extractivisme en #Argentine, nous publions deux textes qui présentent la situation politique dans les régions minières en Argentine.

    À Fiambalá (dans la région de #Catamarca), le processus vertigineux d’#exploitation de lithium qui s’est implanté annonce un changement d’époque. Usines de transformation à côté d’hôpitaux, camions et camionnettes qui circulent à pleine vitesse dans la petite ville, flambée des prix des denrées de base et des loyers, précarisation de l’emploi, problème de santé, pollution et manque d’eau sont quelques-uns des impacts dans la vie quotidienne des habitants de la ville de l’ouest catamarqueño.

    Alors que les premiers projets d’exploitation du lithium – approuvés dans le département de la ville d’Antofagasta de la Sierra – font leur possible pour passer inaperçus, cacher leur impact et disparaître de la carte, à Fiambalá, le mégaprojet « #Tres_Quebradas » (les trois Gorges), impulsé aujourd’hui par l’entreprise chinoise #Liex_Zijin montre une stratégie différente et met ostensiblement en avant ses irrégularités, la participation de l’entreprise dans le pouvoir local et la #violence explicite contre celleux qui résistent.

    Cette #impunité permet aussi de nouvelles formes de relations avec la communauté locale. Au cours de l’année dernière, plusieurs #plaintes ont été déposées contre la #précarisation des travailleur.ses qui se trouvent dans les #salars, soulignant le fait qu’ils n’ont souvent pas d’#eau pour se désinfecter et qu’ils ne disposent pas de l’équipement nécessaire pour manipuler les #produits_chimiques.

    Une des principales plaintes des travailleur.ses de la #mine porte sur les #conditions_de_travail : bas salaires, plus de douze heures de travail journalier et absence d’équipement de base. En même temps, les #mauvais_traitements quotidiens infligés à la population par les entrepreneurs et les travailleur.ses d’origine chinoise créent une distance inhabituelle par rapport aux stratégies ordinaires de marketing d’entreprise.

    Deux millions de litres d’eau sont requis par tonne de #chlorure_de_lithium. Ce projet requiert 40 millions de litres d’eau par an. L’installation du mégaprojet Tres Quebradas fut initiée par l’entreprise #Liex S.A. (filiale de #Neo_Lithium, d’origine canadienne) en 2017. Depuis novembre 2021, elle est gérée par l’entreprise chinoise Liex Zijin et la population alerte sur des changements radicaux.

    Le mégaprojet comprend onze propriétés minières, réparties sur plus de 30 000 hectares et qui a pour objectif, dans un premier temps, l’extraction de 20 000 tonnes de carbonate de lithium par an.

    L’entreprise #Zijin est la principale productrice de minéraux en #Chine et cherche à devenir une des trois principales compagnies minières dans le monde d’ici 2030. Comme l’expliquent Ruido et Fundeps dans leur rapport « Lithium et transparence » (Litio y transparencia), le géant asiatique est l’un des pays qui investit le plus dans le lithium en Argentine. Au total, en 2022, les provinces de Catamaraca, #Jujuy et #Salta y ont exporté 292 millions de dollars. Par ces chiffres, nous pouvons observer une tendance des entreprises chinoises à acquérir et gérer des projets de lithium dans le pays.

    En plus de la Chine, le Japon et la Corée du Sud constituent les seconds investisseurs les plus importants au cours de l’année passée (2022). Dans ce contexte, le cas Fiambalá, au travers de l’arrivée de Zijin, pourrait servir d’exemple pour connaître les intentions de la Chine et sa façon d’agir. Un pays en passe de se constituer un monopole de la production de lithium et de devenir le principal exportateur pour ses partenaires du Pacifique.

    Le plan est parfait pour les investisseurs : extraire le lithium de la zone de Tres Quebradas, un salar adossé aux #montagnes à 100 kilomètres de la ville de Fiambalá, y effectuer son premier traitement et l’acheminer, sous forme préconcentrée, à l’usine (aujourd’hui en construction), située à la sortie de la ville. Une fois traité, le carbonate de lithium sera expédié à travers le Pacifique par le col de San Francisco au Chili. Tout cela dans une province qui accorde les libertés suffisantes pour que les entreprises puissent développer leurs projets et ne souffrent pas trop économiquement, puisqu’elles ne paient que 3,5% d’impôts sur la valeur déclarée.

    Le réveil de Fiambalà

    En raison de la rapidité de mouvement et de son implication pour toutes les couches sociales de la population, il s’agit d’un moment très complexe pour celleux qui défendent les territoires et résistent à l’avancée des projets d’extraction. Parmi eux, l’Assemblée Socio-environnementale Fiambalá Réveille-toi (Fiambalá Despierta), un groupe de voisins et de voisines qui s’organise depuis 2016, depuis que la rumeur de l’installation de la mine a commencé à circuler. Ses membres expliquent qu’ils gagnent des forces depuis qu’ils ont essayé d’empêcher l’entreprise d’entrer dans leur ville en 2018. « Nous savions que s’ils entraient, ce serait pire, c’est pourquoi nous avons organisé un blocus avec quelques femmes », se rappelle Nicolasa Casas de Salazar, une des membres historique de l’assemblée.

    Aujourd’hui, l’usine pilote située dans le centre-ville – à quelque mètres de l’hôpital – produit déjà du carbonate de lithium. Les membres de l’assemblée ont écrit plusieurs notes pour demander les informations qui leurs sont dues en tant que personnes respirant le même air, mais ils n’ont cependant reçu aucune réponse. En novembre 2022, toute la population a été malade pendant plus d’un mois, avec des vomissements, des éruptions cutanées, des nausées et d’autres problèmes similaires. Pour cette raison, l’usine pilote a été fermée pendant un certain temps, mais les causes de cette maladie n’ont pas été révélées jusqu’à présent.


    Dans le cas de la nouvelle usine située à la sortie de la ville, où le carbonate de lithium sera finalement produit, la situation n’est pas meilleure. « Nous pouvons voir qu’ils font plus de piscines qu’annoncé, nous le savons parce qu’elles sont visibles depuis toute la ville ; nous pouvons aussi voir comment ils retirent la terre pour avancer rapidement dans les travaux et quand le vent se lève à midi, nous ne pouvons rien voir à cause de la poussière. Ils font beaucoup de mouvements, et tout est flou », déclare Willie Carrizo, artiste et membre de l’assemblée.

    Chaque tonne de chlorure de lithium nécessite 2 millions de litres d’eau. Pour ce projet, il y aurait besoin de 40 millions de litres d’eau par an. Pour donner une idée, cette consommation équivaut à l’eau qu’utiliserait une personne pour faire la vaisselle deux fois par jour pendant plus de 10 000 ans. D’après l’Assemblée, l’entreprise Zijin a jusqu’à présent installé au moins trois puis souterrains.

    « Ils extraient beaucoup d’eau ; il n’y a pas de données historiques sur l’impact d’un tel usage des nappes phréatiques, en particulier dans une zone désertique comme l’est Fiambalá », ajoute l’ingénieure environnementale et membre de l’assemblée Lis Sablé.

    Zone de promesse

    Ils sont arrivés, et ils ont promis des emplois, du progrès (ou de la croissance), et des bons salaires. Mais la réalité est toute autre et les gens commencent à se sentir mal à l’aise », explique Sablé. Moins d’un an après son annonce, l’usine de carbonate de lithium est déjà en place et les travaux progressent rapidement. « C’est le moment de la bonté minière (Bondad minera) », explique Lis en référence au contexte actuel : « lorsqu’ils auront terminé les travaux, tous les gens qui sont actuellement employés se retrouveront au chômage ».

    L’Assemblée Fiambalá Despierta est un pacte générationnel où se rencontrent militant.e.s historiques et jeunes curieuxses. Alors que les uns se préoccupent de l’avenir des enfants et de la vie dans cette ville, les jeunes – en ce moment – choisissent de s’organiser pour être celleux qui prennent elleux-mêmes les décisions à propos de leurs propres vies. « Je me suis rapprochée de l’assemblée pour être informée, pour décider si je veux vivre ici, si je veux avoir des enfants » explique Karen Perea, une jeune membre de l’assemblée.

    Choisir, dans un territoire où le scénario est déjà écrit par les intérêts des entreprises minières ne semble pas facile. S’organiser et se rendre visible comme faisant partie d’un espace collectif peut impliquer la perte d’offre d’emploi dans le domaine privé comme dans le domaine public, puisque la complicité entre ces deux pouvoirs est un fait. « C’est très difficile, parce que la mine est entrée dans les écoles de niveau secondaire via les bourses qu’elle verse en collaboration avec la municipalité, de sorte que les jeunes considèrent que c’est la seule façon de s’en sortir », nous signalent des membres de l’Assemblée. « Certains jeunes sont très inquiets et conscients de ce qu’il se passe, mais ils manquent de soutien, déplore Nicolasa Casas de Salazar. L’agricultrice de Fiambalá explique que de plus en plus d’écoles tertiaires ferment et que les jeunes n’aspirent plus qu’à des études de « santé et sécurité » ou d’ingénierie qui pourrait intéresser la compagnie minière. « Nous, nous pensons aux générations futures. Ils nous prennent tout, ce qu’ils font est très agressif », décrit Nicolasa. Elle rappelle aussi que « nous dépendons de l’eau, nous devons boire pour vivre, nous devons arroser les plantes et prendre soin de nos animaux ».
    Sans zone humide, il n’y a pas de vie

    Tres Quebradas fait partie du système des lacs des hautes Andes de la Puna altoandines et de la Puna, une zone qui soutient l’équilibre de toute une biodiversité bien spécifique. C’est pourquoi il s’agit d’une zone protégée en vertu de la loi 5070 de Catamarca, qui fait partie d’un réseau de zone humides reconnue internationalement comme étant un sous-site de Ramsar Sud. La zone compte six lacs (des genres de lac en altitude qui bougent, NDLR) qui, grâce à leur écosystème si particulier, permettent la subsistance d’espèces rares et en voie de disparition, comme le flamant andin. Pour Patricia Marconi, biologiste et membre de la Fondation Yuchán et du groupe de conservation des flamants altoandins, les salars altoandins « sont très précieux pour les communautés d’oiseaux en raison de la diversité des habitats qu’ils génèrent, du nombre de lacs, leur taux de salinité différents les caractéristiques physiques variées des cours d’eaux existants ». Mme Marconi explique que toute modification du territoire « peut avoir des conséquences irréversibles ».

    La biologiste souligne qu’en raison de leur capacité à conserver l’eau sous terre, les salars fonctionnent comme des zones humides de haute altitude. « Les impacts cumulatifs des processus mis en place par les compagnies minières, tels que l’extraction de la saumure à partir de sa concentration et de sa séparation pour obtenir du lithium, ainsi que l’extraction de l’eau douce pour traiter le minerai ne sont pas clairement établis ni proportionnés à la capacité de chaque bassin », explique-t-elle. De ce fait, puisque la capacité d’eau douce et de saumure de chaque bassin est inconnue, l’impact réel que chaque projet pourrait avoir est également inconnu
    Résister et produire

    La ville de Fiambalá est située dans une vallée et est longée par les rivière Chaschuil et Abaucán qui descendent de la cordillère des Andes. Grâce au fleuve et à plus de 300 ans d’intervention humaine, le bolsón (vallée désertique) de Fiambalá s’est transformé en une vaste zone verte entourée de désert. Un écosystème fragile qui pourrait être bouleversé par le moindre changement. Depuis l’arrivée de la mine, de nombreuses dynamiques ont changé, mais d’autres ont été réévaluées. Des continuités dans les pratiques collectives qui résistent au mal nommé « développement » imposé. Au cours de l’histoire, les familles paysannes ont expérimenté la production d’aliments et les savoirs propres à ce type de géographie. Leur travail est visible : des dahlias fuschias qui contrastent avec la dune jaune à l’arrière des maisons, des forêts natives de chañars et de caroubiers qui résisent à la tentative de la municipalité de cimenter toute la ville ; des variétés de maïs qui se multiplient grâce aux échanges communautaires, une architecture et des systèmes d’irrigation qui préservent l’eau en période de sécheresse ; des hectares et des hectares de vignobles avec lesquels une ville entière a subsisté.
    Le chañar et le caroubier.

    Diego Amartino et Helena Córdoba Vélez vivent à Fiambalá depuis 2016, dates à laquelle ils ont créé une entreprise ; Alors qu’un projet de mort s’installait dans le même territoire, ils ont décidé de déménager et de lancer un projet productif, centré sur l’utilisation et la revalorisation des fruits d’arbres indigènes et sylvestres. « Avec Helena, nous profitons des aliments que nous connaissons et que nous avons appris à connaître, que nous avons testé. Notre histoire est liée à la façon dont nous tirons parti de ces fruits et aliments qui ont été un peu oubliés et dont nous leur donnons de la valeur », explique Diego. Sur cette base, ils ont également l’intention d’innover et de créer de nouveaux produits en s’inspirant de l’agroécologie. Aujourd’hui, ils fabriquent tous deux de la farine de caroube, des arropes et du patay. Dans chaque saveur, ils restituent à Fiambalá une petite partie de leur histoire.

    Le contrôle de l’eau doit être entre nos mains.

    Laura Del Pino est l’héritière d’un vignoble de plus de 50 ans. En 2022, elle a choisi de retourner sur les terres de sa grand-mère pour continuer son travail. La situation est bien différente de celle des souvenirs des étés de son enfance.

    Auparavant, une grande partie de la population travaillait à la production de raisins qui étaient vendus sur les marchés. Aujourd’hui, dit-elle, très peu de camions vont au marché. Il explique qu’il est très difficile d’embaucher des personnes qui veulent continuer à travailler comme viticulteurs.

    « L’autre problème est l’eau, il n’y a pas eu beaucoup de pluie et les gelées de novembre ont ruiné une partie de la production", souligne Mme Del Pino. "Il faut maintenant lutter contre cela, car l’eau utilisée dans l’usine ne peut pas retourner à l’irrigation, ni à la nappe phréatique ni à quoi que ce soit d’autre, car elle est contaminée et nous ne savons pas ce qu’ils font là-haut ». Pour l’agricultrice, il n’y a qu’une solution : "Le contrôle de l’eau doit être entre nos mains".
    Les raisins de la colère

    En plus de participer à l’assemblée de Fiambalá Despierta, Nicolasa et don Cacho sont producteur.ices de raisin. Ils vendent du raisin à la communauté et aux touristes depuis leur porte d’entrée. Cette décision s’explique : d’une part, ils s’opposent au fait que la maire, Roxana Paulón, soit propriétaire d’une cave et dirige la seule mostera de la ville. « Elle a fixé un prix général pour tous les producteurs, elle paie 16 pesos par kilo de raisin. Elle ne nous a même pas demandé quels étaient nos coûts de production », dénonce Nicolasa. En même temps, en vendant le raisin depuis leur maison, Nicolasa et don Cacho remplissent un autre objectif : ils ont un moyen de parler de la situation de Fiambalá à chaque personne qui passe.

    Leur maison, située dans la rue principale, porte une pancarte sur laquelle on peut lire : « L’eau vaut plus que le lithium ». Nicolasa ne se repose jamais : en même temps qu’elle joue avec sa petite fille, elle réfléchit à la prochaine affiche qu’elle placera sur sa porte et s’imagine en train d’organiser un grand festival pour propager cette idée qu’elle trouve aussi simple que passée sous silence : « c’est simple, il nous faut prendre soin de l’eau et prendre soin de l’eau, c’est prendre soin de la vie. Les ressources qu’ils nous prennent, comme l’eau, sont celles qui ne se renouvellent pas ».

    https://www.strike.party/articles/la-mine-de-lithium-%C3%A0-la-loupe-violations-des-droits-et-saccages-%C3%A
    #terres_rares

    • Litio y transparencia en Argentina: aportes a 2 proyectos que explotan este mineral

      - Cuatro de los mayores fondos de inversión del mundo son los principales dueños de las empresas que producen litio en Argentina.
      - Un complejo entramado de accionistas que dificulta la transparencia de sus beneficiarios finales.
      - Cuánto pagan de regalías en las provincias con proyectos activos de litio.
      - Cuán transparentes son las provincias de Catamarca y de Jujuy en relación a la extracción de litio.

      Desde Fundeps y Ruido, publicamos el informe Litio y Transparencia en Argentina, una investigación que aborda la situación actual de Argentina en relación con la producción de litio, el sistema de gobernanza minera vigente y los dos proyectos que actualmente producen litio: Proyecto Fénix en el salar del Hombre Muerto y Sales de Jujuy en el salar de Olaroz-Cauchari, a la luz de algunos indicadores ofrecidos por la Iniciativa para la Transparencia de las Industrias Extractivas (EITI).

      El litio se ha convertido en los últimos años en uno de los minerales que más interés despierta en el mundo, debido a su utilización en baterías para celulares, tablets, computadoras portátiles y, más recientemente, en vehículos eléctricos e híbridos. Lo que ha posicionado a este mineral en el centro de los debates sobre la transición energética y los objetivos de reemplazar, en parte, el uso de combustibles fósiles. Si bien se trata de un recurso relativamente abundante en nuestro planeta, son muy pocos los depósitos en los que se encuentran niveles de concentración suficientes para su explotación.

      En un contexto de auge de la industria del litio, Argentina adquiere cierta centralidad, a raíz de poseer este mineral en grandes cantidades en su territorio, y ubicarse en los últimos años como uno de sus principales productores y exportadores. Junto a Chile y Bolivia, Argentina integra el “Triángulo del litio”, con un 65% de los recursos mundiales y sola posee el 20,5% de las reservas mundiales. En la actualidad existen 38 proyectos en distintos grados de avance en el país, y dos de ellos en etapa de producción.

      El sistema de gobernanza minero se forjó, principalmente, en la década de 1990, con las reformas a la Constitución Nacional, al Código de Minería y con la Ley de Inversiones Mineras que estableció una amplia gama de beneficios y exoneraciones fiscales, con el fin de atraer, fundamentalmente, la inversión extranjera directa en el sector. La actividad minera está alcanzada además por todo el andamiaje de legislación ambiental y de protección a las comunidades originarias que habitan las zonas de los proyectos, destacan: el Acuerdo de Escazú y el Convenio 169 de la OIT.

      En el año 2019 Argentina adhiere a la Iniciativa para la Transparencia de las Industrias Extractivas (EITI), a través de la cual los países se comprometen a, a través del estándar que este mismo establece, a divulgar información a lo largo de la cadena de valor de las industrias extractivas, desde la forma en que se otorgan los derechos sobre actividades extractivas, hasta el modo en que los ingresos llegan a manos de los gobiernos, cómo benefician a la población y qué impactos socio-ambientales tienen. Dado la forma federal de nuestro gobierno, sumado al dominio originario sobre los recursos naturales que tienen las provincias, Argentina solicitó una implementación adaptada al EITI comprometiéndose a cumplir con el mismo en lo que refiere a información a nivel nacional, y paulatinamente ir sumando información provincial, a través de la adhesión que vaya consiguiendo de las distintas provincias al Estándar.

      En marzo de este año se sumaron Catamarca, Santa Cruz, Salta y San Juan.
      ¿Cuán transparente es la extracción de litio en Jujuy y en Catamarca?

      Si bien en estas provincias la legislación relativa a minería se encuentra disponible en las páginas oficiales de los gobiernos provinciales, la misma es de muy difícil acceso y comprensión, en tanto se trata de decenas de leyes nacionales y provinciales, decretos y resoluciones que no están sistematizadas ni organizadas. Esto conlleva que los procesos, organismos, métodos, directivas y demás regulaciones provinciales sean de muy difícil entendimiento para la sociedad en general y para las comunidades afectadas por los proyectos mineros en particular.

      En relación a los dos proyectos específicos que extraen el litio, la información a la que se accede es de muy difícil comprensión debido al lenguaje técnico que es utilizado por las mineras y al volumen de los estudios e informes. Esta información es, además, provista la mayor de las veces por las empresas mineras, sin la intervención y control por parte de las autoridades provinciales y/o locales.
      Las empresas y sus personas beneficiarias finales

      Desde hace años se advierte la necesidad de transparentar la actuación de las empresas en general, y extractivas en particular, en parte por los grandes volúmenes de dinero que mueven y a los demostrados riesgos de corrupción que existen alrededor de esta actividad. En atención a uno de los mayores obstáculos presentados a la hora de investigar ilícitos que se puedan dar en el ejercicio de la actividad empresarial extractiva, tanto el EITI como Open Ownership y otras iniciativas, han focalizado sus esfuerzos en impulsar el desarrollo de estrategias y acciones que permitan conocer quiénes poseen en última instancia la titularidad o el control de las empresas. Es decir quiénes son las personas que se benefician en última instancia de éstas.

      En el proyecto Fénix (Salar del Hombre Muerto) en Catamarca opera la empresa estadounidense Livent.

      En el proyecto Sales de Jujuy (en el salar de Olaroz – Cauchari), la sociedad integrada por la australiana Allkem (con 66,5% de las acciones), la japonesa Toyota Tsusho (25%) y la empresa estatal de la provincia de Jujuy, Jemse (8,5%).

      Los dos principales propietarios de acciones de Livent son Blackrock y Vanguard, dos de los fondos de inversión más grandes del mundo, radicados ambos en EE.UU. En el caso de Allkem, sus principales accionistas son las empresas bancarias y financieras JP Morgan (EE.UU.) y HSBC (Reino Unido). A su vez, estos cuatro fondos (Blacrock, Vanguard, JP Morgan y HSBC) son accionistas cruzados entre ellos, de manera que componen un complejo entramado societario que, directa o indirectamente, los coloca como principales beneficiarios de los dos proyectos que hoy extraen y exportan litio desde Argentina.

      ¿Es posible acceder a los nombres particulares de las personas beneficiarias finales de estas empresas?

      En Argentina no existe una política uniforme ni una legislación única relativa a la solicitud, identificación y difusión de personas beneficiarias finales. Si bien existen algunos canales públicos de los cuales extraer información relativa a estas personas, como el Registro Nacional de Sociedades, la Inspección General de Justicia o la Comisión Nacional de Valores, en el caso de las empresas relevadas no se encontró ninguna información allí, ya sea porque se trata de compañías que no están radicadas en la Ciudad de Buenos Aires o bien porque los registros no están completos. Es por ello que fue necesario consultar los balances y reportes anuales de las empresas. En ese sentido, si bien existen reportes anuales con resultados económicos y financieros de Allkem, Livent y Toyota, no es posible acceder a ninguna información de ese tipo en el caso de Jemse, la empresa propiedad de la provincia de Jujuy, en Sales de Jujuy. Del análisis pormenorizado de los reportes anuales de las empresas Allkem, Livent y de sus principales accionistas (Blackrock, The Vanguard Group, HSBC Group y JP Morgan), sí surgen nombres propios de autoridades y directivos que recibieron dividendos como propietarios de acciones de ambas empresas.

      En materia ambiental, los principales cuestionamientos tienen que ver con el uso del agua y el destino de los residuos de la producción. Al respecto, resultan preocupantes los alcances de los controles ambientales en ambas provincias, así como la dificultad para acceder a informes sobre el impacto de estas actividades, tanto para la ciudadanía en general, como, y especialmente, para las comunidades afectadas por este tipo de actividades, en particular.

      https://fundeps.org/litio-en-argentina-aportes-a-2-proyectos

  • 21.09.2023 : #Pratiques_policières & préfectorales illégales en réponse à la demande de places d’hébergement d’urgence.

    La semaine dernière, la préfecture des #Hautes-Alpes a annoncé l’arrivée, dès le jeudi 21 septembre, de 84 effectifs supplémentaires dédiés au #renforcement des contrôles à la frontière franco-italienne. Depuis, des #interpellations se multiplient autour de la frontière, jusque dans la ville de #Briançon, et même au-delà, où la #police traque les personnes exilées pour les chasser de l’#espace_public. Or, si la préfecture se targue de respecter la loi, il n’en est rien et ces pratiques policières et préfectorales sont illégales et dangereuses.

    Les pratiques en matière de contrôles des personnes exilées dans la ville de Briançon ont changé depuis jeudi dernier : chaque jour, plus d’une dizaine de personnes ont été retenues au poste de police, parfois une nuit entière, suite à des contrôles d’identité dans la ville même, fait plutôt rare jusqu’ici. Les exilé.e.s sont poursuivi.e.s au-delà même de Briançon, dans le train, les bus, et jusqu’à Paris, où vendredi matin (29 septembre) une armada de policiers les attendaient à la descente du train de nuit à la gare d’Austerlitz. La présence policière est également renforcée à Marseille, Gap ou Grenoble.

    Ces contrôles ciblent les personnes racisées, et sont suivies par des retenues au commissariat pouvant aller jusqu’à 24 heures, qui se soldent par des #mesures_d’éloignement : des #OQTF (obligation de quitter le territoire français) sans délai, parfois suivies par des placements en #CRA (centre de rétention) dans des villes éloignées, comme Toulouse.

    Dans la ville frontalière de Briançon, ces vagues d’interpellations dissuadent les personnes exilées de circuler, elles ne sont donc à l’abri de ces contrôles que dans le seul lieu d’accueil actuellement ouvert, un bâtiment occupé en autogestion. La société publique locale Eau Service de la Haute Durance, dont le président n’est autre que le maire de Briançon, M. MURGIA, a coupé l’approvisionnement en eau courante de ce bâtiment le 17 août 2023. Aggravant la précarité des personnes accueillies, cette décision a de fortes répercussions pour la santé et le respect des droits fondamentaux des personnes. (Le lieu accueillant l’association Refuges solidaires a fermé fin août, ne pouvant assurer seul l’hébergement d’urgence à Briançon.)

    Des ordres ont été donné par le préfet pour augmenter la #présence_policière dans la ville de Briançon. L’augmentation des #contrôles_d’identité viserait à prévenir la recrudescence des « #incivilités » liées au contexte de pression migratoire. Les forces de l’ordre répètent que les contrôles qu’ils opèrent dans la ville de Briançon sont des contrôles dits « Schengen », possibles dans une bande de 20 km après la frontière, visant à rechercher et prévenir la #criminalité_transfrontalière.

    Or, le fait de franchir une frontière irrégulièrement, ou de se maintenir sur le territoire français irrégulièrement ne sont pas des infractions permettant de justifier un contrôle d’identité. En aucun cas, la police ne peut déduire que la personne est étrangère à cause d’un critère inhérent à la personne contrôlée (couleur de peau, d’yeux, de cheveux, vêtements, etc..). Ces contrôles sont restreints dans le temps : pas plus de douze heures consécutives. Or, ils sont permanents dans la zone frontalière briançonnaise. Dans les faits, ce sont bien des #contrôles_au_faciès qui sont menés, car ce sont bien les personnes racisées qui sont la cible de ces contrôles, qui ne semblent justifiés par aucun motif précis. A moins que le simple fait de dormir dans la rue soit considéré cyniquement comme une infraction par l’État, ou une « incivilité » alors même que celui-ci se place dans l’illégalité en n’ouvrant pas de places d’hébergement d’urgence dans le département ? Ces contrôles au faciès font plutôt penser à une réelle volonté du préfet de supprimer la présence des personnes exilées de l’espace public.

    Par ailleurs, la CJUE (Cour de justice de l’Union européenne) a bien rappelé dans sa décision du 21 septembre que la France met en place des pratiques illégales en termes de contrôles et d’enfermement aux frontières intérieures, et qu’elle est tenue de se conformer aux textes européens, ce qu’elle ne fait pas.

    Ces pratiques répondent à la même logique que celle dénoncée par nos associations depuis maintenant plusieurs années à la frontière : une volonté politique d’empêcher tout prix les personnes exilées de circuler, en faisant fi des textes de loi qui encadrent à la fois les contrôles d’identité et les procédures de non-admissions sur le territoire. Aussi, la réponse de l’Etat est une fois de plus de faire croire qu’il est possible « d’étanchéifier » la frontière, en déployant pour cela des moyens dispendieux.

    Or, Médecins du Monde et Tous migrants ont mené une enquête sur une semaine à la fin du mois d’août, et les résultats de nos observations confirment ce que nous documentons depuis plusieurs années : ce dispositif de contrôle de la frontière met en danger les personnes. Il n’empêche absolument pas les personnes exilées d’entrer en France, mais accroît par contre leur vulnérabilité en rendant le passage plus difficile, plus dangereux.

    Les récits des personnes qui traversent la frontière sont édifiants : contrôles par surprise, courses-poursuites par les forces de l’ordre, qui provoquent des chutes, avec des fractures, des entorses ou encore des pertes de connaissance. Marchant en moyenne 10 heures depuis l’Italie pour atteindre Briançon, les personnes font état de leur extrême #fatigue, de #déshydratation, et du #risque_de_se_perdre en #montagne. Certain.es ont passé plus de 48 heures en montagne, parfois sans boire ni manger. Cette énième traversée de frontières avec des tentatives de passage souvent multiples s’ajoute à un parcours migratoire extrêmement éprouvant et crée de plus des #reviviscences_traumatiques susceptibles ensuite de se traduire par des altérations de la #santé_mentale. Les #récits recueillis ces dernières semaines et les observations de Médecins du Monde lors des permanences médicales confirment ces pratiques.

    La plupart des personnes qui traversent la frontière sont originaires des pays d’Afrique sub-saharienne, et plus récemment du Soudan, et relèvent du droit d’asile ou de la protection subsidiaire. Les refouler en Italie de manière systématique et collective ignore le droit d’asile européen. De même, prendre à leur encontre des mesures d’éloignement (OQTF) vers leurs pays d’origine, où elles risquent la mort ou la torture, est contraire au principe de non-refoulement (article 33 de la Convention de 1951 relative au statut des réfugiés).

    https://www.medecinsdumonde.org/actualite/pratiques-policieres-prefectorales-illegales-en-reponse-a-la-demand

    #asile #migrations #réfugiés #frontières #France #Italie #frontière_sud-alpine #Alpes #contrôles_frontaliers #squat #refoulements #push-backs

  • « Depuis six décennies, l’#aménagement touristique de la #montagne est engagé dans une fuite en avant »

    L’attribution des #Jeux_olympiques d’hiver de 2030 à la #France risque de retarder encore l’engagement des communes touristiques de montagne dans la #transition_écologique, estime, dans une tribune au « Monde », le géographe #Rémy_Knafou.

    La France a eu des politiques touristiques pour la montagne ; elle n’en a plus depuis longtemps. Et la récente décision d’attribuer à la candidature française les Jeux olympiques d’hiver de 2030 ne va pas faciliter la transition juste que le réchauffement climatique, plus important qu’en plaine, appelle pourtant.

    Le #plan_neige des années 1960, sous la présidence du général de Gaulle, était une réponse à l’#exode_rural qui vidait la montagne de ses forces vives et au projet de retenir en France la clientèle des skieurs français qui fréquentait les pays alpins voisins. Il en résulta la création ex nihilo en haute altitude de nombreuses stations de sports d’hiver et l’aménagement de vastes #domaines_skiables, désormais parmi les plus étendus de la planète.

    Avalanches et glissements de terrain meurtriers couplés à une mévente immobilière incitèrent l’Etat à un infléchissement, qui s’exprima dans le #discours_de_Vallouise, prononcé par le président #Valéry_Giscard_d’Estaing, le 23 août 1977 : « Trop de #résidences_secondaires s’éparpillent au gré des ventes de #terres_agricoles. Trop de #stations_de_ski furent implantées sans tenir compte suffisamment des populations locales et des contraintes de l’#environnement. L’effort de l’Etat portera dorénavant sur un tourisme intégré à d’autres activités, accessible au plus grand nombre, respectueux des sites et des #paysages. »

    Des clientèles étrangères en majorité fortunées

    En 1985, l’Etat s’est doté d’une loi « montagne », qui entendait à la fois développer et protéger – ce que, de facto, la France faisait déjà depuis une vingtaine d’années avec la création, en 1963, du #parc_national_de_la_Vanoise : tout était interdit dans sa zone centrale quand (presque) tout était permis dans sa zone périphérique, où se développaient quelques-unes des plus importantes stations françaises de #sports_d’hiver.

    Mais force est de constater que cette loi « montagne », complétée en 2016 par la loi « montagne II », n’a pu ralentir la progression de l’#immobilier en altitude, de l’équipement en #remontées_mécaniques et en #neige_artificielle, tandis que, parallèlement, les espoirs de #démocratisation du ski disparaissaient d’un marché porté par la venue croissante de clientèles étrangères en large majorité fortunées.

    Ainsi, depuis six décennies, l’aménagement touristique de la montagne est engagé dans une #fuite_en_avant – que j’avais déjà analysée dans ma thèse, publiée en 1978, « Les stations intégrées de sports d’hiver des Alpes françaises » (Masson) –, la croissance immobilière appelant constamment l’extension des domaines skiables et ceux-ci nécessitant à leur tour la construction de nouveaux programmes résidentiels. C’est ainsi que la seule #Tarentaise en est arrivée à totaliser en altitude 427 500 lits touristiques, soit plus que de la population cumulée des deux agglomérations d’Annecy et de Chambéry !

    Un cercle vicieux défendu par les #lobbys du ski

    La montagne hivernale a produit une machine infernale, sorte de course-poursuite sans fin entre les lits et les remontées mécaniques. La nécessité, toujours pour alimenter le chiffre d’affaires des remontées mécaniques, de remplacer les lits « froids » – les passoires thermiques représentent près de la moitié du parc ! – construits dans les années 1960-1990 et progressivement sortis du marché nourrit aujourd’hui cette dynamique.

    L’actuelle croissance immobilière va donc à l’encontre de ce qu’il faudrait faire : elle poursuit l’#artificialisation_des_sols, attire une clientèle étrangère qui va accroître l’empreinte carbone des stations et repose sur une progression de l’#enneigement_artificiel – c’est en effet une attente des acquéreurs de logements à plus de 15 000 euros le mètre carré, qui souhaitent sécuriser la pratique du ski, quels que soient les aléas d’un enneigement sur le repli.

    On voit comment le système touristique de la montagne hivernale a enfanté un cercle vicieux défendu par les puissants lobbys du ski – dont la dernière victoire en date est la promesse de l’organisation des Jeux olympiques d’hiver en 2030.

    A la recherche d’un équilibre de développement

    La France a été préférée à la Suède et à la Suisse parce que le #Comité_international_olympique (#CIO) aurait prudemment opté pour le pays qui n’avait pas le projet de soumettre à référendum ou à votation sa candidature – on le sait, le CIO ne trouve plus de candidatures que dans les pays dictatoriaux ou dans les démocraties qui ne demandent pas leur avis aux populations afin d’éviter le refus des citoyens contribuables.

    Au lieu de célébrer cette victoire trop facile, les pouvoirs publics s’honoreraient à engager la montagne touristique dans une transition juste, d’autant que les conditions semblent malgré tout favorables. En effet, face au réchauffement climatique, la montagne a et aura un avenir touristique, avec ou sans neige, car on y trouvera, en été en particulier, des températures plus supportables qu’ailleurs.

    Les communes et stations qui continueront à vivre du ski devraient le faire à plusieurs conditions. Il leur faudrait tout d’abord considérer le niveau actuel de développement comme un état d’équilibre qui permet de bien vivre sans poursuivre la construction de nouveaux #logements, l’effort étant tourné vers la #rénovation de l’existant. De plus, elles ne devraient plus se lancer dans des projets d’aménagement accentuant la pression sur un milieu naturel déjà très exploité, et qui pourraient compromettre leur réorientation économique, celle-ci étant inévitable à moyen ou à long terme.

    Prendre l’avis de toutes les populations

    Lorsque de tels projets (nouvelles urbanisations, retenues d’eau pour les canons à neige, etc.) sont néanmoins retenus, les communes devraient réfléchir à la manière de prendre en compte non seulement les avis de ceux qui habitent ces lieux touristiques à l’année, mais aussi les avis de ceux qui font vivre ces lieux en les fréquentant : une petite minorité ne devrait plus décider seule du sort de ces lieux.

    Enfin, les communes devraient alimenter un #fonds_de_prévoyance – car les temps difficiles finiront par arriver, même pour les communes de haute altitude –, afin que la collectivité nationale ne soit pas amenée, in fine, à financer une reconversion qu’elles auront refusé de préparer. C’est à ce prix que l’attribution des Jeux olympiques d’hiver à la France, si elle est confirmée, ne se transformera pas en victoire à la Pyrrhus.

    https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/12/30/depuis-six-decennies-l-amenagement-touristique-de-la-montagne-est-engage-dan
    #tourisme #aménagement_du_territoire #ski #loi_montagne #Vanoise #loi_montagne_II #lits_froids

  • (16-17.12.2023)

    ⛰️💥 Ce week-end, nous étions plus de 2000 dans les #Alpes_Apuanes pour lutter contre l’extractivisme et défendre un autre avenir pour nos montagnes.


    Dans les Apuanes, en #Italie, de nombreux collectifs de citoyens se battent contre un modèle mortifère d’exploitation du territoire, qui crée d’énormes #profits mais concentrés dans les mains de quelques-uns, au détriment de la #santé des gens et du vivant

    🏗 Ici, l’#industrie_du_marbre a façonné la ville et les montagnes en fonction de ses intérêts économiques. Comme cela a été rappelé lors de la conférence, chaque année, plus de 5 millions de tonnes de #marbre sont extraites des carrières, dont la plupart finissent dans les mains de #multinationales pour produire du #carbonate_de_calcium, une poudre utilisée dans les dentifrices, les médicaments et l’industrie alimentaire... on est bien loin de l’utilisation qu’en faisait Michelangelo pour son art !

    💧 Ces processus d’extraction ont un impact élevé sur les écosystèmes, les nappes phréatiques et les eaux des rivières, et augmentent le #risque_hydrogéologique dans une zone déjà extrêmement délicate, avec des conséquences dévastatrices pour la ville de #Carrare, qui a été à plusieurs reprises le théâtre de graves inondations

    Les premiers à payer sont donc les citoyens et les mineurs eux-mêmes, soumis à des travaux extrêmement lourds avec un risque élevé d’accidents - dont le dernier s’est produit ce samedi matin.

    Les Alpes Apuanes sont ainsi l’emblème d’un système extractif.

    Mais n’en est-il pas de même dans le reste des Alpes ? Alors que nos glaciers fondent à grande vitesse et que les événements extrêmes se multiplient partout, au lieu de tout faire pour prévenir et réduire les dégâts, on va dans le sens inverse, pour s’accaparer un maximum de ressources, et extraire jusqu’au dernier centime. Qu’il s’agisse de retenues de neige artificielle, de stations de ski ou de méga-événements sportifs, c’est toujours la même logique extractiviste sans limite qui domine..

    (Photo de la manifestation de Michele Lapini)

    https://www.linkedin.com/feed/update/urn:li:activity:7142511937828937728
    #résistance #manifestation #extractivisme #marbre #Alpes #montagne

    • Carrara, una giornata per le Apuane

      Oggi si è tenuta la giornata nazionale “Le montagne non ricrescono. Fermiamo l’estrattivismo in Apuane e ovunque”: quasi 500 persone al convegno della mattina, in migliaia al corteo del pomeriggio.

      «Questo convegno che ha aperto la due giorni di riflessione e proposta sulle Apuane ha reso evidente come oggi il sistema estrattivo non rispetti nessuna delle tre gambe della sostenibilità: quella ambientale, quella sociale e quella economica. Le norme che regolano l’attività estrattiva esistono, ma se non vengono rispettate sono assolutamente inutili. Il loro rispetto è la prima cosa che vogliamo chiedere. Dopo la giornata di oggi, è necessario che tutti coloro che hanno a cuore questo territorio, la popolazione, le associazioni e gli operatori, si uniscano in una sola voce con un obiettivo primario: il Parco regionale delle Alpi Apuane deve diventare nazionale, questo è l’unico sistema per garantire salvaguardia ambientale e sviluppo sostenibile a questo territorio, sottraendolo a pressioni locali».

      Con queste parole il Presidente generale del Cai Antonio Montani ha concluso questa mattina a Carrara, davanti a quasi 500 persone, il convegno che ha aperto la giornata nazionale “Le montagne non ricrescono. Fermiamo l’estrattivismo in Apuane e ovunque”.

      Una giornata promossa dal Club alpino italiano, con la Commissione centrale tutela ambiente montano e il Gruppo regionale Cai Toscana, Arci, Athamanta, Comitato Comunità Civica della Cappella di Seravezza (LU), Coordinamento ambientalista apuoversiliese e Italia Nostra, riuniti nell’"Assemblea per l’accesso alla montagna". Oltre a loro, sono state un centinaio le realtà aderenti alla giornata, tra cui diverse Sezioni Cai.

      Tra coloro che stamane hanno portato il proprio saluto, il presidente del Cai Toscana Giancarlo Tellini, che ha evidenziato come il concetto di “estrattivismo”, che non vada confuso con “estrazione”: «si tratta di un sistema che vede il mondo imprenditoriale legato alle cave, appoggiato dalla politica locale, perseguire il proprio interesse economico ignorando gli impatti ambientali della propria attività, un costo che viene scaricato sulla collettività. Pensiamo, ad esempio, alle sorgenti d’acqua, sempre più inquinate a causa della marmettola».
      Tellini ha poi sottolineato l’attuale presenza di una settantina di cave nel Parco Regionale delle Alpi Apuane, all’interno delle aree contigue di cava. «Questo non è accettabile, questo territorio è il simbolo della peggiore gestione ambientale possibile».

      I contenuti del convegno

      Le relazioni sono state di Maura Benegiamo (Ricercatrice dell’Università di Pisa), Matteo Procuranti (Blanca Teatro), Nadia Ricci (Presidente Federazione Speleologica Toscana), Ildo Fusani (Circolo Arci Chico e Marielle), Rossanna Giannini (Comitato Civico La Cappella) e Alessandro Gogna (alpinista e storico dell’alpinismo).

      I concetti chiave espressi sono stati innanzitutto che nel modello estrattivista gli interessi privati vengono confusi con i bisogni sociali. Questo sistema totalizza ogni aspetto della vita del territorio, compresi quelli identitari e culturali, oltre a essere incompatibile con il vincolo paesaggistico e con l’idea di conservazione del patrimonio naturale per le generazioni future.
      Tutto ciò nonostante il fatto che fino al 95% del materiale estratto sia di scarto. Questo materiale, infatti, ha comunque un importante mercato, in quanto da esso si ricava il carbonato di calcio.
      Si deve scavare meno dunque, e solo quello che la comunità è in grado di lavorare e valorizzare.

      Ampio spazio ha ricevuto la già citata marmettola, che, oltre a inquinare la maggior parte delle sorgenti d’acqua delle Apuane, riduce la porosità degli ammassi rocciosi e occlude i condotti, aumentando in modo improvviso la portata dei corsi d’acqua e, di conseguenza, il rischio idraulico. Non è mancata la denuncia dei sentieri Cai interrotti o cancellati a causa delle attività estrattive nelle aree che li intercettano, un fatto che ostacola l’accesso e la frequentazione da parte degli escursionisti e contrasta lo sviluppo di economie sostenibili alternative.

      Si è parlato anche di lavoro, con la disoccupazione che, dal 2009 al 2021 nella provincia di Massa Carrara, è stata quattro volte superiore alla media regionale e due volte sopra quella nazionale. Dato dovuto anche al fatto che, con i nuovi sistemi di escavazione, la forza lavoro richiesta nelle cave sia in costante diminuzione.

      L’ultimo intervento, quello di Alessandro Gogna, ha posto l’accento sul concetto di limite, che deve valere non solo per l’alpinismo e per il turismo montano, ma anche per l’attività estrattiva. Il limite presuppone umiltà, nei confronti degli altri, di se stessi, ma anche dell’ambiente in cui viviamo. Un limite che non viene imposto, ma che ognuno dovrebbe scegliere per non offendere la natura e l’umanità intera.

      Il corteo e la giornata di domenica

      In più di un migliaio, nel pomeriggio, hanno partecipato al corteo che, dallo Stadio dei Marmi, si è snodato lungo le vie del centro cittadino, con la partecipazione di diverse Sezioni Cai. I manifestanti hanno voluto ribadire che estrattivismo non sia sinonimo di estrazione, bensì sia un modello che concentra i profitti nelle mani di pochi, socializzandone i costi.

      Domani la manifestazione continua con tavoli di approfondimento e dibattito diffusi in diversi spazi sociali e circoli della città, con l’obiettivo di avviare un percorso collettivo che sia in grado di dialogare con la comunità proponendo alternative sostenibili per questi territori montani.

      https://www.loscarpone.cai.it/dettaglio/carrara-una-giornata-per-le-apuane

  • « #Oltre_La_Valle », un #film di #Virginia_Bellizzi

    Il film, che è stato presentato in anteprima al 41° Torino Film Festival il 26 novembre nella sezione Concorso documentari italiani, è ambientato tra Oulx e Claviere, terra da sempre di transito dove le storie dei migranti si intrecciano a quelle dei volontari che operano nei luoghi di accoglienza.

    https://www.meltingpot.org/2023/12/oltre-la-valle-un-film-di-virginia-bellizzi

    #documentaire #film_documentaire #frontière_sud-alpine #Clavière #Briançon #Val_de_Suse #Italie #Alpes #montagne #France #migrations #asile #réfugiés #frontières #Oulx

    • Oltre la valle

      In una valle al confine fra Italia e Francia, da sempre terra di transito, si incrociano le vite dei migranti e quelle degli operatori di un centro di accoglienza.
      I migranti cercano di attraversare il confine e di arrivare in Francia, consapevoli di poter essere respinti alla frontiera. Le stagioni si susseguono, il presente e il passato si sovrappongono, le traiettorie umane si snodano, sospese nell’atto irreversibile di cercare uno spazio migliore in cui esistere.

      Note di regia

      Il mio prozio emigrò in Argentina durante gli anni Quaranta. Non l’ho mai conosciuto, ma le telefonate che arrivavano dall’altro lato del mondo, da parte dei suoi figli e spesso nel periodo delle feste, hanno sempre avuto un suono prezioso.
      Quando loro ne ricordavano la memoria emergeva sempre una componente di lotta, il desiderio di trovare una strada che potesse portare a un futuro sognato, nonostante le loro parole non lo dichiarassero mai apertamente. Avvertivo anche il suono di quella sofferenza ereditata e un po’ nascosta, di chi ha sbattuto molte volte contro un muro prima di poter andare oltre. Di chi si è sentito un po’ bistrattato, solo per il fatto di essersi immaginato altrove, e di averne inseguito l’atto più definitivo, quasi fosse una scelleratezza. È strano come la storia, pur ripetendosi, si dimentichi. Per questo, molti anni dopo quelle telefonate, in tempi in cui le barriere del Mediterraneo e i margini dell’Europa diventano sempre più alti, abbiamo sentito l’esigenza di fermarci, per fotografare un luogo e le storie che lo attraversano. Ma non per cristallizzarlo, al contrario, per coglierne il transito. Il periodo di osservazione si è svolto alla frontiera italo-francese, precisamente nell’Alta Val di Susa fra Oulx e Claviere, cittadina sul versante italiano del Colle del Monginevro fino agli anni Settanta tagliata a metà dal confine. È incredibile come da qui, la Francia sembri vicinissima e lontanissima allo stesso tempo. La sua geografia cambia a seconda del tipo di documento: dista solo pochi minuti per chi ha una macchina e una targa europea, oppure cinque ore di cammino per chi viene dalla rotta balcanica. Ma è stata solo la prima di una serie di dicotomie che continuavano a ripetersi, che condividevano quella terra di confine scandendone il tempo e lo spazio: col passare delle stagioni, ogni anno, le distese di neve lasciano il posto a immensi prati, turisti e attivisti gravitano intorno alle stesse seggiovie e campi da golf, il nostro passato ritorna nel presente di chi attraversa. La frontiera, si muove su un meccanismo ben oliato, una giostra drammatica vissuta dagli stessi migranti come un gioco dell’assurdo, tanta è la loro abitudine a essere respinti e a riattraversare il giorno successivo, rischiando ogni volta la vita. È stato molto difficile ottenere qualsiasi tipo di permesso, e incontro umano dopo incontro umano, anche l’atto di filmare si è inserito negli argini di inevitabili contrappunti: "sono un solidale, sto aiutando e rischiando, il confine fra ciò che si può fare e non si può fare è molto sottile”.
      “Sono un migrante, eppure non posso attraversare il confine. Ma il confine qui... dov’é precisamente?”
      Forse il confine si trova dove c’è il cippo di pietra con le lettere F e I, anche se a volte è nascosto nel bosco, ed è difficile da intravedere. Forse è un po’ prima, là dove cammina il gendarme. Forse non c’è mai stato, oppure non è una linea retta. Rispettare le mille anime di questa Valle, e voler allo stesso tempo raccontare con oggettività ciò che stava accadendo, ha implicato una continua ricerca di equilibri e un’incessante reinterpretazione della realtà. Uno stare in bilico, come su una linea sottile. La pandemia e la guerra in Ucraina, hanno mutato nuovamente gli equilibri, mettendoci davanti altre realtà delicate e irreversibili.
      “Oltre la Valle” è una storia vista con un caleidoscopio, in cui i frammenti, o i pezzi del puzzle, vogliono ritrarre un mondo reale che sembra astratto e inverosimile, dove le montagne sono ancora sovrastate da fortezze, e i confini di un regno sono contesi nella rievocazione di un’antica battaglia. Dove i tunnel possono essere il tramite verso la meta o possono riportare al punto di partenza. Dove esiste un rifugio in cui gli ospiti provengono da un’altra Europa, dall’Africa e dall’Asia, e un operatore sogna di diventare qualcos’altro, perché in fondo, tutto, nella nostra vita, può essere di passaggio.

      https://filmitalia.org/it/film/183118

  • EN COMMUN ! La propriété collective à l’épreuve de la modernité

    Ce film documentaire est issu d’une recherche pluridisciplinaire menée pendant quatre années, sur différents sites en France, par le Centre de recherche en droit Antoine Favre de l’Université Savoie Mont Blanc. A partir d’une pluralité de points de vue, recueillis lors d’entretiens et témoignages, il rend compte de l’évolution et du fonctionnement de propriétés collectives foncières ancestrales, également connues sous le nom de « #communaux » ou « #biens_communaux ». Il s’intéresse en particulier à deux de ces systèmes singuliers et méconnus présents en zone rurale, notamment en région de #montagne : les #sections_de_commune et les #bourgeoisies. Quels rôles ces #communs_fonciers en mutation jouent-ils aujourd’hui à l’échelle des territoires en matière de gestion des ressources naturelles, de cohésion sociale ou de dynamiques patrimoniales ? En quoi ces systèmes peuvent-ils participer à une revivification originale et pertinente de la démocratie locale ? A rebours de l’idée reçue selon laquelle ils seraient condamnés dans la société moderne, le changement de perception dont ils font l’objet à présent les place-t-ils à l’avant-garde de la résolution de certains problèmes territoriaux ou climatiques du XXIème siècle ? Plus largement, à l’intersection de nombreux enjeux de société, ce film alimente une réflexion sur la redéfinition d’un cadre de vie conciliant progrès, #justice_sociale et préservation de l’environnement.

    https://www.youtube.com/watch?v=BclZKvhpww4

    #propriété_collective #terres #foncier #modernité #communs #commons #communs #documentaire #film_documentaire #film #forêt #bois #droits_d'usage #France #Alpes #montagne #élevage #sol #usage_du_sol #biens_communs #biens_de_section #Etat #Etat_moderne #municipalisation #droit_public #agriculture #tradition #terres #patrimoine #communalisation #spoliation #pâturage #loi_2013 #loi #commissions_syndicales #accaparement_de_terres #privatisation #corvées #éoliennes #2013 #préfecture #avant-garde #anachronisme #ignorance #chasse #legs #responsabilité #devoirs #bourgeoisie #droit_collectif #mécénat #communs_fonciers #valeurs

  • Le #village_sous_la_forêt, de #Heidi_GRUNEBAUM et #Mark_KAPLAN

    En #1948, #Lubya a été violemment détruit et vidé de ses habitants par les forces militaires israéliennes. 343 villages palestiniens ont subi le même sort. Aujourd’hui, de #Lubya, il ne reste plus que des vestiges, à peine visibles, recouverts d’une #forêt majestueuse nommée « Afrique du Sud ». Les vestiges ne restent pas silencieux pour autant.

    La chercheuse juive sud-africaine, #Heidi_Grunebaum se souvient qu’étant enfant elle versait de l’argent destiné officiellement à planter des arbres pour « reverdir le désert ».

    Elle interroge les acteurs et les victimes de cette tragédie, et révèle une politique d’effacement délibérée du #Fonds_national_Juif.

    « Le Fonds National Juif a planté 86 parcs et forêts de pins par-dessus les décombres des villages détruits. Beaucoup de ces forêts portent le nom des pays, ou des personnalités célèbres qui les ont financés. Ainsi il y a par exemple la Forêt Suisse, le Parc Canada, le Parc britannique, la Forêt d’Afrique du Sud et la Forêt Correta King ».

    https://www.villageunderforest.com

    Trailer :

    https://www.youtube.com/watch?v=ISmj31rJkGQ

    #israel #palestine #carte #Israël #afrique_du_sud #forêt #documentaire

    #film #documentaire #film_documentaire

    (copier-coller de ce post de 2014 : https://seenthis.net/messages/317236)

    • Documentary Space, Place, and Landscape

      In documentaries of the occupied West Bank, erasure is imaged in the wall that sunders families and communities, in the spaces filled with blackened tree stumps of former olive groves, now missing to ensure “security,” and in the cactus that still grows, demarcating cultivated land whose owners have been expelled.

      This materiality of the landscape becomes figural, such that Shehadeh writes, “[w]hen you are exiled from your land … you begin, like a pornographer, to think about it in symbols. You articulate your love for your land in its absence, and in the process transform it into something else.’’[x] The symbolization reifies and, in this process, something is lost, namely, a potential for thinking differently. But in these Palestinian films we encounter a documenting of the now of everyday living that unfixes such reification. This is a storytelling of vignettes, moments, digressions, stories within stories, and postponed endings. These are stories of interaction, of something happening, in a documenting of a being and doing now, while awaiting a future yet to be known, and at the same time asserting a past history to be remembered through these images and sounds. Through this there arises the accenting of these films, to draw on Hamid Naficy’s term, namely a specific tone of a past—the Nakba or catastrophe—as a continuing present, insofar as the conflict does not allow Palestinians to imagine themselves in a determinate future of place and landscape they can call their own, namely a state.[xi]

      In Hanna Musleh’s I’m a Little Angel (2000), we follow the children of families, both Muslim and Christian, in the area of Bethlehem affected by the 2000 Israeli armed forces attacks and occupation.[xii] One small boy, Nicola, suffered the loss of an arm when he was hit by a shell when walking to church with his mother. His kite, seen flying high in the sky, brings delighted shrieks from Nicola as he plays on the family terrace from which the town and its surrounding hills are visible in the distance. But the contrast between the freedom of the kite in this unlimited vista and his reduced capacity is palpable as he struggles to control it with his remaining hand. The containment of both Nicola and his community is figured in opposition to a possible freedom. What is also required of us is to think not of freedom from the constraints of disability, but of freedom with disability, in a future to be made after. The constraints introduced upon the landscape by the occupation, however, make the future of such living indeterminate and uncertain. Here is the “cinema of the lived,”[xiii] of multiple times of past and present, of possible and imagined future time, and the actualized present, each of which is encountered in the movement in a singular space of Nicola and his kite.


      http://mediafieldsjournal.squarespace.com/documentary-space-place-and-la/2011/7/18/documentary-space-place-and-landscape.html;jsessioni
      #cactus #paysage

    • Memory of the Cactus

      A 42 minute documentary film that combines the cactus and the memories it stands for. The film addresses the story of the destruction of the Palestinian villages of Latroun in the Occupied West Bank and the forcible transfer of their civilian population in 1967. Over 40 years later, the Israeli occupation continues, and villagers remain displaced. The film follows two separate but parallel journeys. Aisha Um Najeh takes us down the painful road that Palestinians have been forcefully pushed down, separating them in time and place from the land they nurtured; while Israelis walk freely through that land, enjoying its fruits. The stems of the cactus, however, take a few of them to discover the reality of the crime committed.

      https://www.youtube.com/watch?v=DQ_LjknRHVA

    • Aujourd’hui, j’ai re-regardé le film « Le village sous la forêt », car je vais le projeter à mes étudiant·es dans le cadre du cours de #géographie_culturelle la semaine prochaine.

      Voici donc quelques citations tirées du film :

      Sur une des boîtes de récolte d’argent pour planter des arbres en Palestine, c’est noté « make wilderness bloom » :

      Voici les panneaux de quelques parcs et forêts créés grâce aux fonds de la #diaspora_juive :

      Projet : « We will make it green, like a modern European country » (ce qui est en étroit lien avec un certaine idée de #développement, liée au #progrès).

      Témoignage d’une femme palestinienne :

      « Ils ont planté des arbres partout qui cachaient tout »

      Ilan Pappé, historien israëlien, Université d’Exter :

      « ça leur a pris entre 6 et 9 mois poru s’emparer de 80% de la Palestine, expulser la plupart des personnes qui y vivaient et reconstruire sur les villes et villages de ces personnes un nouvel Etat, une nouvelle #identité »

      https://socialsciences.exeter.ac.uk/iais/staff/pappe

      Témoignage d’un palestinien qui continue à retourner régulièrement à Lubya :

      « Si je n’aimais pas cet endroit, est-ce que je continuerais à revenir ici tout le temps sur mon tracteur ? Ils l’ont transformé en forêt afin d’affirmer qu’il n’y a pas eu de village ici. Mais on peut voir les #cactus qui prouvent que des arabes vivaient ici »

      Ilan Pappé :

      « Ces villages éaient arabes, tout comme le paysage alentour. C’était un message qui ne passait pas auprès du mouvement sioniste. Des personnes du mouvement ont écrit à ce propos, ils ont dit qu’ils n’aimaient vraiment pas, comme Ben Gurion l’a dit, que le pays ait toujours l’air arabe. (...) Même si les Arabes n’y vivent plus, ça a toujours l’air arabe. En ce qui concerne les zones rurales, il a été clair : les villages devaient être dévastés pour qu’il n’y ait pas de #souvenirs possibles. Ils ont commencé à les dévaster dès le mois d’août 1948. Ils ont rasé les maisons, la terre. Plus rien ne restait. Il y avait deux moyens pour eux d’en nier l’existence : le premier était de planter des forêts de pins européens sur les villages. Dans la plupart des cas, lorsque les villages étaient étendus et les terres assez vastes, on voit que les deux stratégies ont été mises en oeuvre : il y a un nouveau quartier juif et, juste à côté, une forêt. En effet, la deuxième méthode était de créer un quartier juif qui possédait presque le même nom que l’ancien village arabe, mais dans sa version en hébreu. L’objectif était double : il s’agissait d’abord de montrer que le lieu était originellement juif et revenait ainsi à son propriétaire. Ensuite, l’idée était de faire passer un message sinistre aux Palestiniens sur ce qui avait eu lieu ici. Le principal acteur de cette politique a été le FNJ. »

      #toponymie

      Heidi Grunebaum, la réalisatrice :

      « J’ai grandi au moment où le FNJ cultivait l’idée de créer une patrie juive grâce à la plantation d’arbres. Dans les 100 dernières années, 260 millions d’arbres ont été plantés. Je me rends compte à présent que la petite carte du grand Israël sur les boîtes bleues n’était pas juste un symbole. Etait ainsi affirmé que toutes ces terres étaient juives. Les #cartes ont été redessinées. Les noms arabes des lieux ont sombré dans l’oubli à cause du #Comité_de_Dénomination créé par le FNJ. 86 forêts du FNJ ont détruit des villages. Des villages comme Lubya ont cessé d’exister. Lubya est devenu Lavie. Une nouvelle histoire a été écrite, celle que j’ai apprise. »

      Le #Canada_park :

      Canada Park (Hebrew: פארק קנדה‎, Arabic: كندا حديقة‎, also Ayalon Park,) is an Israeli national park stretching over 7,000 dunams (700 hectares), and extending from No man’s land into the West Bank.
      The park is North of Highway 1 (Tel Aviv-Jerusalem), between the Latrun Interchange and Sha’ar HaGai, and contains a Hasmonean fort, Crusader fort, other archaeological remains and the ruins of 3 Palestinian villages razed by Israel in 1967 after their inhabitants were expelled. In addition it has picnic areas, springs and panoramic hilltop views, and is a popular Israeli tourist destination, drawing some 300,000 visitors annually.


      https://en.wikipedia.org/wiki/Canada_Park

      Heidi Grunebaum :

      « Chaque pièce de monnaie est devenue un arbre dans une forêt, chaque arbre, dont les racines étaient plantées dans la terre était pour nous, la diaspora. Les pièces changées en arbres devenaient des faits ancrés dans le sol. Le nouveau paysage arrangé par le FNJ à travers la plantation de forêts et les accords politiques est celui des #parcs_de_loisirs, des routes, des barrages et des infrastructures »

      Témoignage d’un Palestinien :

      « Celui qui ne possède de #pays_natal ne possède rien »

      Heidi Grunebaum :

      « Si personne ne demeure, la mémoire est oblitérée. Cependant, de génération en génération, le souvenir qu’ont les Palestiniens d’un endroit qui un jour fut le leur, persiste. »

      Témoignage d’un Palestinien :

      "Dès qu’on mange quelque chose chez nous, on dit qu’on mangeait ce plat à Lubya. Quelles que soient nos activités, on dit que nous avions les mêmes à Lubya. Lubya est constamment mentionnées, et avec un peu d’amertume.

      Témoignage d’un Palestinien :

      Lubya est ma fille précieuse que j’abriterai toujours dans les profondeurs de mon âme. Par les histoires racontées par mon père, mon grand-père, mes oncles et ma grande-mère, j’ai le sentiment de connaître très bien Lubya.

      Avi Shlaim, Université de Oxford :

      « Le mur dans la partie Ouest ne relève pas d’une mesure de sécurité, comme il a été dit. C’est un outil de #ségrégation des deux communautés et un moyen de s’approprier de larges portions de terres palestiniennes. C’est un moyen de poursuivre la politique d’#expansion_territoriale et d’avoir le plus grand Etat juif possible avec le moins de population d’arabes à l’intérieur. »

      https://www.sant.ox.ac.uk/people/avi-shlaim

      Heidi Grunebaum :

      « Les petites pièces de la diaspora n’ont pas seulement planté des arbres juifs et déraciné des arbres palestiniens, elles ont aussi créé une forêt d’un autre type. Une vaste forêt bureaucratique où la force de la loi est une arme. La règlementation règne, les procédures, permis, actions commandées par les lois, tout régulé le moindre espace de la vie quotidienne des Palestiniens qui sont petit à petit étouffés, repoussés aux marges de leurs terres. Entassés dans des ghettos, sans autorisation de construire, les Palestiniens n’ont plus qu’à regarder leurs maisons démolies »

      #Lubya #paysage #ruines #architecture_forensique #Afrique_du_Sud #profanation #cactus #South_african_forest #Galilée #Jewish_national_fund (#fonds_national_juif) #arbres #Palestine #Organisation_des_femmes_sionistes #Keren_Kayemeth #apartheid #résistance #occupation #Armée_de_libération_arabe #Hagana #nakba #exil #réfugiés_palestiniens #expulsion #identité #present_absentees #IDPs #déplacés_internes #Caesarea #oubli #déni #historicisation #diaspora #murs #barrières_frontalières #dépossession #privatisation_des_terres #terres #mémoire #commémoration #poésie #Canada_park

    • The Carmel wildfire is burning all illusions in Israel

      “When I look out my window today and see a tree standing there, that tree gives me a greater sense of beauty and personal delight than all the vast forests I have seen in Switzerland or Scandinavia. Because every tree here was planted by us.”

      – David Ben Gurion, Memoirs

      “Why are there so many Arabs here? Why didn’t you chase them away?”

      – David Ben Gurion during a visit to Nazareth, July 1948


      https://electronicintifada.net/content/carmel-wildfire-burning-all-illusions-israel/9130

      signalé par @sinehebdo que je remercie

    • Vu dans ce rapport, signalé par @palestine___________ , que je remercie (https://seenthis.net/messages/723321) :

      A method of enforcing the eradication of unrecognized Palestinian villages is to ensure their misrepresentation on maps. As part of this policy, these villages do not appear at all on Israeli maps, with the exception of army and hiking maps. Likewise, they do not appear on first sight on Google Maps or at all on Israeli maps, with the exception of army and hiking maps. They are labelled on NGO maps designed to increase their visibility. On Google Maps, the Bedouin villages are marked – in contrast to cities and other villages – under their Bedouin tribe and clan names (Bimkom) rather than with their village names and are only visible when zooming in very closely, but otherwise appear to be non-existent. This means that when looking at Google Maps, these villages appear to be not there, only when zooming on to a very high degree, do they appear with their tribe or clan names. At first (and second and third) sight, therefore, these villages are simply not there. Despite their small size, Israeli villages are displayed even when zoomed-out, while unrecognized Palestinian Bedouin villages, regardless of their size are only visible when zooming in very closely.


      http://7amleh.org/2018/09/18/google-maps-endangering-palestinian-human-rights
      Pour télécharger le rapport :
      http://www.7amleh.org/ms/Mapping%20Segregation%20Cover_WEB.pdf

    • signalé par @kassem :
      https://seenthis.net/messages/317236#message784258

      Israel lifted its military rule over the state’s Arab community in 1966 only after ascertaining that its members could not return to the villages they had fled or been expelled from, according to newly declassified archival documents.

      The documents both reveal the considerations behind the creation of the military government 18 years earlier, and the reasons for dismantling it and revoking the severe restrictions it imposed on Arab citizens in the north, the Negev and the so-called Triangle of Locales in central Israel.

      These records were made public as a result of a campaign launched against the state archives by the Akevot Institute, which researches the Israeli-Palestinian conflict.

      After the War of Independence in 1948, the state imposed military rule over Arabs living around the country, which applied to an estimated 85 percent of that community at the time, say researchers at the NGO. The Arabs in question were subject to the authority of a military commander who could limit their freedom of movement, declare areas to be closed zones, or demand that the inhabitants leave and enter certain locales only with his written permission.

      The newly revealed documents describe the ways Israel prevented Arabs from returning to villages they had left in 1948, even after the restrictions on them had been lifted. The main method: dense planting of trees within and surrounding these towns.

      At a meeting held in November 1965 at the office of Shmuel Toledano, the prime minister’s adviser on Arab affairs, there was a discussion about villages that had been left behind and that Israel did not want to be repopulated, according to one document. To ensure that, the state had the Jewish National Fund plant trees around and in them.

      Among other things, the document states that “the lands belonging to the above-mentioned villages were given to the custodian for absentee properties” and that “most were leased for work (cultivation of field crops and olive groves) by Jewish households.” Some of the properties, it adds, were subleased.

      In the meeting in Toledano’s office, it was explained that these lands had been declared closed military zones, and that once the structures on them had been razed, and the land had been parceled out, forested and subject to proper supervision – their definition as closed military zones could be lifted.

      On April 3, 1966, another discussion was held on the same subject, this time at the office of the defense minister, Levi Eshkol, who was also the serving prime minister; the minutes of this meeting were classified as top secret. Its participants included: Toledano; Isser Harel, in his capacity as special adviser to the prime minister; the military advocate general – Meir Shamgar, who would later become president of the Supreme Court; and representatives of the Shin Bet security service and Israel Police.

      The newly publicized record of that meeting shows that the Shin Bet was already prepared at that point to lift the military rule over the Arabs and that the police and army could do so within a short time.

      Regarding northern Israel, it was agreed that “all the areas declared at the time to be closed [military] zones... other than Sha’ab [east of Acre] would be opened after the usual conditions were fulfilled – razing of the buildings in the abandoned villages, forestation, establishment of nature reserves, fencing and guarding.” The dates of the reopening these areas would be determined by Israel Defense Forces Maj. Gen. Shamir, the minutes said. Regarding Sha’ab, Harel and Toledano were to discuss that subject with Shamir.

      However, as to Arab locales in central Israel and the Negev, it was agreed that the closed military zones would remain in effect for the time being, with a few exceptions.

      Even after military rule was lifted, some top IDF officers, including Chief of Staff Tzvi Tzur and Shamgar, opposed the move. In March 1963, Shamgar, then military advocate general, wrote a pamphlet about the legal basis of the military administration; only 30 copies were printed. (He signed it using his previous, un-Hebraized name, Sternberg.) Its purpose was to explain why Israel was imposing its military might over hundreds of thousands of citizens.

      Among other things, Shamgar wrote in the pamphlet that Regulation 125, allowing certain areas to be closed off, is intended “to prevent the entry and settlement of minorities in border areas,” and that “border areas populated by minorities serve as a natural, convenient point of departure for hostile elements beyond the border.” The fact that citizens must have permits in order to travel about helps to thwart infiltration into the rest of Israel, he wrote.

      Regulation 124, he noted, states that “it is essential to enable nighttime ambushes in populated areas when necessary, against infiltrators.” Blockage of roads to traffic is explained as being crucial for the purposes of “training, tests or maneuvers.” Moreover, censorship is a “crucial means for counter-intelligence.”

      Despite Shamgar’s opinion, later that year, Prime Minister Levi Eshkol canceled the requirement for personal travel permits as a general obligation. Two weeks after that decision, in November 1963, Chief of Staff Tzur wrote a top-secret letter about implementation of the new policy to the officers heading the various IDF commands and other top brass, including the head of Military Intelligence. Tzur ordered them to carry it out in nearly all Arab villages, with a few exceptions – among them Barta’a and Muqeible, in northern Israel.

      In December 1965, Haim Israeli, an adviser to Defense Minister Eshkol, reported to Eshkol’s other aides, Isser Harel and Aviad Yaffeh, and to the head of the Shin Bet, that then-Chief of Staff Yitzhak Rabin opposed legislation that would cancel military rule over the Arab villages. Rabin explained his position in a discussion with Eshkol, at which an effort to “soften” the bill was discussed. Rabin was advised that Harel would be making his own recommendations on this matter.

      At a meeting held on February 27, 1966, Harel issued orders to the IDF, the Shin Bet and the police concerning the prime minister’s decision to cancel military rule. The minutes of the discussion were top secret, and began with: “The mechanism of the military regime will be canceled. The IDF will ensure the necessary conditions for establishment of military rule during times of national emergency and war.” However, it was decided that the regulations governing Israel’s defense in general would remain in force, and at the behest of the prime minister and with his input, the justice minister would look into amending the relevant statutes in Israeli law, or replacing them.

      The historical documents cited here have only made public after a two-year campaign by the Akevot institute against the national archives, which preferred that they remain confidential, Akevot director Lior Yavne told Haaretz. The documents contain no information of a sensitive nature vis-a-vis Israel’s security, Yavne added, and even though they are now in the public domain, the archives has yet to upload them to its website to enable widespread access.

      “Hundreds of thousands of files which are crucial to understanding the recent history of the state and society in Israel remain closed in the government archive,” he said. “Akevot continues to fight to expand public access to archival documents – documents that are property of the public.”

    • Israel is turning an ancient Palestinian village into a national park for settlers

      The unbelievable story of a village outside Jerusalem: from its destruction in 1948 to the ticket issued last week by a parks ranger to a descendent of its refugees, who had the gall to harvest the fruits of his labor on his own land.

      Thus read the ticket issued last Wednesday, during the Sukkot holiday, by ranger Dayan Somekh of the Israel Nature and Parks Authority – Investigations Division, 3 Am Ve’olamo Street, Jerusalem, to farmer Nidal Abed Rabo, a resident of the Jerusalem-area village of Walaja, who had gone to harvest olives on his private land: “In accordance with Section 228 of the criminal code, to: Nidal Abed Rabo. Description of the facts constituting the offense: ‘picking, chopping and destroying an olive tree.’ Suspect’s response: ‘I just came to pick olives. I pick them and put them in a bucket.’ Fine prescribed by law: 730 shekels [$207].” And an accompanying document that reads: “I hereby confirm that I apprehended from Nidal Abed Rabo the following things: 1. A black bucket; 2. A burlap sack. Name of the apprehending officer: Dayan Somekh.”

      Ostensibly, an amusing parody about the occupation. An inspector fines a person for harvesting the fruits of his own labor on his own private land and then fills out a report about confiscating a bucket, because order must be preserved, after all. But no one actually found this report amusing – not the inspector who apparently wrote it in utter seriousness, nor the farmer who must now pay the fine.

      Indeed, the story of Walaja, where this absurdity took place, contains everything – except humor: the flight from and evacuation of the village in 1948; refugee-hood and the establishment of a new village adjacent to the original one; the bisection of the village between annexed Jerusalem and the occupied territories in 1967; the authorities’ refusal to issue blue Israeli IDs to residents, even though their homes are in Jerusalem; the demolition of many structures built without a permit in a locale that has no master construction plan; the appropriation of much of its land to build the Gilo neighborhood and the Har Gilo settlement; the construction of the separation barrier that turned the village into an enclave enclosed on all sides; the decision to turn villagers’ remaining lands into a national park for the benefit of Gilo’s residents and others in the area; and all the way to the ridiculous fine issued by Inspector Somekh.

      This week, a number of villagers again snuck onto their lands to try to pick their olives, in what looks like it could be their final harvest. As it was a holiday, they hoped the Border Police and the parks authority inspectors would leave them alone. By next year, they probably won’t be able to reach their groves at all, as the checkpoint will have been moved even closer to their property.

      Then there was also this incident, on Monday, the Jewish holiday of Simhat Torah. Three adults, a teenager and a horse arrived at the neglected groves on the mountainside below their village of Walaja. They had to take a long and circuitous route; they say the horse walked 25 kilometers to reach the olive trees that are right under their noses, beneath their homes. A dense barbed-wire fence and the separation barrier stand between these people and their lands. When the national park is built here and the checkpoint is moved further south – so that only Jews will be able to dip undisturbed in Ein Hanya, as Nir Hasson reported (“Jerusalem reopens natural spring, but not to Palestinians,” Oct. 15) – it will mean the end of Walaja’s olive orchards, which are planted on terraced land.

      The remaining 1,200 dunams (300 acres) belonging to the village, after most of its property was lost over the years, will also be disconnected from their owners, who probably won’t be able to access them again. An ancient Palestinian village, which numbered 100 registered households in 1596, in a spectacular part of the country, will continue its slow death, until it finally expires for good.

      Steep slopes and a deep green valley lie between Jerusalem and Bethlehem, filled with oak and pine trees, along with largely abandoned olive groves. “New” Walaja overlooks this expanse from the south, the Gilo neighborhood from the northeast, and the Cremisan Monastery from the east. To the west is where the original village was situated, between the moshavim of Aminadav and Ora, both constructed after the villagers fled – frightened off by the massacre in nearby Deir Yassin and in fear of bombardment.

      Aviv Tatarsky, a longtime political activist on behalf of Walaja and a researcher for the Ir Amim nonprofit organization, says the designated national park is supposed to ensure territorial contiguity between the Etzion Bloc and Jerusalem. “Since we are in the territory of Jerusalem, and building another settler neighborhood could cause a stir, they are building a national park, which will serve the same purpose,” he says. “The national park will Judaize the area once and for all. Gilo is five minutes away. If you live there, you will have a park right next door and feel like it’s yours.”

      As Tatarsky describes the blows suffered by the village over the years, brothers Walid and Mohammed al-‘Araj stand on a ladder below in the valley, in the shade of the olive trees, engrossed in the harvest.

      Walid, 52, and Mohammed, 58, both live in Walaja. Walid may be there legally, but his brother is there illegally, on land bequeathed to them by their uncle – thanks to yet another absurdity courtesy of the occupation. In 1995, Walid married a woman from Shoafat in East Jerusalem, and thus was able to obtain a blue Israeli ID card, so perhaps he is entitled to be on his land. His brother, who lives next door, however, is an illegal resident on his land: He has an orange ID, as a resident of the territories.

      A sewage line that comes out of Beit Jala and is under the responsibility of Jerusalem’s Gihon water company overflows every winter and floods the men’s olive grove with industrial waste that has seriously damaged their crop. And that’s in addition, of course, to the fact that most of the family is unable to go work the land. The whole area looks quite derelict, overgrown with weeds and brambles that could easily catch fire. In previous years, the farmers would receive an entry permit allowing them to harvest the olives for a period of just a few days; this year, even that permit has not yet been forthcoming.

      The olives are black and small; it’s been a bad year for them and for their owners.

      “We come here like thieves to our own land,” says Mohammed, the older brother, explaining that three days beforehand, a Border Police jeep had showed up and chased them away. “I told him: It’s my land. They said okay and left. Then a few minutes later, another Border Police jeep came and the officer said: Today there’s a general closure because of the holiday. I told him: Okay, just let me take my equipment. I’m on my land. He said: Don’t take anything. I left. And today I came back.”

      You’re not afraid? “No, I’m not afraid. I’m on my land. It’s registered in my name. I can’t be afraid on my land.”

      Walid says that a month ago the Border Police arrived and told him he wasn’t allowed to drive on the road that leads to the grove, because it’s a “security road.” He was forced to turn around and go home, despite the fact that he has a blue ID and it is not a security road. Right next to it, there is a residential building where a Palestinian family still lives.

      Some of Walaja’s residents gave up on their olive orchards long ago and no longer attempt to reach their lands. When the checkpoint is moved southward, in order to block access by Palestinians to the Ein Hanya spring, the situation will be even worse: The checkpoint will be closer to the orchards, meaning that the Palestinians won’t be permitted to visit them.

      “This place will be a park for people to visit,” says Walid, up on his ladder. “That’s it; that will be the end of our land. But we won’t give up our land, no matter what.” Earlier this month, one local farmer was detained for several hours and 10 olive trees were uprooted, on the grounds that he was prohibited from being here.

      Meanwhile, Walid and Mohammed are collecting their meager crop in a plastic bucket printed with a Hebrew ad for a paint company. The olives from this area, near Beit Jala, are highly prized; during a good year the oil made from them can fetch a price of 100 shekels per liter.

      A few hundred meters to the east are a father, a son and a horse. Khaled al-‘Araj, 51, and his son, Abed, 19, a business student. They too are taking advantage of the Jewish holiday to sneak onto their land. They have another horse, an original Arabian named Fatma, but this horse is nameless. It stands in the shade of the olive tree, resting from the long trek here. If a Border Police force shows up, it could confiscate the horse, as has happened to them before.

      Father and son are both Walaja residents, but do not have blue IDs. The father works in Jerusalem with a permit, but it does not allow him to access his land.

      “On Sunday,” says Khaled, “I picked olives here with my son. A Border Police officer arrived and asked: What are you doing here? He took pictures of our IDs. He asked: Whose land is this? I said: Mine. Where are the papers? At home. I have papers from my grandfather’s time; everything is in order. But he said: No, go to DCO [the Israeli District Coordination Office] and get a permit. At first I didn’t know what he meant. I have a son and a horse and they’ll make problems for me. So I left.”

      He continues: “We used to plow the land. Now look at the state it’s in. We have apricot and almond trees here, too. But I’m an illegal person on my own land. That is our situation. Today is the last day of your holiday, that’s why I came here. Maybe there won’t be any Border Police.”

      “Kumi Ori, ki ba orekh,” says a makeshift monument in memory of Ori Ansbacher, a young woman murdered here in February by a man from Hebron. Qasem Abed Rabo, a brother of Nidal, who received the fine from the park ranger for harvesting his olives, asks activist Tatarsky if he can find out whether the house he owns is considered to be located in Jerusalem or in the territories. He still doesn’t know.

      “Welcome to Nahal Refaim National Park,” says a sign next to the current Walaja checkpoint. Its successor is already being built but work on it was stopped for unknown reasons. If and when it is completed, Ein Hanya will become a spring for Jews only and the groves on the mountainside below the village of Walaja will be cut off from their owners for good. Making this year’s harvest Walaja’s last.

      https://www.haaretz.com/israel-news/.premium-israel-is-turning-an-ancient-palestinian-village-into-a-national-p
      https://seenthis.net/messages/807722

    • Sans mémoire des lieux ni lieux de mémoire. La Palestine invisible sous les forêts israéliennes

      Depuis la création de l’État d’Israël en 1948, près de 240 millions d’arbres ont été plantés sur l’ensemble du territoire israélien. Dans l’objectif de « faire fleurir le désert », les acteurs de l’afforestation en Israël se situent au cœur de nombreux enjeux du territoire, non seulement environnementaux mais également identitaires et culturels. La forêt en Israël représente en effet un espace de concurrence mémorielle, incarnant à la fois l’enracinement de l’identité israélienne mais également le rappel de l’exil et de l’impossible retour du peuple palestinien. Tandis que 86 villages palestiniens détruits en 1948 sont aujourd’hui recouverts par une forêt, les circuits touristiques et historiques officiels proposés dans les forêts israéliennes ne font jamais mention de cette présence palestinienne passée. Comment l’afforestation en Israël a-t-elle contribué à l’effacement du paysage et de la mémoire palestiniens ? Quelles initiatives existent en Israël et en Palestine pour lutter contre cet effacement spatial et mémoriel ?

      https://journals.openedition.org/bagf/6779

    • Septembre 2021, un feu de forêt ravage Jérusalem et dévoile les terrassements agricoles que les Palestinien·nes avaient construit...
      Voici une image :

      « La nature a parlé » : un feu de forêt attise les rêves de retour des Palestiniens

      Un gigantesque incendie près de Jérusalem a détruit les #pins_européens plantés par les sionistes, exposant ainsi les anciennes terrasses palestiniennes qu’ils avaient tenté de dissimuler.

      Au cours de la deuxième semaine d’août, quelque 20 000 dounams (m²) de terre ont été engloutis par les flammes dans les #montagnes de Jérusalem.

      C’est une véritable catastrophe naturelle. Cependant, personne n’aurait pu s’attendre à la vision qui est apparue après l’extinction de ces incendies. Ou plutôt, personne n’avait imaginé que les incendies dévoileraient ce qui allait suivre.

      Une fois les flammes éteintes, le #paysage était terrible pour l’œil humain en général, et pour l’œil palestinien en particulier. Car les incendies ont révélé les #vestiges d’anciens villages et terrasses agricoles palestiniens ; des terrasses construites par leurs ancêtres, décédés il y a longtemps, pour cultiver la terre et planter des oliviers et des vignes sur les #pentes des montagnes.

      À travers ces montagnes, qui constituent l’environnement naturel à l’ouest de Jérusalem, passait la route Jaffa-Jérusalem, qui reliait le port historique à la ville sainte. Cette route ondulant à travers les montagnes était utilisée par les pèlerins d’Europe et d’Afrique du Nord pour visiter les lieux saints chrétiens. Ils n’avaient d’autre choix que d’emprunter la route Jaffa-Jérusalem, à travers les vallées et les ravins, jusqu’au sommet des montagnes. Au fil des siècles, elle sera foulée par des centaines de milliers de pèlerins, de soldats, d’envahisseurs et de touristes.

      Les terrasses agricoles – ou #plates-formes – que les agriculteurs palestiniens ont construites ont un avantage : leur durabilité. Selon les estimations des archéologues, elles auraient jusqu’à 600 ans. Je crois pour ma part qu’elles sont encore plus vieilles que cela.

      Travailler en harmonie avec la nature

      Le travail acharné du fermier palestinien est clairement visible à la surface de la terre. De nombreuses études ont prouvé que les agriculteurs palestiniens avaient toujours investi dans la terre quelle que soit sa forme ; y compris les terres montagneuses, très difficiles à cultiver.

      Des photographies prises avant la Nakba (« catastrophe ») de 1948, lorsque les Palestiniens ont été expulsés par les milices juives, et même pendant la seconde moitié du XIXe siècle montrent que les oliviers et les vignes étaient les deux types de plantation les plus courants dans ces régions.

      Ces végétaux maintiennent l’humidité du sol et assurent la subsistance des populations locales. Les #oliviers, en particulier, aident à prévenir l’érosion des sols. Les oliviers et les #vignes peuvent également créer une barrière naturelle contre le feu car ils constituent une végétation feuillue qui retient l’humidité et est peu gourmande en eau. Dans le sud de la France, certaines routes forestières sont bordées de vignes pour faire office de #coupe-feu.

      Les agriculteurs palestiniens qui les ont plantés savaient travailler en harmonie avec la nature, la traiter avec sensibilité et respect. Cette relation s’était formée au cours des siècles.

      Or qu’a fait l’occupation sioniste ? Après la Nakba et l’expulsion forcée d’une grande partie de la population – notamment le nettoyage ethnique de chaque village et ville se trouvant sur l’itinéraire de la route Jaffa-Jérusalem –, les sionistes ont commencé à planter des #pins_européens particulièrement inflammables sur de vastes portions de ces montagnes pour couvrir et effacer ce que les mains des agriculteurs palestiniens avaient créé.

      Dans la région montagneuse de Jérusalem, en particulier, tout ce qui est palestinien – riche de 10 000 ans d’histoire – a été effacé au profit de tout ce qui évoque le #sionisme et la #judéité du lieu. Conformément à la mentalité coloniale européenne, le « milieu » européen a été transféré en Palestine, afin que les colons puissent se souvenir de ce qu’ils avaient laissé derrière eux.

      Le processus de dissimulation visait à nier l’existence des villages palestiniens. Et le processus d’effacement de leurs particularités visait à éliminer leur existence de l’histoire.

      Il convient de noter que les habitants des villages qui ont façonné la vie humaine dans les montagnes de Jérusalem, et qui ont été expulsés par l’armée israélienne, vivent désormais dans des camps et communautés proches de Jérusalem, comme les camps de réfugiés de Qalandiya et Shuafat.

      On trouve de telles forêts de pins ailleurs encore, dissimulant des villages et fermes palestiniens détruits par Israël en 1948. Des institutions internationales israéliennes et sionistes ont également planté des pins européens sur les terres des villages de #Maaloul, près de Nazareth, #Sohmata, près de la frontière palestino-libanaise, #Faridiya, #Kafr_Anan et #al-Samoui sur la route Akka-Safad, entre autres. Ils sont maintenant cachés et ne peuvent être vus à l’œil nu.

      Une importance considérable

      Même les #noms des villages n’ont pas été épargnés. Par exemple, le village de Suba est devenu « #Tsuba », tandis que #Beit_Mahsir est devenu « #Beit_Meir », #Kasla est devenu « #Ksalon », #Saris est devenu « #Shoresh », etc.

      Si les Palestiniens n’ont pas encore pu résoudre leur conflit avec l’occupant, la nature, elle, s’est désormais exprimée de la manière qu’elle jugeait opportune. Les incendies ont révélé un aspect flagrant des composantes bien planifiées et exécutées du projet sioniste.

      Pour les Palestiniens, la découverte de ces terrasses confirme leur version des faits : il y avait de la vie sur cette terre, le Palestinien était le plus actif dans cette vie, et l’Israélien l’a expulsé pour prendre sa place.

      Ne serait-ce que pour cette raison, ces terrasses revêtent une importance considérable. Elles affirment que la cause palestinienne n’est pas morte, que la terre attend le retour de ses enfants ; des personnes qui sauront la traiter correctement.

      https://www.middleeasteye.net/fr/opinion-fr/israel-jerusalem-incendies-villages-palestiniens-nakba-sionistes-reto

      –—

      An Israeli Forest to Erase the Ruins of Palestinian Agricultural Terraces

      “Our forest is growing over, well, over a ruined village,” A.B. Yehoshua wrote in his novella “Facing the Forests.” The massive wildfire in the Jerusalem Hills last week exposed the underpinning of the view through the trees. The agricultural terraces were revealed in their full glory, and also revealed a historic record that Israel has always sought to obscure and erase – traces of Palestinian life on this land.

      On my trips to the West Bank and the occupied territories, when I passed by the expansive areas of Palestinian farmland, I was always awed by the sight of the long chain of terraces, mustabat or mudrajat in Arabic. I thrilled at their grandeur and the precision of the work that attests to the connection between the Palestinian fellah and his land. I would wonder – Why doesn’t the same “phenomenon” exist in the hills of the Galilee?

      When I grew up, I learned a little in school about Israeli history. I didn’t learn that Israel erased Palestinian agriculture in the Galilee and that the Jewish National Fund buried it once and for all, but I did learn that “The Jews brought trees with them” and planted them in the Land of Israel. How sterile and green. Greta Thunberg would be proud of you.

      The Zionist movement knew that in the war for this land it was not enough to conquer the land and expel its inhabitants, you also had to build up a story and an ethos and a narrative, something that will fit with the myth of “a people without a land for a land without a people.” Therefore, after the conquest of the land and the expulsion, all trace of the people who once lived here had to be destroyed. This included trees that grew without human intervention and those that were planted by fellahin, who know this land as they do their children and as they do the terraces they built in the hills.

      This is how white foreigners who never in their lives were fellahin or worked the land for a living came up with the national forestation project on the ruins of Arab villages, which David Ben-Gurion decided to flatten, such as Ma’alul and Suhmata. The forestation project including the importation of cypress and pine trees that were alien to this land and belong to colder climes, so that the new inhabitants would feel more at home and less as if they were in somebody else’s home.

      The planting of combustible cypresses and pines, which are not suited to the weather in this land, is not just an act of national erasure of the Palestinian natives, but also an act of arrogance and patronage, characteristics typical of colonialist movements throughout the world. All because they did not understand the nature, in both senses of the word, of the countries they conquered.

      Forgive me, but a biblical-historical connection is not sufficient. Throughout the history of colonialism, the new settlers – whether they ultimately left or stayed – were unable to impose their imported identity on the new place and to completely erase the place’s native identity. It’s a little like the forests surrounding Jerusalem: When the fire comes and burns them, one small truth is revealed, after so much effort went into concealing it.

      https://www.haaretz.com/opinion/.premium-an-israeli-forest-to-erase-the-ruins-of-palestinian-agricultural-t

      et ici :
      https://seenthis.net/messages/928766

    • Planter un arbre en Israël : une forêt rédemptrice et mémorielle

      Tout au long du projet sioniste, le végétal a joué un rôle de médiateur entre la terre rêvée et la terre foulée, entre le texte biblique et la réalité. Le réinvestissement national s’est opéré à travers des plantes connues depuis la diaspora, réorganisées en scènes signifiantes pour la mémoire et l’histoire juive. Ce lien de filiation entre texte sacré et paysage débouche sur une pratique de plantation considérée comme un acte mystique de régénération du monde.

      https://journals.openedition.org/diasporas/258

  • #José_Vieira : « La #mémoire des résistances face à l’accaparement des terres a été peu transmise »

    Dans « #Territórios_ocupados », José Vieira revient sur l’#expropriation en #1941 des paysans portugais de leurs #terres_communales pour y planter des #forêts. Cet épisode explique les #mégafeux qui ravagent le pays et résonne avec les #luttes pour la défense des #biens_communs.

    Né au Portugal en 1957 et arrivé enfant en France à l’âge de 7 ans, José Vieira réalise depuis plus de trente ans des documentaires qui racontent une histoire populaire de l’immigration portugaise.

    Bien loin du mythe des Portugais·es qui se seraient « intégré·es » sans le moindre problème en France a contrario d’autres populations, José Vieira s’est attaché à démontrer comment l’#immigration_portugaise a été un #exode violent – voir notamment La Photo déchirée (2001) ou Souvenirs d’un futur radieux (2014) –, synonyme d’un impossible retour.

    Dans son nouveau documentaire, Territórios ocupados, diffusé sur Mediapart, José Vieira a posé sa caméra dans les #montagnes du #Caramulo, au centre du #Portugal, afin de déterrer une histoire oubliée de la #mémoire_collective rurale du pays. Celle de l’expropriation en 1941, par l’État salazariste, de milliers de paysans et de paysannes de leurs terres communales – #baldios en portugais.

    Cette #violence étatique a été opérée au nom d’un vaste #projet_industriel : planter des forêts pour développer économiquement ces #territoires_ruraux et, par le même geste, « civiliser » les villageois et villageoises des #montagnes, encore rétifs au #salariat et à l’ordre social réactionnaire de #Salazar. Un épisode qui résonne aujourd’hui avec les politiques libérales des États qui aident les intérêts privés à accaparer les biens communs.

    Mediapart : Comment avez-vous découvert cette histoire oubliée de l’expropriation des terres communales ou « baldios » au Portugal ?

    José Vieira : Complètement par hasard. J’étais en train de filmer Le pain que le diable a pétri (2012, Zeugma Films) sur les habitants des montagnes au Portugal qui sont partis après-guerre travailler dans les usines à Lisbonne.

    Je demandais à un vieux qui est resté au village, António, quelle était la définition d’un baldio – on voit cet extrait dans le documentaire, où il parle d’un lieu où tout le monde peut aller pour récolter du bois, faire pâturer ses bêtes, etc. Puis il me sort soudain : « Sauf que l’État a occupé tous les baldios, c’était juste avant que je parte au service militaire. »

    J’étais estomaqué, je voulais en savoir plus mais impossible, car dans la foulée, il m’a envoyé baladé en râlant : « De toute façon, je ne te supporte pas aujourd’hui. »

    Qu’avez-vous fait alors ?

    J’ai commencé à fouiller sur Internet et j’ai eu la chance de tomber sur une étude parue dans la revue de sociologie portugaise Análise Social, qui raconte comment dans les années 1940 l’État salazariste avait pour projet initial de boiser 500 000 hectares de biens communaux en expropriant les usagers de ces terres.

    Je devais ensuite trouver des éléments d’histoire locale, dans la Serra do Caramulo, dont je suis originaire. J’ai passé un temps fou le nez dans les archives du journal local, qui était bien sûr à l’époque entièrement dévoué au régime.

    Après la publication de l’avis à la population que les baldios seront expropriés au profit de la plantation de forêts, plus aucune mention des communaux n’apparaît dans la presse. Mais rapidement, des correspondants locaux et des éditorialistes vont s’apercevoir qu’il existe dans ce territoire un malaise, qu’Untel abandonne sa ferme faute de pâturage ou que d’autres partent en ville. En somme, que sans les baldios, les gens ne s’en sortent plus.

    Comment sont perçus les communaux par les tenants du salazarisme ?

    Les ingénieurs forestiers décrivent les paysans de ces territoires comme des « primitifs » qu’il faut « civiliser ». Ils se voient comme des missionnaires du progrès et dénoncent l’oisiveté de ces montagnards peu enclins au salariat.

    À Lisbonne, j’ai trouvé aussi une archive qui parle des baldios comme étant une source de perversion, de mœurs légères qui conduisent à des enfants illégitimes dans des coins où « les familles vivent presque sans travailler ». Un crime dans un régime où le travail est élevé au rang de valeur suprême.

    On retrouve tous ces différents motifs dans le fameux Portrait du colonisé d’Albert Memmi (1957). Car il y a de la part du régime un vrai discours de colonisateur vis-à-vis de ces régions montagneuses où l’État et la religion ont encore peu de prise sur les habitants.

    En somme, l’État salazariste veut faire entrer ces Portugais reculés dans la modernité.

    Il y a eu des résistances face à ces expropriations ?

    Les villageois vont être embauchés pour boiser les baldios. Sauf qu’après avoir semé les pins, il faut attendre vingt ans pour que la forêt pousse.

    Il y a eu alors quelques histoires d’arrachage clandestin d’arbres. Et je raconte dans le film comment une incartade avec un garde forestier a failli virer au drame à cause d’une balle perdue – je rappelle qu’on est alors sous la chape de plomb du salazarisme. D’autres habitants ont aussi tabassé deux gardes forestiers à la sortie d’un bar et leur ont piqué leurs flingues.

    Mais la mémoire de ces résistances a peu été transmise. Aujourd’hui, avec l’émigration, il ne reste plus rien de cette mémoire collective, la plupart des vieux et vieilles que j’ai filmés dans ce documentaire sont déjà morts.

    Comment justement avez-vous travaillé pour ce documentaire ?

    Quand António me raconte cette histoire d’expropriation des baldios par l’État, c’était en 2010 et je tournais un documentaire, Souvenirs d’un futur radieux. Puis lorsqu’en 2014 un premier incendie a calciné le paysage forestier, je me suis dit qu’il fallait que je m’y mette.

    J’ai travaillé doucement, pendant trois ans, sans savoir où j’allais réellement. J’ai filmé un village situé à 15 kilomètres de là où je suis né. J’ai fait le choix d’y suivre des gens qui subsistent encore en pratiquant une agriculture traditionnelle, avec des outils de travail séculaires, comme la roue celte. Ils ont les mêmes pratiques que dans les années 1940, et qui sont respectueuses de l’écosystème, de la ressource en eau, de la terre.

    Vous vous êtes aussi attaché à retracer tel un historien cet épisode de boisement à marche forcée...

    Cette utopie industrialiste date du XIXe siècle, des ingénieurs forestiers parlant déjà de vouloir récupérer ces « terres de personne ». Puis sous Salazar, dans les années 1930, il y a eu un débat intense au sein du régime entre agrairistes et industrialistes. Pour les premiers, boiser ne va pas être rentable et les baldios sont vitaux aux paysans. Pour les seconds, le pays a besoin de l’industrie du bois pour décoller économiquement, et il manque de bras dans les villes pour travailler dans les usines.

    Le pouvoir central a alors même créé un organisme étatique, la Junte de colonisation interne, qui va recenser les baldios et proposer d’installer des personnes en leur donnant à cultiver des terres communales – des colonies de repeuplement pour résumer.

    Finalement, l’industrie du bois et de la cellulose l’a emporté. La loi de boisement des baldios est votée en 1938 et c’est en novembre 1941 que ça va commencer à se mettre en place sur le terrain.

    Une enquête publique a été réalisée, où tout le monde localement s’est prononcé contre. Et comme pour les enquêtes aujourd’hui en France, ils se sont arrangés pour dire que les habitants étaient d’accord.

    Qu’en est-il aujourd’hui de ces forêts ? Subsiste-t-il encore des « baldios » ?

    Les pinèdes sont exploitées par des boîtes privées qui font travailler des prolos qui galèrent en bossant dur. Mais beaucoup de ces forêts ont brûlé ces dernière décennies, notamment lors de la grande vague d’incendies au Portugal de 2017, où des gens du village où je filmais ont failli périr.

    Les feux ont dévoilé les paysages de pierre qu’on voyait auparavant sur les photos d’archives du territoire, avant que des pins de 30 mètres de haut ne bouchent le paysage.

    Quant aux baldios restants, ils sont loués à des entreprises de cellulose qui y plantent de l’eucalyptus. D’autres servent à faire des parcs d’éoliennes. Toutes les lois promues par les différents gouvernements à travers l’histoire du Portugal vont dans le même sens : privatiser les baldios alors que ces gens ont géré pendant des siècles ces espaces de façon collective et très intelligente.

    J’ai fait ce film avec en tête les forêts au Brésil gérées par les peuples autochtones depuis des siècles, TotalEnergies en Ouganda qui déplace 100 000 personnes de leurs terres pour du pétrole ou encore Sainte-Soline, où l’État aide les intérêts privés à accaparer un autre bien commun : l’eau.

    https://www.mediapart.fr/journal/culture-et-idees/021223/jose-vieira-la-memoire-des-resistances-face-l-accaparement-des-terres-ete-

    #accaparement_de_terres #terre #terres #dictature #histoire #paysannerie #Serra_do_Caramulo #communaux #salazarisme #progrès #colonisation #colonialisme #rural #modernité #résistance #incendie #boisement #utopie_industrialiste #ingénieurs #ingénieurs_forestiers #propriété #industrie_du_bois #Junte_de_colonisation_interne #colonies_de_repeuplement #cellulose #pinèdes #feux #paysage #privatisation #eucalyptus #éoliennes #loi #foncier

  • Point de vue : La montagne pour tou·te·s ? Je n’y crois pas un instant

    L’accès à la montagne et aux sports de montagne est souvent injuste, exclusif, ségrégatif et discriminatoire. #Henriette_Adolf, directrice adjointe de CIPRA Allemagne, plaide pour une participation équitable aux sports de montagne.

    « La montagne, c’est la liberté ». Nos montagnes, les Alpes, l’immense bien commun avec le droit d’accès gratuit pour toutes et tous. Ici, en plein air, nous sommes tou·te·s égaux·ales.

    Nombreux·se·s sont ceux·et celles qui approuveraient cette affirmation. Songez un instant à votre dernière randonnée en montagne ou à votre dernière nuit dans un refuge. Combien de personnes étaient blanches ? Combien d’entre elles étaient valides de corps et d’esprit ? Combien avaient suivi un parcours universitaire ? Combien étaient équipées ou habillés avec des marques courantes de vêtements de plein air ? Et combien ne l’étaient pas ? Ce qui semble être une expérience sans limites de la nature, de l’équité et de l’égalité, est souvent plus qu’insuffisant dans la réalité. L’accès à la montagne et aux sports de montagne est souvent injuste, exclusif, ségrégatif et discriminatoire.

    En effet, les #sports_de_montagne sont chers : une randonnée de deux jours dans les #Alpes bavaroises coûte entre 100 et 200 euros, et même une excursion d’une journée sans halte peut être facturée entre 25 et 100 euros.i Les sports nécessitant un #équipement important, comme l’escalade ou le ski, ne sont pas pris en compte. Des prix plus avantageux pour les couches sociales défavorisées ? Il n’y en a pas. Les sports de montagne sont pratiqués par des personnes qui peuvent se le permettre financièrement - et selon les statistiques, il s’agit principalement de personnes non issues de l’immigration.ii Il existe certes des offres inclusives et intégratives pour les sports de montagneiii - mais elles sont souvent limitées dans le temps ou ne sont disponibles que dans les centres urbains, car elles dépendent de subventions ou d’infrastructures telles que des salles d’escalade. La plupart du temps, l’offre dépend de l’engagement de chacun. Les sports de montagne sont pratiqués par des personnes sans handicap physique ou psychique. Le #milieu_familial est également un facteur important pour la participation au sport : la transmission des connaissances et la motivation pour les sports de montagne et la protection de la nature se font avant tout au sein de la famille. Statistiquement, c’est surtout dans les familles socialement défavorisées que le lien avec les activités de montagne fait défaut. Les sports de montagne sont pratiqués par des personnes issues d’un milieu social privilégié.iv

    La « liberté de la montagne » est entourée de #barrières financières, sociales, liées à l’offre et à la formation. Ainsi, la participation aux sports de montagne reste souvent exclusive et discriminatoire, en particulier pour les groupes socialement défavorisés. Pour une participation vraiment égalitaire aux sports de montagne, il faut davantage de programmes inclusifs, des facilités financières, une éducation familiale et la création de possibilités d’accès dès l’enfance. Ce n’est qu’alors que nos rencontres en montagne seront aussi colorées que dans la vallée.

    i Voyage : en Bavière, entre 12 et 26€ pour un billet de train d’une journée (coût doublé si les jours d’arrivée et de départ sont différents) et jusqu’à 30€ pour le ticket de parking pour la nuit.

    Équipement : chaussures de randonnée, d’occasion à partir de 50€, une veste de pluie à au moins 30€, sac de couchage de refuge à 24€.

    Hébergement, repas compris : 64€ (dortoir avec demi-pension, non membre de l’association, Knorrhütte : www.alpenverein-muenchen-oberland.de/huetten/alpenvereinshuetten/knorrhuette (de)

    ii www.destatis.de/DE/Themen/Gesellschaft-Umwelt/Bevoelkerung/Migration-Integration/Tabellen/migrationshintergrund-nettoeinkommen.html (de)

    Ekamba, Raphael (2022) : « Wenn du ein Schwarzer bist, bleibst du schwarz » Rassismus und Integration auf dem Arbeitsmarkt. Bamberg : Otto-Friedrich-Universität (« Quand on est noir, on reste noir » Racisme et intégration sur le marché du travail. Bamberg : Université Otto-Friedrich). Disponible en ligne sous https://fis.uni-bamberg.de/handle/uniba/54202

    iii www.alpenlebenmenschen.de/ (de)
    www.alpenverein.de/verband/bergsport/sportentwicklung/inklusion-integration/angebote-fuer-menschen-mit-behinderung-im-dav (de)

    iv Schmiade, N. & Mutz, M. (2012). Sportliche Eltern, sportliche Kinder – Die Sportbeteiligung von Vorschulkindern im Kontext sozialer Ungleichheit. Sportwissenschaft (Parents sportifs, enfants sportifs - La participation sportive des enfants d’âge préscolaire dans le contexte de l’inégalité sociale. Science du sport), 42, 115- 125. DOI : 10.1007/s12662-012-0239-7. Disponible en ligne sur https://link.springer.com/article/10.1007/s12662-012-0239-7 (de)

    https://www.cipra.org/fr/nouveautes/la-montagne-pour-tou-te-s-je-n2019y-crois-pas-un-instant

    #accès_à_la_montagne #discriminations #ségrégation #sport #montagne #Alpes #injustice #prix #coût

  • 10.11.2023 : Iz Kolpe potegnili truplo, v vodi je bilo že teden ali dva

    Un corps a été retiré de Kolpa, il était dans l’eau depuis une semaine ou deux
    –-> date de mort environ 01.11.2023

    Truplo so v sredo opazili sprehajalci in poklicali policijo.

    V sredo popoldne so gasilci PGD Črnomelj iz reke Kolpe med Gribljami in Krasincem potegnili moško truplo.

    V sporočilu za javnost so zapisali, da so truplo opazili sprehajalci in o tem obvestili policijo. Ogled so opravili kriminalisti novomeške policijske uprave. Znakov nasilja niso odkrili, zdravnica pa je ocenila, da je bilo v vodi verjetno že teden ali dva.

    O dogodku so obvestili dežurnega preiskovalnega sodnika, na okrožno državno tožilstvo pa bodo poslali poročilo. Kriminalisti in policisti nadaljujejo ugotavljanje identitete.

    –—

    Google translate :

    Le corps a été repéré par des promeneurs mercredi et la police a été appelée.
    Mercredi après-midi, les pompiers du PGD Črnomelj ont retiré le corps d’un homme de la rivière Kolpa, entre #Griblje et #Krasinec .

    Dans le communiqué, ils ont écrit que le corps avait été repéré par des passants et en ont informé la police. L’inspection a été effectuée par des experts en criminalité du département de police de Novi Sad. Aucun signe de violence n’a été constaté, mais le médecin a estimé qu’il était probablement dans l’eau depuis une semaine ou deux.

    Le juge d’instruction en poste a été informé des faits et un rapport sera adressé au parquet. Les enquêteurs criminels et la police continuent d’établir l’identité.

    https://www.slovenskenovice.si/kronika/doma/iz-kolpe-potegnili-truplo-v-vodi-je-bilo-ze-teden-ali-dva
    #mourir_aux_frontières #frontières #morts_aux_frontières #Slovénie #Croatie #Kupa #Kolpa #frontière_sud-alpine #montagne #Alpes

    –-

    ajouté à la métaliste sur les morts à la frontière entre la Croatie et la Slovénie :
    https://seenthis.net/messages/811660

  • Les pratiques de la France à la frontière franco-italienne jugées non conformes par Luxembourg

    Pour télécharger le communiqué : https://www.ldh-france.org/wp-content/uploads/2023/11/CP-interasso-Les-pratiques-de-la-France-a-la-frontiere-franco-italienne-

    Alors que le gouvernement soumet au Sénat son projet de loi sur l’asile et l’immigration, la Cour de justice de l’Union européenne (CJUE) de Luxembourg vient de rendre un arrêt, en réponse à une question préjudicielle du Conseil d’Etat, qui oblige la France à mettre ses pratiques aux frontières et notamment à la frontière franco-italienne en conformité avec le droit de l’Union européenne.

    Depuis 2015, la France a rétabli les contrôles à ses frontières intérieures, par dérogation au principe de libre circulation dans l’espace Schengen. Et depuis cette date, elle enferme dans des bâtiments de fortune et refoule des personnes étrangères à qui elle refuse l’entrée sur le territoire, notamment à la frontière franco-italienne, comme c’est le cas, en ce moment même, à Menton ou à Montgenèvre. En prévision de l’augmentation des arrivées en provenance d’Italie à la mi septembre, les dispositifs de surveillance ont été renforcés et les baraquements dits de « mise à l’abri » se sont multipliés. Pour enfermer et expulser en toute illégalité, car les constats sur le terrain démontrent que ces contrôles débouchent sur de l’enfermement et des refoulements de personnes en dehors d’un cadre juridique défini.

    À de multiples reprises, depuis plusieurs années, nos associations ont protesté contre cette situation et ont saisi, en vain, les tribunaux français pour obtenir qu’il soit mis fin à ces pratiques en conséquence desquelles, au fil des années, des milliers de personnes ont été privées de liberté et expulsées, sans pouvoir accéder à leurs droits fondamentaux (accès à une procédure, accès au droit d’asile, recours effectif). Nos associations ayant contesté la conformité au droit européen de la disposition du code de l’entrée et du séjour des étrangers et du droit d’asile (Ceseda) qui permet à l’administration de prononcer des « refus d’entrée » aux frontières intérieures sans respecter les normes prévues par la directive européenne 2008/115/CE, dite directive « Retour », le Conseil d’État a saisi la Cour de justice de l’Union européenne (CJUE) d’une question préjudicielle sur ce point.

    Dans sa décision du 21 septembre 2023, la CJUE a répondu à cette question en retenant le raisonnement juridique défendu par nos organisations. Elle estime que lorsqu’un État membre a réintroduit des contrôles à ses frontières intérieures, les « normes et procédures prévues par cette directive » sont applicables aux personnes qui, se présentant à un point de passage frontalier situé sur son territoire, se voient opposer un refus d’entrer.

    Par cette décision, la CJUE rappelle à tous les Etats membres de l’UE leurs obligations lorsqu’ils rétablissent des contrôles à leurs frontières intérieures :
    – notifier à la personne à qui elle refuse l’entrée une décision de retour vers un pays tiers ainsi qu’une voie de recours effective (autrement dit on ne peut pas se contenter de refouler en la remettant aux autorités de l’État membre de provenance) ;
    – lui accorder un délai de départ volontaire (vers le pays tiers désigné dans la notification) ;
    – n’imposer une privation de liberté à cette personne, dans l’attente de son éloignement, que dans les cas et conditions de la rétention prévus par la directive « Retour ».

    Depuis fin septembre, nos associations organisent de manière régulière des observations des pratiques des forces de l’ordre à la gare de Menton Garavan et aux postes de la police aux frontières de Montgenèvre (Hautes-Alpes) et de Menton pont Saint-Louis (Alpes-Maritimes). Force est de constater que les pratiques à la frontière intérieure n’ont pas évolué. Les contrôles au faciès aux points de passage autorisés (PPA), ainsi que dans d’autres zones frontalières, sont quotidiens, les procédures de « refus d’entrée » sont toujours réalisées à la va-vite, sur le quai de la gare, devant le poste de police ou parfois à l’intérieur de celui-ci, sans interprète et sans examen individuel de la situation des personnes. Des majeurs comme des mineurs sont refoulés, des personnes à qui l’entrée sur le territoire est refusée sont privées de liberté, sans pouvoir demander l’asile ou contester la mesure d’enfermement à laquelle elles sont soumises, et sans accès à un avocat à ou une association.

    Interrogée par des élus qui, pour certains, se sont vu opposer des refus d’accès au locaux dits « de mise à l’abri », la police aux frontières a précisé qu’aucune directive ne lui avait été transmise depuis la décision de la CJUE.

    Parce que la France persiste dans son refus de se conformer au droit de l’UE, les pratiques illégales perdurent et des dizaines de personnes continuent, quotidiennement, à être victimes de la violation de leurs droits fondamentaux.

    Il revient désormais au Conseil d’État de tirer les enseignements de la décision de la CJUE et de mettre fin aux pratiques d’enfermement et de refoulement aux frontières, hors du cadre juridique approprié, notamment à la frontière franco-italienne.

    Organisations signataires : ADDE ; Anafé (Association nationale d’assistance pour les personnes étrangères) ; Emmaüs Roya ; Gisti ; Groupe accueil solidarité ; La Cimade ; LDH (Ligue des droits de l’Homme) ; Roya Citoyenne ; Syndicat de la Magistrature ; Syndicat des avocats de France ; Tous migrant.

    Paris, le 13 novembre 2023

    https://www.ldh-france.org/les-pratiques-de-la-france-a-la-frontiere-franco-italienne-jugees-non-co
    #frontière_sud-alpine #justice #Alpes #montagne #migrations #frontières #asile #réfugiés #Cour_de_justice_de_l’Union_européenne (#CJUE) #arrêt #droit #contrôles_systématiques_aux_frontières #contrôles_frontaliers #enfermement #Menton #Montgenèvre #Hautes-Alpes #Alpes_Maritimes #mise_à_l'abri #refoulements #push-backs #droits_fondamentaux #code_de_l’entrée_et_du_séjour_des_étrangers_et_du_droit_d’asile (#Ceseda) #refus_d'entrée #frontières_intérieures #directive_retour #contrôles_au_faciès #points_de_passage_autorisés (#PPA) #police_aux_frontières (#PAF)

    • ARRÊT DE LA COUR (quatrième chambre)

      21 septembre 2023 (*)

      « Renvoi préjudiciel – Espace de liberté, de sécurité et de justice – Contrôle aux frontières, asile et immigration – Règlement (UE) 2016/399 – Article 32 – Réintroduction temporaire par un État membre du contrôle à ses frontières intérieures – Article 14 – Décision de refus d’entrée – Assimilation des frontières intérieures aux frontières extérieures – Directive 2008/115/CE – Champ d’application – Article 2, paragraphe 2, sous a) »

      Dans l’affaire C‑143/22,

      ayant pour objet une demande de décision préjudicielle au titre de l’article 267 TFUE, introduite par le Conseil d’État (France), par décision du 24 février 2022, parvenue à la Cour le 1er mars 2022, dans la procédure

      Association Avocats pour la défense des droits des étrangers (ADDE),

      Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (ANAFE),

      Association de recherche, de communication et d’action pour l’accès aux traitements (ARCAT),

      Comité inter-mouvements auprès des évacués (Cimade),

      Fédération des associations de solidarité avec tou.te.s les immigré.e.s (FASTI),

      Groupe d’information et de soutien des immigré.e.s (GISTI),

      Ligue des droits de l’homme (LDH),

      Le paria,

      Syndicat des avocats de France (SAF),

      SOS – Hépatites Fédération

      contre

      Ministre de l’Intérieur,

      en présence de :

      Défenseur des droits,

      LA COUR (quatrième chambre),

      composée de M. C. Lycourgos (rapporteur), président de chambre, Mme L. S. Rossi, MM. J.‑C. Bonichot, S. Rodin et Mme O. Spineanu‑Matei, juges,

      avocat général : M. A. Rantos,

      greffier : Mme M. Krausenböck, administratrice,

      vu la procédure écrite et à la suite de l’audience du 19 janvier 2023,

      considérant les observations présentées :

      – pour l’Association Avocats pour la défense des droits des étrangers (ADDE), l’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (ANAFE), l’Association de recherche, de communication et d’action pour l’accès aux traitements (ARCAT), le Comité inter-mouvements auprès des évacués (Cimade), la Fédération des associations de solidarité avec tou.te.s les immigré.e.s (FASTI), le Groupe d’information et de soutien des immigré.e.s (GISTI), la Ligue des droits de l’homme (LDH), Le paria, le Syndicat des avocats de France (SAF) et SOS – Hépatites Fédération, par Me P. Spinosi, avocat,

      – pour le Défenseur des droits, par Mme C. Hédon, Défenseure des droits, Mmes M. Cauvin et A. Guitton, conseillères, assistées de Me I. Zribi, avocate,

      – pour le gouvernement français, par Mme A.-L. Desjonquères et M. J. Illouz, en qualité d’agents,

      – pour le gouvernement polonais, par M. B. Majczyna, Mmes E. Borawska-Kędzierska et A. Siwek-Ślusarek, en qualité d’agents,

      – pour la Commission européenne, par Mmes A. Azéma, A. Katsimerou, MM. T. Lilamand et J. Tomkin, en qualité d’agents,

      ayant entendu l’avocat général en ses conclusions à l’audience du 30 mars 2023,

      rend le présent

      Arrêt

      1 La demande de décision préjudicielle porte sur l’interprétation de l’article 14 du règlement (UE) 2016/399 du Parlement européen et du Conseil, du 9 mars 2016, concernant un code de l’Union relatif au régime de franchissement des frontières par les personnes (code frontières Schengen) (JO 2016, L 77, p. 1, ci-après le « code frontières Schengen »), ainsi que de la directive 2008/115/CE du Parlement européen et du Conseil, du 16 décembre 2008, relative aux normes et procédures communes applicables dans les États membres au retour des ressortissants de pays tiers en séjour irrégulier (JO 2008, L 348, p. 98).

      2 Cette demande a été présentée dans le cadre d’un litige opposant l’Association Avocats pour la défense des droits des étrangers (ADDE), l’Association nationale d’assistance aux frontières pour les étrangers (ANAFE), l’Association de recherche, de communication et d’action pour l’accès aux traitements (ARCAT), le Comité inter-mouvements auprès des évacués (Cimade), la Fédération des associations de solidarité avec tou.te.s les immigré.e.s (FASTI), le Groupe d’information et de soutien des immigré.e.s (GISTI), la Ligue des droits de l’homme (LDH), Le paria, le Syndicat des avocats de France (SAF) et SOS – Hépatites Fédération, au ministre de l’Intérieur (France) au sujet de la légalité de l’ordonnance no 2020-1733 du 16 décembre 2020 portant partie législative du code de l’entrée et du séjour des étrangers et du droit d’asile (JORF du 30 décembre 2020, texte no 41).

      Le cadre juridique

      Le droit de l’Union

      Le code frontières Schengen

      3 Aux termes de l’article 2 du code frontières Schengen :

      « Aux fins du présent règlement, on entend par :

      1) “frontières intérieures” :

      a) les frontières terrestres communes, y compris fluviales et lacustres, des États membres ;

      b) les aéroports des États membres pour les vols intérieurs ;

      c) les ports maritimes, fluviaux et lacustres des États membres pour les liaisons régulières intérieures par transbordeur ;

      2) “frontières extérieures” : les frontières terrestres des États membres, y compris les frontières fluviales et lacustres, les frontières maritimes, ainsi que leurs aéroports, ports fluviaux, ports maritimes et ports lacustres, pour autant qu’ils ne soient pas des frontières intérieures ;

      [...] »

      4 Le titre II de ce code, relatif aux « frontières extérieures », comprend les articles 5 à 21 de celui-ci.

      5 L’article 14 dudit code, intitulé « Refus d’entrée », prévoit :

      « 1. L’entrée sur le territoire des États membres est refusée au ressortissant de pays tiers qui ne remplit pas l’ensemble des conditions d’entrée énoncées à l’article 6, paragraphe 1, et qui n’appartient pas à l’une des catégories de personnes visées à l’article 6, paragraphe 5. Cette disposition est sans préjudice de l’application des dispositions particulières relatives au droit d’asile et à la protection internationale ou à la délivrance de visas de long séjour.

      2. L’entrée ne peut être refusée qu’au moyen d’une décision motivée indiquant les raisons précises du refus. La décision est prise par une autorité compétente habilitée à ce titre par le droit national. Elle prend effet immédiatement.

      La décision motivée indiquant les raisons précises du refus est notifiée au moyen d’un formulaire uniforme tel que celui figurant à l’annexe V, partie B, et rempli par l’autorité compétente habilitée par le droit national à refuser l’entrée. Le formulaire uniforme ainsi complété est remis au ressortissant de pays tiers concerné, qui accuse réception de la décision de refus au moyen dudit formulaire.

      Les données relatives aux ressortissants de pays tiers auxquels l’entrée pour un court séjour a été refusée sont enregistrées dans l’EES conformément à l’article 6 bis, paragraphe 2, du présent règlement et à l’article 18 du règlement (UE) 2017/2226 [du Parlement européen et du Conseil du 30 novembre 2017 portant création d’un système d’entrée/de sortie (EES) pour enregistrer les données relatives aux entrées, aux sorties et aux refus d’entrée concernant les ressortissants de pays tiers qui franchissent les frontières extérieures des États membres et portant détermination des conditions d’accès à l’EES à des fins répressives, et modifiant la convention d’application de l’accord de Schengen et les règlements (CE) no 767/2008 et (UE) no 1077/2011 (JO 2017, L 327, p. 20)].

      3. Les personnes ayant fait l’objet d’une décision de refus d’entrée ont le droit de former un recours contre cette décision. Les recours sont formés conformément au droit national. Des indications écrites sont également mises à la disposition du ressortissant de pays tiers en ce qui concerne des points de contact en mesure de communiquer des informations sur des représentants compétents pour agir au nom du ressortissant de pays tiers conformément au droit national.

      L’introduction d’un tel recours n’a pas d’effet suspensif à l’égard de la décision de refus d’entrée.

      Sans préjudice de toute éventuelle compensation accordée conformément au droit national, le ressortissant de pays tiers concerné a le droit à la rectification des données introduites dans l’ESS ou du cachet d’entrée annulé, ou les deux, ainsi qu’à la rectification de toute autre annulation ou ajout qui ont été apportés, de la part de l’État membre qui a refusé l’entrée, si, dans le cadre du recours, la décision de refus d’entrée est déclarée non fondée.

      4. Les gardes-frontières veillent à ce qu’un ressortissant de pays tiers ayant fait l’objet d’une décision de refus d’entrée ne pénètre pas sur le territoire de l’État membre concerné.

      5. Les États membres établissent un relevé statistique sur le nombre de personnes ayant fait l’objet d’une décision de refus d’entrée, les motifs du refus, la nationalité des personnes auxquelles l’entrée a été refusée et le type de frontière (terrestre, aérienne, maritime) auquel l’entrée leur a été refusée, et le transmettent chaque année à la Commission (Eurostat) conformément au règlement (CE) no 862/2007 du Parlement européen et du Conseil[, du 11 juillet 2007, relatif aux statistiques communautaires sur la migration et la protection internationale, et abrogeant le règlement (CEE) no 311/76 du Conseil relatif à l’établissement de statistiques concernant les travailleurs étrangers (JO 2007, L 199, p. 23)].

      6. Les modalités du refus d’entrée sont décrites à l’annexe V, partie A. »

      6 Le titre III du code frontières Schengen, relatif aux « frontières intérieures », comprend les articles 22 à 35 de celui-ci.

      7 L’article 25 dudit code, intitulé « Cadre général pour la réintroduction temporaire du contrôle aux frontières intérieures », dispose, à son paragraphe 1 :

      « En cas de menace grave pour l’ordre public ou la sécurité intérieure d’un État membre dans l’espace sans contrôle aux frontières intérieures, cet État membre peut exceptionnellement réintroduire le contrôle aux frontières sur tous les tronçons ou sur certains tronçons spécifiques de ses frontières intérieures pendant une période limitée d’une durée maximale de trente jours ou pour la durée prévisible de la menace grave si elle est supérieure à trente jours. La portée et la durée de la réintroduction temporaire du contrôle aux frontières intérieures ne doivent pas excéder ce qui est strictement nécessaire pour répondre à la menace grave. »

      8 L’article 32 du même code, intitulé « Dispositions s’appliquant en cas de réintroduction du contrôle aux frontières intérieures », énonce :

      « Lorsque le contrôle aux frontières intérieures est réintroduit, les dispositions pertinentes du titre II s’appliquent mutatis mutandis. »

      9 L’annexe V, partie A, du code frontières Schengen prévoit :

      « 1. En cas de refus d’entrée, le garde-frontière compétent :

      a) remplit le formulaire uniforme de refus d’entrée figurant dans la partie B. Le ressortissant de pays tiers concerné signe le formulaire et en reçoit une copie après signature. Si le ressortissant de pays tiers refuse de signer, le garde-frontière indique ce refus dans le formulaire, sous la rubrique “observations” ;

      b) en ce qui concerne les ressortissants de pays tiers dont l’entrée pour un court séjour a été refusée, enregistre dans l’EES les données relatives au refus d’entrée conformément à l’article 6 bis, paragraphe 2, du présent règlement et à l’article 18 du règlement (UE) 2017/2226 ;

      c) procède à l’annulation ou à la révocation du visa, le cas échéant, conformément aux conditions fixées à l’article 34 du règlement (CE) no 810/2009 [du Parlement européen et du Conseil, du 13 juillet 2009, établissant un code communautaire des visas (code des visas) (JO 2009, L 243, p. 1)] ;

      d) en ce qui concerne les ressortissants de pays tiers dont le refus d’entrée n’est pas enregistré dans l’EES, appose sur le passeport un cachet d’entrée, barré d’une croix à l’encre noire indélébile, et inscrit en regard, à droite, également à l’encre indélébile, la ou les lettres correspondant au(x) motif(s) du refus d’entrée, dont la liste figure dans le formulaire uniforme de refus d’entrée comme indiqué dans la partie B de la présente annexe. En outre, pour ces catégories de personnes, le garde-frontière enregistre tout refus d’entrée dans un registre ou sur une liste, qui mentionne l’identité et la nationalité du ressortissant de pays tiers concerné, les références du document autorisant le franchissement de la frontière par ce ressortissant du pays tiers, ainsi que le motif et la date de refus d’entrée.

      Les modalités pratiques de l’apposition du cachet sont décrites à l’annexe IV.

      2. Si le ressortissant de pays tiers frappé d’une décision de refus d’entrée a été acheminé à la frontière par un transporteur, l’autorité localement responsable :

      a) ordonne à ce transporteur de reprendre en charge le ressortissant de pays tiers sans tarder et de l’acheminer soit vers le pays tiers d’où il a été transporté, soit vers le pays tiers qui a délivré le document permettant le franchissement de la frontière, soit vers tout autre pays tiers dans lequel son admission est garantie, ou de trouver un moyen de réacheminement conformément à l’article 26 de la convention de Schengen et aux dispositions de la directive 2001/51/CE du Conseil[, du 28 juin 2001, visant à compléter les dispositions de l’article 26 de la convention d’application de l’accord de Schengen du 14 juin 1985 (JO 2001, L 187, p. 45)] ;

      b) en attendant le réacheminement, prend, dans le respect du droit national et compte tenu des circonstances locales, les mesures appropriées afin d’éviter l’entrée illégale des ressortissants de pays tiers frappés d’une décision de refus d’entrée.

      [...] »

      10 Aux termes de l’article 44 de ce code, intitulé « Abrogation » :

      « Le règlement (CE) no 562/2006 [du Parlement européen et du Conseil, du 15 mars 2006, établissant un code communautaire relatif au régime de franchissement des frontières par les personnes (code frontières Schengen) (JO 2006, L 105, p. 1)] est abrogé.

      Les références faites au règlement abrogé s’entendent comme faites au présent règlement et sont à lire selon le tableau de correspondance figurant à l’annexe X. »

      11 Conformément à ce tableau de correspondance, l’article 14 du code frontières Schengen correspond à l’article 13 du règlement no 562/2006.

      La directive 2008/115

      12 L’article 2, paragraphes 1 et 2, de la directive 2008/115 dispose :

      « 1. La présente directive s’applique aux ressortissants de pays tiers en séjour irrégulier sur le territoire d’un État membre.

      2. Les États membres peuvent décider de ne pas appliquer la présente directive aux ressortissants de pays tiers :

      a) faisant l’objet d’une décision de refus d’entrée conformément à l’article 13 du [règlement no 562/2006], ou arrêtés ou interceptés par les autorités compétentes à l’occasion du franchissement irrégulier par voie terrestre, maritime ou aérienne de la frontière extérieure d’un État membre et qui n’ont pas obtenu par la suite l’autorisation ou le droit de séjourner dans ledit État membre ;

      b) faisant l’objet d’une sanction pénale prévoyant ou ayant pour conséquence leur retour, conformément au droit national, ou faisant l’objet de procédures d’extradition. »

      13 Aux termes de l’article 3 de cette directive :

      « Aux fins de la présente directive, on entend par :

      [...]

      2) “séjour irrégulier” : la présence sur le territoire d’un État membre d’un ressortissant d’un pays tiers qui ne remplit pas, ou ne remplit plus, les conditions d’entrée énoncées à l’article 5 du [règlement no 562/2006], ou d’autres conditions d’entrée, de séjour ou de résidence dans cet État membre ;

      3) “retour” : le fait, pour le ressortissant d’un pays tiers, de rentrer – que ce soit par obtempération volontaire à une obligation de retour ou en y étant forcé – dans :

      – son pays d’origine, ou

      – un pays de transit conformément à des accords ou autres arrangements de réadmission communautaires ou bilatéraux, ou

      – un autre pays tiers dans lequel le ressortissant concerné d’un pays tiers décide de retourner volontairement et sur le territoire duquel il sera admis ;

      [...] »

      14 L’article 4, paragraphe 4, de ladite directive prévoit :

      « En ce qui concerne les ressortissants de pays tiers exclus du champ d’application de la présente directive conformément à l’article 2, paragraphe 2, point a), les États membres :

      a) veillent à ce que le traitement et le niveau de protection qui leur sont accordés ne soient pas moins favorables que ceux prévus à l’article 8, paragraphes 4 et 5 (limitations du recours aux mesures coercitives), à l’article 9, paragraphe 2, point a) (report de l’éloignement), à l’article 14, paragraphe 1, points b) et d) (soins médicaux d’urgence et prise en considération des besoins des personnes vulnérables), ainsi qu’aux articles 16 et 17 (conditions de rétention), et

      b) respectent le principe de non-refoulement. »

      15 L’article 5 de la directive 2008/115 dispose :

      « Lorsqu’ils mettent en œuvre la présente directive, les États membres tiennent dûment compte :

      a) de l’intérêt supérieur de l’enfant,

      b) de la vie familiale,

      c) de l’état de santé du ressortissant concerné d’un pays tiers,

      et respectent le principe de non-refoulement. »

      16 L’article 6 de cette directive dispose :

      « 1. Les État membres prennent une décision de retour à l’encontre de tout ressortissant d’un pays tiers en séjour irrégulier sur leur territoire, sans préjudice des exceptions visées aux paragraphes 2 à 5.

      2. Les ressortissants de pays tiers en séjour irrégulier sur le territoire d’un État membre et titulaires d’un titre de séjour valable ou d’une autre autorisation conférant un droit de séjour délivrés par un autre État membre sont tenus de se rendre immédiatement sur le territoire de cet autre État membre. En cas de non-respect de cette obligation par le ressortissant concerné d’un pays tiers ou lorsque le départ immédiat du ressortissant d’un pays tiers est requis pour des motifs relevant de l’ordre public ou de la sécurité nationale, le paragraphe 1 s’applique.

      3. Les État membres peuvent s’abstenir de prendre une décision de retour à l’encontre d’un ressortissant d’un pays tiers en séjour irrégulier sur leur territoire si le ressortissant concerné d’un pays tiers est repris par un autre État membre en vertu d’accords ou d’arrangements bilatéraux existant à la date d’entrée en vigueur de la présente directive. Dans ce cas, l’État membre qui a repris le ressortissant concerné d’un pays tiers applique le paragraphe 1.

      [...] »

      17 L’article 7, paragraphe 1, premier alinéa, de ladite directive prévoit :

      « La décision de retour prévoit un délai approprié allant de sept à trente jours pour le départ volontaire, sans préjudice des exceptions visées aux paragraphes 2 et 4. Les États membres peuvent prévoir dans leur législation nationale que ce délai n’est accordé qu’à la suite d’une demande du ressortissant concerné d’un pays tiers. Dans ce cas, les États membres informent les ressortissants concernés de pays tiers de la possibilité de présenter une telle demande. »

      18 L’article 15, paragraphe 1, de la même directive énonce :

      « À moins que d’autres mesures suffisantes, mais moins coercitives, puissent être appliquées efficacement dans un cas particulier, les États membres peuvent uniquement placer en rétention le ressortissant d’un pays tiers qui fait l’objet de procédures de retour afin de préparer le retour et/ou de procéder à l’éloignement, en particulier lorsque :

      a) il existe un risque de fuite, ou

      b) le ressortissant concerné d’un pays tiers évite ou empêche la préparation du retour ou de la procédure d’éloignement.

      Toute rétention est aussi brève que possible et n’est maintenue qu’aussi longtemps que le dispositif d’éloignement est en cours et exécuté avec toute la diligence requise. »

      Le droit français

      19 L’article L. 213-3-1 du code de l’entrée et du séjour des étrangers et du droit d’asile, dans sa version issue de la loi no 2018-778, du 10 septembre 2018, pour une immigration maîtrisée, un droit d’asile effectif et une intégration réussie (JORF du 11 septembre 2018, texte no 1) (ci-après le « Ceseda ancien »), énonçait :

      « En cas de réintroduction temporaire du contrôle aux frontières intérieures prévue au chapitre II du titre III du [code frontières Schengen], les décisions mentionnées à l’article L. 213-2 peuvent être prises à l’égard de l’étranger qui, en provenance directe du territoire d’un État partie à la convention signée à Schengen le 19 juin 1990, a pénétré sur le territoire métropolitain en franchissant une frontière intérieure terrestre sans y être autorisé et a été contrôlé dans une zone comprise entre cette frontière et une ligne tracée à dix kilomètres en deçà. Les modalités de ces contrôles sont définies par décret en Conseil d’État. »

      20 L’ordonnance no 2020-1733 a procédé à la refonte de la partie législative du code de l’entrée et du séjour des étrangers et du droit d’asile. L’article L. 332-2 de ce code ainsi modifié (ci-après le « Ceseda modifié ») dispose :

      « La décision de refus d’entrée, qui est écrite et motivée, est prise par un agent relevant d’une catégorie fixée par voie réglementaire.

      La notification de la décision de refus d’entrée mentionne le droit de l’étranger d’avertir ou de faire avertir la personne chez laquelle il a indiqué qu’il devait se rendre, son consulat ou le conseil de son choix. Elle mentionne le droit de l’étranger de refuser d’être rapatrié avant l’expiration du délai d’un jour franc dans les conditions prévues à l’article L. 333-2.

      La décision et la notification des droits qui l’accompagne lui sont communiquées dans une langue qu’il comprend.

      Une attention particulière est accordée aux personnes vulnérables, notamment aux mineurs accompagnés ou non d’un adulte. »

      21 L’article L. 332-3 du Ceseda modifié prévoit :

      « La procédure prévue à l’article L. 332-2 est applicable à la décision de refus d’entrée prise à l’encontre de l’étranger en application de l’article 6 du [code frontières Schengen]. Elle est également applicable lors de vérifications effectuées à une frontière intérieure en cas de réintroduction temporaire du contrôle aux frontières intérieures dans les conditions prévues au chapitre II du titre III du [code frontières Schengen]. »

      Le litige au principal et la question préjudicielle

      22 Les associations visées au point 2 du présent arrêt contestent devant le Conseil d’État (France), dans le cadre d’un recours en annulation de l’ordonnance no 2020‑1733, la validité de celle-ci au motif, notamment, que l’article L. 332-3 du Ceseda modifié qui en est issu méconnaît la directive 2008/115 en ce qu’il permet l’adoption de décisions de refus d’entrée aux frontières intérieures sur lesquelles des contrôles ont été réintroduits.

      23 Cette juridiction explique, en effet, que, dans son arrêt du 19 mars 2019, Arib e.a. (C‑444/17, EU:C:2019:220), la Cour a jugé que l’article 2, paragraphe 2, sous a), de la directive 2008/115, lu en combinaison avec l’article 32 du code frontières Schengen, ne s’applique pas à la situation d’un ressortissant d’un pays tiers arrêté à proximité immédiate d’une frontière intérieure et en séjour irrégulier sur le territoire d’un État membre, même lorsque cet État membre a réintroduit, en vertu de l’article 25 de ce code, le contrôle à cette frontière en raison d’une menace grave pour l’ordre public ou la sécurité intérieure dudit État membre.

      24 Le Conseil d’État souligne que, dans sa décision no 428175 du 27 novembre 2020, il a jugé contraires à la directive 2008/115, telle qu’interprétée par la Cour, les dispositions de l’article L. 213-3-1 du Ceseda ancien, qui prévoyaient que, en cas de réintroduction temporaire du contrôle aux frontières intérieures, l’étranger en provenance directe du territoire d’un État partie à la convention d’application de l’accord de Schengen, du 14 juin 1985, entre les gouvernements des États de l’Union économique Benelux, de la République fédérale d’Allemagne et de la République française relatif à la suppression graduelle des contrôles aux frontières communes, signée à Schengen le 19 juin 1990 et entrée en vigueur le 26 mars 1995 (JO 2000, L 239, p. 19, ci-après la « convention de Schengen »), pouvait faire l’objet d’une décision de refus d’entrée dans les conditions de l’article L. 213-2 du Ceseda ancien lorsqu’il avait pénétré sur le territoire métropolitain en franchissant une frontière intérieure terrestre sans y être autorisé et avait été contrôlé dans une zone comprise entre cette frontière et une ligne tracée à dix kilomètres en deçà.

      25 Certes, selon le Conseil d’État, l’article L. 332-3 du Ceseda modifié ne reprend pas les dispositions de l’article L. 213-3-1 du Ceseda ancien. Toutefois, l’article L. 332-3 du Ceseda modifié prévoirait encore qu’une décision de refus d’entrée peut être prise à l’occasion de vérifications effectuées aux frontières intérieures, en cas de réintroduction temporaire du contrôle à ces frontières, dans les conditions prévues au chapitre II du titre III du code frontières Schengen.

      26 Cette juridiction estime, dès lors, qu’il convient de déterminer si, dans un tel cas, le ressortissant d’un pays tiers, en provenance directe du territoire d’un État partie à la convention de Schengen et qui se présente à un point de passage frontalier autorisé sans être en possession des documents permettant de justifier d’une autorisation d’entrée ou du droit de séjourner en France peut se voir opposer une décision de refus d’entrée, sur le fondement de l’article 14 du code frontières Schengen, sans que soit applicable la directive 2008/115.

      27 Dans ces conditions, le Conseil d’État a décidé de surseoir à statuer et de poser la question préjudicielle suivante :

      « En cas de réintroduction temporaire du contrôle aux frontières intérieures, dans les conditions prévues au chapitre II du titre III du [code frontières Schengen], l’étranger en provenance directe du territoire d’un État partie à la [convention de Schengen] peut-il se voir opposer une décision de refus d’entrée, lors des vérifications effectuées à cette frontière, sur le fondement de l’article 14 de ce [code], sans que soit applicable la directive [2008/115] ? »

      Sur la question préjudicielle

      28 Par sa question préjudicielle, la juridiction de renvoi demande en substance si le code frontières Schengen et la directive 2008/115 doivent être interprétés en ce sens que, lorsqu’un État membre a réintroduit des contrôles à ses frontières intérieures, il peut adopter, à l’égard d’un ressortissant d’un pays tiers qui se présente à un point de passage frontalier autorisé où s’exercent de tels contrôles, une décision de refus d’entrée, au sens de l’article 14 de ce code, sans être soumis au respect de cette directive.

      29 L’article 25 du code frontières Schengen autorise, à titre exceptionnel et dans certaines conditions, un État membre à réintroduire temporairement un contrôle aux frontières sur tous les tronçons ou certains tronçons spécifiques de ses frontières intérieures en cas de menace grave pour l’ordre public ou la sécurité intérieure de cet État membre. Selon l’article 32 de ce code, lorsqu’un contrôle aux frontières intérieures est réintroduit, les dispositions pertinentes du titre II dudit code, titre qui porte sur les frontières extérieures, s’appliquent mutatis mutandis.

      30 Tel est le cas de l’article 14 du code frontières Schengen, qui prévoit que l’entrée sur le territoire des États membres est refusée au ressortissant d’un pays tiers qui ne remplit pas l’ensemble des conditions d’entrée énoncées à l’article 6, paragraphe 1, de ce code et qui n’appartient pas à l’une des catégories de personnes visées à l’article 6, paragraphe 5, du même code.

      31 Il importe toutefois de rappeler qu’un ressortissant d’un pays tiers qui, à la suite de son entrée irrégulière sur le territoire d’un État membre, est présent sur ce territoire sans remplir les conditions d’entrée, de séjour ou de résidence, se trouve, de ce fait, en séjour irrégulier, au sens de la directive 2008/115. Ce ressortissant relève, donc, conformément à l’article 2, paragraphe 1, de cette directive et sous réserve de l’article 2, paragraphe 2, de celle-ci, du champ d’application de ladite directive, sans que cette présence sur le territoire de l’État membre concerné soit soumise à une condition de durée minimale ou d’intention de rester sur ce territoire. Il doit donc, en principe, être soumis aux normes et aux procédures communes prévues par la même directive en vue de son éloignement et cela tant que son séjour n’a pas été, le cas échéant, régularisé (voir, en ce sens, arrêt du 19 mars 2019, Arib e.a., C‑444/17, EU:C:2019:220, points 37 et 39 ainsi que jurisprudence citée).

      32 Il en va ainsi y compris lorsque ce ressortissant d’un pays tiers a été appréhendé à un point de passage frontalier, pour autant que ce point de passage frontalier se situe sur le territoire dudit État membre. À cet égard, il convient, en effet, de relever qu’une personne peut être entrée sur le territoire d’un État membre avant même d’avoir franchi un point de passage frontalier [voir, par analogie, arrêt du 5 février 2020, Staatssecretaris van Justitie en Veiligheid (Enrôlement des marins dans le port de Rotterdam), C‑341/18, EU:C:2020:76, point 45].

      33 Il convient encore de préciser, à titre d’exemple, que, lorsqu’il est procédé à des vérifications à bord d’un train entre le moment où ce train quitte la dernière gare, située sur le territoire d’un État membre partageant une frontière intérieure avec un État membre ayant réintroduit des contrôles à ses frontières intérieures, et le moment où ledit train entre dans la première gare située sur le territoire de ce dernier État membre, le contrôle à bord de ce même train doit, sauf accord en sens contraire passé entre ces deux États membres, être considéré comme un contrôle réalisé à un point de passage frontalier situé sur le territoire de l’État membre ayant réintroduit de tels contrôles. En effet, le ressortissant d’un pays tiers ayant été contrôlé à bord de ce train séjournera nécessairement, à la suite de ce contrôle, sur le territoire de ce dernier État membre, au sens de l’article 2, paragraphe 1, de la directive 2008/115.

      34 Cela étant, il convient encore de relever que l’article 2, paragraphe 2, de la directive 2008/115 permet aux États membres d’exclure, à titre exceptionnel et sous certaines conditions, les ressortissants de pays tiers qui séjournent irrégulièrement sur leur territoire du champ d’application de cette directive.

      35 Ainsi, d’une part, cet article 2, paragraphe 2, de la directive 2008/115 permet, à son point a), aux États membres de ne pas appliquer cette dernière, sous réserve des prescriptions contenues à l’article 4, paragraphe 4, de celle-ci, dans deux situations particulières, à savoir celle de ressortissants de pays tiers qui font l’objet d’une décision de refus d’entrée à une frontière extérieure d’un État membre, conformément à l’article 14 du code frontières Schengen, ou celle de ressortissants de pays tiers qui sont arrêtés ou interceptés à l’occasion du franchissement irrégulier d’une telle frontière extérieure et qui n’ont pas obtenu par la suite l’autorisation ou le droit de séjourner dans ledit État membre.

      36 Cela étant, il ressort de la jurisprudence de la Cour que ces deux situations se rapportent exclusivement au franchissement d’une frontière extérieure d’un État membre, telle que définie à l’article 2 du code frontières Schengen, et ne concernent donc pas le franchissement d’une frontière commune à des États membres faisant partie de l’espace Schengen, même lorsque des contrôles ont été réintroduits à cette frontière, en vertu de l’article 25 de ce code, en raison d’une menace grave pour l’ordre public ou la sécurité intérieure de cet État membre (voir, en ce sens, arrêt du 19 mars 2019, Arib e.a., C‑444/17, EU:C:2019:220, points 45 et 67).

      37 Il s’ensuit, comme M. l’avocat général l’a relevé au point 35 de ses conclusions, que l’article 2, paragraphe 2, sous a), de la directive 2008/115 n’autorise pas un État membre ayant réintroduit des contrôles à ses frontières intérieures à déroger aux normes et aux procédures communes prévues par cette directive afin d’éloigner le ressortissant d’un pays tiers qui a été intercepté, sans titre de séjour valable, à l’un des points de passage frontaliers situés sur le territoire de cet État membre et où s’exercent de tels contrôles.

      38 D’autre part, si l’article 2, paragraphe 2, de la directive 2008/115 autorise, à son point b), les États membres à ne pas appliquer cette directive aux ressortissants de pays tiers faisant l’objet d’une sanction pénale prévoyant ou ayant pour conséquence leur retour, conformément au droit national, ou faisant l’objet de procédures d’extradition, force est de constater qu’un tel cas de figure n’est pas celui qui est visé par la disposition en cause dans le litige au principal.

      39 Il résulte de tout ce qui précède, d’une part, qu’un État membre ayant réintroduit des contrôles à ses frontières intérieures peut appliquer, mutatis mutandis, l’article 14 du code frontières Schengen ainsi que l’annexe V, partie A, point 1, de ce code à l’égard d’un ressortissant d’un pays tiers qui est intercepté, sans titre de séjour régulier, à un point de passage frontalier autorisé où s’exercent de tels contrôles.

      40 D’autre part, lorsque ce point de passage frontalier est situé sur le territoire de l’État membre concerné, ce dernier doit toutefois veiller à ce que les conséquences d’une telle application, mutatis mutandis, des dispositions citées au point précédent n’aboutissent pas à méconnaître les normes et les procédures communes prévues par la directive 2008/115. La circonstance que cette obligation qui pèse sur l’État membre concerné est susceptible de priver d’une large partie de son effectivité l’éventuelle adoption d’une décision de refus d’entrée à l’égard d’un ressortissant d’un pays tiers se présentant à l’une de ses frontières intérieures n’est pas de nature à modifier un tel constat.

      41 Concernant les dispositions pertinentes de cette directive, il convient de rappeler, notamment, qu’il résulte de l’article 6, paragraphe 1, de la directive 2008/115 que tout ressortissant d’un pays tiers en séjour irrégulier sur le territoire d’un État membre doit, sans préjudice des exceptions prévues aux paragraphes 2 à 5 de cet article et dans le strict respect des exigences fixées à l’article 5 de cette directive, faire l’objet d’une décision de retour, laquelle doit identifier, parmi les pays tiers visés à l’article 3, point 3, de ladite directive, celui vers lequel il doit être éloigné [arrêt du 22 novembre 2022, Staatssecretaris van Justitie en Veiligheid (Éloignement – Cannabis thérapeutique), C‑69/21, EU:C:2022:913, point 53].

      42 Par ailleurs, le ressortissant d’un pays tiers qui fait l’objet d’une telle décision de retour doit encore, en principe, bénéficier, en vertu de l’article 7 de la directive 2008/115, d’un certain délai pour quitter volontairement le territoire de l’État membre concerné. L’éloignement forcé n’intervient qu’en dernier recours, conformément à l’article 8 de cette directive, et sous réserve de l’article 9 de celle-ci, qui impose aux États membres de reporter l’éloignement dans les cas qu’il énonce [arrêt du 17 décembre 2020, Commission/Hongrie (Accueil des demandeurs de protection internationale), C‑808/18, EU:C:2020:1029, point 252].

      43 En outre, il découle de l’article 15 de la directive 2008/115 que la rétention d’un ressortissant d’un pays tiers en séjour irrégulier ne peut être imposée que dans certains cas déterminés. Cela étant, comme M. l’avocat général l’a relevé, en substance, au point 46 de ses conclusions, cet article ne s’oppose pas à ce que, lorsqu’il représente une menace réelle, actuelle et suffisamment grave pour l’ordre public ou la sécurité intérieure, ce ressortissant fasse l’objet d’une mesure de rétention, dans l’attente de son éloignement, pour autant que cette rétention respecte les conditions énoncées aux articles 15 à 18 de cette directive (voir, en ce sens, arrêt du 2 juillet 2020, Stadt Frankfurt am Main, C‑18/19, EU:C:2020:511, points 41 à 48).

      44 Par ailleurs, la directive 2008/115 n’exclut pas la faculté pour les États membres de réprimer d’une peine d’emprisonnement la commission de délits autres que ceux tenant à la seule circonstance d’une entrée irrégulière, y compris dans des situations où la procédure de retour établie par cette directive n’a pas encore été menée à son terme. Dès lors, ladite directive ne s’oppose pas davantage à l’arrestation ou au placement en garde à vue d’un ressortissant de pays tiers en séjour irrégulier lorsque de telles mesures sont adoptées au motif que ledit ressortissant est soupçonné d’avoir commis un délit autre que sa simple entrée irrégulière sur le territoire national, et notamment un délit susceptible de menacer l’ordre public ou la sécurité intérieure de l’État membre concerné (arrêt du 19 mars 2019, Arib e.a., C‑444/17, EU:C:2019:220, point 66).

      45 Il s’ensuit que, contrairement à ce que le gouvernement français soutient, l’application, dans un cas tel que celui visé par la demande de décision préjudicielle, des normes et des procédures communes prévues par la directive 2008/115 n’est pas de nature à rendre impossible le maintien de l’ordre public et la sauvegarde de la sécurité intérieure, au sens de l’article 72 TFUE.

      46 En égard à l’ensemble des considérations qui précèdent, il y a lieu de répondre à la question préjudicielle que le code frontières Schengen et la directive 2008/115 doivent être interprétés en ce sens que, lorsqu’un État membre a réintroduit des contrôles à ses frontières intérieures, il peut adopter, à l’égard d’un ressortissant d’un pays tiers qui se présente à un point de passage frontalier autorisé situé sur son territoire et où s’exercent de tels contrôles, une décision de refus d’entrée, en vertu d’une application mutatis mutandis de l’article 14 de ce code, pour autant que les normes et les procédures communes prévues par cette directive soient appliquées à ce ressortissant en vue de son éloignement.

      Sur les dépens

      47 La procédure revêtant, à l’égard des parties au principal, le caractère d’un incident soulevé devant la juridiction de renvoi, il appartient à celle-ci de statuer sur les dépens. Les frais exposés pour soumettre des observations à la Cour, autres que ceux desdites parties, ne peuvent faire l’objet d’un remboursement.

      Par ces motifs, la Cour (quatrième chambre) dit pour droit :

      Le règlement (UE) 2016/399 du Parlement européen et du Conseil, du 9 mars 2016, concernant un code de l’Union relatif au régime de franchissement des frontières par les personnes (code frontières Schengen), et la directive 2008/115/CE du Parlement européen et du Conseil, du 16 décembre 2008, relative aux normes et procédures communes applicables dans les États membres au retour des ressortissants de pays tiers en séjour irrégulier,

      doivent être interprétés en ce sens que :

      lorsqu’un État membre a réintroduit des contrôles à ses frontières intérieures, il peut adopter, à l’égard d’un ressortissant d’un pays tiers qui se présente à un point de passage frontalier autorisé situé sur son territoire et où s’exercent de tels contrôles, une décision de refus d’entrée, en vertu d’une application mutatis mutandis de l’article 14 de ce règlement, pour autant que les normes et les procédures communes prévues par cette directive soient appliquées à ce ressortissant en vue de son éloignement.

      https://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?docid=277630&doclang=FR

  • 10.11.2023 : Na migrantskoj ruti : Reporteri Dnevnika Nove TV pronašli mrtvo tijelo pored Kupe
    On the migrant route : Dnevnik Nova TV reporters found a dead body next to Kupa

    Općina #Netretić inače je dijelom migrantske rute kojom strani državljani iz Hrvatske prelaze u Sloveniju, a reporteri Nove TV su tijekom izvještavanja uočili mrtvo tijelo

    U koritu rijeke Kupe u Netretiću kod Karlovca danas je pronađeno mrtvo tijelo. Tijelo su pronašli upravo reporteri Nove TV koji su odmah pozvali i policiju koja je stigla nakon sat vremena i potvrdila pronalazak muškog tijela.

    Kako prenosi medij, općina Netretić inače je dijelom migrantske rute kojom strani državljani iz Hrvatske prelaze u Sloveniju. Općina se nalazi uz granicu, rijeku Kupu, zbog čega brojni stradavaju pokušavajući otići prema zapadnoj Europi. MUP je potvrdio kako je ove godine pronašao pet mrtno stradalih migranata, dok je ta brojka prošle godine iznosila čak 24.

    – Tu ispod livade, dolje ispod kuće, sam ih par puta vidio na cesti, ali ne napadaju i nemamo problema. Znaju vam ići da donji slap i onda imaju putić prema Sloveniji - ispričao je mještanin Igor.

    google translate :

    La municipalité de Netretić fait partie de la route des migrants par laquelle les citoyens étrangers de Croatie traversent la Slovénie et les reporters de Nova TV ont repéré un cadavre pendant leur reportage.

    Un cadavre a été retrouvé aujourd’hui dans le lit de la rivière Kupa à Netretić, près de Karlovac. Le corps a été retrouvé par les journalistes de Nova TV qui ont immédiatement appelé la police, qui est arrivée une heure plus tard et a confirmé la découverte du corps d’un homme.

    Comme l’ont rapporté les médias, la municipalité de Netretić fait partie de la route migratoire par laquelle les citoyens étrangers de Croatie traversent la Slovénie. La municipalité est située à côté de la frontière, la rivière Kupa, c’est pourquoi de nombreuses personnes meurent en essayant de se rendre en Europe occidentale. Le ministère de l’Intérieur a confirmé avoir trouvé cinq migrants morts cette année, alors que l’année dernière, ce nombre s’élevait à 24.

    – Là-bas, sous le pré, sous la maison, je les ai vus plusieurs fois sur la route, mais ils n’attaquent pas et nous n’avons aucun problème. Ils savent comment se rendre à la cascade inférieure et ensuite ils ont un petit chemin vers la Slovénie - a déclaré l’habitant local Igor.

    https://www.vecernji.hr/vijesti/na-migrantskoj-ruti-reporteri-pronasli-mrtvo-tijelo-u-rijeci-kupi-kod-karlo

    #mourir_aux_frontières #frontières #morts_aux_frontières #Slovénie #Croatie #Kupa #Kolpa #frontière_sud-alpine #montagne #Alpes #Netretic

    –-

    ajouté à la métaliste sur les morts à la frontière entre la Croatie et la Slovénie :
    https://seenthis.net/messages/811660

  • L’#agriculture n’est pas une carte postale

    Dans les #Alpes_Maritimes, pour nos élus, l’agriculture n’a pour seule fonction que de servir de carte postale pour le #tourisme. Je suis devenu agriculteur à 25 ans. Et depuis, à part des bâtons dans les roues, je/nous n’avons jamais reçu aucune aide. Donc ce que je propose, c’est qu’on devienne tous intermittents du spectacle. Par #Cédric_Herrou.

    La question de l’agriculture dans la vallée de la Roya, et plus largement dans les Alpes-Maritimes, c’est une question qui comporte quelque chose de très surprenant : nous avons des politiques qui nous parlent de « #culture_identitaire ». Il s’agit du seul département, à ma connaissance, où l’on parle de « culture identitaire » à propos des #olives. Alors même que c’est un arbre du bassin méditerranéen, cultivé par des Marseillais, des Niçois, des Italiens, des Égyptiens… C’est une « #identité » de la Méditerranée dans son ensemble.

    C’est un détail, mais il est porteur de quelque chose : les Alpes-Maritimes, pour nos élus, l’agriculture n’a pour seule fonction que de servir de #carte_postale pour le tourisme.

    Nous l’avons vu lors de la #tempête_Alex, en octobre 2020 (1). J’étais alors agriculteur depuis 2006, donc depuis une quinzaine d’années. J’ai depuis cédé mon exploitation agricole à #Emmaüs-Roya, première #communauté_Emmaüs entièrement agricole. Cette exploitation faisait, auparavant, moyennement vivre une seule personne (moi) ; il nous a fallu à partir de là faire vivre quinze personnes, et dans des conditions matérielles beaucoup plus confortables que quand je vivais seul. Nous avons donc dû transformer ces 5 hectares en quelque chose de plus gros, de plus productif, -de plus professionnalisé.

    Nous voulions donc nous agrandir, et faire du #maraîchage sur des terrains où il était plus facile de le faire -donc, sur un terrain plat, ce qui est très rare ici.

    Ainsi, suite à la tempête, dans un contexte où ils voulaient relancer l’agriculture dans la vallée de la Roya -patin-couffin et blablabla-, il y a eu une réunion avec les associations, et nous avons eu rendez-vous avec Sébastien Olharan, maire de Breil-sur-Roya, avec la CARF (communauté d’agglomération de la Riviera française), et aussi, très important, avec la #SAFER (Sociétés d’aménagement foncier et d’établissement rural, supposément voué au soutien tout projet viable d’installation en milieu rural).

    Ils nous ont tous dit qu’ils adoraient ce que ce nous faisions. Que c’était super, que c’était génial. « Bien évidemment, nous préférons vous voir planter des tomates qu’héberger des noirs, mais en tous les cas, la partie agriculture, c’est très bien ! » Par contre, ils n’avaient pas de terrain à nous proposer. Rien. Car les terrains plats étaient déjà « réservés », qui pour un terrain de basket, qui pour un parking…

    J’étais donc bien saoulé. Et j’ai décidé de faire moi-même mes recherches, sur Le Bon Coin. Et je peux donc le dire : le Bon Coin est beaucoup plus efficace que la mairie de Breil, la CARF et la SAFER - dont c’est pourtant la fonction. Car sur ce site, je trouve un terrain qui est à vendre depuis des mois sur la commune de Saorge, non loin. Nous l’avons acheté, et nous y développons donc aujourd’hui une partie de nos activités.

    En temps normal, la SAFER surveille les ventes. Elle est supposée être LA référence pour savoir où des terrains potentiellement exploitables sont à acheter. Et là, nous avions un terrain en bord de route, avec de l’eau car à côté de la Roya, de l’eau potable également, l’accès à l’électricité, et un hectare de terrain plat. Ce qui, dans notre vallée, n’est vraiment pas rien. D’autant plus qu’une maison présente sur ce lieu a été rasée car trop proche de l’eau, ce qui en a fait du même coup des terres agricoles.

    La mairie, la #CARF et la SAFER étaient donc forcément au courant.

    La même chose s’est produite, 10 ans auparavant, avec un terrain situé à 100 mètres d’une zone que nous exploitons déjà, à Veil, chez mes parents. Il s’est vendu 2 fois plus cher que ce qu’avaient vu des amis à moi venu y jeter un œil : dans mes souvenirs, quelque chose comme 80 000 euros, au lieu des 40 000 annoncés. C’est la CARF qui l’avait acheté, et revendu à la mairie de Breil-sur-Roya, avec la promesse d’un projet agricole - qui n’a jamais eu lieu. Quand nous avons questionné la mairie sur ce point, car nous voulions récupérer ces terres, ils nous ont dit non, et prétexté vouloir y développer des activités... touristiques - dans un lieu sans eau potable, sans évacuation des eaux usées, et surtout qui est une zone agricole, donc non destinée à quoi que ce soit lié au tourisme. Et on en revient à ce que je disais au début. Ce même maire avait par ailleurs soutenu le voisin qui avait voulu (indûment, et la justice lui a donné tort) bloquer l’accès à mon terrain, rendant très complexe voire impossible nos activités agricoles.

    On pourrait penser que c’est le « militant » en faveur des droits des personnes en situation d’exil qui est attaqué, et pas le paysan. Mais j’ai commencé à être médiatisé sur ces sujets en 2016. Et je suis arrivé dans la vallée de la Roya en 2002. J’avais 23 ans.

    Je suis devenu agriculteur à 25 ans, et c’est rare de le devenir aussi jeune. Et à part des bâtons dans les roues (sans jeu de mot, NDLR), je, nous n’avons jamais reçu aucune aide.

    Au-delà des grands mots, agriculture, ici, cela semble donc faire chier tout le monde. Cela bloque 5 hectares, des terres qui, l’État le sait, ne deviendront jamais constructible. Sur les terrains limitrophes à l’exploitation, l’agriculteur sera prioritaire sur l’achat. Cela bloque le foncier, qui est la seule chose qui leur importe.

    On veut de l’agriculture, mais que comme carte postale.

    Donc ce que je propose, c’est qu’on sorte de la #mutuelle_sociale_agricole (#MSA), et qu’on devienne tous intermittents du spectacle.

    Un article paru dans le Mouais n°42 (octobre 2023), consacré à l’alimentation, nous le mettons en accès libre mais soutenez-nous, abonnez-vous ! https://www.helloasso.com/associations/association-pour-la-reconnaissance-des-medias-alternatifs-arma/boutiques/abonnement-a-mouais

    (1) Épisode méditerranéen extrêmement violent ayant ravagé en une nuit les vallées de la Tinée, de la Vésubie et de la Roya, occasionnant des morts et de nombreux dégâts matériels, NDLR.

    https://blogs.mediapart.fr/mouais-le-journal-dubitatif/blog/291023/l-agriculture-n-est-pas-une-carte-postale
    #Vallée_de_la_Roya #montagne #agriculture_de_montagne #paysannerie

    ping @isskein

  • Un mégaprojet de #Tony_Parker dans une #station_de_ski fait tourner la tête d’élus du #Vercors

    La mairie de #Villard-de-Lans s’apprête à céder un terrain à l’ancien international de basket pour une vaste #résidence_hôtelière quatre étoiles dans le massif isérois. Une #mobilisation citoyenne s’organise, qualifiée de « ski-bashing » par des élus locaux contrariés.

    « Mais le projet de Tony Parker, ce n’est pas le projet de Tony Parker. Il n’y est pour rien, lui ! Il ne met pas un centime sur les projets immobiliers. Vous croyez qu’il a les moyens de mettre 100 millions sur la table ? Il faut arrêter..., s’agace Guillaume Ruel, ex-élu de #Corrençon-en-Vercors (Isère) devenu partenaire d’une société de l’ancien basketteur. Grâce à Tony, on a réussi à attirer l’attention de gestionnaires et de promoteurs, mais aujourd’hui, rien n’est fait. »

    Rien n’est fait, et pourtant, le massif du Vercors retient son souffle. Jeudi soir, le maire de Villard-de-Lans, #Arnaud_Mathieu, doit proposer à son conseil municipal une #résolution pour autoriser la vente d’un immense #parking_public de 350 places à une société contrôlée par Tony Parker (la Société d’équipement de Villard-de-Lans et Corrençon-en-Vercors, #SEVLC) pour qu’il mette en œuvre un projet de résidence hôtelière quatre étoiles sur 12 100 mètres carrés, comprenant 132 suites-appartements, soit neuf cents lits touristiques, un « espace de bien-être de 800 mètres carrés » (avec un solarium et deux piscines), et une zone de commerce, selon la dernière version présentée à l’autorité environnementale en 2023. Le projet aurait été depuis réduit à cent suites-appartements, soit 550 lits, plus les lits d’appoint.

    Mobilisée depuis un an contre le projet, l’association #Vercors_Citoyens appelle à manifester devant la salle du conseil municipal de Villard pour dénoncer la cession du parking et le fait « qu’aucune communication » n’ait prévenu les habitant·es de « cette étape cruciale ». Il s’agit, pour l’association, de « demander (a minima) le report du vote après reprise de la concertation publique ». « C’est un #mégaprojet d’ampleur, explique Loïs Habert, président de Vercors Citoyens. Ça mérite une concertation. Si le terrain est vendu, ça devient un projet privé. Nous demandons d’abord que le projet soit présenté. Or le maire ne communique absolument pas. »

    En outre, la présentation par le maire de Villard-de-Lans des délibérations concernant les cessions mutuelles de terrains entre la ville et la SEVLC pourrait se heurter à une difficulté juridique. En effet, l’épouse du maire est cadre administrative et financière au sein de la SEVLC, un lien d’intérêt qui aurait pu – ou dû – conduire Arnaud Mathieu à se déporter. « Je n’ai pas l’intention de me déporter, explique-t-il à Mediapart. Je n’ai rien contre la transparence de la vie publique, et je ne suis pas soumis à la déclaration d’intérêts en tant que maire. On va laisser l’administration faire. Je ne vois rien d’anormal ni d’illégal. Mais si c’est le cas, je me mettrai en retrait. »
    Avis critique de l’Autorité environnementale

    Venu sur le plateau du Vercors peu avant sa retraite de joueur, l’ancien meneur des San Antonio Spurs (Texas) a pris le contrôle de la station de ski en 2019, en rachetant pour 9 millions d’euros les parts des fondateurs de la SEVLC, Daniel et Victor Huillier. Tony Parker a ainsi pris les clés d’un #domaine_skiable qui compte 125 kilomètres de pistes de ski alpin, 110 kilomètres de ski nordique, et 21 remontées mécaniques, mais aussi d’un terrain agricole devenu constructible en bordure de Villard-de-Lans, lui permettant déjà d’imaginer une opération immobilière d’envergure.

    Dans Le Parisien, il annonce alors qu’il « adore l’univers du ski », ou qu’il « apprécie aussi la raclette et la fondue ». Et s’il n’a « jamais skié de sa vie », il a « hâte de commencer ». Son train de vie, sa propriété à San Antonio au Texas, ou son yacht Infinity Nine s’affichent dans les magazines et rassurent probablement les élus locaux, peu nombreux à se questionner ouvertement. Tony est vu comme un futur ambassadeur de la neige, une tête de gondole des stations. Selon Le Dauphiné libéré, il serait « sur le point d’investir dans les stations des Gets et de Morzine en Haute-Savoie ». Une information non confirmée par le groupe.

    En octobre 2022, Tony Parker dévoile l’opération de Villard-de-Lans, « #Ananda_Ressort », lors d’une conférence de presse dans les locaux lyonnais de sa société. Il n’y a pas encore de maquette, seulement un dessin d’architecte qui positionne une barre d’immeubles, non plus sur le terrain agricole mais sur le parking « P1 » de la station de Villard, devant les « Balcons de Villard », un long bâtiment des années 1970. À la surprise générale, deux élus encadrent Tony Parker dans ses locaux : le maire de Villard-de-Lans, Arnaud Mathieu, et celui de Corrençon-en-Vercors, Thomas Guillet.

    Le scénario est précisé : Villard-de-Lans compte vendre son parking à Parker, et celui-ci vendra en retour sa parcelle agricole à la mairie. Une façon d’éviter qu’on artificialise davantage les terres, à condition de rendre à nouveau inconstructible la parcelle agricole. Les journalistes présents à la conférence de presse découvrent « un projet à 96 millions pour Tony Parker dans le Vercors ». Leurs articles laissent planer l’idée que le basketteur investit son propre argent. À tort.

    « Les gens disent “les 100 millions de Tony Parker”, mais ce ne sont pas les 100 millions de Tony Parker, précise à Mediapart Marie-Sophie Obama, une proche du basketteur, dirigeante du club professionnel #Lyon-ASVEL_Féminin, et d’#Infinity_Nine_Mountain (#INM), la société qui investit pour lui en #montagne. À INM, on est coordinateur de ce projet qui implique différentes parties prenantes : un futur gestionnaire qui exploitera la structure hôtelière, des investisseurs qui vont aménager, construire, revendre à une foncière, et une foncière qui louera à ce gestionnaire. Nous, on n’est aucune de ces parties, mais on essaye de fédérer ces acteurs-là. »

    Selon la dirigeante, le groupe de Tony Parker a pris en compte l’avis très critique rendu par l’Autorité environnementale en mai dernier. « On s’est réunis, avec les services techniques de la ville de Villard, de la communauté de communes, et les services de l’État pour revoir un peu la voilure, expose-t-elle. On a fait de nouvelles propositions communiquées à la commune. Quant à l’opposition au projet, nous, on l’entend, et ça a permis de réajuster. Mais ce ne sont pas les seuls acteurs qui s’expriment, même s’ils font parfois le plus de bruit. Il y a d’autres acteurs du territoire avec lesquels on a essayé de repenser tout ça. Je ne vais pas donner leurs noms parce qu’ils ne se sont pas exprimés publiquement. »

    Bien que gestionnaire de la station, le groupe de Tony Parker n’a pas franchi le pas de rencontrer la population. « On nous demande de communiquer sur des choses qui ne sont pas encore déterminées, se défend Marie-Sophie Obama. Ça laisse peut-être un vide, mais on est encore à l’étape de l’avant-projet. Les objections, on les entend. Mais on est un acteur privé. On n’est pas un acteur public ou politique. On fait une proposition de projet. Je n’ai pas de problème avec le fait que les gens ne soient pas d’accord. Le temps viendra où on précisera tout ça. Ce n’est pas le moment aujourd’hui. »
    L’invention du « ski-bashing »

    « Il y a un état de droit, argumente de son côté Arnaud Mathieu auprès de Mediapart. Le plan local d’urbanisme intercommunal (PLUI) a été adopté à l’unanimité. Il n’y a pas eu de recours. On a un investisseur, M. Parker, qui a été accueilli à bras ouverts sur notre territoire. Dans ce projet, il y avait cette résidence hôtelière, un projet de télécabine qui allait du village à la station, et 200 lits supplémentaires. Voilà ce qui a été vendu à M. Parker, voilà pourquoi il a acheté. »

    Élu aux municipales de 2020, le maire n’a fait que reprendre un dossier engagé par sa prédécesseure. Rapidement, après son élection, il affirme « partager la même vision » que les associés de Tony Parker, mais c’est lui qui le contraint de déplacer son projet sur l’emprise urbaine, pour éviter l’artificialisation. À l’entendre, la survie de la station de ski est en jeu.

    « La moyenne montagne est fragilisée par le réchauffement climatique, admet-il. Mais il y a un système de neige de culture qui fonctionne. Il y a des ressources en eau [des réserves ont été créées en altitude – ndlr]. L’objectif, c’est d’avoir une résidence hôtelière sur quatre saisons, pour réaliser une transition douce. Qu’est-ce qui devrait obliger les élus de montagne à porter le deuil précoce d’une activité qui fait vivre des centaines de personnes ? C’est ce que j’appelle du “ski-bashing”. »

    « Il y a un clivage sur la pratique de la montagne, rétorque Loïs Habert. Ceux qui ne vivent que du ski ne sont pas dans notre camp. On a du mal à se parler. Certains élus pensent qu’on a encore trente ans devant nous ! Aujourd’hui, on en est à plastifier des pistes pour que des gens glissent sur des bouées ! »

    Thomas Guillet, maire de Corrençon-en-Vercors, est lui aussi engagé contre le « ski-bashing ». « La neige, c’est chaotique chez nous, explique-t-il. Mais elle représente encore 70 à 80 % du chiffre d’affaires du plateau du Vercors. Moi, je ne suis pas pour le catastrophisme. S’il y a du soleil, on crie à la sécheresse, et s’il se met à pleuvoir, on crie aux inondations. On stigmatise. Les piscines consomment beaucoup plus d’eau que la neige de culture. »

    « La neige fait toujours partie du projet, abonde Marie-Sophie Obama. On ne découvre pas le réchauffement climatique et cet aléa. On a des études qui présentent des perspectives d’enneigement jusqu’à 2050. Elles disent que l’on va pouvoir continuer à skier de manière régulière au-delà de 1 500 mètres et qu’en dessous, il allait falloir repenser les choses. »
    Du business pour des élus

    Dans son avis, la mission de l’Autorité environnementale a recommandé au porteur de projet de « reprendre son bilan » sur la ressource en eau, afin de présenter sa dynamique d’évolution, « en prenant en compte les effets du changement climatique ». Elle a aussi pointé la faiblesse de son étude sur les travaux nécessaires à l’assainissement des eaux usées, et lui a demandé de préciser « les flux routiers actuels » et les futures modalités d’accès au site. Parmi les habitats naturels à préserver, on relève une zone humide à une centaine de mètres du projet, la présence d’espèces protégées (chevreuil ou renard roux, entre autres) à proximité du site.

    Enfin, la mission a recommandé d’élargir l’évaluation environnementale à « l’ensemble du projet de développement de la station », en incluant « les développements immobiliers » à Corrençon-en-Vercors.

    Située en contrebas, cette commune a elle aussi confié ses installations de remontées mécaniques à la SEVLC – en vertu d’une délégation de service public (DSP) – quelques années avant l’arrivée de Tony Parker.

    À Corrençon-en-Vercors, Parker est arrivé par un des sponsors du Lyon basket féminin (LDLC-ASVEL), Ruben Jolly, patron du promoteur Federaly, qui négocie alors l’achat d’un terrain constructible sur un autre site, le Clos de la Balme, sur lequel il a un projet de six cents lits sur 8 000 mètres carrés de plancher. Il s’associe donc à Parker dans la reprise de la station, et il débauche un jeune élu, adjoint au maire de Corrençon, Guillaume Ruel.

    « En tant qu’élu, j’ai aidé à trouver un promoteur et un gestionnaire pour le Clos de la Balme », admet Guillaume Ruel. « Un projet mairie », dit-il. Par la suite, il fait le lien entre Ruben Jolly et les frères Huillier, alors propriétaires majoritaires de la SEVLC.

    « Quand Tony Parker est arrivé sur le Vercors, c’est Guillaume qui lui a fait visiter le territoire, parce qu’il le connaît très bien, comme passionné de montagne et comme adjoint, raconte Thomas Guillet. Il l’avait emmené visiter le domaine. »

    Compte tenu du statut de la société, délégataire de service public, les élus de Corrençon-en-Vercors comme ceux de Villard sont appelés à donner un avis pour valider la cession des parts de la SEVLC à Tony Parker. Aussitôt le rachat signé, Guillaume Ruel est propulsé président de la SEVLC et démissionne de ses fonctions d’élu. Il prend aussi des parts dans l’entreprise. « Quand on a racheté les remontées mécaniques, je ne savais pas quelle place j’allais avoir », se justifie-t-il aujourd’hui. « Ça faisait aussi partie du deal d’avoir des acteurs locaux au conseil d’administration », commente le maire de Corrençon-en-Vercors. Ruel est présenté comme « l’enfant du pays » choisi pour diriger la station.

    Déjà gérant de deux magasins Sport 2000 sur Villard et Corrençon, Thomas Guillet a aussi racheté une entreprise gestionnaire de remontées mécaniques et de plusieurs golfs, le groupe Loisirs Solutions, en 2020, avec… l’adjointe aux finances du maire de Villard, Christelle Cuioc. Cette femme d’affaires avait candidaté à la reprise de la SEVLC avant son rachat par Tony Parker – sur une proposition inférieure à celle du basketteur.

    Le maire de Corrençon-en-Vercors a décidé de revendre ses parts et de quitter l’entreprise par crainte… d’un conflit d’intérêts. Ses partenaires au sein de Loisirs Solutions envisagent en effet désormais de candidater à la reprise de la délégation de service public des remontées mécaniques de Villard-de-Lans, qui doit être renouvelée en 2026. « Je n’étais pas favorable à ce positionnement. Et en tant que maire de la commune voisine, j’ai souhaité sortir pour éviter qu’il y ait un conflit d’intérêts. »

    L’adjointe au maire, Christelle Cuioc, reconnaît l’existence de ce projet de reprise, qui l’opposerait au groupe de Tony Parker. « C’est dans un coin de notre tête, confirme-t-elle à Mediapart. Mais d’ici là, il faudra que j’abandonne ma fonction à la mairie. On ne peut pas cumuler un poste à la mairie et une délégation de service public, c’est soit l’un, soit l’autre. »

    https://www.mediapart.fr/journal/france/261023/un-megaprojet-de-tony-parker-dans-une-station-de-ski-fait-tourner-la-tete-
    #ski #aménagement_du_territoire #Isère #résistance