• Raniero Panzieri, Mario Tronti, Gaspare De Caro, Toni Negri (Turin, 1962)

      Conférence de Potere operaio à l’Université de Bologne en 1970.

      Manifestation de Potere operaio à Milan en 1972.

      Negri lors de son procès après la rafle du 7 avril 1979

      #Toni_Negri
      https://fr.wikipedia.org/wiki/Toni_Negri

      Lénine au-delà de Lénine, Toni Negri (extrait de 33 Leçons sur Lénine), 1972-1973
      http://revueperiode.net/lenine-au-dela-de-lenine

      Domination et sabotage - Sur la méthode marxiste de transformation sociale, Antonio Negri (pdf), 1977
      https://entremonde.net/IMG/pdf/a6-03dominationsabotage-0-livre-high.pdf

      L’Anomalie sauvage d’Antonio Negri, Alexandre Matheron, 1983
      https://books.openedition.org/enseditions/29155?lang=fr

      Sur Mille Plateaux, Toni Negri, Revue Chimères n° 17, 1992
      https://www.persee.fr/doc/chime_0986-6035_1992_num_17_1_1846

      Les coordinations : une proposition de communisme, Toni Negri, 1994
      https://www.multitudes.net/les-coordinations-une-proposition

      Le contre-empire attaque, entretien avec Toni Negri, 2000
      https://vacarme.org/article28.html

      [#travail #multitude_de_singularités à 18mn] : Toni Negri, 2014
      https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/les-chemins-de-la-philosophie/actualite-philosophique-toni-negri-5100168

      à l’occasion de la parution du Hors-Série de Philosophie Magazine sur le thème, les philosophes et le #communisme.

      Socialisme = soviets + électricité, Toni Negri, 2017
      http://revueperiode.net/les-mots-dordre-de-lenine

      L’appropriation du capital fixe : une métaphore ?
      Antonio Negri, Multitudes 2018/1 (n° 70)
      https://www.cairn.info/revue-multitudes-2018-1-page-92.htm

      Domination et sabotage - Entretien avec Antonio Negri, 2019
      https://vacarme.org/article3253.html

    • Les nécros de Ration et de L’imMonde ont par convention une tonalité vaguement élogieuse mais elles sont parfaitement vides. Celle de l’Huma parait plus documentée mais elle est sous paywall...

      edit L’Huma c’est encore et toujours la vilaine bêtise stalinienne :

      Figure de prou de "l’opéraïsme" dans les années 1960, arrêté durant les années de plomb en Italie, penseur de la "multitude" dans les années 2000, le théoricien politique, spécialiste de la philosophie du droit et de Hegel, est mort à Paris à l’âge de 90 ans.
      Pierre Chaillan

      (...) Figure intellectuelle et politique, il a traversé tous les soubresauts de l’histoire de l’Italie moderne et restera une grande énigme au sein du mouvement communiste et ouvrier international . Né le 1er août 1933 dans l’Italie mussolinienne, d’un père communiste disparu à la suite de violences infligées par une brigade fasciste, Antonio Negri est d’abord militant de l’Action catholique avant d’adhérer en 1956 au Parti socialiste italien, qu’il quittera rapidement.

      Le théoricien, animateurs de “l’opéraïsme”

    • Un journaliste du Monde « Gauchologue et fafologue / Enseigne @sciencespo » diffuse sur X des extraits de l’abject "Camarade P38" du para-policier Fabrizio Calvi en prétendant que cette bouse « résume les critiques ».
      Mieux vaut se référer à EMPIRE ET SES PIÈGES - Toni Negri et la déconcertante trajectoire de l’opéraïsme italien, de Claudio Albertani https://infokiosques.net/spip.php?article541

    • #opéraïsme

      http://www.zones-subversives.com/l-op%C3%A9ra%C3%AFsme-dans-l-italie-des-ann%C3%A9es-1960

      Avant l’effervescence de l’Autonomie italienne, l’opéraïsme tente de renouveler la pensée marxiste pour réfléchir sur les luttes ouvrières. Ce mouvement politique et intellectuel se développe en Italie dans les années 1960. Il débouche vers une radicalisation du conflit social en 1968, et surtout en 1969 avec une grève ouvrière sauvage. Si le post-opéraïsme semble relativement connu en France, à travers la figure de Toni Negri et la revue Multitudes, l’opéraïsme historique demeure largement méconnu.

      Mario Tronti revient sur l’aventure de l’opéraïsme, à laquelle il a activement participé. Son livre articule exigence théorique et témoignage vivant. Il décrit ce mouvement comme une « expérience de pensée - d’un cercle de personnes liées entre elles indissolublement par un lien particulier d’amitié politique ». La conflictualité sociale et la radicalisation des luttes ouvrières doit alors permettre d’abattre le capitalisme.

    • IL SECOLO BREVE DI TONI NEGRI, Ago 17, 2023,
      di ROBERTO CICCARELLI.

      http://www.euronomade.info/?p=15660

      Toni Negri hai compiuto novant’anni. Come vivi oggi il tuo tempo?

      Mi ricordo Gilles Deleuze che soffriva di un malanno simile al mio. Allora non c’erano l’assistenza e la tecnologia di cui possiamo godere noi oggi. L’ultima volta che l’ho visto girava con un carrellino con le bombole di ossigeno. Era veramente dura. Lo è anche per me oggi. Penso che ogni giorno che passa a questa età sia un giorno di meno. Non hai la forza di farlo diventare un giorno magico. È come quando mangi un buon frutto e ti lascia in bocca un gusto meraviglioso. Questo frutto è la vita, probabilmente. È una delle sue grandi virtù.

      Novant’anni sono un secolo breve.

      Di secoli brevi ce ne possono essere diversi. C’è il classico periodo definito da Hobsbawm che va dal 1917 al 1989. C’è stato il secolo americano che però è stato molto più breve. È durato dagli accordi monetari e dalla definizione di una governance mondiale a Bretton Woods, agli attentati alle Torri Gemelle nel settembre 2001. Per quanto mi riguarda il mio lungo secolo è iniziato con la vittoria bolscevica, poco prima che nascessi, ed è continuato con le lotte operaie, e con tutti i conflitti politici e sociali ai quali ho partecipato.

      Questo secolo breve è terminato con una sconfitta colossale.

      È vero. Ma hanno pensato che fosse finita la storia e fosse iniziata l’epoca di una globalizzazione pacificata. Nulla di più falso, come vediamo ogni giorno da più di trent’anni. Siamo in un’età di transizione, ma in realtà lo siamo sempre stati. Anche se sottotraccia, ci troviamo in un nuovo tempo segnato da una ripresa globale delle lotte contro le quali c’è una risposta dura. Le lotte operaie hanno iniziato a intersecarsi sempre di più con quelle femministe, antirazziste, a difesa dei migranti e per la libertà di movimento, o ecologiste.

      Filosofo, arrivi giovanissimo in cattedra a Padova. Partecipi a Quaderni Rossi, la rivista dell’operaismo italiano. Fai inchiesta, fai un lavoro di base nelle fabbriche, a cominciare dal Petrolchimico di Marghera. Fai parte di Potere Operaio prima, di Autonomia Operaia poi. Vivi il lungo Sessantotto italiano, a cominciare dall’impetuoso Sessantanove operaio a Corso Traiano a Torino. Qual è stato il momento politico culminante di questa storia?

      Gli anni Settanta, quando il capitalismo ha anticipato con forza una strategia per il suo futuro. Attraverso la globalizzazione, ha precarizzato il lavoro industriale insieme all’intero processo di accumulazione del valore. In questa transizione, sono stati accesi nuovi poli produttivi: il lavoro intellettuale, quello affettivo, il lavoro sociale che costruisce la cooperazione. Alla base della nuova accumulazione del valore, ci sono ovviamente anche l’aria, l’acqua, il vivente e tutti i beni comuni che il capitale ha continuato a sfruttare per contrastare l’abbassamento del tasso di profitto che aveva conosciuto a partire dagli anni Sessanta.

      Perché, dalla metà degli anni Settanta, la strategia capitalista ha vinto?

      Perché è mancata una risposta di sinistra. Anzi, per un tempo lungo, c’è stata una totale ignoranza di questi processi. A partire dalla fine degli anni Settanta, c’è stata la soppressione di ogni potenza intellettuale o politica, puntuale o di movimento, che tentasse di mostrare l’importanza di questa trasformazione, e che puntasse alla riorganizzazione del movimento operaio attorno a nuove forme di socializzazione e di organizzazione politica e culturale. È stata una tragedia. Qui che appare la continuità del secolo breve nel tempo che stiamo vivendo ora. C’è stata una volontà della sinistra di bloccare il quadro politico su quello che possedeva.

      E che cosa possedeva quella sinistra?

      Un’immagine potente ma già allora inadeguata. Ha mitizzato la figura dell’operaio industriale senza comprendere che egli desiderava ben altro. Non voleva accomodarsi nella fabbrica di Agnelli, ma distruggere la sua organizzazione; voleva costruire automobili per offrirle agli altri senza schiavizzare nessuno. A Marghera non avrebbe voluto morire di cancro né distruggere il pianeta. In fondo è quello che ha scritto Marx nella Critica del programma di Gotha: contro l’emancipazione attraverso il lavoro mercificato della socialdemocrazia e per la liberazione della forza lavoro dal lavoro mercificato. Sono convinto che la direzione presa dall’Internazionale comunista – in maniera evidente e tragica con lo stalinismo, e poi in maniera sempre più contraddittoria e irruente -, abbia distrutto il desiderio che aveva mobilitato masse gigantesche. Per tutta la storia del movimento comunista è stata quella la battaglia.

      Cosa si scontrava su quel campo di battaglia?

      Da un lato, c’era l’idea della liberazione. In Italia è stata illuminata dalla resistenza contro il nazi-fascismo. L’idea di liberazione si è proiettata nella stessa Costituzione così come noi ragazzi la interpretammo allora. E in questa vicenda non sottovaluterei l’evoluzione sociale della Chiesa Cattolica che culminò con il Secondo Concilio Vaticano. Dall’altra parte, c’era il realismo ereditato dal partito comunista italiano dalla socialdemocrazia, quello degli Amendola e dei togliattiani di varia origine. Tutto è iniziato a precipitare negli anni Settanta, mentre invece c’era la possibilità di inventare una nuova forma di vita, un nuovo modo di essere comunisti.

      Continui a definirti un comunista. Cosa significa oggi?

      Quello che per me ha significato da giovane: conoscere un futuro nel quale avremmo conquistato il potere di essere liberi, di lavorare meno, di volerci bene. Eravamo convinti che concetti della borghesia quali libertà, uguaglianza e fraternità avrebbero potuto realizzarsi nelle parole d’ordine della cooperazione, della solidarietà, della democrazia radicale e dell’amore. Lo pensavamo e lo abbiamo agito, ed era quello che pensava la maggioranza che votava la sinistra e la faceva esistere. Ma il mondo era ed è insopportabile, ha un rapporto contraddittorio con le virtù essenziali del vivere insieme. Eppure queste virtù non si perdono, si acquisiscono con la pratica collettiva e sono accompagnate dalla trasformazione dell’idea di produttività che non significa produrre più merci in meno tempo, né fare guerre sempre più devastanti. Al contrario serve a dare da mangiare a tutti, modernizzare, rendere felici. Comunismo è una passione collettiva gioiosa, etica e politica che combatte contro la trinità della proprietà, dei confini e del capitale.

      L’arresto avvenuto il 7 aprile 1979, primo momento della repressione del movimento dell’autonomia operaia, è stato uno spartiacque. Per ragioni diverse, a mio avviso, lo è stato anche per la storia del «manifesto» grazie a una vibrante campagna garantista durata anni, un caso giornalistico unico condotto con i militanti dei movimenti, un gruppo di coraggiosi intellettuali, il partito radicale. Otto anni dopo, il 9 giugno 1987, quando fu demolito il castello di accuse cangianti, e infondate, Rossana Rossanda scrisse che fu una «tardiva, parziale riparazione di molto irreparabile». Cosa significa oggi per te tutto questo?

      È stato innanzitutto il segno di un’amicizia mai smentita. Rossana per noi è stata una persona di una generosità incredibile. Anche se, a un certo punto, si è fermata anche lei: non riusciva a imputare al Pci quello che il Pci era diventato.

      Che cosa era diventato?

      Un oppressore. Ha massacrato quelli che denunciavano il pasticcio in cui si era andato a ficcare. In quegli anni siamo stati in molti a dirglielo. Esisteva un’altra strada, che passava dall’ascolto della classe operaia, del movimento studentesco, delle donne, di tutte le nuove forme nelle quali le passioni sociali, politiche e democratiche si stavano organizzando. Noi abbiamo proposto un’alternativa in maniera onesta, pulita e di massa. Facevamo parte di un enorme movimento che investiva le grandi fabbriche, le scuole, le generazioni. La chiusura da parte del Pci ha determinato la nascita di estremizzazioni terroristiche: questo è fuori dubbio. Noi abbiamo pagato tutto e pesantemente. Solo io ho fatto complessivamente quattordici anni di esilio e undici e mezzo di prigione. Il Manifesto ha sempre difeso la nostra innocenza. Era completamente idiota che io o altri dell’Autonomia fossimo considerati i rapitori di Aldo Moro o gli uccisori di compagni. Tuttavia, nella campagna innocentista che è stata coraggiosa e importante è stato però lasciato sul fondo un aspetto sostanziale.

      Quale?
      Eravamo politicamente responsabili di un movimento molto più ampio contro il compromesso storico tra il Pci e la Dc. Contro di noi c’è stata una risposta poliziesca della destra, e questo si capisce. Quello che non si vuol capire è stata invece la copertura che il Pci ha dato a questa risposta. In fondo, avevano paura che cambiasse l’orizzonte politico di classe. Se non si comprende questo nodo storico, come ci si può lamentare dell’inesistenza di una sinistra oggi in Italia?

      Il sette aprile, e il cosiddetto «teorema Calogero», sono stati considerati un passo verso la conversione di una parte non piccola della sinistra al giustizialismo e alla delega politica alla magistratura. Come è stato possibile lasciarsi incastrare in una simile trappola?

      Quando il Pci sostituì la centralità della lotta morale a quella economica e politica, e lo fece attraverso giudici che gravitavano attorno alla sua area, ha finito il suo percorso. Questi davvero credevano di usare il giustizialismo per costruire il socialismo? Il giustizialismo è una delle cose più care alla borghesia. È un’illusione devastante e tragica che impedisce di vedere l’uso di classe del diritto, del carcere o della polizia contro i subalterni. In quegli anni cambiarono anche i giovani magistrati. Prima erano molto diversi. Li chiamavano «pretori di assalto». Ricordo i primi numeri della rivista Democrazia e Diritto ai quali ho lavorato anch’io. Mi riempivano di gioia perché parlavamo di giustizia di massa. Poi l’idea di giustizia è stata declinata molto diversamente, riportata ai concetti di legalità e di legittimità. E nella magistratura non c’è più stata una presa di parola politica, ma solo schieramenti tra correnti. Oggi, poi abbiamo una Costituzione ridotta a un pacchetto di norme che non corrispondono neanche più alla realtà del paese.

      In carcere avete continuato la battaglia politica. Nel 1983 scriveste un documento in carcere, pubblicato da Il Manifesto, intitolato «Do You remember revolution». Si parlava dell’originalità del 68 italiano, dei movimenti degli anni Settanta non riducibili agli «anni di piombo». Come hai vissuto quegli anni?

      Quel documento diceva cose importanti con qualche timidezza. Credo dica più o meno le cose che ho appena ricordato. Era un periodo duro. Noi eravamo dentro, dovevamo uscire in qualche maniera. Ti confesso che in quell’immane sofferenza per me era meglio studiare Spinoza che pensare all’assurda cupezza in cui eravamo stati rinchiusi. Ho scritto su Spinoza un grosso libro ed è stato una specie di atto eroico. Non potevo avere più di cinque libri in cella. E cambiavo carcere speciale in continuazione: Rebibbia, Palmi, Trani, Fossombrone, Rovigo. Ogni volta in una cella nuova con gente nuova. Aspettare giorni e ricominciare. L’unico libro che portavo con me era l’Etica di Spinoza. La fortuna è stata finire il mio testo prima della rivolta a Trani nel 1981 quando i corpi speciali hanno distrutto tutto. Sono felice che abbia prodotto uno scossone nella storia della filosofia.

      Nel 1983 sei stato eletto in parlamento e uscisti per qualche mese dal carcere. Cosa pensi del momento in cui votarono per farti tornare in carcere e tu decidesti di andare in esilio in Francia?

      Ne soffro ancora molto. Se devo dare un giudizio storico e distaccato penso di avere fatto bene ad andarmene. In Francia sono stato utile per stabilire rapporti tra generazioni e ho studiato. Ho avuto la possibilità di lavorare con Félix Guattari e sono riuscito a inserirmi nel dibattito del tempo. Mi ha aiutato moltissimo a comprendere la vita dei Sans Papiers. Lo sono stato anch’io, ho insegnato pur non avendo una carta di identità. Mi hanno aiutato i compagni dell’università di Parigi 8. Ma per altri versi mi dico che ho sbagliato. Mi scuote profondamente il fatto di avere lasciato i compagni in carcere, quelli con cui ho vissuto i migliori anni della mia vita e le rivolte in quattro anni di carcerazione preventiva. Averli lasciati mi fa ancora male. Quella galera ha devastato la vita di compagni carissimi, e spesso delle loro famiglie. Ho novant’anni e mi sono salvato. Non mi rende più sereno di fronte a quel dramma.

      Anche Rossanda ti criticò…

      Sì, mi ha chiesto di comportarmi come Socrate. Io le risposi che rischiavo proprio di finire come il filosofo. Per i rapporti che c’erano in galera avrei potuto morire. Pannella mi ha materialmente portato fuori dalla galera e poi mi ha rovesciato tutte le colpe del mondo perché non volevo tornarci. Sono stati in molti a imbrogliarmi. Rossana mi aveva messo in guardia già allora, e forse aveva ragione.

      C’è stata un’altra volta che lo ha fatto?

      Sì, quando mi disse di non rientrare da Parigi in Italia nel 1997 dopo 14 anni di esilio. La vidi l’ultima volta prima di partire in un café dalle parti del Museo di Cluny, il museo nazionale del Medioevo. Mi disse che avrebbe voluto legami con una catena per impedirmi di prendere quell’aereo.

      Perché allora hai deciso di tornare in Italia?

      Ero convinto di fare una battaglia sull’amnistia per tutti i compagni degli anni Settanta. Allora c’era la Bicamerale, sembrava possibile. Mi sono fatto sei anni di galera fino al 2003. Forse Rossana aveva ragione.

      Che ricordo oggi hai di lei?

      Ricordo l’ultima volta che l’ho vista a Parigi. Una dolcissima amica, che si preoccupava dei miei viaggi in Cina, temeva che mi facessi male. È stata una persona meravigliosa, allora e sempre.

      Anna Negri, tua figlia, ha scritto «Con un piede impigliato nella storia» (DeriveApprodi) che racconta questa storia dal punto di vista dei vostri affetti, e di un’altra generazione.

      Ho tre figli splendidi Anna, Francesco e Nina che hanno sofferto in maniera indicibile quello che è successo. Ho guardato la serie di Bellocchio su Moro e continuo ad essere stupefatto di essere stato accusato di quella incredibile tragedia. Penso ai miei due primi figli, che andavano a scuola. Qualcuno li vedeva come i figli di un mostro. Questi ragazzi, in una maniera o nell’altra, hanno sopportato eventi enormi. Sono andati via dall’Italia e ci sono tornati, hanno attraversato quel lungo inverno in primissima persona. Il minimo che possono avere è una certa collera nei confronti dei genitori che li hanno messi in questa situazione. E io ho una certa responsabilità in questa storia. Siamo tornati ad essere amici. Questo per me è un regalo di una immensa bellezza.

      Alla fine degli anni Novanta, in coincidenza con i nuovi movimenti globali, e poi contro la guerra, hai acquisito una forte posizione di riconoscibilità insieme a Michael Hardt a cominciare da «Impero». Come definiresti oggi, in un momento di ritorno allo specialismo e di idee reazionarie e elitarie, il rapporto tra filosofia e militanza?

      È difficile per me rispondere a questa domanda. Quando mi dicono che ho fatto un’opera, io rispondo: Lirica? Ma ti rendi conto? Mi scappa da ridere. Perché sono più un militante che un filosofo. Farà ridere qualcuno, ma io mi ci vedo, come Papageno…

      Non c’è dubbio però che tu abbia scritto molti libri…

      Ho avuto la fortuna di trovarmi a metà strada tra la filosofia e la militanza. Nei migliori periodi della mia vita sono passato in permanenza dall’una all’altra. Ciò mi ha permesso di coltivare un rapporto critico con la teoria capitalista del potere. Facendo perno su Marx, sono andato da Hobbes a Habermas, passando da Kant, Rousseau e Hegel. Gente abbastanza seria da dovere essere combattuta. Di contro la linea Machiavelli-Spinoza-Marx è stata un’alternativa vera. Ribadisco: la storia della filosofia per me non è una specie di testo sacro che ha impastato tutto il sapere occidentale, da Platone ad Heidegger, con la civiltà borghese e ha tramandato con ciò concetti funzionali al potere. La filosofia fa parte della nostra cultura, ma va usata per quello che serve, cioè a trasformare il mondo e farlo diventare più giusto. Deleuze parlava di Spinoza e riprendeva l’iconografia che lo rappresentava nei panni di Masaniello. Vorrei che fosse vero per me. Anche adesso che ho novant’anni continuo ad avere questo rapporto con la filosofia. Vivere la militanza è meno facile, eppure riesco a scrivere e ad ascoltare, in una situazione di esule.

      Esule, ancora, oggi?

      Un po’, sì. È un esilio diverso però. Dipende dal fatto che i due mondi in cui vivo, l’Italia e la Francia, hanno dinamiche di movimento molto diverse. In Francia, l’operaismo non ha avuto un seguito largo, anche se oggi viene riscoperto. La sinistra di movimento in Francia è sempre stata guidata dal trotzkismo o dall’anarchismo. Negli anni Novanta, con la rivista Futur antérieur, con l’amico e compagno Jean-Marie Vincent, avevamo trovato una mediazione tra gauchisme e operaismo: ha funzionato per una decina d’anni. Ma lo abbiamo fatto con molta prudenza. il giudizio sulla politica francese lo lasciavamo ai compagni francesi. L’unico editoriale importante scritto dagli italiani sulla rivista è stato quello sul grande sciopero dei ferrovieri del ’95, che assomigliava tanto alle lotte italiane.

      Perché l’operaismo conosce oggi una risonanza a livello globale?

      Perché risponde all’esigenza di una resistenza e di una ripresa delle lotte, come in altre culture critiche con le quali dialoga: il femminismo, l’ecologia politica, la critica postcoloniale ad esempio. E poi perché non è la costola di niente e di nessuno. Non lo è stato mai, e neanche è stato un capitolo della storia del Pci, come qualcuno s’illude. È invece un’idea precisa della lotta di classe e una critica della sovranità che coagula il potere attorno al polo padronale, proprietario e capitalista. Ma il potere è sempre scisso, ed è sempre aperto, anche quando non sembra esserci alternativa. Tutta la teoria del potere come estensione del dominio e dell’autorità fatta dalla Scuola di Francoforte e dalle sue recenti evoluzioni è falsa, anche se purtroppo rimane egemone. L’operaismo fa saltare questa lettura brutale. È uno stile di lavoro e di pensiero. Riprende la storia dal basso fatta da grandi masse che si muovono, cerca la singolarità in una dialettica aperta e produttiva.

      I tuoi costanti riferimenti a Francesco d’Assisi mi hanno sempre colpito. Da dove nasce questo interesse per il santo e perché lo hai preso ad esempio della tua gioia di essere comunista?

      Da quando ero giovane mi hanno deriso perché usavo la parola amore. Mi prendevano per un poeta o per un illuso. Di contro, ho sempre pensato che l’amore era una passione fondamentale che tiene in piedi il genere umano. Può diventare un’arma per vivere. Vengo da una famiglia che è stata miserabile durante la guerra e mi ha insegnato un affetto che mi fa vivere ancora oggi. Francesco è in fondo un borghese che vive in un periodo in cui coglie la possibilità di trasformare la borghesia stessa, e di fare un mondo in cui la gente si ama e ama il vivente. Il richiamo a lui, per me, è come il richiamo ai Ciompi di Machiavelli. Francesco è l’amore contro la proprietà: esattamente quello che avremmo potuto fare negli anni Settanta, rovesciando quello sviluppo e creando un nuovo modo di produrre. Non è mai stato ripreso a sufficienza Francesco, né è stato presa in debito conto l’importanza che ha avuto il francescanesimo nella storia italiana. Lo cito perché voglio che parole come amore e gioia entrino nel linguaggio politico.

      *

      Dall’infanzia negli anni della guerra all’apprendistato filosofico alla militanza comunista, dal ’68 alla strage di piazza Fontana, da Potere Operaio all’autonomia e al ’77, l’arresto, l’esilio. E di nuovo la galera per tornare libero. Toni Negri lo ha raccontato con Girolamo De Michele in tre volumi autobiografici Storia di un comunista, Galera e esilio, Da Genova a Domani (Ponte alle Grazie). Con Mi chael Hardt, professore di letteratura alla Duke University negli Stati Uniti, ha scritto, tra l’altro, opere discusse e di larga diffusione: Impero, Moltitudine, Comune (Rizzoli) e Assemblea (Ponte alle Grazie). Per l’editore anglo-americano Polity Books ha pubblicato, tra l’altro, sei volumi di scritti tra i quali The Common, Marx in Movement, Marx and Foucault.

      In Italia DeriveApprodi ha ripubblicato il classico «Spinoza». Per la stessa casa editrice: I libri del rogo, Pipe Line, Arte e multitudo (a cura di N. Martino), Settanta (con Raffaella Battaglini). Con Mimesis la nuova edizione di Lenta ginestra. Saggio sull’ontologia di Giacomo Leopardi. Con Ombre Corte, tra l’altro, Dall’operaio massa all’operaio sociale (a cura di P. Pozzi-R. Tomassini), Dentro/contro il diritto sovrano (con G. Allegri), Il lavoro nella costituzione (con A. Zanini).

      A partire dal prossimo ottobre Manifestolibri ripubblicherà i titoli in catalogo con una nuova prefazione: L’inchiesta metropolitana e altri scritti sociologici, a cura di Alberto De Nicola e Paolo Do; Marx oltre Marx (prefazione di Sandro Mezzadra); Trentatré Lezioni su Lenin (Giso Amendola); Potere Costituente (Tania Rispoli); Descartes politico (Marco Assennato); Kairos, Alma Venus, moltitudo (Judith Revel); Il lavoro di Dioniso, con Michael Hardt (Francesco Raparelli)

      #autonomie #prison #exil

    • Le philosophe italien Toni Negri est mort

      Inspirant les luttes politiques en Italie dans les années 1960 et 1970, son travail a également influencé le mouvement altermondialiste du début du XXIe siècle.


      Toni Negri, à Rome (Italie), en septembre 2010. STEFANO MONTESI - CORBIS / VIA GETTY IMAGES

      Il était né dans l’Italie fasciste. Il disparaît alors que l’extrême droite gouverne à nouveau son pays. Le philosophe Toni Negri, acteur et penseur majeur de plus d’un demi-siècle de luttes d’extrême gauche, est mort dans la nuit du 15 au 16 décembre à Paris, à l’âge de 90 ans, a annoncé son épouse, la philosophe française Judith Revel.

      « C’était un mauvais maître », a tout de suite réagi, selon le quotidien La Repubblica, le ministre de la culture italien, Gennaro Sangiuliano. « Tu resteras à jamais dans mon cœur et dans mon esprit, cher Maître, Père, Prophète », a écrit quant à lui, sur Facebook, l’activiste Luca Casarini, l’un des leaders du mouvement altermondialiste italien. Peut-être aurait-il vu dans la violence de ce contraste un hommage à la puissance de ses engagements, dont la radicalité ne s’est jamais affadie.

      Né le 1er août 1933 à Padoue, Antonio Negri, que tout le monde appelle Toni, et qui signera ainsi ses livres, commence très tôt une brillante carrière universitaire – il enseigne à l’université de Padoue dès ses 25 ans –, tout en voyageant, en particulier au Maghreb et au Moyen-Orient. C’est en partageant la vie d’un kibboutz israélien que le jeune homme, d’abord engagé au parti socialiste, dira être devenu communiste. Encore fallait-il savoir ce que ce mot pouvait recouvrir.

      Cette recherche d’une nouvelle formulation d’un idéal ancien, qu’il s’agissait de replacer au centre des mutations du monde, parcourt son œuvre philosophique, de Marx au-delà de Marx (Bourgois, 1979) à l’un de ses derniers livres, Inventer le commun des hommes (Bayard, 2010). Elle devient aussi l’axe de son engagement militant, qui va bientôt se confondre avec sa vie.

      Marxismes hétérodoxes

      L’Italie est alors, justement, le laboratoire des marxismes dits hétérodoxes, en rupture de ban avec le parti communiste, en particulier l’« opéraïsme » (de l’italien « operaio », « ouvrier »). Toni Negri le rejoint à la fin des années 1960, et s’en fait l’un des penseurs et activistes les plus emblématiques, toujours présent sur le terrain, dans les manifestations et surtout dans les usines, auprès des ouvriers. « Il s’agissait d’impliquer les ouvriers dans la construction du discours théorique sur l’exploitation », expliquera-t-il dans un entretien, en 2018, résumant la doctrine opéraïste, particulièrement celle des mouvements auxquels il appartient, Potere Operaio, puis Autonomia Operaia.

      Des armes circulent. Le terrorisme d’extrême droite et d’extrême gauche ravage le pays. Bien qu’il s’oppose à la violence contre les personnes, le philosophe est arrêté en 1979, soupçonné d’avoir participé à l’assassinat de l’homme politique Aldo Moro, accusation dont il est rapidement blanchi. Mais d’autres pèsent sur lui – « association subversive », et complicité « morale » dans un cambriolage – et il est condamné à douze ans de prison.
      Elu député du Parti radical en 1983, alors qu’il est encore prisonnier, il est libéré au titre de son immunité parlementaire. Quand celle-ci est levée [par un vote que le parti Radical a permis de rendre majoritaire, ndc], il s’exile en France. Rentré en Italie en 1997, il est incarcéré pendant deux ans, avant de bénéficier d’une mesure de semi-liberté. Il est définitivement libéré en 2003.

      Occupy Wall Street et les Indignés

      Il enseigne, durant son exil français, à l’Ecole normale supérieure, à l’université Paris-VIII ou encore au Collège international de philosophie. Ce sont aussi des années d’intense production intellectuelle, et, s’il porte témoignage en publiant son journal de l’année 1983 (Italie rouge et noire, Hachette, 1985), il développe surtout une pensée philosophique exigeante, novatrice, au croisement de l’ontologie et de la pensée politique. On peut citer, entre beaucoup d’autres, Les Nouveaux Espaces de liberté, écrit avec Félix Guattari (Dominique Bedou, 1985), Spinoza subversif. Variations (in)actuelles (Kimé, 1994), Le Pouvoir constituant. Essai sur les alternatives de la modernité (PUF, 1997) ou Kairos, Alma Venus, multitude. Neuf leçons en forme d’exercices (Calmann-Lévy, 2000).
      Ce sont cependant les livres qu’il coécrit avec l’Américain Michael Hardt qui le font connaître dans le monde entier, et d’abord Empire (Exils, 2000), où les deux philosophes s’efforcent de poser les fondements d’une nouvelle pensée de l’émancipation dans le contexte créé par la mondialisation. Celle-ci, « transition capitale dans l’histoire contemporaine », fait émerger selon les auteurs un capitalisme « supranational, mondial, total », sans autres appartenances que celles issues des rapports de domination économique. Cette somme, comme la suivante, Multitude. Guerre et démocratie à l’époque de l’Empire (La Découverte, 2004), sera une des principales sources d’inspiration du mouvement altermondialiste, d’Occupy Wall Street au mouvement des Indignés, en Espagne.

      C’est ainsi que Toni Negri, de l’ébullition italienne qui a marqué sa jeunesse et décidé de sa vie aux embrasements et aux espoirs du début du XXIe siècle, a traversé son temps : en ne lâchant jamais le fil d’une action qui était, pour lui, une forme de pensée, et d’une pensée qui tentait d’agir au cœur même du monde.
      Florent Georgesco
      https://www.lemonde.fr/disparitions/article/2023/12/16/le-philosophe-italien-toni-negri-est-mort_6206182_3382.html

      (article corrigé trois fois en 9 heures, un bel effort ! il faut continuer !)

    • Pouvoir ouvrier, l’équivalent italien de la Gauche prolétarienne

      Chapeau le Diplo, voilà qui est informé !
      En 1998, le journal avait titré sur un mode médiatico-policier (« Ce que furent les “années de plomb” en Italie »). La réédition dans un Manière de voir de 2021 (long purgatoire) permis un choix plus digne qui annonçait correctement cet article fort utile : Entre « compromis historique » et terrorisme. Retour sur l’Italie des années 1970.
      Diplo encore, l’iconographie choisit d’ouvrir l’oeil... sur le rétroviseur. J’identifie pas le leader PCI (ou CGIL) qui est à la tribune mais c’est évidement le Mouvement ouvrier institué et son rôle (historiquement compromis) d’encadrement de la classe ouvrière qui est mis en avant.

      #média #gauche #Italie #Histoire #Potere_operaio #PCI #lutte_armée #compromis_historique #terrorisme

      edit

      [Rome] Luciano Lama, gli scontri alla Sapienza e il movimento del ’77
      https://www.corriere.it/foto-gallery/cultura/17_febbraio_16/scontri-sapienza-lama-foto-6ad864d0-f428-11e6-a5e5-e33402030d6b.shtml

      «Il segretario della Cgil Luciano Lama si è salvato a stento dall’assalto degli autonomi, mentre tentava di parlare agli studenti che da parecchi giorni occupano la città universitaria. Il camion, trasformato in palco, dal quale il sindacalista ha preso la parola, è stato letteralmente sfasciato e l’autista è uscito dagli incidenti con la testa spaccata e varie ferite». E’ la cronaca degli scontri alla Sapienza riportata da Corriere il 18 febbraio del 1977, un giorno dopo la “cacciata” del leader della CGIL Luciano Lama dall’ateneo dove stava tenendo un comizio. Una giornata di violenza che diventerà il simbolo della rottura tra la sinistra istituzionale, rappresentata dal Pci e dal sindacato, e la sinistra dei movimenti studenteschi. Nella foto il camion utilizzato come palco da Luciano Lama preso d’assalto dai contestatori alla Sapienza (Ansa)

    • ENTRE ENGAGEMENT RÉVOLUTIONNAIRE ET PHILOSOPHIE
      Toni Negri (1933-2023), histoire d’un communiste
      https://www.revolutionpermanente.fr/Toni-Negri-1933-2023-histoire-d-un-communiste

      Sans doute est-il compliqué de s’imaginer, pour les plus jeunes, ce qu’a pu représenter Toni Negri pour différentes générations de militant.es. Ce qu’il a pu symboliser, des deux côtés des Alpes et au-delà, à différents moments de l’histoire turbulente du dernier tiers du XXème siècle, marqué par la dernière poussée révolutionnaire contemporaine – ce « long mois de mai » qui aura duré plus de dix ans, en Italie – suivie d’un reflux face auquel, loin de déposer les armes, Negri a choisi de résister en tentant de penser un arsenal conceptuel correspondant aux défis posés par le capitalisme contemporain. Tout en restant, jusqu’au bout, communiste. C’est ainsi qu’il se définissait.

    • À Toni Negri, camarade et militant infatigable
      https://blogs.mediapart.fr/les-invites-de-mediapart/blog/181223/toni-negri-camarade-et-militant-infatigable

      Toni Negri nous a quittés. Pour certains d’entre nous, c’était un ami cher mais pour nous tous, il était le camarade qui s’était engagé dans le grand cycle des luttes politiques des années soixante et dans les mouvements révolutionnaires des années soixante-dix en Italie. Il fut l’un des fondateurs de l’opéraïsme et le penseur qui a donné une cohérence théorique aux luttes ouvrières et prolétariennes dans l’Occident capitaliste et aux transformations du Capital qui en ont résulté. C’est Toni qui a décrit la multitude comme une forme de subjectivité politique qui reflète la complexité et la diversité des nouvelles formes de travail et de résistance apparues dans la société post-industrielle. Sans la contribution théorique de Toni et de quelques autres théoriciens marxistes, aucune pratique n’aurait été adéquate pour le conflit de classes.
      Un Maître, ni bon ni mauvais : c’était notre tâche et notre privilège d’interpréter ou de réfuter ses analyses. C’était avant tout notre tâche, et nous l’avons assumée, de mettre en pratique la lutte dans notre sphère sociale, notre action dans le contexte politique de ces années-là. Nous n’étions ni ses disciples ni ses partisans et Toni n’aurait jamais voulu que nous le soyons. Nous étions des sujets politiques libres, qui décidaient de leur engagement politique, qui choisissaient leur voie militante et qui utilisaient également les outils critiques et théoriques fournis par Toni dans leur parcours.

    • Toni Negri, l’au-delà de Marx à l’épreuve de la politique, Yann Moulier Boutang
      https://www.liberation.fr/idees-et-debats/tribunes/toni-negri-lau-dela-de-marx-a-lepreuve-de-la-politique-20231217_Z5QALRLO7

      Il n’est guère de concepts hérités du marxisme qu’il n’ait renouvelés de fond en comble. Contentons-nous ici de quelques notions clés. La clé de l’évolution du capitalisme, ne se lit correctement que dans celle de la composition du travail productif structuré dans la classe ouvrière et son mouvement, puis dans les diverses formes de salariat. Le Marx le plus intéressant pour nous est celui des Grundrisse (cette esquisse du Capital). C’est le refus du travail dans les usines, qui pousse sans cesse le capitalisme, par l’introduction du progrès technique, puis par la mondialisation, à contourner la « forteresse ouvrière ». Composition de classe, décomposition, recomposition permettent de déterminer le sens des luttes sociales. Negri ajoute à ce fond commun à tous les operaïstes deux innovations : la méthode de la réalisation de la tendance, qui suppose que l’évolution à peine perceptible est déjà pleinement déployée, pour mieux saisir à l’avance les moments et les points où la faire bifurquer. Deuxième innovation : après l’ouvrier qualifié communiste, et l’ouvrier-masse (l’OS du taylorisme), le capitalisme des années 1975-1990 (celui de la délocalisation à l’échelle mondiale de la chaîne de la valeur) produit et affronte l’ouvrier-social.

      C’est sur ce passage obligé que l’idée révolutionnaire se renouvelle. L’enquête ouvrière doit se déplacer sur ce terrain de la production sociale. La question de l’organisation, de la dispersion et de l’éclatement remplace la figure de la classe ouvrière et de ses allié.e.s. L’ouvrier social des années 1975 devient la multitude. Cela paraît un diagramme abstrait. Pourtant les formes de lutte comme les objectifs retenus, les collectifs des travailleuses du soin, de chômeurs ou d’intérimaires, les grèves des Ubereat témoignent de l’actualité de cette perspective. Mais aussi de ses limites, rencontrées au moment de s’incarner politiquement. (1)

      https://justpaste.it/3t9h9

      edit « optimisme de la raison, pessimisme de la volonté », T.N.
      Ration indique des notes qui ne sont pas publiées...

      Balibar offre une toute autre lecture des apports de T.N. que celle du très recentré YMB
      https://seenthis.net/messages/1032920

      #marxisme #mouvements_sociaux #théorie #compostion_de_classe #refus_du_travail #luttes_sociales #analyse_de_la tendance #ouvrier_masse #ouvrier_social #enquête_ouvrière #production_sociale #multitude #puissance #pouvoir

    • Décider en Essaim, Toni Negri , 2004
      https://www.youtube.com/watch?app=desktop&v=pqBZJD5oFJY

      Toni Negri : pour la multitude, Michael Löwy
      https://www.en-attendant-nadeau.fr/2023/12/18/toni-negri

      Avec la disparition d’Antonio Negri – Toni pour les amis – la cause communiste perd un grand penseur et un combattant infatigable. Persécuté pour ses idées révolutionnaires, incarcéré en Italie pendant de longues années, Toni est devenu célèbre grâce à ses ouvrages qui se proposent, par une approche philosophique inspirée de #Spinoza et de #Marx, de contribuer à l’émancipation de la multitude

      .

    • Un congedo silenzioso, Paolo Virno
      https://ilmanifesto.it/un-congedo-silenzioso


      Toni Negri - Tano D’Amico /Archivio Manifesto

      Due anni fa, credo, telefona Toni. Sarebbe passato per Roma, mi chiede di vederci. Un’ora insieme, con Judith, in una casa vuota nei pressi di Campo de’ Fiori (un covo abbandonato, avrebbe pensato una canaglia dell’antico Pci). Non parliamo di niente o quasi, soltanto frasi che offrono un pretesto per tacere di nuovo, senza disagio.

      Ebbe luogo, in quella casa romana, un congedo puro e semplice, non dissimulato da nenie cerimoniose. Dopo anni di insulti pantagruelici e di fervorose congratulazioni per ogni tentativo di trovare la porta stretta attraverso cui potesse irrompere la lotta contro il lavoro salariato nell’epoca di un capitalismo finalmente maturo, un po’ di silenzio sbigottito non guastava. Anzi, affratellava.

      Ricordo Toni, ospite della cella 7 del reparto di massima sicurezza del carcere di Rebibbia, che piange senza ritegno perché le guardie stanno portando via in piena notte, con un «trasferimento a strappo», i suoi compagni di degnissima sventura. E lo ricordo ironico e spinoziano nel cortile del penitenziario di Palmi, durante la requisitoria cui lo sottopose un capo brigatista da operetta, che minacciava di farlo accoppare da futuri «collaboratori di giustizia» allora ancora bellicosi e intransigenti.

      Toni era un carcerato goffo, ingenuo, ignaro dei trucchi (e del cinismo) che il ruolo richiede. Fu calunniato e detestato come pochi altri nel Novecento italiano. Calunniato e detestato, in quanto marxista e comunista, dalla sinistra tutta, da riformatori e progressisti di ogni sottospecie.

      Eletto in parlamento nel 1983, chiese ai suoi colleghi deputati, in un discorso toccante, di autorizzare la prosecuzione del processo contro di lui: non voleva sottrarsi, ma confutare le accuse che gli erano state mosse dai giudici berlingueriani. Chiese anche, però, di continuare il processo a piede libero, giacché iniqua e scandalosa era diventata la carcerazione preventiva con le leggi speciali adottate negli anni precedenti.

      Inutile dire che il parlamento, aizzato dalla sinistra riformatrice, votò per il ritorno in carcere dell’imputato Negri. C’è ancora qualcuno che ha voglia di rifondare quella sinistra?

      Toni non ha mai avuto paura di strafare. Né quando intraprese un corpo a corpo con la filosofia materialista, includendo in essa più cose di quelle che sembrano stare tra cielo e terra, dal condizionale controfattuale («se tu volessi fare questo, allora le cose andrebbero altrimenti») alla segreta alleanza tra gioia e malinconia. Né quando (a metà degli anni Settanta) ritenne che l’area dell’autonomia dovesse sbrigarsi a organizzare il lavoro postfordista, imperniato sul sapere e il linguaggio, caparbiamente intermittente e flessibile.

      Il mio amico matto che voleva cambiare il mondo
      Toni non è mai stato oculato né morigerato. È stato spesso stonato, questo sì: come capita a chi accelera all’impazzata il ritmo della canzone che ha intonato, ibridandolo per giunta con il ritmo di molte altre canzoni appena orecchiate. Il suo luogo abituale sembrava a molti, anche ai più vicini, fuori luogo; per lui, il «momento giusto» (il kairòs degli antichi greci), se non aveva qualcosa di imprevedibile e di sorprendente, non era mai davvero giusto.

      Non si creda, però, che Negri fosse un bohèmien delle idee, un improvvisatore di azioni e pensieri. Rigore e metodo campeggiano nelle sue opere e nei suoi giorni. Ma in questione è il rigore con cui va soppesata l’eccezione; in questione è il metodo che si addice a tutto quel che è ma potrebbe non essere, e viceversa, a tutto quello che non è ma potrebbe essere.

      Insopportabile Toni, amico caro, non ho condiviso granché del tuo cammino. Ma non riesco a concepire l’epoca nostra, la sua ontologia o essenza direbbe Foucault, senza quel cammino, senza le deviazioni e le retromarce che l’hanno scandito. Ora un po’ di silenzio benefico, esente da qualsiasi imbarazzo, come in quella casa romana in cui andò in scena un sobrio congedo.

  • #FADA collective

    FADA is a Collective founded in 2020 by a group of Italian freelance reporters working across media and borders.

    We REPORT - We are an independent newsroom producing multimedia, deeply reported public interest stories. We partner with international media to publish our stories.

    We CONNECT - We train young journalists, we promote collaboration and we build a community for the next generation of media makers.

    We IMPACT - We engage with local communities, civil society and policy makers to open up spaces for dialogue around civic participation and journalism, beyond the traditional media, with the aim to trigger change.

    We dig into the climate crisis, border policies, food systems, social movements and the lack of accountability by State and private actors.

    https://www.fadacollective.com
    #journalisme #enquêtes #journalisme_d'enquête #frontières #migrations #climat #crise_climatique #alimentation #système_alimentaire #mouvements_sociaux

  • #Propriété_collective des #terres : « Des espaces de résistance face à l’agriculture industrielle et capitaliste »

    basta ! : Dans le secteur agricole, on compte seulement une installation pour deux à trois cessations d’activité, alors qu’un agriculteur sur quatre doit partir à la retraite d’ici 2030. L’accès à la terre est-il le frein principal à l’activité agricole en France ?

    Tanguy Martin : L’accès à la terre est clairement un frein, économique d’abord. La terre, selon les régions, peut coûter assez cher. S’y ajoutent les coûts des bâtiments, du cheptel, des machines, dans un contexte où les fermes n’ont cessé de grandir en taille depuis la fin de la Seconde Guerre mondiale.

    Il y a aussi un principe de défiance : c’est plus facile de vendre ses terres, ou de les louer à son voisin qu’on connaît depuis très longtemps, qu’à quelqu’un qu’on ne connaît pas, qui peut vouloir faire différemment, non issu du territoire... Or, 60 % des gens qui veulent s’installer aujourd’hui ne sont pas issus du milieu agricole. Les freins administratifs se combinent à ce parcours du combattant.

    Aujourd’hui l’accès à la terre se fait par le marché : les terres sont allouées aux gens capables de rentabiliser une ressource, et pas forcément aux gens capables de nourrir un territoire ou de préserver un environnement.

    À partir de quel moment la terre agricole est-elle devenue une marchandise ?

    Jusqu’à la fin de la Seconde Guerre mondiale, la terre est restée un bien de prestige et de pouvoir à travers lequel on maîtrise la subsistance de la population. Mais après 1945, l’agriculture est entrée dans le capitalisme : on commence à faire plus de profit avec la terre et la production de nourriture, voire à spéculer sur le prix de la terre.

    La terre est même depuis devenue un actif financier. Aujourd’hui, les sociétés dites à capitaux ouverts (financiarisées), dont le contrôle peut être pris par des non-agriculteurs, ont fait main basse sur 14 % de la surface agricole utile française. C’est plus d’une ferme sur dix en France [1]. Le phénomène a doublé en 20 ans !

    Peut-on vraiment parler de spéculation sur les terres en France alors même que le prix stagne en moyenne à 6000 euros par hectare depuis plusieurs années ? Il est quand même de 90 000 euros par hectare aux Pays-Bas !

    Depuis quelques années, le prix de la terre stagne et on pourrait en conclure qu’il n’y a pas de spéculation. En réalité, le prix de la terre a globalement augmenté en France sur les 20 dernières années.

    Actuellement, ce prix augmente dans certaines régions et baisse dans d’autres. Les endroits où l’on peut spéculer sur la terre sont globalement ceux où l’agriculture s’est industrialisée : les zones céréalières dans le centre de la France, de betteraves en Picardie, de maïs dans le Sud-Ouest... Là, le prix de la terre continue à augmenter.

    En revanche, il y a des endroits en déprise, notamment les zones d’élevage comme le Limousin, où le prix de la terre peut baisser. Les prix augmentent aussi à proximité des villes et des zones touristiques, où la terre risque de devenir constructible.

    En France, ce sont les Sociétés d’aménagement foncier et d’établissement rural (Safer) qui sont en charge de réguler le marché des ventes des terres agricoles. Elles sont très critiquées. Que faut-il faire de ces organisations ?

    Les Safer ont participé à limiter les inégalités d’accès à la terre et un prix de la terre relativement bas en France. C’est vrai, même s’il y a d’autres explications aussi, comme la plus faible valeur ajoutée produite par hectare en France.

    Pour autant, les Safer doivent encore évoluer pour pouvoir répondre aux enjeux alimentaires et agricoles du 21e siècle, il faut arriver à démocratiser leur gouvernance. Celles-ci restent aujourd’hui très liées aux décisions du syndicalisme majoritaire (de la FNSEA, ndlr). Les Safer doivent aussi devenir plus transparentes. Actuellement, les réunions de décision se tiennent à huis clos : c’est censé protéger les gens qui prennent les décisions pour qu’ils soient éloignés de certaines pressions, mais cela crée une opacité très délétère pour l’institution.

    Un autre élément à revoir, c’est la façon dont on fixe les objectifs politiques des Safer. Ces dernières, quand elles achètent une terre, doivent la revendre à la personne qui répond aux objectifs politiques qui sont notamment fixés dans des documents nommés « schémas directeurs régionaux des exploitations agricoles ».

    Ces documents, écrits par l’État et validés par arrêté préfectoral, décrivent quel type d’agriculture vont viser les Safer et d’autres instances de régulation foncière. Or, ces documents, du fait que le syndicat majoritaire est largement consulté, défendent plutôt la prolongation de l’agriculture vers son industrialisation. Il y a donc un enjeu à ce que ces documents soient écrits pour défendre une agriculture du 21e siècle qui défend l’agroécologie, et des paysannes et paysans nombreux sur les territoires. À ces conditions-là, il n’y a pas de raison de vouloir se passer des Safer.

    Le fait que nous ayons un système qui alloue la terre, non pas en fonction de l’offre et de la demande, mais en vertu d’un projet politique censé répondre à l’intérêt général, est un trésor inestimable en France qu’il faut absolument garder.

    En creux de votre ouvrage se pose la question du rapport à la propriété. Est-il possible de dépasser le modèle du paysan propriétaire ?

    Sur le principe, rien ne justifie le fait qu’à un moment, une personne ait pu dire « cette terre m’appartient ». La terre étant à la fois un lieu d’accueil du vivant et le lieu où l’on produit la nourriture, on peut estimer que la propriété de la terre doit être abolie. Sauf que, dans une société très attachée à la propriété privée, cela paraît utopique.

    Prenons donc le problème d’une autre façon, et voyons ce qu’on peut déjà faire à court terme. Il faut avoir en tête que les agriculteurs ne sont pas majoritairement propriétaires des terres qu’ils travaillent : 60 % de cette surface est louée dans le cadre du fermage. Il y a même des paysan·nes qui décident parfois de ne pas acheter la terre et préfèrent la louer pour éviter de s’endetter.

    D’autre part, on dispose d’une régulation foncière selon laquelle la terre n’est pas une marchandise comme les autres et ne doit pas être uniquement dirigée par le marché. Ces mécanismes juridiques permettent à l’État, aux collectivités locales et aux syndicats agricoles, de définir ensemble qui va accéder à la terre indépendamment du fait que ces personnes soient riches ou pas.

    On a là un embryon qui pourrait faire imaginer un droit de l’accès à la terre en France institué en commun. Il faut renforcer et orienter ces mécanismes – qui ont plein d’écueils ! – vers des enjeux d’alimentation, d’emploi, d’environnement... Chercher à démocratiser la question de l’accès à la terre et « le gouvernement des terres », c’est à la fois une capacité à se prémunir des effets mortifères du capitalisme, et cela permet de penser comment on pourrait gérer les terres autrement.

    Le capitalisme n’est pas une fatalité : il y a d’autres manières d’être au monde, de produire de l’alimentation, de vivre, de sortir d’un monde où le but n’est que la recherche du profit. C’est comme quand on milite pour la sécurité sociale de l’alimentation : la Sécurité sociale en 1946 n’a pas renversé le capitalisme, mais elle a créé des espaces de répits face au capitalisme, extrêmement importants pour que les gens vivent bien et envisagent de transformer la société.

    Le livre dresse un panorama des organisations qui travaillent au rachat des terres pour les mettre à disposition de paysan·nes répondant à des critères socio-environnementaux, avec des règles transparentes d’attribution de l’accès au foncier. Les surfaces acquises restent toutefois modestes. Peut-on uniquement compter sur ce type d’initiatives ?

    Les gens qui s’intéressent à la terre aujourd’hui ont bien compris qu’on n’allait pas abolir la propriété privée demain. Ils ont aussi compris que s’ils voulaient expérimenter d’autres manières de faire de l’agriculture et de l’alimentation, il fallait accéder à la propriété des terres.

    L’idée de la propriété collective, ce n’est pas l’abolition de la propriété privée, mais que des gens se mettent ensemble pour acheter de la terre. C’est ce que fait Terre de Liens en louant ensuite la terre à des paysan·nes qui mettent en œuvre des projets répondant aux enjeux de société, d’emploi, d’environnement, d’entretien du territoire... Mais c’est aussi ce que font d’autres structures de propriété foncière – la Société civile des terres du Larzac, la Terre en commun sur la Zad de Notre-Dame des Landes, Lurzaindia dans le Pays basque, la foncière Antidote, et bien d’autres.

    Tout un tas de gens essaient d’acheter des terres pour en faire des espaces de résistance face à l’agriculture industrielle et capitaliste. Cela permet d’imaginer d’autres rapports à la propriété. Ce sont des lieux d’expérimentation très importants pour susciter de nouveaux imaginaires, apprendre à faire autrement, créer de nouvelles manières d’être au monde.

    Le problème de ces lieux-là, c’est qu’ils ne peuvent pas permettre un changement d’échelle. Cela ne peut pas être la solution de sortie des terres du capitalisme. Comme elles n’abolissent pas la propriété, s’il fallait racheter toutes les terres, cela coûterait des centaines de milliards d’euros.

    Par ailleurs, ces terres ne sont pas à vendre à court terme – une terre se vend en moyenne tous les 75 ans. D’où la nécessité de faire à la fois des expérimentations de propriété collective, tout en ravivant la question de la régulation foncière pour sortir l’agriculture du capitalisme.

    En quoi la lutte de Notre-Dame des Landes, victorieuse en 2018, a reconfiguré les luttes, notamment anticapitalistes, autour des terres ?

    La question agricole et foncière, en France et même en Europe, était très peu investie par les milieux anticapitalistes. L’activisme des gens qui vont s’installer dans la Zad, les coopérations menées avec des syndicats agricoles comme la Confédération paysanne, ont – non sans débats houleux et conflits internes – mené à une lutte assez exemplaire sur un territoire.

    La répression peut être énorme, mais la capacité de résistance aussi. Cette lutte a produit des façons de faire sur le territoire – en termes d’habitat, d’agriculture collective, de vivre ensemble – inspirantes pour toute une génération militant contre le néolibéralisme et le capitalisme. Beaucoup de milieux politiques aujourd’hui parlent de subsistance, d’alimentation, de terres.

    Notre-Dame des Landes marque aussi le fait qu’avec de moins en moins d’agriculteurs dans la société (2,5 % des gens sont des travailleurs de la terre dont 1,9 % sont des agriculteurs au sens légal), les enjeux agricoles ne peuvent être uniquement du ressort des luttes paysannes. La centralité de ces luttes doit être partagée avec d’autres types d’acteurs politiques, notamment des gens qui habitent le territoire sans être forcément paysans.

    La dynamique des Soulèvements de la Terre est-elle un prolongement de Notre-Dame des Landes ?

    En effet, il me semble que Notre-Dame-des-Landes est une inspiration forte de la pensée qui s’agrège autour des Soulèvements, mouvement riche de sa pluralité. Les Soulèvements montrent que les espoirs nés de l’expérimentation à Notre-Dame-des-Landes sont possibles partout et qu’il va falloir faire différemment dans tous les territoires – chaque endroit ayant ses spécificités.

    Les questions de rapport à la terre ont aussi émergé dans l’espace politique des années 1990, avec les luttes au Chiapas, au Mexique, qui continuent d’inspirer les milieux politiques en Europe et en France. Cette circulation des imaginaires de luttes permet de penser des mondes différemment. Les Soulèvements arrivent à fédérer de manière assez importante et repolitisent très clairement ces questions de la terre. Ils portent ces questions sur tous les territoires qui ont envie de s’en emparer en disant : « C’est possible aussi chez vous ».

    Peut-on sortir l’agriculture du capitalisme ? Pour Tanguy Martin, auteur de Cultiver les communs, il faut combiner les expérimentations de propriété collective tout en s’attachant à la régulation foncière.

    https://basta.media/Propriete-collective-des-terres-des-espaces-de-resistance-face-a-l-agricult
    #agriculture #résistance #capitalisme #accès_à_la_terre #terre #financiarisation #spéculation #Sociétés_d’aménagement_foncier_et-d’établissement_rural (#Safer)

  • Thierry Breton, le néo-fascisme tranquille - Vu du Droit vududroit.com - Régis de Castelnau

    La France traverse une crise politique majeure. L’État n’est plus en mesure de contrôler son territoire. Et que dire de l’économie. Les deux tiers des Français haïssent Emmanuel Macron. Qui piétine les #libertés_publiques et met en place un #régime_néofasciste. Et pour faire bon poids il fournit à un régime en panique des missiles de croisière pour frapper le territoire de la Russie. C’est-à-dire que tranquillement il déclare la guerre à la première puissance nucléaire du monde. Le gouvernement est muet, l’ensemble de la classe politique représentée au Parlement fait de même. Pas un élu à l’exception de Dupont Aignan aucune autorité intellectuelle ou morale n’élève la voix pour s’inquiéter de l’#abîme vers lequel cet homme emmène le pays.crise-la-solidarit%C3%A9


    Pour la mise en place de ce qui commence à ressembler à un régime #néofasciste (même Julien Dray commence à s’inquiéter) Macron dispose d’hommes de main qui n’ont aucun scrupule. Il faut écouter l’effarant entretien donné par le commissaire européen #Thierry_Breton à France Télévisions, où l’intérressé vient annoncer triomphalement qu’il est arrivé à ses fins avec la mise en place d’une réglementation européenne de #censure a priori sur les #réseaux_sociaux. Rappelons que ce personnage, quintessence du Capital endogame à la française, a été nommé à la Commission européenne en remplacement d’une autre haute fonctionnaire adepte du pantouflage gourmand, choisie par Macron mais refusée par le Parlement européen pour cause de rapports jugés trop élastiques avec la morale publique.

    Breton s’est récemment signalé par des vitupérations contre les réseaux sociaux, qu’il accuse à demi-mot de véhiculer une parole d’opposition politique aux oligarchies en place. Sous prétexte de lutter « contre la haine en ligne », il décrit un dispositif destiné en fait à bâillonner toute parole dissidente. Il n’a d’ailleurs pas hésité à citer comme devant être interdits les « appels à la révolte » ! La tentation néofasciste du personnage saute aux yeux, tant dans l’attitude que dans le choix des mots. Breton, donc, a fait adopter par le Parlement européen un texte qui reprend toutes les mesures proposées naguère par Emmanuel Macron, par l’intermédiaire de l’ex-députée #laetitia_avia et de la loi dite « Avia », votée par le Parlement-Playmobil du premier mandat – et quasi intégralement censurée par le Conseil constitutionnel puisque jugée attentatoire à la Constitution et notamment à la Déclaration des droits de l’homme et du citoyen. Notre cour suprême, pourtant fort indulgente en général avec Macron, avait fait sortir l’horreur liberticide qu’était la loi Avia par la porte ; Thierry Breton la fait rentrer par la fenêtre. On en veut pour preuve cet hallucinant entretien passé à décrire tous les moyens administratifs qui permettraient d’instaurer une censure administrative a priori en piétinant tous nos principes.

    ° La censure, nouvelle passion de la « gauche »
    En France, une « gauche » minoritaire et paniquée nourrit une nouvelle passion pour la #censure. Ces jours derniers plusieurs exemples de ce tropsime ont d’ailleurs fait réagir : citons la campagne contre le pluralisme avec l’affaire Geoffroy Lejeune au JDD, les déclarations de Pape Ndiaye sur Europe1 et CNews, médias « clairement d’extrême droite », ou encore les provocations du « philosophe » Geoffroy de Lagasnerie, qui affirme que la pensée de droite n’existe pas.

    Il est malheureusement nécessaire une fois de plus de rappeler que la conflictualité est inhérente au politique et qu’elle s’exprime et se résout dans l’espace public. Le propre d’un cadre normatif dans un système démocratique est justement de permettre le #débat et l’affrontement des #opinions, le juge de paix étant l’élection. L’application de ces principes est de plus en plus problématique pour les blocs oligarchiques au pouvoir dans les pays occidentaux. On y revendique et brandit les « valeurs démocratiques » comme étant universelles, mais on s’efforce par tous les moyens de faire taire les paroles dissidentes. Une tâche rendue plus compliquée par l’existence des réseaux sociaux, plateformes qui ont réalisé une véritable révolution en donnant une parole en temps réel au plus grand nombre, ce qui est quand même, qu’on le veuille ou non, un progrès démocratique. Cette parole charrie comme toujours le pire et le meilleur, et il est quand même inquiétant de voir qu’en France, le pouvoir d’État réagisse comme il le fait avec une succession de lois liberticides. La loi Avia, à juste titre censurée, n’avait été qu’un avatar d’une entreprise d’encadrement mise en œuvre depuis l’arrivée d’Emmanuel Macron, dont l’absence de culture démocratique impose de rappeler que la démocratie est fondée sur l’égalité de n’importe qui avec n’importe qui. Et que l’accès à l’expression et au débat du plus grand nombre ne devrait pas être considéré comme un danger.

    À la fin du XIXe siècle, lorsque la IIIe République fut suffisamment bien établie, et afin de garantir le respect de la Déclaration des droits de l’homme et du citoyen, fut adoptée une loi de protection de la liberté d’expression. Parmi ses principes figurait celui que cette liberté fondamentale pouvait être limitée si nécessaire par la loi, mais dès lors que les restrictions étaient strictement proportionnées à l’objectif d’intérêt général poursuivi et que le contrôle de ce nécessaire équilibre n’appartenait qu’au Juge. La loi sur la presse de 1881 fonctionne depuis presque 140 ans, et jusqu’à présent, on pouvait considérer que la liberté d’expression existait dans notre pays. Malheureusement, depuis le mandat de François Hollande et maintenant d’Emmanuel Macron, la France a dégringolé dans les classements internationaux de la liberté de la presse, « la patrie des droits de l’homme » se trouvant aujourd’hui à la 34e place sur 180…

    Thierry Breton, autocrate assumé
    Après la Deuxième Guerre mondiale, un encadrement juridique destiné à garantir l’indépendance, le pluralisme et la transparence de la presse nationale avait été adopté. Il a été soigneusement détruit, et aujourd’hui la presse audiovisuelle et écrite est entièrement entre les mains de l’#oligarchie. L’îlot du service public n’y échappe pas, puisqu’il est au service du pouvoir politique mis en place par cette même oligarchie avec le coup d’État judiciaire de 2017. L’existence d’une expression dissidente via les réseaux sociaux est donc considérée comme insupportable, et les agents du pouvoir multiplient les tentatives pour la faire taire.

    Le texte présenté par Thierry Breton contient un certain nombre d’horreurs et la première d’entre elles est relative au fait que c’est l’autorité administrative qui désormais décidera de ce que l’on peut dire ou ne pas dire sur les réseaux. Une équipe de flics de la pensée aux ordres de ce nouveau ministre de la Vérité pourra sommer n’importe quel site, quelle que soit sa taille, de supprimer dans les 24 heures des textes qu’elle juge contraire à la loi. La défaillance dans la suppression immédiate pourra être sanctionnée, par l’interdiction dans le pays considéré et pour ce qui nous concerne la France. Il est clair que les grandes plates-formes comme Facebook, YouTube ou Twitter vont non seulement poursuivre leur censure a priori qui existe déjà, mais pourraient aussi, par précaution, déférer à toutes les demandes de suppression émanant des officines européennes opaques. Elon Musk souhaite faire de Twitter, qu’il a racheté, un espace de libre expression ; Thierry Breton, tout à sa pulsion #néofasciste, en a fait une de ses cibles principales. Le système d’intimidation ainsi adopté n’est pas destiné à « lutter contre la haine », mais bien à réprimer la liberté d’expression en ligne. Le commissaire européen a tranquillement assimilé à des messages de haine les appels à la révolte. Rappelons encore une fois qu’il s’agit là des mesures contenues dans la loi Avia, démantibulée par la décision du Conseil constitutionnel, dont le projet de Breton est un décalque.

    Toute cette entreprise n’est que le prétexte pour mettre les réseaux au pas. ° Et n’oublions pas que le pouvoir d’Emmanuel Macron est dès le départ un pouvoir minoritaire. Cette minorité est parfaitement assumée, mais a pour conséquence – indispensable à son propre maintien – d’avoir conduit à une dérive autoritaire qui a pris des proportions plus qu’inquiétantes. L’usage de la police et de la justice contre les Gilets jaunes et les autres #mouvements_sociaux, les grands médias complètement enrégimentés et la destruction méthodique de la liberté d’expression sont les armes utilisées par Emmanuel Macron pour mettre en œuvre sa feuille de route. Et cette fois-ci, face aux principes fondamentaux de la République française qui s’y opposent, on utilise l’#union_européenne et la violation de notre souveraineté pour les contourner et mettre en place un système autocratique dont Thierry Breton est l’un des gardes-chiourme. *

    S’y opposer est un devoir. Avant qu’il ne soit trop tard .

    Source : https://www.vududroit.com/2023/07/thierry-breton-le-neo-fascisme-tranquille

  • On sait mieux où va la France Jean-François Bayart professeur à l’IHEID (Genève), chaire Yves Oltramare « Religion et politique dans le monde contemporain »

    Où va la France ? demandai-je le 8 mai, dans Le Temps. https://www.letemps.ch/opinions/va-france Aujourd’hui, on le sait mieux. Vers l’explosion sociale, vers son inévitable répression policière puisque la fermeture des canaux démocratiques contraint la protestation à la violence émeutière, et vers l’instauration d’un régime paresseusement qualifié d’« illibéral » (c’est le sociologue du politique qui écrit, peu convaincu par cette notion valise qui pourtant fait florès).

    Reprenons les faits. La France brûle. Pour un homme qui se faisait fort de l’apaiser et clignait de l’œil à la banlieue lors de sa première campagne électorale, le constat est amer. Il vient après le mouvement des Gilets jaunes et une succession de mouvements sociaux de grande intensité. Tout cela était prévisible et fut prévu, comme était attendu l’embrasement des quartiers populaires, tant était connue la colère sociale qui y couvait. Tellement redouté, même, qu’Emmanuel Macron, Elisabeth Borne et Gérald Darmanin ont immédiatement compris la gravité et le caractère inacceptable de l’exécution extra-judiciaire de Nahel – le mot est fort, j’en conviens, mais de quoi s’agit-il d’autre au vu de la vidéo ?

    Les paroles d’apaisement furent vaines. Car la mort de Nahel, loin d’être une simple bavure, était programmée. Elle est la conséquence mécanique de la démission du pouvoir politique, depuis trente ans, sous la pression corporatiste de la police qui n’a cessé de s’affranchir des règles de l’Etat de droit bien que lui ait été concédée, de gouvernement en gouvernement, une kyrielle de lois liberticides, jamais suffisantes, sous couvert de lutte contre le terrorisme, l’immigration et la délinquance. Jusqu’à la réécriture de l’article 435-1 du Code de la sécurité intérieure, en 2017, qui assouplit les conditions d’emploi des armes à feu par les forces de l’ordre. Annoncé, le résultat ne se fit pas attendre. Le nombre des tués par la police a doublé depuis 2020 par rapport aux années 2010. Le plus souvent pour « refus d’obtempérer à un ordre d’arrêt » :5 fois plus de tirs mortels dans ces circonstances. Nahel est mort de cette modification du Code de la sécurité intérieure.

    Et l’avocat du policier meurtrier de justifier son client : Nahel n’obtempérait pas et il n’y avait pas d’autre moyen de l’arrêter que de tirer. A-t-on besoin d’un avocat pour entendre une insanité pareille alors qu’il suffit de tirer dans les roues ? On se croirait à Moscou ou Minsk, où des hommes politiques promettent à Prigojine une « balle dans la tête ». Aux yeux de certains, le refus d’obtempérer semble désormais passible de la peine de mort. Une grammaire s’installe, qui brutalise les rapports sociaux, et dont on voudrait faire porter la responsabilité à l’« ultragauche », aux « éco-terroristes », à La France insoumise, alors qu’elle émane d’abord de certains médias et des pouvoirs publics, sous influence de l’extrême droite.

    Une violence policière qui est aussi le prix du retrait de l’Etat
    Comme l’ont démontré depuis des années nombre de chercheurs,la violence policière est devenue la règle dans les « quartiers », et le refus des autorités politiques de prononcer ce vilain mot aggrave le sentiment d’injustice. Mais la vérité oblige à dire que ladite violence policière est aussi le prix du retrait de l’Etat qui a asphyxié financièrement le tissu associatif de proximité et démantelé les services publics en confiant à ses flics une mission impossible : celle de maintenir la paix sociale dans un Etat d’injustice sociale, prompt à l’injure publique à l’encontre de la « racaille ». Tout cela sur fond de dénonciation hystérique du « wokisme » et de vociférations sur les chaînes d’information continue des syndicats de police, dont les membres sont de plus en plus nombreux à porter sur leur uniforme la Thin Blue Line prisée de l’extrême droite suprémaciste américaine.

    Bien sûr, l’Etat ne peut laisser sans réagir la banlieue s’embraser. L’ « ordre républicain » est en marche, avec son lot d’arrestations, de blessés, peut-être au prix de l’état d’urgence ou d’un couvre-feu national, « quoi qu’il en coûte », à un an des Jeux Olympiques. Le piège s’est refermé. Quel « Grand débat national » (ou banlieusard) le magicien Macron va-t-il sortir de son chapeau pendant que les chats de Marine Le Pen se pourlèchent les babines ?

    Certains lecteurs de ma tribune « Où va la France ? » se sont offusqués de la comparaison que j’établissais entre Macron et Orban, voire Poutine ou Erdogan. C’était mal me comprendre. Il ne s’agissait pas d’une question de personnes, bien que les qualités ou les faiblesses d’un homme puissent avoir leur importance. Il s’agit d’une logique de situation, qui me faisait écrire que la France « bascule ». Or, depuis la parution de cette tribune, les signes d’un tel basculement se sont accumulés. Que l’on en juge, en vrac.

    Pour reconquérir l’opinion le président de la République, fébrile, sans jamais se départir de sa condescendance à l’égard de « Jojo » – c’est ainsi qu’il nomme dans l’intimité le Français moyen – ce « Gaulois réfractaire » : « Mon peuple », disait-il en 2017, en monarque frustré – sillonne le pays, court-circuite le gouvernement et multiplie les effets d’annonce, au point que Le Monde titre : « Emmanuel Macron, ministre de tout ». On pourrait ajouter : « et maire de Marseille ».

    Anticor mis à l’index, dissolution des Soulèvements de la Terre… *
    La justice refuse à l’association Anticor (lire « anticorruption »), à l’origine de la plainte qui a conduit à la mise en examen du secrétaire général de l’Elysée, le renouvellement de son « agrément », lequel lui permet de se porter partie civile devant les tribunaux. Cela sent un peu les eaux troubles du Danube, non ?

    Le mouvement des Soulèvements de la Terre a été dissous sous la pression de la FNSEA, le grand syndicat de l’agro-industrie dont les militants ou les responsables multiplient les menaces et les violences contre les écologistes, en toute impunité, quitte à faire oublier que dans l’histoire il a à son actif nombre d’assauts contre des préfectures. Le décret de dissolution justifie notamment la mesure par le fait que les militants des Soulèvements de la Terre lisent l’essai d’Andreas Malm Comment saboter un pipeline et mettent en mode avion leur téléphone portable quand ils vont manifester. Olivier Véran, le porte-parole du gouvernement, va jusqu’à les accuser d’intentions homicides à l’encontre des forces de l’ordre, contre toute évidence. Orwell n’est pas loin.

    Vincent Bolloré, le grand argentier de la révolution conservatrice en France, fait nommer un journaliste d’extrême droite, un ami d’Eric Zemmour, comme rédacteur en chef du Journal du Dimanche,l’un des principaux hebdomadaires du pays. Le piquant de la chose est que ledit journaliste s’était fait congédier par un autre hebdomadaire, d’extrême droite celui-ci, Valeurs actuelles, qui lui reprochait sa radicalité.

    Laurent Wauquiez, président de la méga région Auvergne-Rhône-Alpes, prive de subvention un théâtre dont le directeur avait osé critiquer sa politique.

    La Commission nationale de contrôle des techniques de renseignement s’alarme de la hausse des requêtes des services secrets en matière de surveillance du militantisme politique et social.

    Richard Ferrand, ancien président de l’Assemblée nationale, l’un des plus proches conseillers d’Emmanuel Macron, lâche un ballon d’essai sur la possibilité d’une révision constitutionnelle qui autoriserait à celui-ci un troisième mandat, pendant que d’autres préparent une candidature de Jean Castex-Medvedev. Sommes-nous à Dakar ou à Moscou ?

    Tout cela en deux petits mois. Oui, la France bascule. Nul doute que l’explosion sociale dans les banlieues accélérera le mouvement. Mais peut-être faut-il rappeler la définition du « point de bascule » que donnent les experts du GIEC : le « degré de changement des propriétés d’un système au-delà duquel le système en question se réorganise, souvent de façon abrupte, et ne retrouve pas son état initial même si les facteurs du changement sont éliminés ».

    Le climat politique en France en est bien là, et Macron, qui dans son immaturité se voulait « maître des horloges » et se piquait de séduire la banlieue par diaspora africaine interposée, n’est que le fondé de pouvoir d’une situation qui échappe à son entendement, mais qu’il a contribué à créer. Comme, par ailleurs, les droites de gouvernement, à l’échelle européenne, de l’Italie à la Suède et à la Finlande, se compromettent de plus en plus avec l’extrême droite, la comparaison que certains m’ont reprochée est hélas politiquement pertinente, et même nécessaire.

    A lire aussi : La France face aux séquelles de la réforme des retraites https://www.letemps.ch/opinions/editoriaux/france-face-aux-sequelles-reforme-retraites-0

    #France #explosion_sociale #mouvements_sociaux #colère_sociale #refus_d’obtempérer
    #violences_policière #retrait_de_l’Etat

    Source : https://www.letemps.ch/opinions/on-sait-mieux-ou-va-la-france

    • le président de la République, fébrile, sans jamais se départir de sa condescendance à l’égard de « Jojo » – c’est ainsi qu’il nomme dans l’intimité le Français moyen – ce « Gaulois réfractaire » : « Mon peuple », disait-il en 2017, en monarque frustré – sillonne le pays, court-circuite le gouvernement et multiplie les effets d’annonce, au point que Le Monde titre : « Emmanuel Macron, ministre de tout ». On pourrait ajouter : « et maire de Marseille ».

    • Cette nuit les clients du #Fouquet's ont pu dîner sous bonne garde, à l’abri des barrières,

      Alors que des appels à se rassembler circulaient depuis vendredi, la vie parisienne avait conservé ses droits sur la plus célèbre avenue de Paris, malgré la présence d’un très important dispositif policier. Les clients du Fouquet’s ont dîné sous bonne garde, à l’abri des barrières, tandis que des patrouilles de police ont arpenté les Champs-Élysées toute la soirée. De nombreux incidents ont éclaté, conduisant les forces de l’ordre à charger pour repousser les émeutiers.

      Source : https://www.lefigaro.fr/actualite-france/en-direct-emeutes-apres-la-mort-de-nahel-une-nuit-plus-calme-mais-les-viole

  • Hommage à Touraine
    https://laviedesidees.fr/Hommage-a-Touraine

    Sociologue de l’action, penseur de la société post-industrielle et compagnon de la deuxième gauche, Alain Touraine (1925-2023) a défendu la capacité des sujets à reprendre le contrôle de leur vie. Portrait d’un grand intellectuel doublé d’un social-démocrate. Il n’y a pas en sciences sociales un modèle unique de construction d’une œuvre intellectuelle, une one best way permettant de la construire sur la durée et durablement. Certains procèdent autour d’une théorie centrale appliquée très tôt à divers (...) #Essais

    / Société, #travail, #sociologie, #individu, #classes_sociales, #mouvements_sociaux, #Portraits

    #Société
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/20230613_touraine.docx

  • Les réseaux sociaux, leviers des luttes sociales – nvo
    https://nvo.fr/les-reseaux-sociaux-leviers-des-luttes-sociales

    De la révolte des Gilets jaunes à la vague féministe post-#MeToo, les outils numériques sont devenus des leviers incontournables des luttes sociales et syndicales. Sur les réseaux sociaux, les photos et vidéos d’Extinction Rebellion ou de ReAct font le buzz et relaient les mobilisations. Un article publié dans le numéro #05 de la Vie Ouvrière.

    Ces dernières années, les exemples de mouvements sociaux ou de soulèvements populaires déployés grâce aux possibilités de connexions qu’offre Internet se sont multipliés. Dans son remarquable ouvrage Twitter & les gaz lacrymogènes, la chercheuse et activiste turque Zeynep Tufekci montre que l’usage des outils numériques et leur démocratisation (applications, réseaux sociaux…) permettent non seulement d’atteindre rapidement une masse critique de citoyens agissants mais en a fait des alliés incontournables des luttes actuelles.

    En l’espace de quelques semaines, le mouvement des Soulèvements de la Terre, menacé de dissolution sur décision du ministère de l’Intérieur, a rassemblé plus de 90.000 soutiens, notamment grâce aux milliers de partages sur les réseaux sociaux. Des relais qui ont permis de faire converger le 25 mars sur le terrain à Sainte-Soline, dans les Deux-Sèvres, près de 30.000 personnes venues pas seulement de France mais de toute l’Europe pour s’opposer au projet de méga-bassine.

    Les médias numériques améliorent la visibilité d’une cause, mais ils créent aussi une communauté, un sens de la camaraderie, explique Zeynep Tufekci dans son essai. Ils permettent à un mouvement de dépasser l’espace du site d’occupation en créant un sentiment d’appartenance : on peut se sentir zadiste sans terres à défendre, se revendiquer d’Occupy Wall Street sans être américain…

    En 2021, les activistes ont fait irruption au milieu des mannequins d’un défilé Louis Vuitton afin de dénoncer l’impact climatique de la mode. Un happening militant qui a fait un énorme buzz sur les réseaux sociaux. La même stratégie digitale a été employée, en octobre 2022, quand d’autres militants ont collé leurs mains sur des voitures haut de gamme sous les yeux du public du Mondial de l’auto.

    « Quatre cents personnes nous ont filmés et ont mis en ligne la scène sur Instagram et TikTok. Ça a fait des millions de vues. Là, le public était lui aussi vecteur de diffusion, même si tu ne contrôles plus le message », commente le militant d’XR dont l’organisation ne communique que sur réseaux cryptés (Signal, Mattermost), afin de préserver le secret de ses actions et l’anonymat de ses membres.

    #Militantisme #Zeynep_Tufekci #Mouvements_sociaux #La_Vie_Ouvirère

  • Aux Etats-Unis, les grèves se multiplient : l’espoir renaît ? (1/2)
    https://www.frustrationmagazine.fr/greves-etats-unis

    Avec leur droit du travail en lambeaux et leur protection sociale quasi inexistante, les États-Unis d’Amérique semblent fournir l’exemple parfait d’un pays où les capitalistes ont gagné la guerre des classes depuis longtemps. Et tant pis si cela accouche d’un président aussi grotesque et putschiste que Donald Trump, ou un papy bafouillant à la Biden. […]

    • Les militants de The Spark (États-Unis) au Congrès annuel de LO en décembre dernier :
      https://mensuel.lutte-ouvriere.org//2022/12/10/interventions-des-groupes-invites_450524.html

      Symptômes de colère ouvrière

      En surface, il semble que le malaise social que nous avons vécu ces dernières années est toujours là cette année. Il n’y a pas eu à ce jour de grèves majeures comme dans d’autres pays.

      Mais dans ce pays, le plus capitaliste de tous, des lois envoient les #mouvements_sociaux dans l’industrie sur des voies de garage bureaucratiques. Il y a eu néanmoins des petits aperçus de colère ouvrière. Sur six syndicats du rail, les travailleurs de deux d’entre eux ont voté contre un contrat plus ou moins imposé par #Biden, et des grèves sont prévues en décembre – même si Biden pourrait les repousser encore une fois d’un trait de plume. Il y a eu des #grèves locales isolées – les travailleurs du papier, des journaux, les enseignants, les mineurs, les concierges des cités. À la fin du mois d’octobre, 6 000 travailleurs de 234 magasins #Starbucks ont suivi jusqu’au bout le processus juridique tortueux nécessaire pour que le gouvernement organise un vote afin de décider s’ils pouvaient se syndiquer. Ce n’est qu’une goutte d’eau dans une entreprise qui compte près de 16 000 magasins et 350 000 travailleurs. Mais c’est tout de même une goutte. Tout comme le vote de l’an dernier dans le seul établissement d’#Amazon qui a réussi le parcours du combattant pour voter la reconnaissance légale de son syndicat.

      Cette année, alors que la police a déjà tué près de 900 personnes, il n’y a pas eu d’explosion comme celle qui avait suivi le meurtre de George Floyd. Mais il y a eu des manifestations locales contre la violence qui ont parfois permis d’inculper un policier ou de faire libérer de prison quelqu’un accusé à tort. Cela paraît minime, mais ça témoigne de la colère qui couve juste sous la surface de ce prétendu phare de la démocratie.

      Il y a du mécontentement et du ressentiment à de nombreux niveaux. Nous avons pu le constater à notre petite échelle au travers de nos activités, notamment les campagnes électorales dans trois des quatre États où nous sommes présents. Cela a constitué notre principal travail de l’année, même si tout le reste – les bulletins d’entreprise, les ventes publiques, les efforts de recrutement, l’activité syndicale, notre fête, les pique-niques, etc. – a continué comme avant.

  • Encres, poings levés et banderoles : deux siècles de luttes pour l’environnement
    https://metropolitiques.eu/Encres-poings-leves-et-banderoles-deux-siecles-de-luttes-pour-l-envi

    Connaître l’histoire des #mouvements_sociaux enrichit notre compréhension du monde. Quatre historiens ont rassemblé une riche iconographie pour retracer deux siècles de luttes pour l’environnement, belle contribution à une #histoire qui enchevêtre temps court et temps long, dimensions locales et plus globales des luttes écologiques. Une histoire des luttes pour l’environnement, 18e-20e, un tel ouvrage publié chez Textuel ne saurait surprendre. Cette maison d’édition déploie notamment ses compétences #Commentaires

    / histoire, #environnement, #écologie, mouvements sociaux

    https://metropolitiques.eu/IMG/pdf/met-fonbaustier.pdf

  • Comment les mouvements sociaux changent les choses | L’actualité
    https://lactualite.com/environnement/comment-les-mouvements-sociaux-changent-les-choses

    Regrouper 3,5 % d’une population lors d’une mobilisation n’est toutefois pas garant de victoire. Une théorie du changement exclusivement axée sur l’atteinte de cette proportion serait malavisée. La règle a été critiquée et depuis nuancée par Erica Chenoweth elle-même, qui rappelle l’importance d’autres facteurs (la conjoncture favorable, l’organisation, le leadership stratégique et la durabilité) dans le succès ou l’échec d’un mouvement et recommande de ne pas utiliser la règle de manière prescriptive.

    Il faut aussi prendre en compte que les mouvements n’ont pas tous les mêmes objectifs. Dans son livre Twitter et les gaz lacrymogènes : Forces et fragilités de la contestation connectée (C&F éditions, 2019), Zeynep Tufekci, professeure associée de sociologie à l’Université de la Caroline du Nord et chroniqueuse au New York Times, émet l’hypothèse que les mouvements possèdent trois types de capacités : celles d’influer sur le narratif social, de perturber l’ordre établi et d’influencer les élus et les institutions. Par exemple, le mouvement Occupons Wall Street a réussi à imposer l’idée que les intérêts des plus riches qui forment 1 % de la population nuisaient aux 99 % restants, une illustration de sa puissante capacité narrative, avec un discours sur les inégalités économiques qui continue de percoler, plus de 10 ans plus tard. Une des demandes clés d’Occupons Wall Street, l’annulation des dettes étudiantes, vient même d’être partiellement adoptée aux États-Unis par l’administration Biden, qui a offert un allègement ciblé aux familles à faible et à moyen revenu, preuve de la capacité de ce mouvement à influencer les institutions.

    Dans le cas de la mobilisation monstre du 27 septembre 2019, il serait juste de dire qu’elle a permis de maintenir le discours du mouvement climatique ; que sa capacité à influencer les élus se traduit par des chantiers en cours, malgré plusieurs victoires institutionnelles (telles que les projets de loi adoptés) ; et que sa capacité à perturber l’ordre établi a été mise à mal par la COVID-19. Il est donc simpliste de parler d’échec ou de réussite d’un mouvement — surtout pour un enjeu aussi complexe que la crise climatique. La bataille sera de très longue haleine et même une victoire aura plusieurs nuances de gris. Sans compter qu’une part colossale de l’énergie des militants sert à lutter contre des reculs…

    #Mouvements_sociaux #Zeynep_Tufekci

  • Quand Didier Lallement pleurniche Régis de Castelnau

    Il a « écrit » un livre. Après avoir quitté son poste de préfet de police de Paris, pour aller s’installer dans une pantoufle douillette et inutile en remerciement de son zèle de bras armé du système Macron, le voilà qui s’épanche. Paris-Match publie cette semaine une recension complaisante qui détaille un peu les états d’âme du garde-chiourme. D’abord, se considérant probablement comme relevé du devoir de réserve des hauts fonctionnaires, il balance. Avec la description d’une situation de la France conforme à ce qu’en disent les oppositions en oubliant la responsabilité de son chef. Ensuite, pour être raccord avec l’époque, il pleurniche sur son sort et essaie de provoquer la compassion pour la détestation que lui voue l’opinion publique.

    Didier Lallement avec quelques « confidences » expose dans son livre :  « sa vision noire de la société rongée par l’individualisme, le complotisme, l’islamisme, le survivalisme, l’ubérisation du marché de la drogue, sans compter l’immigration illégale. » Donnant quelques arguments à ceux qui pointaient en lui la présence de solides névroses. Pas gêné, il reconnaît le lien entre immigration illégale et explosion de la délinquance, on a envie de dire « il était temps ! » Et de lui demander s’il a prévenu son patron, qui n’a pas l’air au courant. Il dit aussi « assumer entièrement l’échec du stade de France » , mais que sa démission proposée avait été refusée par Macron. Ben voyons, c’est le scandale international postérieur qui oblige à cet aveu. S’il avait eu un minimum d’honneur, le refus de Macron n’aurait pas dû l’empêcher de prendre ses responsabilités.

    Le poste de préfet de police de Paris était bien évidemment le sommet d’une carrière pour un protégé de Jean-Pierre Chevènement entré dans la préfectorale par la petite porte. Il n’aurait pour rien au monde laissé passer une telle occasion. Ce qui ne l’empêche pas, passant en mode Calimero, de se plaindre de ce que le poste est fatigant. Parce que Didier Lallement se plaint beaucoup. De son sort de préfet de police, mais également de sa vie d’après. Les Français le détestent, et le font savoir ? C’est trop injuste, et Paris-Match de conclure après la description ses horribles malheurs : « ainsi va la vie en 2022 d’un serviteur de l’État » . Eh bien non, ce n’est justement pas un serviteur de l’État, mais celui d’un ordre injuste qui s’est révélé brutal, dès lors que les couches populaires ont manifesté leur refus de ses conséquences.

    Et Didier Lallement a été l’incarnation de cette brutalité contre les mouvements sociaux, à base de violence policière débridée et de mise en cause insultante de ceux qui s’y opposaient en utilisant leurs libertés constitutionnelles. Tout le monde se souvient du « nous ne sommes pas du même camp Madame ! » , lancé à une passante exprimant son soutien au mouvement des Gilets jaunes. Lamentable saillie d’un haut fonctionnaire avouant crûment qu’il était au service d’un homme, en l’occurrence Emmanuel Macron, et non pas à celui de la République. On se souvient également des insultes adressées aux malades mourants du Covid considérés comme responsables de leur sort pour avoir mal respecté les consignes souvent ineptes d’une Agnès Buzyn ou d’une Sibeth N’Diaye. D’ailleurs, il persiste à nous exposer sa vision de l’ordre social tel qu’il le défend :  « les convulsions sociales seront intenses et destructrices… un jour il faudra encore masser des troupes devant l’Élysée » . Aux protestations contre l’injustice, la seule réponse qu’il envisage est la matraque. En attendant pire ?

    Alors Didier Lallement rapporte les injures et les menaces de mort dont il serait l’objet maintenant qu’il a rejoint sa confortable pantoufle. Les menaces de mort ne sont évidemment pas acceptables, mais en ce qui concerne les injures, si elles peuvent être des infractions, il appartient au juge de les qualifier notamment au regard du contexte. Rappelons-nous Guy Bedos traitant Nadine Morano de « connasse » et relaxé par la justice. Le préfet de police de Paris a fait le choix d’incarner le système Macron dans son visage brutal et répressif et se plaint des conséquences. Il voudrait donc qu’on l’aime et qu’on le respecte ?

    Il y a manifestement un mot dont il a oublié le sens, c’est celui de décence.

    #violence #brutalité #EnMarche #didier_lallement #emmanuel_macron #néo_libéralisme #mouvements_sociaux #garde-chiourme #France

    Source : https://www.vududroit.com/2022/10/quand-didier-lallement-pleurniche

  • Construire un « nous » mobilisé ?
    https://metropolitiques.eu/Construire-un-nous-mobilise.html

    Des mouvements antiracistes nouveaux sont apparus en France depuis vingt ans, privilégiant la parole des victimes et l’autonomie de leur lutte. S’ils ne revendiquent pas la non-mixité comme principe explicite d’organisation, ils s’appuient sur une forme d’entre-soi qui participe à la construction d’un « nous » mobilisé. Dossier : Espaces non mixtes : l’entre-soi contre les inégalités ? En France, l’antiracisme constitue aujourd’hui l’un des #Terrains militants où les enjeux d’autonomie des « premier·e·s Terrains

    / #racisme, non-mixité, #minorités, #mouvements_sociaux

    #non-mixité
    https://metropolitiques.eu/IMG/pdf/met_picot.pdf

  • Tüfekçi Zeynep, Twitter et les gaz lacrymogènes. Forces et fragilités de la contestation connectée
    https://journals.openedition.org/questionsdecommunication/26224

    De fait, toujours dans l’avant-propos, l’hypothèse de travail est clairement énoncée : « L’internet permet à des mouvements connectés d’atteindre rapidement une masse critique, sans pour autant leur faire acquérir en amont les capacités d’organisation ou toute autre capacité collective, formelle ou informelle, qui les préparera aux inévitables problèmes à venir et les aidera à réagir en conséquence » (p. 13). Autrement dit, la connectivité et ses affordances perturbent les certitudes qui animaient l’espace public dont « les architectures sont altérées » par les technologies (p. 46) : la sphère publique connectée est configurée différemment de l’autre : « des personnes ordinaires bénéficient de nouveaux moyens de diffusion » (p. 47).

    Chiapas, Seattle, la place Tahrir, Hong Kong, New York (Occupy Wall Street) et, bien sûr, Istanbul : T. Zeynep écrit qu’elle était « au mauvais endroit au mauvais moment » (p. 17). En fait, non : elle était au contraire au bon endroit et au bon moment pour faire avancer l’approche critique des technologies passées au crible de l’organisation des mouvements anti-autoritaires de gauche et, plus généralement, de l’action politique. Précisément, cette approche n’est pas plus possible dans le feu de l’action : « Le “clicactivisme” relève d’une action facile demandant peu d’efforts ou d’engagement » (p. 32) en mettant ensemble des « personnes qui ne sont pas unies par de véritables liens » (p. 32) : la Révolution a besoin de temps et, désormais, elle ne peut plus suspendre son vol. Après tout, cela n’est pas étonnant que cela « ne marche pas » : si « la technologie contribue à créer de nouveaux modes d’organisation et de communication » (p. 196), « les grandes plateformes logicielles qui jouent désormais un rôle central dans l’organisation des mouvements sociaux du monde entier : Facebook, Twitter, Google et autres » (p. 37) ne sont-elles pas des Gafam ? Et, face aux Gafam, les témoignages humains, casuels, qui parsèment joliment le texte finissent par être émouvants (Sana l’Égyptienne, Mohamed le Tunisien, « les blogs de cuisine qui dialoguent avec les blogs politiques » [p. 59] ou le modèle des cupcakes pour Ahmed [p. 120], les 140journos et leur maîtrise des métadonnées quand ils relayent Istanbul et que les bulldozers sont menaçants, [p. 97]) car, « la gouvernance des sans leaders », comme celle des @TahrirSupplies, ne peut fonctionner que conjoncturellement, à l’image des barricades en France en 1853 (p. 115).

    « Fourmi critique », elle multiplie les pavés qu’il est impossible de décrire dans cette note comme les mécanismes très à géométrie variable de la censure (p. 245-251), l’analyse « digitalo-émotionnelle » du Ice Bucket Challenge vs Ferguson (p. 258-263) ou YoubeMom (p. 278-280), ou encore les discordances entre affordances, capacités narratives ou disruptives, voire électorales, mises en œuvre par les mouvements sociaux et les signaux de puissance éventuels lors de Occupy Wall Street ou Tea Party (l’ensemble du chapitre viii qui, selon l’auteure, « guide » la réflexion du livre) jusqu’au nettoyage des différentes places ici et ailleurs, pour faire comme à la maison (p. 166). Sans compter aussi avec « l’armée des Trolls » (p. 366) qui occupe le terrain des affordances conduisant aux nouvelles formes de censure, voire à la paralysie tactique, « le revers de la médaille » (p. 411).

    Enfin, un ultime mot pour saluer la traduction, à la fois respectueuse du style narrativo-critique de l’auteure, de la langue et du français. L’objectif de s’adresser aussi bien à des lycéens intéressés qu’à des militants et à des chercheurs est atteint. Le livre peut alors se terminer par une dernière histoire diachronique (et une dernière rencontre à une terrasse de café à Madrid avec une Indignada) qui hante et les mouvements sociaux et les chercheurs : « Preguntando caminamos ».

    #Zeynep Tufekci #Mouvements_sociaux

  • Géographies de la colère. #Ronds-points et prés carrés

    Dans un contexte de crise économique, de catastrophe climatique, de luttes altermondialistes et démocratiques, la première décennie du XXIe siècle a été le théâtre de contestations sociales marquées par un ancrage spatial des #revendications et des #conflits. #Printemps_arabes, #Gilets_jaunes, #Blacks_Lives_Matter, #MeToo, #marches_pour_le_climat… Les #mobilisations et les #mouvements_sociaux visant à la défense de causes spécifiques s’enchaînent, et la colère semble un puissant dénominateur commun de ces manifestations disparates. Ce numéro de Géographie et cultures ambitionne de questionner les traductions spatiales de ces colères. À la faveur d’un mouvement inédit en France difficile à comprendre et à décrypter avec des grilles classiques des sciences humaines et sociales, les différents articles analysant les logiques spatiales des Gilets jaunes traduisent un besoin de renouvellement des cadres de compréhension : les ronds-points périphériques deviennent des pôles de #luttes et parfois de #violences_policières, la cartographie devient participative en demeurant un outil de combat, le périurbain n’est (toujours) pas une périphérie homogène. Des échos sont clairement identifiables dans d’autres colères issues de l’injustice de traitement : l’accès aux services publics, la violence faite aux femmes, aux Noirs (aux États-Unis). Ce numéro s’inscrit à différentes échelles : très locale quand il s’agit du fonctionnement quotidien d’un rond-point occupé ou des luttes contre les projets éoliens à celle, internationale, des violences terroristes.

    https://journals.openedition.org/gc/14706
    #revue #géographie #géographie_de_la_colère

  • Réflexions plus ou moins stratégiques autour de la dernière interview de Fouché, que l’on peut lire ici https://seenthis.net/messages/926852

    J’avais commencé en commentaire dessous, tellement ça m’a sauté aux yeux en lisant, mais c’est devenu un peu long et je ne voudrais pas le perdre.

    Première phrase fausse dès le départ : ce n’est pas « être contre Macron » qui lui coûte son poste mais bien proférer des affirmations pseudo-scientifiques, « mon bon sens près de chez vous », appuyé par aucunes études sérieuses qui auraient été relues et validées par des collègues (et non par Macron). Quand un médecin fait preuve de charlatanisme, il est normal qu’il y a des plaintes et des enquêtes contre lui.

    Il me semble vraiment que le plus important dans toute cette interview ne sont pas du tout les affirmations fausses qu’il continuerait de propager et qui pourraient être prises une par une pour les contredire, mais la mécanique de défense qu’il met en place avec d’autres : une inversion totale des chefs d’accusation, et de la charge de la preuve :
    – dire que ce sont les autres qui font de la pseudoscience
    – dire que ce sont les autres qui sont des sophistes
    – utiliser les quelques scandales connus d’ingérence dans les publications scientifiques pour invalider alors toutes les publications scientifiques, pour invalider au final le principe même des études lues et relues par des pairs
    – sous le vocabulaire des mots récents (big data, etc), invalider le principe même du métier de statisticien, qui donnent une vision globale à l’échelle de grands territoires, et dire alors que tout ça c’est faux et que « vous et moi » on est plus à même de saisir la vérité de ce qui se passe : typiquement « le bon sens près de chez vous » : l’inverse de l’épidémiologie et la gestion de la santé publique à l’échelle d’un territoire
    – ce qui aboutit à un raisonnement circulaire : ce sont les autres qui font de la pseudoscience, mais la définition actuelle de ce qu’est la méthode scientifique rigoureuse est dénoncée comme étant entièrement de la malversation, mais du coup comment on distingue que lui ferait de la bonne science ? => parce que les autres n’en font pas et sont méchants… sans aucune définition permettant de discriminer. Et pourtant la personne qui interviewe pose, avec justesse pour le coup, la question « mais du coup qui croire ? », et là il ne répond bien sûr pas du tout à la question et s’en sort par une feinte en posant d’autres questions. Plus loin il dit aussi « Information elle même basée sur une science impeccable. » sans jamais définir comment on discrimine où est la vraie science impeccable !
    – le plus grotesque (et plus c’est gros plus ça passe), dénoncer alors que ce sont les autres qui attendent un « sauveur extérieur » pour apporter « la démocratie, la santé », etc ! Alors que c’est LUI et son mouvement qui a mis en scène Raoult et la chloroquine comme homme fort qui allait tout sauver et qui avait raison seul contre tous (la définition même du sauveur chevaleresque) !
    – mâtiner stratégiquement tout ça de brossage dans le sens du poil des écolos-alternatifs avec des intérêts légitimes pour une meilleure alimentation, une meilleure agriculture ("permaculture"), et des critiques contre le transhumanisme : toute cette partie là provient très clairement des connexions qui se sont faites depuis un an entre son mouvement et les influenceurs bien-être/santé « naturelle » (genre casasnovas, etc), ainsi que les mouvements critique techno qui se sont laissés avoir

    Je retrouve désormais cette mécanique de défense chez toutes mes connaissances anti-sanitaires dans les réseaux sociaux. Et il est extrêmement difficile de répondre à tout ça car justement à la base, en tant que gauchistes patentés, on est aussi critique de l’État, critique des médias dominants, critique de l’agriculture industrielle, critique du transhumanisme, etc, etc.

    Je crois qu’il y a vraiment un truc important qui se joue là, et qui n’est pas qu’événementiel, qui va infuser dans la société pour de nombreuses années à venir. Et il faut qu’on ait les armes, à la fois en arguments factuels mais aussi sur la manière de répondre (entretien motivationnel, etc), pour se battre contre ce type de discours.

    Personnellement je suis assez démuni quand je reçois des messages gloubiboulga de mille feuille argumentatif mélangeant opportunément des vraies choses avec des sophismes, comment désamorcer cette merde chez celleux qui recopient tout ça « sincèrement » c’est-à-dire qui ne sont pas dans les créateurs de ces discours, dans ceux qui en profitent (pour l’argent, pour la gloire, etc) ?

    Et je ne pense vraiment pas qu’on puisse dire « laisse tomber on ne les convaincra jamais ceux là » car ce n’est pas une minorité qui reste dans sa bulle : c’est vraiment des discours mais surtout des modes de pensée qui se diffusent à grande échelle dans la société depuis une bonne quinzaine d’années (11 sept, et en France surtout le dieudo-soralisme, qui s’est très vite lié aux mouvements santé naturelle, école alter, etc), et Fouché le dit lui-même explicitement : ça ne se joue pas dans les manifs, mais bien en continu, dans des mouvements locaux + sur internet.

    Il faut vraiment s’organiser bien plus sérieusement contre ça, j’en suis encore plus persuadé qu’avant (et c’était déjà le cas car ça fait plus de 10 ans que je suis un peu toutes ces mouvances quand même). Mais comment, c’est une question ouverte…

    #complotisme #confusionnisme #pseudoscience #pseudo-science #anti-sanitaire #anti-masque #antivax #anti-vaccin #mouvements_sociaux #internet #stratégie #argumentation

    • Et pourtant la personne qui interviewe pose, avec justesse pour le coup, la question « mais du coup qui croire ? », et là il ne répond bien sûr pas du tout à la question...

      Et la suite de la question est :

      Les gens n’ont-ils pas besoin qu’on leur dise ce qu’ils doivent penser ?

      Je crois que le fond de toute cette affaire de « complotisme », c’est le contraire : les gens déjà passablement dépossédés de tout pouvoir sur leur vie, vont chercher et trouver sur internet ce qui les conforte dans leur sentiment de dépossession et d’impuissance. Les Fouchés et Réinfo-covid sont là pour ça. Et en face, le gouvernement et les z’autorités établies. Et en dehors de ça, le néant (ou presque).

      Bienvenue dans la nuit noire de l’oubli...

    • Quelque chose me frappe dans l’attitude de beaucoup de gens de gauche durant cette crise sanitaire. Je n’essaierai pas d’établir s’ils ont tort ou raison sur le plan scientifique - on ne le saura sans doute qu’a posteriori et ce n’est pas la question ici - mais uniquement de m’interroger sur leur éthique, sur leur rapport au pouvoir. Quand tout allait bien pour eux, ils avaient opté pour le rôle du révolté : ils contestaient l’Etat, les puissants, les dominants, se gargarisaient du beau mot de liberté, rêvaient parfois même d’anarchie. C’est ainsi qu’ils étaient par beau temps. Il a suffi que le temps se gâte pour qu’ils nous montrent un tout autre visage.
      Quand je me balade aujourd’hui sur les murs de mes amis de gauche, l’humeur n’est plus la même. Qu’est-ce que j’y vois ? L’union sacrée derrière l’Etat, l’affirmation presque martiale de leur caporalisme, la moralisation (souvent agressive) des récalcitrants, le double aveu d’une trouille et d’une intolérance qui les ont fait progressivement passer du sourire béat du bobo bien nourri à la grimace crispée de la bête traquée prête à mordre. Ils ne parlent plus que de civisme et taxent leurs adversaires d’égoïsme (sans imaginer une seconde que c’est peut-être exactement l’inverse...). Pour eux le temps des grands idéaux est passé, finis la provoc et les chemins de traverse, il s’agit désormais de marcher au pas.
      Cette mutation me sidère et pourtant, lorsque j’y réfléchis, je me dis que tout ça était déjà en germe chez eux depuis plusieurs années, bien avant cette crise. Après tout, n’était-ce pas cette même gauche, déjà si peu libertaire, qui entretenait la paranoïa des « fake news », qui relayait sur son mur les articles de la grande presse sans le moindre recul critique, qui conspuait le populisme et tout ce qui pouvait ressembler de près ou de loin à un mouvement d’opposition sérieux, qui se sentait comme un poisson dans l’eau dans les universités et dans toutes les institutions prescriptrices de la doxa officielle sur tous les sujets ? Oui, c’était déjà cette même gauche.
      La gauche dont je parle n’est même pas une vieille gauche sénile et embourgeoisée, non, c’est une gauche de trentenaires, de classe moyenne, de fonctionnaires, d’enseignants, parfois même d’artistes. Et pourtant, malgré cela, je crois qu’après avoir choisi ce camp-là durant la crise sanitaire ils ne reviendront plus en arrière. Cette fois le cap est franchi, le pli est pris : ils seront dorénavant toujours, et en toutes circonstances, du côté de l’ordre et de la sécurité.
      Ça tient à peu de chose les idéaux, c’est bien fragile. Il a suffi, juste une fois dans leur vie, qu’ils aient #peur.

      https://www.facebook.com/david.lepee/posts/10225580646403489

    • les gens déjà passablement dépossédés de tout pouvoir sur leur vie, vont chercher et trouver sur internet ce qui les conforte dans leur sentiment de dépossession et d’impuissance. Les Fouchés et Réinfo-covid sont là pour ça. Et en face, le gouvernement et les z’autorités établies.

      Je suis plutôt d’accord avec ça, mais c’est très exactement le problème : ce manichéisme bidon, qui fait qu’on ne pourrait pas être à la fois contre le gouvernement qui a fait n’importe quoi (et pas du tout parce qu’il aurait fait trop et qu’il aurait été trop méchant avec « la libertay »)(des individualistes libéraux) ET contre l’irrationnel, la « quête de sens » à tout prix même si totalement illogique et basé sur aucune connaissance, doublé d’une perte historique de l’esprit de solidarité (solidarité intergénérationnelle, solidarité envers les classes plus démunis, solidarité internationale : ces trois solidarités là au moins militent pour mettre en place collectivement des mesures sanitaires pour se protéger les uns les autres, et non pour crier à sa liberté individuelle).

      Quant au deuxième message, ça ne me fait pas super plaisir, doux euphémisme, qu’on copie un commentaire d’un énorme réac rédacteur dans deux revues d’Alain de Benoist (Krisis et Éléments), et qui passe 99% de son mur FB à citer Boulevard Voltaire, Causeur ou Valeurs actuelles, sous un texte où je dis justement qu’on devrait réussir à être à la fois contre l’État, mais pas à la mode libertarien, tout en n’étant ni complotiste irrationnel, ni côte à côte voire avec les fachos (mais ça va souvent ensemble). Et que ce soit toi qui cite ça est peut-être d’autant plus triste… :(

      Le fait que de nombreuses personnes gauchistes/anars, à l’inverse total de ce que dit ce con (qui parle surtout des « bobos-écolos-socialos » dans son idée je crois), relaient surtout des arguments proches voire carrément les mêmes que Fouché&co, donc non pas anti-passe mais bien anti-sanitaire, avec un négationnisme de la gravité et logiquement en conséquence une minimisation voire négation complète des choses qu’on peut faire ensemble, et qui défilent côte à côte avec des fachos purs et durs, ratonneurs, antisémites, etc, et au milieu de pancartes délirantes de complotisme, bah tout ça fait carrément partie du problème.

    • Je trouve que c’est bien vu quand même, ce qui est dit dans mon second post.

      Les réactionnaires ne sont pas tous automatiquement que des imbéciles, ils peuvent parfois voir mieux certaines choses (px Chesterton à propos de l’eugénisme) que les progressistes qui ont souvent une tendance spontanée à nager dans le sens du courant (le Progrès et la Modernisation à tout prix...)

      Je cite mes sources, histoire de ne pas faire croire que c’est moi qui l’ait écrit.

  • Intellectuels de tous les pays, dé-trumpez-vous !

    La détestation que tentent de susciter les penseurs conservateurs envers les concepts critiques de #genre, #race ou d’#intersectionnalité est l’écho direct de la politique de Trump dont l’administration a combattu les « #gender_studies ».

    Il est amusant de voir converger le #sensationnalisme des médias et les éructations de leurs « #intellectuels » attitrés, fixés sur une série de mots-clés : #gender, #woke, intersectionnalité, #décolonial, #race… Mais ce sont aujourd’hui des mots vides qu’on agite, les mêmes sur les couvertures des magazines ou tabloïds et dans les chroniques ou tribunes. #Luc_Ferry dénonce « l’#écoféminisme » allié à « l’#islamo-gauchisme » « pour former la ”#cancel-culture-woke” ». #Isabelle_Barbéris accuse les #recherches sur le genre et l’intersectionnalité d’être des « #pseudo-sciences », mais serait bien en peine de donner des arguments scientifiques en ce sens. Les mêmes dénoncent la « #chape_de_plomb » et l’atteinte aux #libertés que constituerait l’existence même de recherches d’universitaires qui, de leur côté, n’ont jamais empêché leurs collègues de mener les leurs.

    Alors pourquoi une certaine génération d’intellectuels, que l’on a beaucoup entendue ces derniers temps, se sent-elle menacée ? Si on écarte la thèse des pathologies mentales engendrées par la pandémie – que révèlent, entre autres, les bagarres autrement plus graves entre bandes de jeunes –, on peut analyser cela en termes de stratégies de #pouvoir_académique. Nous assistons à la #radicalisation d’attitudes que les spécialistes du domaine du genre ont connue de longue date : la volonté politique de #déconsidérer, et si possible de #criminaliser, des recherches qui sont largement développées et légitimes ailleurs, par exemple en accusant ladite « théorie du genre » de ne pas être scientifique – en dépit du fait rappelé dans le journal du CNRS qu’il s’agissait de thématiques de recherche reconnues dans les programmes de l’Union européenne, et développées également dans les sciences « dures ».

    De fait, ces thèmes ont toujours été honnis par l’#extrême_droite, et les chercheurs qui s’y investissent sont régulièrement la cible des sites, médias, militants de cette obédience. Mais l’attaque du gouvernement est une #radicalisation_électoraliste qui permet à des figures opportunistes d’essayer de reprendre pied dans le milieu universitaire resté relativement imperméable aux idées d’extrême droite. La réaction quasi unanime aux déclarations polémiques des ministres #Vidal et #Blanquer (demande de démission de Vidal signée par 24 000 universitaires) est une preuve de plus de cette difficulté que rencontre cette partie ultraréactionnaire du monde intellectuel, qui a une place bien installée dans les médias, et a clairement l’oreille du pouvoir… mais ne domine pas vraiment dans les #universités ni dans les organismes de #recherche. Ce petit milieu s’est senti pousser des ailes lorsque le #pouvoir_politique a repris les idées de l’extrême droite et son agenda classique, la #chasse_aux_intellectuels qui travaillent sur le genre, la race, le #décolonial.

    Mais le mouvement reste limité : les signataires de tribunes dénonçant l’« islamo-gauchisme » qui gangrène les universités en lien bien sûr avec le « gender », sont en réalité éloignés du #monde_académique – retraités, bénéficiaires de positions protégées dans des institutions où ils n’enseignent pas ou peu, au rayonnement très faible dans la recherche. Leur seule chance d’exister dans un monde universitaire internationalisé est donc de déconsidérer leurs collègues pour tenter de les priver de ressources, par exemple en manipulant les outils d’évaluation ; d’où leur nouvel intérêt pour le Haut Conseil de l’évaluation de la recherche et de l’enseignement supérieur (Hcéres), institution dont le gouvernement a récemment pris le contrôle direct.

    Tout cela au nom de la défense du « #pluralisme ».

    Ce croisement fétide entre enjeux intellectuels et politicards n’a pas lieu par hasard. Les concepts de genre, de race et d’intersectionnalité ont été forgés dans et par de nouveaux #mouvements_sociaux et dans l’#activisme (1) qui a permis de mettre en avant de nouvelles catégories d’#oppression. Ce sont des concepts critiques, des outils qui servent à voir et analyser les #inégalités présentes dans les sociétés contemporaines. Ce qui en fait des concepts perturbants pour la pensée ultraconservatrice, qui les a constamment ciblées. Les recherches sur l’intersectionnalité ont fait voir des formes extrêmes de #discrimination et de #vulnérabilité sociales : celles subies par les femmes noires aux Etats-Unis et apparues au grand jour avec la pandémie.

    La détestation « animale » que tentent de susciter les penseurs ultraconservateurs envers les mots même de genre, race… est l’écho direct de la politique de Trump. David Chavalarias, dans un remarquable article synthétisant l’étude quantitative de la diffusion du terme « islamo-gauchisme » sur Internet et les réseaux sociaux, note que ce vocable y a été remobilisé par le gouvernement suivant les méthodes de l’#altright trumpiste (de #Steve_Bannon), de façon à déconsidérer simultanément des recherches… et des #mouvements_émancipateurs. Ce que proposent nos ministres français s’apparente au programme « éducatif » de #Trump dont l’administration a combattu les gender studies et interdit l’usage des mots tels « #fœtus » et « #transgenre » dans les institutions de santé. Trump avait créé une commission pour promouvoir « l’#éducation_patriotique » et revenir sur l’histoire de l’#esclavage, « dangereuse et erronée » selon lui. Il dénonçait, digne précurseur de nos génies nationaux, la « théorie raciale » et les études afro-américaines. Sa secrétaire à l’éducation #Betsy_DeVos avait engagé une réécriture des #manuels_d’histoire pour glorifier le passé esclavagiste et promouvoir une nouvelle version de l’#histoire des Noirs, contre les « #radicalo-gauchistes ».

    Trump voulait ainsi consolider sa politique et son discours sexistes et racistes. Et l’on sait que la mobilisation des minorités a été essentielle dans la récente élection présidentielle. Sans les activistes, Biden ne l’aurait jamais emporté par plus de 7 millions de voix d’écart sur Trump. C’est bien par une prise de conscience – ce qu’on appelle, ici avec dérision, le woke – des injustices, parfois mortelles, que promouvait et créait sa politique que la catastrophe a été évitée. Une majorité des citoyens américains a ainsi su s’appuyer sur une culture minoritaire, dans un contexte de pandémie où beaucoup plus de citoyens ont pu participer au vote.

    L’enjeu désormais en Amérique est de préserver cet acquis, contre les tentatives actuelles des républicains de réduire l’accès au vote, seul moyen qu’ils parviennent à envisager pour accéder au pouvoir. En #France aussi, ce sont les nouvelles générations, d’étudiants et de lycéens, eux-mêmes plus sensibles aux #injustices_sociales et au #racisme déguisés en « #laïcité » (2), qui redonnent espoir, contre tous ceux, intellectuels comme politiques, qui veulent les priver des moyens de connaissance et d’accès aux nouvelles idées qui ont pu aider à la victoire de Biden. Le woke, qu’on veut nous présenter comme une nouvelle dictature, c’est l’éveil de cette force, et la meilleure protection de la #démocratie.

    (1) Voir Albert Ogien, Politiques de l’activisme, sous presse.

    (2) Voir l’enquête sur la laïcité.

    https://www.liberation.fr/idees-et-debats/opinions/intellectuels-de-tous-les-pays-de-trumpez-vous-20210312_W6BYMYYMSZDIHBAO7

    #Sandra_Laugier

  • Decolonizing solidarity

    Thinking through solidarity organizing, with an eye to how we can better live the change, as well as how we often slip in to colonial patterns when working together across distance and difference.

    http://decolonizingsolidarity.blogspot.com

    Et une #bibliographie sur zotero:
    https://www.zotero.org/groups/240008/geographies_of_social_movements

    #solidarité #Sara_Koopman #blog #colonisation #colonialisme #décolonialité #décolonisation #mouvements_sociaux #ressources_pédagogiques

    ping @cede @karine4

  • Afrique : les activistes dénoncent les autocrates
    https://www.cetri.be/Afrique-les-activistes-denoncent

    Les analyses de François Polet, chercheur au CETRI, reprises par la Deutsche Welle. Des mouvements de jeunes constatent la multiplication des troisièmes mandats. Pourtant, pour eux, il va falloir aussi s’adapter. Réécouter l’intervention de François Polet sur la Deutsche Welle dans Info Matin, le 15.12.2020 : L’article du 14.12.2020 : La deuxième édition de l’Université Populaire de l’Engagement Citoyen (UPEC) se tient du 14 au 16 décembre à Dakar, au Sénégal. Deux ans après la première édition, (...) #Le_regard_du_CETRI

    / #Le_Sud_en_mouvement, #Le_regard_du_CETRI, #Autoritarisme, #Mouvements_sociaux, Relations entre mouvements sociaux & gouvernements, #Afrique_subsaharienne, Moyen-Orient & Afrique du (...)

    #Relations_entre_mouvements_sociaux_&_gouvernements #Moyen-Orient_&_Afrique_du_Nord
    https://www.cetri.be/IMG/mp3/2020.12.16_fp.mp3

  • #Soudan : divisions entre les acteurs du soulèvement de 2019
    https://www.cetri.be/Soudan-divisions-entre-les-acteurs

    Apparus dans la foulée des manifestations de 2013, les comités de quartier ont joué un rôle clé dans la vaste mobilisation qui a conduit à la chute d’Omar el-Bashir en 2019. Mais la transition a fait apparaître des lignes de fracture politique, sociale et générationnelle entre ces comités, et entre eux et les nouveaux dirigeants. Marginalisée ou instrumentalisée, la voix des quartiers populaires de Khartoum peine toujours à se faire (...) #Alternatives_Sud_-_extraits

    / Soudan, #Mouvements_sociaux, Relations entre mouvements sociaux & gouvernements, #Contestation

    #Relations_entre_mouvements_sociaux_&_gouvernements

  • Haïti : mobilisations antisystème et impasse politique
    https://www.cetri.be/Haiti-mobilisations-antisysteme-et

    Les mobilisations sociales qui secouent #Haïti depuis 2018 ont des spécificités, liées à son histoire, mais elles participent des soulèvements populaires ailleurs dans le monde. L’aggravation de la situation économique et le mépris du gouvernement ont contribué à radicaliser et à faire converger les protestations contre la vie chère et la corruption. Si les acteurs restent divisés, ils s’accordent sur la nécessité de sortir de l’emprise du (...) #Alternatives_Sud_-_extraits

    / Haïti, #Mouvements_sociaux, Relations entre mouvements sociaux & gouvernements, #Contestation

    #Relations_entre_mouvements_sociaux_&_gouvernements

  • #Chili : le soulèvement de 2019 au prisme d’un cycle de luttes et de déceptions
    https://www.cetri.be/Chili-le-soulevement-de-2019-au

    Le soulèvement qui a secoué le Chili en octobre 2019 s’inscrit dans une succession de conflits sociaux. La mobilisation étudiante de 2011 a accouché d’une génération militante radicale, qui a dynamisé les luttes syndicales, féministes et écologistes. Elle a également engendré des tentatives de modifier l’ordre néolibéral par la voie institutionnelle, dont les limites ont approfondi la méfiance des classes populaires envers la (...) #Alternatives_Sud_-_extraits

    / Chili, #Mouvements_sociaux, Relations entre mouvements sociaux & gouvernements, #Contestation, #Néolibéralisme

    #Relations_entre_mouvements_sociaux_&_gouvernements

  • Amérique latine : l’année des « peuples en mouvement »
    https://www.cetri.be/Amerique-latine-l-annee-des

    Les peuples latino-américains sont passés à l’offensive. Une vague de soulèvements inédits, au sein desquels les femmes, les indigènes et les Afro-descendants ont joué un rôle important, a traversé le continent en 2019, plus particulièrement l’Équateur et le Chili. C’est forts de cette expérience que les mouvements ont affronté la pandémie du covid-19, invitant au passage à revoir les concepts avec lesquels nous appréhendons l’action (...) #Alternatives_Sud_-_extraits

    / Amérique latine & Caraïbes, #Mouvements_sociaux, Relations entre mouvements sociaux & gouvernements, #Contestation

    #Amérique_latine_&_Caraïbes #Relations_entre_mouvements_sociaux_&_gouvernements

  • #Liban : la portée et les limites du « hirak »
    https://www.cetri.be/Liban-la-portee-et-les-limites-du

    Le mouvement social qui a secoué le Liban à la fin de l’année 2019 traduit l’épuisement d’un système économique et politique. Divisé entre libéraux et tendances de gauche, le « hirak » est sujet à tout type de récupération, notamment par des forces confessionnelles ou des puissances étrangères. La probabilité est grande de voir la crise actuelle déboucher sur la renégociation du contrat communautaire plutôt que sur son (...) #Alternatives_Sud_-_extraits

    / Liban, #Mouvements_sociaux, Relations entre mouvements sociaux & gouvernements, #Contestation

    #Relations_entre_mouvements_sociaux_&_gouvernements

  • #Iran : révoltes populaires sans lendemain et fragmentation des mouvements
    https://www.cetri.be/Iran-revoltes-populaires-sans

    Dix ans après le « mouvement vert », les soulèvements de 2017 et 2019 révèlent un glissement des bases de la #Contestation du régime vers la province et les classes populaires, autour d’enjeux socio-économiques. Le discrédit des dirigeants réformistes, l’absence de coordination entre #Mouvements_sociaux et la brutalité du régime nourrissent une désespérance politique qui se traduit par des explosions de colère spontanées et (...) #Alternatives_Sud_-_extraits

    / Iran, Mouvements sociaux, Relations entre mouvements sociaux & gouvernements, Contestation, #Crises

    #Relations_entre_mouvements_sociaux_&_gouvernements