• L’erosione di Schengen, sempre più area di libertà per pochi a danno di molti

    I Paesi che hanno aderito all’area di libera circolazione strumentalizzano il concetto di minaccia per la sicurezza interna per poter ripristinare i controlli alle frontiere e impedire così l’ingresso ai migranti indesiderati. Una forzatura, praticata anche dall’Italia, che scatena riammissioni informali e violazioni dei diritti. L’analisi dell’Asgi

    Lo spazio Schengen sta venendo progressivamente eroso e ridotto dagli Stati membri dell’Unione europea che, con il pretesto della sicurezza interna o di “minacce” esterne, ne sospendono l’applicazione. Ed è così che da spazio di libera circolazione, Schengen si starebbe trasformando sempre più in un labirinto creato per isolare e respingere le persone in transito e i cittadini stranieri.

    Per l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) la sospensione della libera circolazione, che dovrebbe essere una pratica emergenziale da attivarsi solo nel caso di minacce gravi per la sicurezza di un Paese, rischia infatti di diventare una prassi ricorrente nella gestione dei flussi migratori.

    A fine ottobre di quest’anno il governo italiano ha riattivato i controlli al confine con la Slovenia, giustificando l’iniziativa con l’aumento del rischio interno a seguito della guerra in atto a Gaza e da possibili infiltrazioni terroristiche. La decisione è stata anche proposta come reazione alla pressione migratoria a cui è soggetto il Paese. Lo stesso giorno in cui l’Italia ha annunciato la sospensione della libera circolazione -misura prorogata- la stessa scelta è stata presa anche da Slovenia, Austria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia e Germania. Una prassi che rischia di agevolare le violazioni dei diritti delle persone in transito. “Questa pratica, così come l’uso degli accordi bilaterali di riammissione, ha di fatto consentito alle autorità di frontiera dei vari Stati membri di impedire l’ingresso nel territorio e di applicare respingimenti ai danni di persone migranti e richiedenti asilo, in violazione di numerose norme nazionali e sovranazionali”, scrive l’Asgi.

    Il “Codice frontiere Schengen” prevede che i confini interni possano essere attraversati in un qualsiasi punto senza controlli sulle persone, in modo indipendente dalla loro nazionalità. Secondo i dati del Consiglio dell’Unione europea, circa 3,5 milioni di persone attraverserebbero questi confini ogni giorno mentre in 1,7 milioni lavorerebbero in un Paese diverso da quello di residenza, attraversando così una frontiera interna. In caso di minaccia grave per l’ordine pubblico o la sicurezza interna in uno Stato membro, però, quest’ultimo è autorizzato a ripristinare i controlli “in tutte o in alcune parti delle sue frontiere interne per un periodo limitato non superiore a 30 giorni o per la durata prevedibile della minaccia grave”. Tuttavia, lo stesso Codice afferma che “la migrazione e l’attraversamento delle frontiere esterne di un gran numero di cittadini di Paesi terzi non dovrebbero in sé essere considerate una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza”.

    Inoltre, anche nel caso in cui vengano introdotte restrizioni alla libera circolazione, queste vanno applicate in accordo con il diritto delle persone in transito. “La reintroduzione temporanea dei controlli non può giustificare alcuna deroga al rispetto dei diritti fondamentali delle persone straniere che fanno ingresso nel territorio degli Stati membri e, nel caso specifico dell’Italia, attraverso il confine italo-sloveno -ribadisce l’Asgi-. In particolare, il controllo non può esentare le autorità di frontiera dalla verifica delle situazioni individuali delle persone straniere che intendano accedere nel territorio dello Stato e che intendano presentare domanda di asilo”. In particolare, la sicurezza dei confini non può impedire l’accesso alle procedure di protezione internazionale per chi ne fa richieste e di riceve informazioni sulla possibilità di farlo. Infine, i controlli non possono portare a una violazione del diritto di non respingimento, che impedisce l’espulsione di una persona verso Paese dove potrebbe subire trattamenti inumani o degradanti o dove possa essere soggetta a respingimenti “a catena” verso Stati che si macchiano di queste pratiche.

    Le operazioni di pattugliamento lungo il confine tra Italia e Slovenia presentano criticità proprio in tal senso. Secondo le notizie riportate dai media e le recenti dichiarazioni del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, l’Italia avrebbe applicato ulteriori misure che hanno l’evidente effetto di impedire alla persona straniera l’accesso al territorio nazionale e ai diritti che ne conseguono. Già a settembre del 2023 il ministro aveva dichiarato, in risposta a un’interrogazione parlamentare, la ripresa dell’attività congiunta tra le forze di polizia di Italia e Slovenia a partire dal 2022. Sottolineando come grazie all’accordo fosse stato possibile impedire, per tutto il 2023, l’ingresso sul territorio nazionale di circa 1.900 “migranti irregolari”. “Preoccupa, inoltre, l’opacità operativa che caratterizza questi interventi di polizia: le modalità, infatti, con le quali vengono condotti sono poco chiare e difficilmente osservabili ma celano evidenti profili di criticità e potenziali lesioni di diritti”.

    Le azioni di polizia, infatti, avrebbero avuto luogo già in territorio italiano oltre il confine: una simile procedura appare in linea con quanto previsto dalle procedure di riammissione bilaterale, ma in contrasto con il Codice frontiere Schengen, che presuppone che i controlli possano essere svolti solo presso i valichi di frontiera comunicati alle istituzioni competenti. Una prassi simile è stata riscontrata lungo il confine italo-francese, dove l’Asgi ha identificato la coesistenza di pratiche legate alla sospensione della libera circolazione con procedure di riammissione informale.

    “La libera circolazione nello spazio europeo è una delle conquiste più importanti dei nostri tempi -è la conclusione dell’Asgi-. Il suo progressivo smantellamento dovrebbe essere dettato da una effettiva emergenza e contingenza, entrambe condizioni che sembrano non rinvenibili nelle motivazioni addotte dall’Italia e dagli altri Stati membri alla Commissione europea. La libertà di circolazione, pilastro fondamentale dell’area Schengen, rivela forse a tutt’oggi la sua vera natura: un’area di libertà per pochi a danno di molti”.

    https://altreconomia.it/lerosione-di-schengen-sempre-piu-area-di-liberta-per-pochi-a-danno-di-m

    #Schengen #contrôles_frontaliers #contrôles_systématiques_aux_frontières #asile #migrations #réfugiés #frontières #Europe #frontières_intérieures #espace_Schengen #sécurité #libre_circulation #Italie #Slovénie #terrorisme #Gaza #Slovénie #Autriche #République_Tchèque #Slovaquie #Pologne #Allemagne #accords_bilatéraux #code_frontières #droits_humains #droits_fondamentaux #droit_d'asile #refoulements_en_chaîne #patrouilles_mixtes #réadmissions_informelles #France #frontière_sud-alpine

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    ajouté au fil de discussion sur la réintroduction des contrôles systématiques à la frontière entre Italie et Slovénie :
    https://seenthis.net/messages/1021994

  • En Suède, l’extrême droite a le vent en poupe, un an après l’arrivée de la droite au pouvoir
    https://www.lemonde.fr/international/article/2023/11/26/en-suede-l-extreme-droite-a-le-vent-en-poupe-un-an-apres-l-arrivee-de-la-dro

    En Suède, l’extrême droite a le vent en poupe, un an après l’arrivée de la droite au pouvoir
    Membre de la majorité depuis octobre 2022, les Démocrates de Suède, réunis en congrès ce week-end, veulent accélérer le rythme des réformes en prônant « la politique de l’asile la plus restrictive d’Europe ».
    Par Anne-Françoise Hivert(Västeras (Suède), envoyée spéciale)
    Cheveux longs gris et lunettes cerclées de noir, Asa Wittenfelt, 64 ans, a le sourire aux lèvres. Professeure de mathématiques et de sciences dans un lycée professionnel, elle est venue de Lund, dans le sud du pays, pour participer au congrès des Démocrates de Suède (SD), qui se déroulait du jeudi 23 au dimanche 26 novembre, à Västeras, au nord-ouest de Stockholm. « Pour la première fois depuis longtemps, je ressens de l’espoir. On reconnaît enfin qu’on a été naïfs et on ose parler de tout, sans tabou », dit-elle.Asa a adhéré au parti il y a douze ans, « catastrophée » par la situation dans son école, où « les élèves, appartenant à différents clans, se battaient dans les couloirs ». A l’époque, être membre des SD, une formation nationale conservatrice aux origines néonazies, n’était pas bien vu. Elle a essuyé les critiques de ses collègues. « Aujourd’hui, beaucoup me disent qu’ils sont d’accord avec moi et même des élèves me soutiennent », affirme l’enseignante.
    Dans les couloirs du palais des congrès de Västeras, les 300 délégués, venus de tout le pays, arborent le même air de satisfaction. Ils ont de quoi : depuis octobre 2022, les SD font partie de la majorité, avec les conservateurs, les chrétiens-démocrates et les libéraux. Et, même s’ils ne siègent pas formellement au gouvernement – ils n’ont pas de portefeuilles ministériels, mais disposent d’un bureau de coordination au sein de l’administration gouvernementale et participent à presque toutes les conférences de presse des ministres –, les Suédois estiment que ce sont eux qui ont le plus d’influence sur la politique actuellement menée.
    Samedi, sans surprise, les délégués ont réélu Jimmie Akesson, 44 ans, à la tête du parti qu’il dirige depuis 2005. Paraphrasant l’ancien président américain Donald Trump, le leader de l’extrême droite, très en verve, a assuré que « maintenant que [les SD] participaient à la gouvernance » du pays, ils allaient « rendre sa grandeur à la Suède ». Au terme de la mandature, le royaume aura « la politique de l’asile la plus restrictive d’Europe », a-t-il promis, sous les applaudissements, avant de consacrer une bonne partie de son discours à dénoncer l’emprise des « islamistes » sur la société suédoise, qu’il veut combattre en « confisquant et en détruisant les mosquées » accusées de propager un discours « antidémocratique ».
    Un an après l’arrivée de la droite au pouvoir, les SD ont le vent en poupe. Crédité de 22 % des intentions de vote dans les sondages – ils avaient obtenu 20,5 % aux législatives, le 11 septembre 2022 –, ils pèsent désormais plus lourd que les trois partis du gouvernement réunis. Le contexte n’y est pas étranger : en proie à la criminalité organisée, qui a fait cinquante morts depuis le début de l’année, la Suède est aussi menacée par le terrorisme islamiste – deux supporteurs suédois ont été tués à Bruxelles, le 16 octobre, dans un attentat, commis par un Tunisien.
    Sur tous ces sujets, « nous sommes perçus comme les plus crédibles », assure Mattias Bäckström Johansson, secrétaire du parti depuis décembre 2022. A 38 ans, cet ancien opérateur de l’industrie nucléaire ne boude pas son plaisir : « Bien sûr que nous sommes très contents de ce qui a été accompli en un an, mais nous aimerions que cela aille plus vite. » Car, avant de pouvoir être votée au Parlement, toute réforme doit faire l’objet au préalable d’un examen approfondi. Malgré de nombreuses annonces, très peu de lois ont donc été adoptées.
    (...°Même empressement du côté des Ungsvenskarna SDU, les Jeunes Démocrates de Suède, la section jeunesse du parti, qui compte 2 000 adhérents. Robe vichy et vernis orange, Rebecka Rapp, 23 ans, est souvent interpellée sur TikTok : « On me demande pourquoi ça ne va pas plus vite, j’explique que c’est la politique. » Lors des dernières élections, 22 % des Suédois âgés de 18 à 21 ans ont voté pour le parti (et 26 % pour les conservateurs) : « C’est devenu cool, pour les jeunes, d’être à droite », assure la jeune femme. Etudiante en ingénierie civile à l’Institut royal de technologie royal à Stockholm (...) Le parti est dans une position idéale, observe Ann-Cathrine Jungar, professeur de sciences politiques à l’université de Södertörn : « Il a un pied dans le gouvernement et un autre en dehors, ce qui lui permet d’exercer une influence politique, tout en continuant à critiquer le gouvernement. » Jimmie Akesson ne s’en prive pas, pas plus qu’il ne rate une occasion de faire dans la surenchère, allant jusqu’à plaider pour que la police détienne des personnes sans le moindre soupçon. A Västeras, il s’en est pris à l’ensemble de la classe politique, accusée d’avoir « activement » permis à la criminalité de se développer : « Nous n’oublierons pas et nous ne pardonnerons pas », a-t-il déclaré.
    Face à ses excès ou à ceux de responsables de son parti, propageant par exemple la théorie du « grand remplacement » ou défendant les autodafés du Coran, la droite laisse faire : « Les autres partis sont mal à l’aise, mais ils ont décidé de ne pas critiquer les SD, même quand ils tiennent des propos radicaux, ce qui démontre leur influence », note le politologue Tommy Möller. Avec pour conséquence aussi de normaliser un discours qui aurait été jugé inacceptable il y a quelques années, mais qui se répand désormais dans l’espace public, alors que « l’inhibition pour voter SD ne cesse de baisser », remarque M. Möller.L’un des vétérans de la formation, l’idéologue Mattias Karlsson, y voit l’aboutissement d’un long processus mené « de façon très déterminée » par le parti, qui, « malgré les obstacles », a enfin réussi à se débarrasser de « l’image stigmatisante » qui l’a longtemps pénalisé. « Aujourd’hui, nous sommes tellement normalisés au sein de la société que nous pouvons recruter des personnes compétentes et nous professionnaliser. Nous avons atteint la dernière étape, avant d’entrer au gouvernement », assure-t-il. Jimmie Akesson ne s’en cache pas : en 2026, si la droite l’emporte, il exigera des portefeuilles ministériels, ou bien il siégera dans l’opposition. En attendant, les SD ont les yeux tournés vers les élections européennes de juin 2024. Lors du précédent scrutin, en 2019, ils étaient arrivés en troisième position, avec 15,3 % des voix. Depuis, le parti a renoncé à exiger un « Swexit », même s’il continue de considérer Bruxelles et l’UE comme « une des plus grosses menaces contre la souve#raineté » du pays, avec l’immigration. A Västeras, il n’a pas été question de la victoire du leader d’extrême droite Geert Wilders aux élections néerlandaises, pas plus que du grand rassemblement des populistes du groupe Identité et démocratie (ID) qui s’est tenu au Portugal, vendredi. Les SD font partie du groupe Conservateurs et réformistes européens et continuent de juger « problématiques » les liens de certains partis d’ID avec la Russie, comme le Rassemblement national de Marine Le Pen.

    #Covid-19#migrant#migration#suede#extremedroite#immigration#souverainte#islamisme#terrorisme#asile#politiquemigratoire

  • Le large dos du #terrorisme
    https://www.kedistan.net/2023/11/19/le-large-dos-du-terrorisme

    https://www.kedistan.net/wp-content/uploads/2023/11/gaza.jpg

    Le terrorisme est « l’emploi de la terreur à des fins politiques, idéologiques ou religieuses ». On retrouve les termes de cette définition dans nombre de langues Cet article Le large dos du terrorisme a été publié par KEDISTAN.

    #Chroniques_de_Daniel_Fleury #Droits_humains #Nationalismes #Peuples #Gaza #Israël #Palestine

  • La proximité entre le Hamas et les djihadistes, une mystification occidentale - Yassine Slama
    https://orientxxi.info/magazine/la-proximite-entre-le-hamas-et-les-djihadistes-une-mystification-occiden

    Eu égard à la surprise de l’opération, à son ampleur, au nombre de victimes et d’otages, les attaques du 7 octobre 2023 ont rapidement donné lieu de la part des Israéliens, des Européens et des Américains à des comparaisons entre le Hamas, Al-Qaida et l’Organisation de l’État islamiste. Mais elles manquent de rigueur et ignorent tout des divergences entre ces mouvements.

    #terrorisme

  • Le ministre de la défense israélien fait ce que les Israéliens font avec une régularité d’horloge : annoncer qu’ils commettront des crimes de guerre du Liban.
    https://www.timesofisrael.com/liveblog-november-11-2023/#liveblog-entry-3150827

    “I am saying here to the citizens of Lebanon, I already see the citizens in Gaza walking with white flags along the coast and moving south,” says Gallant during a visit to an army base on the northern border.

    “Hezbollah is dragging Lebanon into a war that may happen, and it is making mistakes,” he says.

    “If it makes mistakes of this kind, the ones who will pay the price are first of all the citizens of Lebanon. What we are doing in Gaza we know how to do in Beirut,” Gallant warns.

    Selon la logique habituelle : nous ne commettons pas de crimes de guerre à Gaza parce que nous ne ciblons pas la population civile, mais nous avertissons les Libanais de bien regarder ce que nous faisons au gazaouites, parce que nous leur ferons la même chose (c’est-à-dire pas-des-crimes-de-guerre).

  • Operation Thunderbolt (Film)
    https://de.m.wikipedia.org/wiki/Operation_Thunderbolt_(Film)


    Pour les admirateurs de Klaus Kinski. L’acteur joue le rôle du méchant qui porte le nom Wilfried Böse (Wilfried le Méchant #ROFL).

    Cette oeuvre glorifie „Yoni“ Netanyahu, le frère de notre „Bibi“ préféré. Quelques politiciens israëliens de l’époque jouent leur propre rôle. Bref, le film est un must pour te mettre à l’aise avant de descendre dans la rue pour montrer ta solidarité avec les sionistes qui se défendent contre les Böse . A ne pas rater l’apparition de notre playboy berlinois Rolf Eden, connu pour ses boîtes de nuit au serveuses à poil. Ah, je savoure la nostalgie de la belle époque !

    Film von Menahem Golan (1977)

    Operation Thunderbolt (hebräisch מבצע יונתן, Mivtsa Yonatan) ist ein israelisches Filmdrama von Menahem Golan aus dem Jahr 1977. Es behandelt die Operation Entebbe.

    Kritik
    Für das Lexikon des internationalen Films war Operation Thunderbolt „zu sehr von einer einseitigen Ideologie geprägt, um ein annähernd authentisches Bild liefern zu können. Die bloße Heroisierung der Kommandoaktionen verstellt den Blick auf die eigentlichen Probleme des Nahost-Konflikts.“

    Auszeichnungen
    Operation Thunderbolt wurde 1978 für einen Oscar als Bester fremdsprachiger Film nominiert.
    DVD Bearbeiten

    Handlung

    Im Sommer 1976 wollen zahlreiche Passagiere, darunter neben Israelis auch US-Amerikaner, Franzosen und Deutsche, von Tel Aviv nach Paris fliegen. Flug 139 landet planmäßig in Athen zwischen, wobei unbemerkt Terroristen an Bord gelangen. Durch einen fingierten Stromausfall werden dabei keine Taschenkontrollen durchgeführt. Kurz nach dem Start gen Paris bringen deutsche und palästinensische Terroristen die Besatzung in ihre Gewalt. Anführer der Gruppe sind die Deutschen Wilfried Böse und Gabriele, die sich Halima nennt. Sie setzen Flugkapitän Michel Bacos davon in Kenntnis, das Böse von nun an das Kommando hat. Er gibt Anweisung, dass das Flugzeug einen neuen Kurs gen Südwest einschlägt. Ein Kopilot aktiviert das Signal, dass das Flugzeug entführt wurde.

    In Israel sorgt das Signal für Hektik, der Entführung wird höchste Priorität eingeräumt. Erste Pressekonferenzen geben als Gebot der Stunde jedoch Abwarten ab, da niemand weiß, wo das Flugzeug landen wird. An Bord müssen die Passagiere unterdessen ihre Pässe abgeben. Eine schwangere Passagierin ritzt sich, sodass sie stark zu bluten beginnt. Bei einer ersten Zwischenlandung der Maschine in Bengasi wird die Frau einem Krankenwagen übergeben. Das Flugzeug hebt zur Bestürzung des israelischen Militärs jedoch erneut ab und beendet seinen Flug schließlich in Entebbe. Dies sorgt in Israel für Probleme, da man mit Uganda keine diplomatischen Beziehungen pflegt.

    Wie in Libyen, wo den Entführern Grüße von Muammar al-Gaddafi ausgerichtet wurden, zeigt sich auch in Uganda, dass die Entführer einen guten Kontakt zu den Machthabern pflegen. Böse und Gabriele verstehen sich selbst als „Friedenskämpfer“. Unverständnis von Passagieren, dass Deutsche Israelis entführen, begegnen sie mit einer Ablehnung des deutschen Staates, der zerstört werden müsse. Ihr Ziel ist es, 43 Terroristen aus israelischen Gefängnissen freizupressen, wobei sie von Machthaber Idi Amin, der vor Ort erscheint, unterstützt werden. Sie setzen der israelischen Regierung eine Frist von 24 Stunden. In der Flughafenhalle von Entebbe trennen sie die israelischen Geiseln von den anderen, die freigelassen werden. Nur die französische Crew weigert sich, die Passagiere im Stich zu lassen, und verbleibt mit den Israelis im Flughafengebäude. Gen Israel machen die Entführer deutlich, dass sie nach Ende der Frist mit Erschießungen der Geiseln beginnen werden.

    In Israel wächst der Druck, den Forderungen der Geiselnehmer nachzugeben. Öffentlich geht die Regierung daher auf die Forderungen der Geiselnehmer ein, was mehr Zeit bringt. Eine kleine Einheit unter Colonel Yonatan Netanyahu, genannt Yoni, plant unterdessen die Befreiung der Geiseln, wobei das Überraschungsmoment eine entscheidende Rolle spielen soll. Mit nur vier Militärmaschinen, die Wagen, die als offizielle ugandische Regierungswagen getarnt sind, sowie mehrere schnelle Jeeps transportieren, sollen die Geiseln nachts gerettet werden. Die Einheit plant den Angriff und übt die Abläufe, die so schnell wie möglich erfolgen müssen. In Entebbe wird unterdessen die alte Dora Bloch in ein Krankenhaus gebracht, nachdem sie durch verschlucktes Essen zu ersticken drohte.

    Da die Frist für eine Freilassung der Terroristen nahe ist, fliegen die vier Militärmaschinen gen Entebbe, bevor die Mission durch die Regierung autorisiert wurde. Erst in der Luft erhalten sie die Einwilligung. In Entebbe gelingt es der Gruppe um Yoni, die Geiseln zu befreien. Neben den Geiselnehmern kommen dabei auch drei Geiseln ums Leben. Yoni wiederum wird von einem Wachturm aus von ugandischen Soldaten angeschossen und verstirbt auf dem Rückweg nach Tel Aviv. Dora Bloch bleibt im Krankenhaus in Uganda zurück. In Tel Aviv werden die Militärmaschinen von jubelnden Menschenmassen empfangen, wobei sich die Freude bei vielen mit der Trauer der wenigen, die Angehörige verloren haben, mischt. Yonis Freundin, der der Soldat vor seiner Abreise noch die Ehe versprochen hatte, wird von den Männern seiner Einheit tröstend in die Mitte genommen und vom Rollfeld geführt.

    Operation Thunderbolt war eine von mehreren Verfilmung, die kurz nach der Operation Entebbe erschienen. Der Fernsehfilm Unternehmen Entebbe war bereits im Jahr der Entführung 1976 erschienen, ...die keine Gnade kennen folgte im Januar 1977 ebenfalls im Fernsehen. Operation Thunderbolt war schließlich der erste Kinofilm über die Geiselbefreiung. Wie in den früheren Filmen wurde auch im Kinofilm die Rolle des Wilfried Böse von einem deutschsprachigen Schauspieler übernommen, so war nach Helmut Berger (1976)[1] und Horst Buchholz (1977, TV)[2] nun Klaus Kinski als Böse zu sehen. Eine Besonderheit des Films war, dass neben Familienmitgliedern der Geiseln auch zahlreiche Entscheidungsträger wie Shimon Peres, Jigal Allon, Moshe Dayan und Jitzchak Rabin selbst im Film auftreten.[3] Im Film bleibt das Schicksal von Dora Bloch offen, da zu der Zeit noch nicht bekannt war, dass sie durch Idi Amins Truppen aus Rache ermordet wurde.

    Der Film wurde in bzw. bei Eilat (Szenen in Entebbe), Tel Aviv (Flughafen Ben Gurion) und Jerusalem (Knesset-Szenen) gedreht. Er kam 1977 in die israelischen Kinos. In Deutschland war er erstmals am 21. Mai 1987 auf Sat.1 zu sehen.

    Der Film wurde 2019 unter dem Titel ’Operation Entebbe’ in Deutschland auf DVD veröffentlicht.

    Film
    Deutscher Titel
    Operation Thunderbolt
    Originaltitel
    מבצע יונתן / Mivtsa Yonatan
    Produktionsland
    Israel
    Originalsprache
    Hebräisch,
    Englisch,
    Deutsch,
    Arabisch,
    Spanisch
    Erscheinungsjahr
    1977
    Länge
    124 Minuten
    Stab
    Regie
    Menahem Golan
    Drehbuch
    Ken Globus,
    Menahem Golan,
    Clarke Reynolds
    Produktion
    Sybil Danning,
    Yoram Globus,
    Menahem Golan
    Musik
    Dov Seltzer
    Kamera
    Adam Greenberg
    Schnitt
    Dov Hoenig
    Besetzung

    Yehoram Gaon: Yonatan „Yoni“ Netanyahu
    Gila Almagor: Nurit Aviv
    Assi Dayan: Shuki
    Klaus Kinski: Wilfried Böse
    Sybil Danning: Halima
    Arik Lavie: Dan Schomron
    Shmuel Rodensky: Familienoberhaupt
    Shaike Ophir: Gadi Arnon
    Reuven Bar-Yotam: Avraham Ben-David
    Gabi Amrani: Gavriel
    Mark Heath: Idi Amin
    Henri Czarniak: Michel Bacos
    Rolf Eden: Air France Co-Pilot
    Shoshana Shani-Lavie: Alma Raviv
    Oded Teomi: Dan Zamir
    Shimon Bar: deutscher Arzt
    Ori Levy: Mordechai Gur
    Rachel Marcus: Dora Bloch
    Mona Silberstein: Naomi Tal
    Avraham Ben-Yosef: Prof. Avner Tal
    Hi Kelos: US-amerikanischer Reporter
    Natan Cogan: Grossman
    Gad Keiner: Rogman

    Rolf Eden
    https://de.m.wikipedia.org/wiki/Rolf_Eden

    Mit 14 verließ Rolf Eden die Schule und verdiente sein Geld als Musiker. Im ersten arabisch-israelischen Krieg von 1948 kämpfte er in der Einheit Palmach zusammen mit Yoram Kaniuk unter Jitzchak Rabin

    Voilà le film en v.o. sous-titrée en anglais. Merci Youtube !
    https://www.youtube.com/watch?v=D_GQdH1V7As

    #Entebbe #Israël #Ouganda #cinéma #terrorisme #sionisme #machisme #Berlin #histoire #trash #wtf

  • Israel’s Chance to Turn Carnage into Peace
    https://www.commondreams.org/opinion/israel-gaza-peace-diplomacy

    Il faut cririquer Israël si on veut sauver Israël. Malheureusement chaque critique d’Israël et de son gouvernement d’extrême droite est assimilé à l’antisemitisme par la propagande sioniste. Cet article propose une solution à ce dilemme.

    31.10.2023 by Jeffrey D. Sachs - Friends do not let friends commit crimes against humanity.

    Israel is running out of time to save itself—not from Hamas, which lacks the means to defeat Israel militarily, but from itself. Israel’s war crimes in Gaza, verging on the crime of genocide according to the Center for Constitutional Rights, threaten to destroy Israel’s civil, political, economic, and cultural relations with the rest of the world. There are growing calls in Israel for Prime Minister Benjamin Netanyahu to resign immediately. A new Israeli government should seize the opportunity to turn carnage into lasting peace through diplomacy.

    Netanyahu is leading Israel into the same trap that the U.S. fell into after 9/11. Hamas’ goal in its heinous terrorist attack on 10/7 was to goad Israel into a long and bloody war, and to induce Israel to commit war crimes to bring on the world’s opprobrium. This is a classic political use of terror: not merely to kill, but to frighten, provoke, debase, and ultimately undermine, the foe.

    Al-Qaeda, the perpetrator of 9/11, goaded America’s political class to launch disastrous wars in Afghanistan, Iraq, and beyond. The result was carnage, torture by U.S. agencies and military forces, $8 trillion in debt, and the collapse of U.S. prestige and power worldwide. Hamas is similarly goading Israel into war crimes and potentially into a region-wide war. Israel’s actions are turning Israel’s friends around the world against it.

    Israel’s instinct is to ignore global opinion, chalking it up to anti-Semitism and believing that the U.S. has Israel’s back. Yet the U.S., weakened as it is in world affairs, can’t possibly save Israel from itself. Just look at how the U.S. is “saving” Ukraine. Ukraine is being destroyed by its pursuit of NATO membership and rejection of diplomacy, both of which have been encouraged by America’s ineffective pledge to support Ukraine militarily “for as long as it takes.”

    Israel’s actions are turning Israel’s friends around the world against it.

    There is another deep similarity of al-Qaeda’s 9/11 and Hamas’s 10/7. Al-Qaeda was a U.S. creation that later boomeranged. By covertly funding Islamic jihadists in Afghanistan to fight the Soviet Union during the 1980s, the CIA effectively launched al-Qaeda. In the case of Hamas, Netanyahu—as is well-documented—secretly backed Hamas in order to divide and weaken the Palestinian Authority.

    Israelis are told by Netanyahu and his cabinet that there is no alternative to achieve security and peace other than to invade Gaza to defeat Hamas. The acquiescence of the U.S. and European governments as Israel invades Gaza conveys the message to the Israeli people that their leaders are telling the truth: that Hamas can be defeated militarily, that the civilian deaths in Gaza are being limited by careful targeting of military operations, and that Israel is doing the only thing it can do for its own security. Yet these misguided views are perpetrated by the same political class that let Israel’s guard down in the lead-up to 10/7. Israeli leaders are seeking to cover up their blunders through the war in Gaza.

    The facts are these. First, while Hamas demonstrated its capacity to commit a surprise terrorist attack, the truth is that Israel let its guard down on 10/7. By bolstering its borders and its intelligence, Israel can block Hamas from a repeat attack. Nor is Israel at risk of any kind of military defeat by Hamas inside Israel, since Israel has vast military dominance. The same was true with 9/11, which was a catastrophic failure of U.S. homeland security and intelligence operations, but did not even remotely represent a threat of U.S. military defeat.

    This is not to say that defeating Hamas inside Gaza would be straightforward. With a major Israeli ground invasion, Hamas would have the advantage of urban guerilla warfare on its own turf, and no doubt large numbers of Israeli soldiers are likely to die in such a campaign.

    There is a completely different approach to Israel’s security, the one that Israel’s political class has rejected for decades, yet the only one that can deliver real peace and security. It is a political solution for Palestine, coupled with comprehensive, enforceable security arrangements for Israel.

    Israel sits on top of a volcano of unrest because it has long denied basic human, economic, and political rights to the Palestinian people. Gaza has famously been described by Human Rights Watch as an open-air prison. Israel’s occupation of Palestine is tantamount to apartheid in the view of human rights groups such as Amnesty International. The UN Security Council and UN General Assembly have rightly and overwhelmingly voted resolution after resolution calling for a two-state solution, most recently on October 26, just days ago.

    Israel sits on top of a volcano of unrest because it has long denied basic human, economic, and political rights to the Palestinian people.

    I refer readers interested in the detailed history of this long saga to the wise and scholarly study by my esteemed colleague Professor Rashid Khalid, The Hundred Years’ War on Palestine. Historian Ian Black, in his book Enemies and Neighbors: Arabs and Jews in Palestine and Israel 1917-2017, recounts that Netanyahu, Israel’s longest-serving Prime Minister, “was not prepared to make the concessions needed to make [the two-state solution] possible.”

    The failure of Israel’s political class to achieve true security for Israel and justice for Palestine opens the door to a different approach. Here is how a diplomatic solution could work.

    The UN Security Council would commit to the disarming of militant groups, including Hamas and Islamic Jihad. Countries funding and arming these groups, notably Iran, would agree to join with the UN Security Council in defunding and demobilizing these groups as part of the peace deal. Both Saudi Arabia and Iran would establish diplomatic relations with Israel as part of the peace deal. Israel and the UN Security Council would recognize a sovereign, independent, and secure state of Palestine, with its capital in East Jerusalem, and with full membership in the United Nations. Palestine would be given sovereign control over the Muslim holy sites of East Jerusalem, including Haram al-Sharif.

    The five permanent powers (P5) of the UN Security Council—the U.S., Russia, China, UK, and France—all favor such a peace deal. Indeed, Biden has recently reiterated U.S. support for the two-state solution. Moreover, there is scope for favorable diplomacy among the P5. The U.S. and China will soon hold a summit of President Biden and President Xi, and there are even glimmers of behind-the-scenes diplomacy between Russia and the U.S. to sort out and end the tragic conflict in Ukraine.

    If Israel swallows Netanyahu’s poison that “this is a time for war,” Israel will isolate itself from the rest of the world and pay a devastating price.

    Iran can be brought on board to such a deal, as long as the deal includes the normalization of Iran’s diplomatic and economic relations with the E.U. and the United States. In 2015, Iran negotiated the Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA) with the U.S. and European nations to end Iran’s nuclear weapons program in return for an end to Western sanctions. It was the U.S. under former President Donald Trump, not Iran, that brazenly withdrew from the JCPOA in 2018. More recently, Iran has reconciled with Saudi Arabia and joined the BRICS nations, demonstrating Iran’s interest in dynamic and creative diplomacy.

    The rest of the UN member states also clearly support a two-state solution. As soon as Israel embraces a comprehensive peace deal, it will garner friends worldwide, and cause a worldwide sigh of relief.

    If Israel swallows Netanyahu’s poison that “this is a time for war,” Israel will isolate itself from the rest of the world and pay a devastating price. Israel’s attainable objective is lasting peace and security through diplomacy. Israel’s friends, starting with the U.S., must help it choose diplomacy over war. Friends do not let friends commit crimes against humanity, much less provide them with the finances and arms to do so.

    #Israel #USA #Afghanistan #guerre #terrorisme

  • איתמר בן גביר sur X : "

    כל הכבוד לכוחות צה"ל שעצרו הלילה את המחבלת ו"פעילת זכויות האדם" עהד תמימי מנבי סאלח שהורשעה בעבר בתקיפת חיילי צה"ל ומאז פרוץ המלחמה מביעה הזדהות ותמיכה בחיות האדם הנאצים ברשתות החברתיות. אפס סובלנות עם מחבלים ועם תומכי טרור! רק ככה!

    https://twitter.com/itamarbengvir/status/1721397948762792020

    Félicitations aux forces de Tsahal qui ont arrêté ce soir la terroriste et « militante des droits humains » Ehad Tamimi Manvi Saleh, qui avait déjà été reconnue coupable d’avoir attaqué [sic] des soldats de Tsahal et qui, depuis le début de la guerre, a exprimé sa sympathie et son soutien aux êtres humains nazis sur les réseaux sociaux. Tolérance zéro envers les terroristes et les partisans du #terrorisme ! Juste comme ça !

    • Israël : de 1973 à 2023, les limites de la puissance militaire, Miko Peled, 7 octobre 2023
      https://www.contretemps.eu/israel-palestine-1973-kippour-2023-limites-puissance-militaire

      Des renseignements fiables indiquaient que les Égyptiens allaient attaquer en 1973. Ces renseignements provenaient de différentes sources, dont le Mossad, les services de renseignements militaires et même le défunt roi de Jordanie Hussein, qui avait prévenu le gouvernement israélien de l’imminence de la guerre. On ne peut que se demander comment les services de renseignement israéliens vont justifier le manque de préparation à l’attaque du 7 octobre 2023.

      Alors que l’humiliation de la guerre de 1973 brûle encore dans le cœur et l’esprit des Israélien.ne.s, une nouvelle humiliation, peut-être plus grande encore, se présente aujourd’hui. Dans les guerres qui ont précédé 1973, Israël a toujours attaqué lorsque ses ennemis étaient faibles et mal préparés. En octobre 1973 et à nouveau en octobre 2023, les Israélien.ne.s ont goûté à leur propre médecine. Et ils se sont effondrés militairement et politiquement.

      ... Une chose est sûre : quel que soit le succès de l’opération qui a démarré le 7 octobre, les Palestiniens risquent d’en payer le prix fort. Mon ami, l’activiste Issa Amro d’Hébron, aurait été sévèrement battu et arrêté par des soldats israéliens. Selon un rapport en provenance d’Hébron, il a besoin de soins médicaux. Il n’est qu’un exemple parmi d’autres. Il faut espérer que ce succès militaire palestinien se traduira par un gain politique réel pour tous les Palestiniens.

      #Israel_Palestine

  • Les récits politiques de la radicalité
    https://laviedesidees.fr/Les-recits-politiques-de-la-radicalite

    La notion de radicalisation a fait couler beaucoup d’encre des dernières années, mais reste relativement confuse. Les États qui cherchent à y faire face ont mis en place des dispositifs variés dont l’efficacité réelle reste difficile à évaluer, et qui produisent bien souvent des effets inattendus. À propos de : Juliette Galonnier, Stéphane Lacroix, Nadia Marzouki, dir., Politiques de lutte contre la radicalisation, Presses de Sciences-po

    #Société #terrorisme #islamisme
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/202310_radicalite_-1.docx
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/20231101_radicalite.pdf
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/20231101_radicalite.docx

  • Guerre Israël-Hamas : comment l’AFP utilise le mot terroriste
    https://twitter.com/afpfr/status/1718275547678003289

    Conformément à sa mission de rapporter les faits sans porter de jugement, l’AFP ne qualifie pas des mouvements, groupes ou individus de terroristes sans attribuer directement l’utilisation de ce mot ou sans utiliser des guillemets.

    Il s’agit d’une disposition de longue date à l’Agence, conforme aux politiques rédactionnelles des autres agences de presse internationales et de grands médias comme la BBC.

    Cette règle s’applique à toutes les couvertures journalistiques de l’Agence concernant les violences à motivation politique qui visent des civils. Les consignes rédactionnelles relatives à la couverture de la guerre entre Israël et le Hamas suivent cette politique rédactionnelle en vigueur depuis longtemps.

    Même si le débat sur l’utilisation du mot terroriste a ressurgi avec l’attaque du Hamas en Israël le 7 octobre, cette règle rédactionnelle a déjà été au cœur de vives discussions lors de la couverture de nombreux événements meurtriers par le passé.

    Parmi ceux-ci les attentats de l’Armée républicaine irlandaise (IRA), les attaques du 11 Septembre 2001 aux Etats-Unis, les meurtres d’Afro-Américains par un suprémaciste blanc en Caroline du Sud en 2015 ; les attentats de Paris en 2015 ; les attaques du dimanche de Pâques au Sri Lanka en 2019 ; et la fusillade dans les mosquées de Christchurch la même année.

    L’AFP ne décrit pas les auteurs de tels actes, passés ou présents, comme des “terroristes”. Cela inclut des groupes comme l’ETA, les Tigres de Libération de l’Eelam tamoul, les FARC, l’IRA, Al-Qaeda et les différents groupes qui ont mené des attaques en Europe au siècle dernier, dont les Brigades Rouges, la Bande à Baader et Action Directe.

    C’est une règle que nous avons fermement appliquée, même quand nos propres collègues ont été brutalement tués dans de telles circonstances.

    En 2014, des talibans armés ont tué le reporter de l’AFP Sardar Ahmad, sa femme et deux de leurs enfants alors qu’ils dînaient dans un hôtel de Kaboul. Le chef photographe de l’Agence en Afghanistan Shah Marai a été tué avec plusieurs autres journalistes dans un attentat-suicide de l’Etat islamique en 2018. Le reporter free-lance James Foley a été enlevé en 2012 alors qu’il travaillait pour l’AFP en Syrie et a été assassiné par l’Etat islamique deux ans plus tard, avec une vidéo publiée sur les réseaux sociaux.

    L’AFP a rapporté dans le détail ce qui était arrivé à ces journalistes, mais ces meurtres n’ont pas changé sa politique sur l’utilisation du mot terroriste.

    Conformément à ces consignes éditoriales, l’AFP écrit qu’un groupe est qualifié de terroriste par un gouvernement ou une institution. C’est le cas pour le Hamas, qualifié de “terroriste” notamment par les Etats-Unis, l’Union européenne, le Royaume-Uni et Israël. C’est un fait que nous mentionnons dans notre production. De la même manière, nous citons des personnalités publiques et d’autres personnes lorsqu’elles utilisent le mot “terroriste” pour décrire le Hamas ou d’autres organisations. Nous utilisons également le mot terrorisme pour parler de poursuites judiciaires engagées pour ce motif.

    L’emploi du mot terroriste est extrêmement politisé et sensible. De nombreux gouvernements qualifient d’organisations terroristes les mouvements de résistance ou d’opposition dans leurs pays. De nombreux mouvements ou personnalités issus d’une résistance un temps qualifiée de terroriste ont été reconnus par la communauté internationale et sont devenus des acteurs centraux de la vie politique de leur pays. L’exemple le plus emblématique est sans doute Nelson Mandela.

    L’AFP a très largement couvert les événements du 7 octobre et la guerre qui a suivi, en décrivant avec précision des scènes souvent violentes et traumatisantes. Elle continuera de le faire.

    Notre devoir est de rapporter les faits, sans crainte et sans esprit partisan, et nous poursuivons cette mission chaque jour en Israël, à Gaza et en Ukraine, et partout où nos journalistes sont déployés dans le monde.

    edit : un étonnant reste de (posture) « grandeur de la #France » et du #journalisme d’une Agence France Police dont on sait par ailleurs les nombreux travers

    #Gaza #Hamas #BBC #AFP #terrorisme #media

  • Internationalisme et anti-impérialisme aujourd’hui

    http://www.palim-psao.fr/2023/10/internationalisme-et-anti-imperialisme-aujourd-hui-par-moishe-postone-ine

    [...] je propose de comprendre la propagation de l’antisémitisme et des formes antisémites apparentées de l’islamisme, à l’image de celles présentes chez les Frères musulmans égyptiens et leur branche palestinienne, le Hamas, comme la diffusion d’une idéologie anticapitaliste fétichisée, qui prétend donner un sens à un monde perçu comme menaçant. Même si cette idéologie a été attisée et aggravée par Israël ou la politique israélienne, sa caisse de résonance réside dans le déclin relatif du monde arabe sur fond d’une transition structurelle profonde du fordisme au capitalisme mondial néolibéral. Le résultat est un mouvement populiste anti-hégémonique profondément réactionnaire et dangereux, notamment pour tout espoir de politique progressiste au Moyen-Orient. Cependant, au lieu d’analyser cette forme de résistance réactionnaire dans le but de soutenir des formes de résistance plus progressistes, la gauche occidentale l’a soit ignorée, soit rationalisée comme une réaction regrettable mais compréhensible à la politique israélienne et aux États-Unis. Cette manifestation d’un refus de voir s’apparente à la tendance à concevoir l’abstrait (la domination du capital) dans les termes du concret (l’hégémonie américaine). J’affirme que cette tendance constitue l’expression d’une impuissance profonde et fondamentale, tant conceptuelle que politique.

    • L’une des ironies de la situation actuelle est qu’en adoptant une position anti-impérialiste fétichisée, l’opposition aux États-Unis ne s’adossant plus à un soutien à un changement progressiste, les libéraux et les progressistes ont permis à la droite néoconservatrice américaine de s’approprier, voire de monopoliser, ce qui a traditionnellement été le langage de la gauche : le langage de la démocratie et de la libération.

      […]

      Alors que pour la génération précédente, s’opposer à la politique américaine impliquait encore de soutenir explicitement des luttes de libération considérées comme progressistes, aujourd’hui, s’opposer à la politique américaine est en soi considéré comme anti-hégémonique. Il s’agit là paradoxalement d’un héritage malheureux de la Guerre froide et de la vision dualiste du monde qui l’accompagne. La catégorie spatiale du « camp » a remplacé les catégories temporelles des possibilités historiques et de l’émancipation en tant que négation historique déterminée du capitalisme. Cela n’a pas seulement conduit à un rejet de l’idée du socialisme comme dépassement historique du capitalisme, mais aussi à un déséquilibrage de la compréhension des évolutions internationales.

      […]

      La Guerre froide semble avoir effacé de la mémoire le fait que l’opposition à une puissance impériale n’était pas nécessairement progressiste et qu’il existait aussi des anti-impérialismes fascistes. Cette distinction s’est estompée pendant la Guerre froide, notamment parce que l’Union soviétique a conclu des alliances avec des régimes autoritaires, en particulier au Moyen-Orient, comme les régimes du Baas en Syrie et en Irak, qui n’avaient pas grand-chose en commun avec les mouvements socialistes et communistes. Au contraire, l’un de leurs objectifs était de liquider la gauche dans leurs propres pays. Par la suite, l’anti-américanisme est devenu un code progressiste en soi, bien qu’il y ait toujours eu des formes profondément réactionnaires d’anti-américanisme à côté des formes progressistes.

      #campisme #anti-impérialisme

    • Il est significatif qu’une telle attaque n’ait pas été menée il y a deux ou trois décennies par des groupes qui avaient toutes les raisons d’être en colère contre les États-Unis, comme les communistes vietnamiens ou la gauche chilienne. Il est important de comprendre l’absence d’une telle attaque, non pas comme un hasard, mais comme l’expression d’un principe politique. Pour ces groupes, une attaque visant en premier lieu des civils demeurait hors de leur horizon politique.

      […]

      Il existe une différence fondamentale entre les mouvements qui ne choisissent pas comme cible une population civile au hasard (comme le Viêt-Minh, le Viêt-Cong et l’ANC) et ceux qui le font (comme l’IRA, Al-Qaïda ou le Hamas). Cette différence n’est pas simplement tactique, elle est hautement politique, car la forme de la violence et la forme de la politique sont en relation l’une avec l’autre. Cela signifie que la nature de la société et de la politique futures sera différente selon que les mouvements sociaux militants feront ou non une distinction entre les objectifs civils et militaires dans leur pratique politique. S’ils ne le font pas, ils ont tendance à mettre l’accent sur l’identité. Cela les rend radicalement nationalistes dans le sens le plus large du terme, car ils travaillent avec une distinction ami/ennemi qui essentialise une population civile en tant qu’ennemie et rend ainsi impossible la possibilité d’une coexistence future. C’est pourquoi les programmes de ces mouvements ne proposent guère d’analyses socio-économiques visant à transformer les structures sociales (à ne pas confondre avec les institutions sociales que ces mouvements mettent en partie à disposition). Dans ces cas, la dialectique de la guerre et de la révolution du xxe siècle se transforme en une subordination de la « révolution » à la guerre. Ce qui m’intéresse ici, cependant, a moins à voir avec de tels mouvements qu’avec les mouvements d’opposition actuels dans les métropoles et leurs difficultés évidentes à faire la distinction entre ces deux formes différentes de « résistance ».

      Joseph Andras disait cela aussi dans ces dernières interviews ou textes

      #morale #terrorisme #civils

  • Gaza : « Macron n’a même pas la décence élémentaire d’appeler à un cessez-le-feu » - Regards.fr
    https://regards.fr/gaza-macron-na-meme-pas-la-decence-elementaire-dappeler-a-un-cessez-le-feu

    Socialisme et morale révolutionnaire, solution à deux États, impasse Hamas-Netanyahu, terrorisme et crime de guerre, « déraison » française… On a causé avec l’écrivain Joseph Andras.

    #hamas #Palestine #Israël #terrorisme

  • Métiers en tension : le gouvernement amorce un recul sur la régularisation des travailleurs sans papiers
    https://www.lemonde.fr/politique/article/2023/10/18/metiers-en-tension-le-gouvernement-amorce-un-recul-sur-la-regularisation-des

    Métiers en tension : le gouvernement amorce un recul sur la régularisation des travailleurs sans papiers
    Après l’attentat d’Arras, l’exécutif évoque la possibilité de renoncer à créer un titre de séjour de plein droit, par le biais de son projet de loi sur l’immigration, pour privilégier la création d’une nouvelle circulaire de régularisation.
    Par Thibaud Métais et Julia Pascual
    Le climat actuel aura-t-il raison de la jambe gauche du projet de loi « immigration » ? Après l’attentat d’Arras, le texte, qui doit être examiné au Sénat à partir du 6 novembre, est au cœur des débats. Alors que le parti Les Républicains (LR) font de l’article 3, qui prévoit de simplifier la régularisation des travailleurs sans papiers dans les métiers en tension, une « ligne rouge » et menace de ne pas voter en faveur du projet de loi, la disposition pourrait être enterrée. En tout cas, sa portée largement amoindrie. L’exécutif réfléchit depuis des semaines à la façon de procéder et pourrait finalement privilégier la création d’une nouvelle circulaire de régularisation plutôt que de créer un titre de séjour de plein droit, par le biais de la loi. Le 24 septembre, le président de la République, Emmanuel Macron, avait lui-même entrouvert la porte à une modification du texte. « Là-dessus, je pense qu’il y a un compromis intelligent à trouver », avait-il souligné, sur TF1 et France 2.
    Place Beauvau, on avance désormais qu’une nouvelle circulaire pourrait voir le jour. Elle ne remplacerait pas celle de 2012 dite « circulaire Valls », qui liste des critères de régularisation pour motif familial ou professionnel et que les préfets appliquent de façon discrétionnaire et très différente selon les territoires. Grâce à ce texte réglementaire, environ 30 000 personnes sont admises au séjour chaque année. L’objectif de la circulaire supplémentaire à laquelle le ministère de l’intérieur réfléchit serait de permettre à des travailleurs sur des métiers en tension d’être régularisés « en contournant le pouvoir de l’employeur », précise l’entourage de M. Darmanin. « Il ne s’agit pas de créer un flux [d’immigration] mais de sincériser [régulariser] un stock », que les services évaluent à environ 8 000 personnes par an.
    Aujourd’hui, s’il veut demander une régularisation par le biais de la circulaire Valls, un travailleur sans papiers doit non seulement prouver qu’il vit en France depuis au moins trois ans, présenter un certain nombre de bulletins de paie, mais il doit, en outre, demander à son patron de remplir un formulaire officiel d’embauche. L’article 3 du projet de loi prévoyait de faire sauter ce « verrou » de l’employeur dans les métiers en tension et de créer un droit à la régularisation moyennant trois ans de présence en France et huit fiches de paie. Place Beauvau, on pourrait désormais se contenter d’une circulaire qui aurait l’avantage de « garder le pouvoir d’appréciation des préfets ». La régularisation ne serait donc pas de plein droit mais resterait à la libre appréciation des services de l’Etat dans les départements.
    Mardi 17 octobre, le ministre du travail, Olivier Dussopt, avait pourtant tenu à défendre la disposition. Depuis l’attentat d’Arras, « le climat a changé, mais il serait absolument terrible (…) que des hommes et des femmes qui travaillent quotidiennement (…) soient les victimes d’un climat terroriste qui ne les concerne pas », a-t-il jugé sur Franceinfo. Face aux critiques de la droite et de l’extrême droite, le ministre a répété qu’il « n’y a pas d’appel d’air » avec une telle mesure. « Nous parlons de personnes en situation irrégulière mais qui travaillent légalement dans des métiers où tout le monde a du mal à recruter », a-t-il expliqué.Son entourage précise toutefois qu’Olivier Dussopt est toujours « ouvert sur la forme », législative ou réglementaire, sans dire si l’une ou l’autre est privilégiée, et qu’il « renvoie au débat sans en préjuger l’issue ». Place Beauvau, on assume ne pas vouloir se battre sur la forme et être disposé à un « texte de compromis large » avec la droite et le centre. L’article 3 « n’est pas le cœur essentiel du texte après ce qu’il s’est passé à Arras », considère l’entourage de M. Darmanin, soulignant que ce dernier ne portait pas personnellement la mesure.
    Un tel recul est susceptible de créer des remous dans la coalition présidentielle, où l’aile gauche de Renaissance a plusieurs fois répété son attachement à « l’équilibre » du texte entre ses deux volets social et répressif. « Cette mesure est nécessaire », juge le député macroniste de la Vienne Sacha Houlié, affirmant qu’« elle sera soutenue par le gouvernement et l’Elysée ». Ni Matignon ni l’Elysée n’ont confirmé. Pour M. Houlié, président de la commission des lois à l’Assemblée nationale, ce n’est pas le moment de reculer, alors que le contexte permet de mettre la pression sur la droite. « Sur les mesures de fermeté, c’est LR qui nous en prive par son refus obstiné de voter le texte depuis des mois », estime-t-il.
    Alors que l’examen du projet de loi à l’Assemblée nationale était prévu pour 2024, le ministre des relations avec le Parlement, Franck Riester, a annoncé, mardi, sur LCP, que la loi sera discutée dès le mois de décembre. « On devrait avoir au moins un vote pour chaque chambre du Parlement d’ici à la fin de l’année [2023] », a-t-il ajouté.

    #Covid-19#migration#migrant#france#loi#immigration#metierentension#economie#regularisation#terrorisme#securite#repression#politique

  • Loi sur l’immigration : pourquoi les mesures annoncées sur le retrait des titres de séjour sont contestables du point de vue du droit
    https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/10/20/loi-immigration-pourquoi-les-mesures-annoncees-sur-le-retrait-des-titres-de-

    Loi sur l’immigration : pourquoi les mesures annoncées sur le retrait des titres de séjour sont contestables du point de vue du droit
    Le gouvernement promet d’agir contre les étrangers en situation régulière mais opposés aux « valeurs de la République ». Des juristes dénoncent un risque d’arbitraire.
    Par Julia Pascual
    Depuis l’attentat d’Arras, perpétré vendredi 13 octobre par un jeune Russe islamiste arrivé à l’âge de 5 ans en France, qui a coûté la vie au professeur Dominique Bernard, l’exécutif multiplie les annonces pour parer aux critiques de la droite et satisfaire une opinion publique que les sondages disent inquiète et avide de fermeté.
    Jeudi 19 octobre, le ministre de l’intérieur, Gérald Darmanin, a estimé, sur BFM-TV, que « si quelqu’un n’est pas en conformité avec les valeurs de la République, on doit pouvoir l’expulser ». Il a invité à cette fin les parlementaires à voter la loi sur l’immigration, qui sera débattue au Sénat, à partir du 6 novembre, « la plus dure et la plus ferme présentée depuis trente ans ». La veille, c’est le porte-parole du gouvernement, Olivier Véran, qui a promis que le texte permettrait de retirer un titre de séjour à un étranger en cas de « comportements non conformes à nos valeurs ».
    Pour rappel, l’auteur de l’attaque d’Arras, Mohammed Mogouchkov, était en situation irrégulière en France. Puisqu’il était arrivé avant l’âge de 13 ans sur le territoire, le droit le protégeait cependant d’une expulsion, sauf, selon la loi en vigueur, en cas de « comportements de nature à porter atteinte aux intérêts fondamentaux de l’Etat, ou liés à des activités à caractère terroriste, ou constituant des actes de provocation explicite et délibérée à la discrimination, à la haine ou à la violence ». Selon le projet de loi sur l’immigration, cette protection ne s’opposerait pas à une obligation de quitter le territoire en cas de « menace grave à l’ordre public ».
    Ce que vise aussi le gouvernement par ses annonces, ce sont les personnes en situation régulière. M. Darmanin a lui-même demandé aux préfets de passer au tamis les 2 852 étrangers réguliers inscrits au fichier de traitement des signalements pour la prévention de la radicalisation à caractère terroriste (FSPRT), pour envisager le retrait de leur titre de séjour, préalable à leur éloignement.« Actuellement, il n’est pas possible de retirer un titre de séjour pour des comportements non constitutifs d’une infraction pénale », a regretté M. Véran. « La loi empêche le ministre de l’intérieur de faire son travail », a répété M. Darmanin sur BFM-TV. En méconnaissance de la loi. « Dans le droit actuel, le préfet a déjà toute latitude pour ne pas délivrer, ne pas renouveler ou retirer un titre de séjour à tout étranger dont la présence en France constitue une menace pour l’ordre public, fait remarquer Camille Escuillié, avocate membre de l’association Avocats pour la défense des droits des étrangers. La loi n’exige pas de condamnation ni même de poursuites pénales. »
    C’est d’ailleurs, selon le ministère de l’intérieur, sur ce motif de menace à l’ordre public que Mohammed Mogouchkov n’avait pas obtenu de titre de séjour en 2021, bien que n’ayant aucun casier judiciaire, parce qu’il était déjà dans le viseur des services de renseignement et fiché au FSPRT.
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    Cela correspond par ailleurs aux directives données par M. Darmanin aux préfets depuis une circulaire de septembre 2020. « On a des dossiers de retrait de titre ou de refus de renouvellement ou de délivrance de titre concernant des personnes qui n’ont jamais été condamnées, mais qui sont apparues lors des consultations de fichiers tels que le traitement d’antécédents judiciaires [TAJ], le fichier national automatisé des empreintes génétiques [FNAEG] ou le fichier automatisé des empreintes digitales [FAED], constate Nicolas De Sa-Pallix, avocat spécialisé dans le droit des étrangers et membre du Syndicat des avocats de France. Généralement, les empreintes sont prises dans le cadre de gardes à vue et, même s’il n’y a pas de suite judiciaire, l’autorité administrative peut considérer que vous représentez une menace pour l’ordre public. » « De même, la présence au TAJ indique juste que vous apparaissez dans une procédure pénale comme prévenu ou victime. Et si vous êtes prévenu, il se peut que vous soyez innocenté ou même pas poursuivi. Il y a donc des étrangers auxquels on reproche des faits pour lesquels ils ont déjà été définitivement innocentés, ou jamais formellement poursuivis », complète l’avocat.
    Tout à sa volonté de rassurer l’opinion, le gouvernement entend aller plus loin encore. Grâce à l’article 13 du projet de loi sur l’immigration, Olivier Véran promet de « sortir du tout-pénal pour pouvoir retirer un titre en allant sur les valeurs de la République ». Et de citer des motifs en exemple tels que le « port ostensible en milieu scolaire de signes et de tenues religieux » ou le « refus d’être reçu ou entendu aux guichets des services publics par un agent de sexe opposé pour des motifs religieux ».
    L’article 13 du texte énonce en effet qu’un document de séjour pourra être retiré ou non renouvelé lorsque les actes délibérés d’un étranger troublent l’ordre public en ne respectant pas les « principes de la République » ainsi listés : « la liberté personnelle, la liberté d’expression et de conscience, l’égalité entre les femmes et les hommes, la dignité de la personne humaine, la devise et les symboles de la République » ou encore si l’étranger se prévaut « de ses croyances ou convictions pour s’affranchir des règles communes régissant les relations entre les services publics et les particuliers ».Cet article est en réalité une réécriture de l’article 26 de la loi dite « séparatisme », qui avait été censurée par le Conseil constitutionnel. Dans une décision du 13 août 2021, il avait estimé que le seul prétexte que l’étranger a « manifesté un rejet » des principes de la République n’était pas suffisamment précis. En ayant sommairement répertorié ces principes dans le projet de loi sur l’immigration, le gouvernement croit-il se tirer d’affaire ?
    « Si la rédaction de l’article de loi a évolué, le problème demeure le même, estime l’avocate au Conseil d’Etat et à la Cour de cassation Isabelle Zribi. A mon sens, la notion d’atteintes graves aux principes de la République, qui est trop vague, méconnaît l’objectif de valeur constitutionnelle d’accessibilité et d’intelligibilité de la loi et le principe de sécurité juridique. On peine à se figurer, par exemple, ce que serait concrètement une atteinte grave à la devise de la République, qui veut tout et rien dire, ou même à l’égalité entre les femmes et les hommes, sachant que c’est une valeur rarement respectée au sein des couples de toutes nationalités. »
    Est-ce que l’administration pourra refuser un titre de séjour à une lycéenne de 18 ans qui a porté l’abaya, à une personne qui tient des propos machistes ou refuse de chanter La Marseillaise ? « Cette disposition est presque incontrôlable, met en garde à son tour Me De Sa-Pallix. Je ne vois pas comment on ne tomberait pas dans un arbitraire administratif particulièrement prononcé. »« Il y a un sérieux risque d’inconstitutionnalité », estime encore l’avocat au Conseil d’Etat et à la Cour de cassation Patrice Spinosi, qui voit dans la manœuvre une instrumentalisation politique du droit. « Si le Conseil constitutionnel censure la loi, le gouvernement pourra dire que les juges vont à l’encontre de la volonté souveraine du peuple, redoute-t-il. C’est jouer le populisme contre la Constitution et c’est précisément ce qui sape l’Etat de droit en Europe aujourd’hui. »

    #Covid-19#migrant#migration#france#terrorisme#nationalite#securité#droit#titredesejour#etranger#immigration

  • #Edwy_Plenel : Israël-Palestine : la question morale

    Si le conflit israélo-palestinien enflamme le monde, c’est parce qu’il porte une question morale universelle : celle de l’égalité des droits. Que la légitimité internationale d’Israël s’accompagne de la négation des droits des Palestiniens n’a cessé de précipiter ce sommeil de la raison qui engendre des monstres. Seule cette lucidité politique est à même de défier la catastrophe en cours.

    LeLe sommeil de la raison produit des monstres. Avant de donner à voir, dans toute leur abomination, les désastres de la guerre (Los Desastres de la Guerra, 1810-1815), le peintre et graveur espagnol Francisco de Goya (1746-1828) avait intitulé ainsi l’une des gravures de sa série Los caprichos à la fin du XVIIIe siècle : El sueño de la razon produce monstruos. On y voit le peintre endormi tandis qu’une volée d’oiseaux nocturnes tourbillonne au-dessus de lui, symbolisant la folie et l’ignorance qui mènent l’humanité à sa perte.

    Nous vivons un moment semblable, d’obscurcissement et d’égarement. Spectateurs effarés, nous découvrons l’horreur des tueries de civils israéliens dans l’attaque terroriste du Hamas tandis que nous suivons l’hécatombe de civils palestiniens à Gaza sous les bombes de l’armée israélienne. Toutes ces vies humaines se valent, elles ont le même prix et le même coût, et nous nous refusons à cette escalade de la terreur où les crimes d’un camp justifieraient les crimes de l’autre. Mais nous nous sentons impuissants devant une catastrophe qui semble irrémédiable, écrite par avance tant ont été perdues, depuis si longtemps, les occasions de l’enrayer (pour mémoire mes alarmes de 2009, de 2010 et de 2014).

    Nous savons bien qu’il n’y a qu’une façon d’en sortir dans l’urgence : un cessez-le-feu immédiat sous contrôle des Nations unies afin de sauver les otages des deux bords, qui ouvrirait la voie à une solution politique dont la clé est la reconnaissance d’un État palestinien ayant lui-même reconnu l’État d’Israël. Mais, s’il peut arriver que d’un péril imminent naisse un salut improbable, cette issue semble un vœu pieux, faute de communauté internationale forte et unie pour l’imposer. Faute, surtout, de détermination des soutiens d’Israël, États-Unis au premier chef, pour freiner une volonté de vengeance qui ne fera qu’accélérer la course à l’abîme.

    Dès lors, comment échapper à un sentiment de sidération qu’aggrave le spectacle de désolation du débat politique et médiatique français ? À mille lieues de sa grandeur prétendue, la France officielle donne à voir son abaissement raciste, jetant la suspicion sur nos compatriotes musulmans et arabes, et son alignement impérialiste, rompant avec l’ancienne position équilibrée de sa diplomatie moyen-orientale. Indifférence aux oppressions et intolérance aux dissidences règnent sur cette médiocrité dont font les frais manifestations et expressions pro-palestiniennes, dans un climat maccarthyste qui distingue tristement notre pays des autres démocraties.

    Que faire ? Il importe déjà d’y voir clair. Ici, la responsabilité du journalisme, associant son devoir professionnel à son utilité sociale, est de trouer cette obscurité, en chassant les passions tristes et en s’éloignant des colères aveugles. Trouver son chemin, arriver à se repérer, réussir à ne pas s’égarer : autant d’impératifs vitaux par temps de propagande, que nous devons servir par une pratique aussi rigoureuse que sensible du métier. Elle suppose de résister au présent monstre de l’information en continu qui fonctionne à l’amnésie, perdant le fil de l’histoire, oubliant le passé qui la détermine, effaçant le contexte qui la conditionne (voir notre entretien-vidéo avec Bertrand Badie sur les mots et l’histoire du conflit).

    Mais il ne suffit pas de rendre compte. Il nous faut aussi échapper à la résignation qui guette, « cette accoutumance à la catastrophe dont le sentiment vague engourdit aujourd’hui tout désir d’action ». La formule est de l’historien Patrick Boucheron dans un récent libelle où il persiste, dans le sillage de Victor Hugo, à vouloir « étonner la catastrophe par le peu de peur qu’elle nous fait ». Secouant ce manteau de poussière dont le poids risque de nous paralyser, Le temps qui reste est une invitation inquiète à ne pas le perdre, ce temps, en refusant de se laisser prendre au piège de la catastrophe, tels des animaux saisis dans des phares, tétanisés et immobilisés par la conscience du péril.

    Car l’habitude, tissée de conformisme et de suivisme, est la meilleure alliée du pire en devenir. Voici donc, à l’instar de lucioles clignotant dans une nuit qui gagne, quelques repères qui nous guident pour affronter les désordres du monde et les folies des hommes. Quatre boussoles morales qui énoncent aussi ce à quoi nous refusons de nous habituer.
    1. Tout soutien inconditionnel est un aveuglement. Quel que soit le camp concerné. Quelle que soit la justesse de la cause.

    Aucun État, aucune nation, aucun peuple, et, partant, aucune armée, aucun parti, aucun mouvement, qui s’en réclame, ne saurait être soutenu inconditionnellement. Car, au-dessus d’eux, il y a une condition humaine universelle, dont découle un droit international sans frontières. Si, en 1948, l’année où est né l’État d’Israël, fut proclamée, à Paris, une Déclaration universelle des droits de l’homme, c’est pour cette raison même : s’ils ne rencontrent aucun frein, les États, les nations ou les peuples, peuvent devenir indifférents à l’humanité et, par conséquent, dangereux et criminels.

    Adoptée à Paris en 1948 par les cinquante-huit États alors représentés à l’Assemblée générale des Nations unies, la Déclaration de 1948 résulte de cette lucidité provoquée par la catastrophe européenne dont nationalisme et racisme furent les ressorts, conduisant au génocide des juifs d’Europe. Français, son rédacteur, René Cassin, Prix Nobel de la paix en 1968, s’était battu pour imposer, dans son intitulé, cette qualification d’« universelle » au lieu d’internationale : façon de signifier qu’un droit supérieur, celui de la communauté humaine, devait s’imposer aux États et aux nations dont ils se prévalent. Autrement dit de rappeler qu’aucun État, qu’aucune nation, qu’aucun peuple ne devrait se dérober, au prétexte de ses intérêts propres, à cette exigence de respect de l’égalité des droits.

    « Tous les êtres humains naissent libres et égaux en dignité et en droits. Ils sont doués de raison et de conscience et doivent agir les uns envers les autres dans un esprit de fraternité », énonce l’article premier de la Déclaration universelle des droits de l’homme. Comme la française de 1789, la Déclaration de 1948 dessine l’horizon d’une promesse, toujours inaccomplie et inachevée, sans cesse en chantier et à l’œuvre face aux égoïsmes renaissants des États et au risque qu’ils cèdent aux idéologies de l’inégalité. De ce point de vue, l’ajout de la dignité, notion sensible, aux droits, critère juridique, n’est pas indifférent, tout comme sa position première dans l’énoncé : il s’agit non seulement de respecter d’autres humains, mais aussi de se respecter soi-même. En somme, de rester digne, de savoir se tenir, se retenir ou s’empêcher, afin de ne jamais céder à la haine de l’homme.

    Chèque en blanc accordé à ses dirigeants et à ses militaires, l’affirmation d’un « soutien inconditionnel » à l’État d’Israël dans sa riposte au Hamas tourne le dos à ces valeurs universelles. Elle prolonge ce mépris pour le droit international que l’on invoque volontiers face à l’agression russe en Ukraine mais que l’on dénie à la Palestine par l’absolu non-respect des résolutions onusiennes condamnant, depuis 1967, les annexions et colonisations israéliennes de territoires palestiniens.
    2. Jamais la fin ne saurait justifier les moyens. Seuls les moyens utilisés déterminent la fin recherchée.

    Depuis soixante-quinze ans, la Palestine pose au monde une question morale : celle de la fin et des moyens. La légitimité d’Israël ne saurait se fonder sur la négation des droits des Palestiniens jusqu’à la commission répétée de crimes de guerre. Mais la contestation de l’occupation et de la colonisation ne saurait tolérer la négation de l’humanité des Israéliens.

    En franchissant ce pas avec les massacres et prises d’otage de civils, le Hamas a fait plus que nuire à la cause qu’il dit servir : il l’a déshonorée. Dans la mémoire juive des persécutions européennes contre lesquelles s’est créé le mouvement sioniste à la fin du XIXe siècle, la terreur déchaînée par le Hamas sur des civils israéliens ne peut qu’évoquer les pogroms antisémites. Et le rappel de massacres commis en 1947-1948 par les composantes les plus extrémistes du sionisme, afin de faire fuir les Palestiniens, ne saurait en aucun cas lui servir d’excuses.

    La violence aveugle de l’oppresseur le discrédite, légitimant la résistance violente de l’opprimé. Jusqu’au processus de paix entamé en 1991, le mouvement national palestinien, alors sous la direction de Yasser Arafat et du Fath qui dominait l’Organisation de libération de la Palestine, a illustré cette règle éternelle des situations d’injustices où un peuple prétend en dominer un autre. Mais, par ses débats internes, son pluralisme assumé, son évolution revendiquée jusqu’à la reconnaissance de l’État d’Israël, il a fait sienne la conviction que la cause libératrice de l’opprimé exige une morale supérieure où sa riposte ne cède pas aux crimes reprochés à l’oppresseur.

    Il y a cinquante ans, en 1973, l’année de la guerre du Kippour dont le Hamas a choisi la date anniversaire pour son attaque sur Israël, un appel collectif d’intellectuels notables (parmi lesquels Edgar Morin, Laurent Schwartz, Jean-Pierre Vernant et Pierre Vidal-Naquet) rappelait ces « évidences morales et politiques fondamentales » : « Il n’y a pas de problème de la fin et des moyens. Les moyens font partie intégrante de la fin. Il en résulte que tout moyen qui ne s’orienterait pas en fonction de la fin recherchée doit être récusé au nom de la morale politique la plus élémentaire. Si nous voulons changer le monde, c’est aussi, et peut-être d’abord, par souci de moralité. […] Si nous condamnons certains procédés politiques, ce n’est pas seulement, ou pas toujours, parce qu’ils sont inefficaces (ils peuvent être efficaces à court terme), mais parce qu’ils sont immoraux et dégradants, et qu’ils compromettent la société de l’avenir. »

    Cette mise en garde vaut évidemment pour les deux camps. De 2023 à 2001, se risquer à comparer le 7-Octobre israélien au 11-Septembre états-unien, ce n’est pas seulement ignorer la question nationale palestinienne en souffrance, au prétexte d’une guerre de civilisation entre le bien occidental et le mal arabe, c’est surtout continuer de s’aveugler sur la suite. Le terrorisme faisant toujours la politique du pire, les désordres actuels du monde résultent de la riposte américaine, à la fois mensongère et criminelle, détruisant un pays, l’Irak, qui n’y était pour rien, tout en semant un discrédit universel par une violation généralisée des droits humains dont l’Occident paye encore le prix. Loin de détruire l’adversaire désigné, il en a fait surgir d’autres, d’Al-Qaïda à Daech, encore plus redoutables.
    3. Au cœur du conflit israélo-palestinien, la persistance de la question coloniale ensauvage le monde.

    Porté par le mouvement sioniste qui avait obtenu la création d’un foyer national juif en Palestine, la création de l’État d’Israël en 1948 a été unanimement approuvée par les puissances victorieuses du nazisme. L’incommensurabilité du crime contre l’humanité, jusqu’à l’extermination par le génocide, commis contre les juifs d’Europe, légitimait le nouvel État. Une faute abominable devait être réparée en offrant aux juifs du monde entier un refuge où ils puissent vivre dans la tranquillité et la sécurité, à l’abri des persécutions.

    Si, aujourd’hui, Israël est un des endroits du monde où les juifs vivent avec angoisse dans le sentiment inverse, c’est parce que la réparation du crime européen s’est accompagnée de l’injustice commise contre les Palestiniens. Ce faisant, l’Occident – cette réalité politique dont les États-Unis ont alors pris le leadership – a prolongé dans notre présent le ressort passé de la catastrophe européenne : le colonialisme. Se retournant contre l’Europe et ses peuples, après avoir accompagné sa projection sur le monde, le colonialisme fut l’argument impérial du nazisme, avec son cortège idéologique habituel de civilisations et d’identités supérieures à celles des peuples conquis, soumis ou exclus.

    La colonisation ne civilise pas, elle ensauvage. Le ressentiment nourri par l’humiliation des populations dépossédées s’accompagne de l’enfermement des colons dans une posture conquérante, d’indifférence et de repli. L’engrenage est aussi redoutable qu’infernal, offrant un terrain de jeu idéal aux identités closes où la communauté devient une tribu, la religion un absolu et l’origine un privilège. Dès lors, accepter le fait colonial, c’est attiser le foyer redoutable d’une guerre des civilisations qu’illustre la radicalisation parallèle des deux camps, le suprémacisme juif raciste de l’extrême droite israélienne faisant écho à l’idéologie islamique du Hamas et de ses alliés, dans la négation de la diversité de la société palestinienne.

    Dialoguant en 2011, dans Le Rescapé et l’Exilé, avec le regretté Stéphane Hessel, qui accompagna depuis l’ONU où il était diplomate la création de l’État juif en Palestine, Elias Sanbar rappelle cette origine d’un conflit qui ne cessera de s’aggraver tant qu’elle ne sera pas affrontée : « On ne peut certes pas refaire l’histoire, mais il est important de dire que ce conflit a commencé par une terrible injustice commise en Palestine pour en réparer une autre, née dans l’horreur des camps nazis. » Acteur des négociations de paix israélo-palestiniennes, il en tirait la conséquence que la seule solution est dans l’égalité des droits. Dans la réciprocité et la reconnaissance. L’envers de ce poison qu’est la concurrence des victimes. L’opposé de cette misère qu’est la condescendance du vainqueur.

    « Il faut affirmer, déclarait-il alors – et pense-t-il toujours –, que la concurrence dans le registre des malheurs est indécente, que les courses au record du nombre de morts sont littéralement obscènes. Chaque souffrance est unique, le fait que des juifs aient été exterminés n’enlève rien à la souffrance des Palestiniens, tout comme le fait que des Palestiniens aient souffert et continuent de souffrir n’enlève rien à l’horreur vécue par des juifs. Puis et surtout, la reconnaissance de la souffrance des autres ne délégitime jamais votre propre souffrance. Au contraire. »
    4. La solution du désastre ne peut être confiée à ses responsables israéliens dans l’indifférence au sort des Palestiniens.

    Le 8 octobre 2023, au lendemain de l’attaque du Hamas contre Israël, le quotidien Haaretz, qui sauve l’honneur de la démocratie israélienne, publiait un éditorial affirmant que cette énième guerre était « clairement imputable à une seule personne : Benyamin Nétanyahou », ce premier ministre qui a « établi un gouvernement d’annexion et de dépossession » et a « adopté une politique étrangère qui ignorait ouvertement l’existence et les droits des Palestiniens ».

    La droite et l’extrême droite israéliennes ont attisé l’incendie qu’elles prétendent aujourd’hui éteindre par l’extermination militaire du Hamas et l’expulsion des Palestiniens de Gaza. Ce n’est pas un Palestinien qui, en 1995, a assassiné Yitzhak Rabin, portant un coup d’arrêt fatal au processus de paix, mais un terroriste ultra-nationaliste israélien. C’est Israël qui, depuis, sous l’impulsion de Benyamin Nétanyahou, n’a cessé de jouer cyniquement avec les islamistes du Hamas pour diviser le camp palestinien et affaiblir sa composante laïque et pluraliste.

    À l’aune de ces vérités factuelles, largement documentées, notamment par le journaliste Charles Enderlin, la polémique française sur le prérequis que serait la qualification de terroriste du Hamas en tant qu’organisation – et pas seulement de ses actions dont on a souligné le caractère criminel – a quelque chose de surréel. En 2008-2009, faisant écho aux stratégies israéliennes, la présidence de Nicolas Sarkozy n’hésitait pas à défendre la nécessité de « parler » avec le Hamas dont le chef était même interviewé par Le Figaro pour inviter le chef de l’État français à « donner une impulsion vitale à la paix ».

    Comble de l’hypocrisie, le Qatar, financier avéré du Hamas avec la tolérance d’Israël, est un partenaire économique, financier, militaire, diplomatique, sportif, culturel, etc., qui est, ô combien, chez lui dans l’establishment français, tout comme d’ailleurs son rival émirati. Or c’est au Qatar que le Hamas tient sa représentation extérieure, avec un statut avoisinant celui d’une antenne diplomatique, digne d’un État en devenir.

    Si des actions du Hamas peuvent être qualifiées de terroristes, c’est s’aveugler volontairement que de ne pas prendre en considération son autre réalité, celle d’un mouvement politique avec une assise sociale. Que sa ligne idéologique et ses pratiques autoritaires en fassent l’adversaire d’une potentielle démocratie palestinienne, qui respecterait le pluralisme des communautés et la diversité des opinions, ne l’empêche pas d’être l’une des composantes, aujourd’hui devenue dominante, du nationalisme palestinien.

    La paix de demain ne se fera qu’entre ennemis d’hier. Et, surtout, qu’entre peuples qui ne sont pas assimilables à leurs dirigeants. Ce mensonge doublé d’hypocrisie sur la réalité du Hamas et son instrumentalisation par l’État d’Israël souligne l’illusion qui a volé en éclats depuis le 7 octobre. Israël et les États-Unis pensaient reléguer la question palestinienne en pariant sur les États arabes, leurs intérêts à courte vue et leur opportunisme à toute épreuve. Ce faisant, ils oubliaient les peuples qui ne sont pas dupes, s’informent et s’entraident. Grands absents de ces mécanos diplomatiques, où l’on prétend faire leur avenir à leur place, ils finissent toujours, un jour ou l’autre, par en déjouer les plans.

    Au spectacle des foules proclamant dans le monde leur solidarité avec la Palestine, y compris dans les pays arabes qui ont normalisé leurs relations avec Israël, comment ne pas penser à ces lignes de notre confrère Christophe Ayad qui accompagnent l’exposition de l’Institut du monde arabe « Ce que la Palestine apporte au monde » ? « C’est du monde tel qu’il va mal dont la Palestine nous parle, écrit-il. On l’observe, on la scrute, on l’encourage ou on lui fait la leçon, mais c’est elle qui nous regarde depuis l’avenir de notre humanité. La Palestine vit déjà à l’heure d’un monde aliéné, surveillé, encagé, ensauvagé, néolibéralisé. Les Palestiniens savent ce que c’est d’être un exilé sur sa propre terre. Apprenons d’eux ! »

    Face aux ombres qui, aujourd’hui, s’étendent, ces réflexions peuvent paraître optimistes. Pourtant, la leçon est déjà là, la seule qui vaille pour éviter le pire, soit cette guerre des monstres dont Benyamin Nétanyahou et le Hamas sont les protagonistes : il n’y aura jamais de paix par la puissance et la force. Devant les défis sans frontières qui nous assaillent, le crédo de la puissance est une impasse quand la conscience de la fragilité est, au contraire, une force.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/221023/israel-palestine-la-question-morale
    #7_octobre_2023 #Israël #Palestine #égalité_des_droits #Palestine #Israël #lucidité #à_lire #raison #obscurcissement #égarement #tueries #terrorisme #civils #Gaza #Hamas #armée_israélienne #terreur #crimes #impuissance #catastrophe #cessez-le-feu #otages #solution_politique #communauté_internationale #Etats-Unis #USA #vengeance #sidération #désolation #débat_politique #débat_médiatique #médias #France #suspicion #médiocrité #responsabilité #propagande #journalisme #amnésie #résignation #habitude #conformisme #suivisme #aveuglement #soutien_conditionnel #question_coloniale

  • #Etienne_Balibar : #Palestine à la #mort

    L’instinct de mort ravage la terre de Palestine et #massacre ses habitants. Nous sommes dans un cercle d’#impuissance et de calcul dont on ne sortira pas. La #catastrophe ira donc à son terme, et nous en subirons les conséquences.

    Les commandos du #Hamas, enfermés avec deux millions de réfugiés dans ce qu’on a pu appeler une « prison à ciel ouvert », se sont enterrés et longuement préparés, recevant le soutien d’autres puissances régionales et bénéficiant d’une certaine complaisance de la part d’Israël, qui voyait en eux son « ennemi préféré ».

    Ils ont réussi une sortie offensive qui a surpris Tsahal occupée à prêter main forte aux colons juifs de Cisjordanie, ce qui, de façon compréhensible, a engendré l’enthousiasme de la jeunesse palestinienne et de l’opinion dans le monde arabe.

    À ceci près qu’elle s’est accompagnée de #crimes particulièrement odieux contre la population israélienne : assassinats d’adultes et d’enfants, tortures, viols, enlèvements. De tels crimes ne sont jamais excusables par la #légitimité de la cause dont ils se réclament.

    Malgré le flou de l’expression, ils justifient qu’on parle de #terrorisme, non seulement à propos des actions, mais à propos de l’organisation de #résistance_armée qui les planifie. Il y a plus : il est difficile de croire que l’objectif (en tout cas le risque assumé) n’était pas de provoquer une #riposte d’une violence telle que la #guerre entrerait dans une phase nouvelle, proprement « exterministe », oblitérant à jamais les possibilités de #cohabitation des deux peuples. Et c’est ce qui est en train de se passer.

    Mais cela se passe parce que l’État d’Israël, officiellement redéfini en 2018 comme « État-nation du peuple juif », n’a jamais eu d’autre projet politique que l’#anéantissement ou l’#asservissement du peuple palestinien par différents moyens : #déportation, #expropriation, #persécution, #assassinats, #incarcérations. #Terrorisme_d'Etat.

    Il n’y a qu’à regarder la carte des implantations successives depuis 1967 pour que le processus devienne absolument clair. Après l’assassinat de Rabin, les gouvernements qui avaient signé les #accords_d’Oslo n’en ont pas conclu qu’il fallait faire vivre la solution « à deux États », ils ont préféré domestiquer l’#Autorité_Palestinienne et quadriller la #Cisjordanie de #checkpoints. Et depuis qu’une #droite_raciste a pris les commandes, c’est purement et simplement de #nettoyage_ethnique qu’il s’agit.

    Avec la « #vengeance » contre le Hamas et les Gazaouis, qui commence maintenant par des massacres, un #blocus_alimentaire et sanitaire, et des #déplacements_de_population qu’on ne peut qualifier autrement que de génocidaires, c’est l’irréparable qui se commet. Les citoyens israéliens qui dénonçaient l’instrumentalisation de la Shoah et se battaient contre l’#apartheid ne sont presque plus audibles. La fureur colonialiste et nationaliste étouffe tout.

    Il n’y a en vérité qu’une issue possible : c’est l’intervention de ladite communauté internationale et des autorités dont elle est théoriquement dotée, exigeant un #cessez-le-feu immédiat, la libération des #otages, le jugement des #crimes_de_guerre commis de part et d’autre, et la mise en œuvre des innombrables résolutions de l’ONU qui sont restées lettre morte.

    Mais cela n’a aucune chance de se produire : ces institutions sont neutralisées par les grandes ou moyennes puissances impérialistes, et le conflit judéo-arabe est redevenu un enjeu des manœuvres auxquelles elles se livrent pour dessiner les sphères d’influence et les réseaux d’alliances, dans un contexte de guerres froides et chaudes. Les stratégies « géopolitiques » et leurs projections régionales oblitèrent toute légalité internationale effective.

    Nous sommes dans un cercle d’impuissance et de calcul dont on ne sortira pas. La catastrophe ira donc à son terme, et nous en subirons les conséquences.

    https://blogs.mediapart.fr/etienne-balibar/blog/211023/palestine-la-mort

    #7_octobre_2023 #génocide #colonialisme #nationalisme

  • Israël et la question des otages
    https://laviedesidees.fr/Israel-et-la-question-des-otages

    L’ampleur des enlèvements de civils israéliens le 7 octobre constitue un fait sans précédent. Comment a évolué la doctrine d’Israël sur la #négociation ? Comment déterminer le « prix » d’une vie sur un plan politique et moral ? #Israël est-il prêt à payer plus cher que d’autres pays le retour de ses citoyens ?

    #International #Entretiens_vidéo #violence #terrorisme

  • 18.10.2023 : Reintroduzione dei controlli delle frontiere interne terrestri con la Slovenia, nota di Palazzo Chigi

    Il Governo italiano ha comunicato la reintroduzione dei controlli delle frontiere interne terrestri con la Slovenia, in base all’articolo 28 del Codice delle frontiere Schengen (Regolamento Ue 2016/339).

    Il ripristino dei controlli alle frontiere interne, già adottato nell’area Schengen, è stato comunicato dal ministro Piantedosi al vicepresidente della Commissione europea Margaritis Schinas, al commissario europeo agli Affari interni Ylva Johansson, alla presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola, al segretario generale del Consiglio dell’Unione europea Thérèse Blanchet e ai ministri dell’Interno degli Stati membri Ue e dei Paesi associati Schengen.

    L’intensificarsi dei focolai di crisi ai confini dell’Europa, in particolare dopo l’attacco condotto nei confronti di Israele, ha infatti aumentato il livello di minaccia di azioni violente anche all’interno dell’Unione. Un quadro ulteriormente aggravato dalla costante pressione migratoria cui l’Italia è soggetta, via mare e via terra (140 mila arrivi sulle coste italiane, +85% rispetto al 2022). Nella sola regione del Friuli Venezia Giulia, dall’inizio dell’anno, sono state individuate 16 mila persone entrate irregolarmente sul territorio nazionale.

    Questo scenario, oggetto di approfondimento anche da parte del Comitato di analisi strategica anti-terrorismo istituito presso il ministero dell’Interno, conferma la necessità di un ulteriore rafforzamento delle misure di prevenzione e controllo. Nelle valutazioni nazionali, infatti, le misure di polizia alla frontiera italo-slovena non risultano adeguate a garantire la sicurezza richiesta. La misura verrà attuata dal 21 ottobre prossimo per un periodo di 10 giorni, prorogabili ai sensi del Regolamento Ue 2016/339. Le modalità di controllo saranno attuate in modo da garantire la proporzionalità della misura, adattate alla minaccia e calibrate per causare il minor impatto possibile sulla circolazione transfrontaliera e sul traffico merci.
    Ulteriori sviluppi della situazione ed efficacia delle misure verranno analizzati costantemente, nell’auspicio di un rapido ritorno alla piena libera circolazione.

    https://www.governo.it/it/articolo/reintroduzione-dei-controlli-delle-frontiere-interne-terrestri-con-la-sloven

    #Slovénie #Italie #frontières #asile #migrations #réfugiés #frontières #contrôles_systématiques_aux_frontières #frontière_sud-alpine #Alpes
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    ajouté à cette métaliste sur l’annonce du rétablissement des contrôles frontaliers de la part de plusieurs pays européens :
    https://seenthis.net/messages/1021987

    • Terrorismo, l’Italia sospende Schengen: Blindato il confine sloveno. Gli 007: “Falle nei controlli, i lupi solitari passano da lì”

      Meloni sui social: “La sospensione del Trattato di Schengen sulla libera circolazione in Europa si è resa necessaria per l’aggravarsi della situazione in Medio Oriente, me ne assumo la piena responsabilità”. Vertice tra la premier e i servizi di intelligence sul rischio attentati

      Non hanno nome. E nemmeno un volto. Sono fantasmi, impossibili da intercettare per l’intelligence e la Prevenzione. “Per un terrorista, come dimostra la cronaca, il corridoio balcanico rappresenta un percorso privilegiato verso l’Italia e l’Europa: niente fotosegnalazione, nessuna identificazione”, spiegano da settimane la Polizia e i Servizi al governo. Un’indicazione ribadita martedì, durante il comitato di analisi strategica antiterrorismo.

      (#paywall)

      https://www.repubblica.it/politica/2023/10/18/news/terrorismo_italia_allerta_slovenia-418144267

      #terrorismo

    • L’Italia vuole ristabilire i controlli alla frontiera con la Slovenia

      Il governo ha motivato la decisione – inedita – citando il conflitto israelo-palestinese e l’aumento degli arrivi di migranti

      Mercoledì pomeriggio il governo italiano ha annunciato di voler ristabilire dei controlli alla frontiera tra Friuli Venezia Giulia e Slovenia: la misura entrerà in vigore dal 21 ottobre prossimo, avrà una durata iniziale di 10 giorni e potrà eventualmente essere prorogata. La notizia è stata data dalla presidenza del Consiglio, dopo che era stata comunicata alle istituzioni europee da Matteo Piantedosi, ministro dell’Interno e titolare delle procedure di controllo alle frontiere. «L’intensificarsi dei focolai di crisi ai confini dell’Europa, in particolare dopo l’attacco condotto nei confronti di Israele, ha infatti aumentato il livello di minaccia di azioni violente anche all’interno dell’Unione» ha detto in un comunicato il governo, che dunque giustifica questa decisione con le tensioni generate dal conflitto israelo-palestinese.

      Di fatto quindi l’Italia vuole sospendere l’accordo di Schengen, ovvero un’intesa che garantisce la libera circolazione di persone e merci sul territorio europeo a cui aderiscono 23 dei 27 paesi membri dell’Unione Europea (e tra questi anche la Slovenia). È una scelta senza precedenti: l’Italia aveva sospeso Schengen solo in concomitanza con lo svolgimento sul territorio nazionale di eventi internazionali di grande rilevanza. Per il G20 di Roma (tra il 27 ottobre e il primo novembre del 2021), per il G7 di Taormina (tra il 10 e il 30 maggio del 2017) e per il G8 dell’Aquila (tra il 28 giugno e il 15 luglio del 2009). A seguito degli attentati terroristici a Parigi del 2015 si parlò dell’eventualità di un ripristino dei controlli alle frontiere, ma l’ipotesi fu poi accantonata dal governo di Matteo Renzi.

      Sono stati numerosi, invece, i paesi europei che hanno fatto ricorso a questa procedura negli ultimi due anni, cioè da quando dopo la lunga fase della pandemia la libera circolazione nell’area Schengen era stata reintrodotta stabilmente: Francia, Germania, Austria, Polonia, Danimarca, Slovacchia, Norvegia, Repubblica Ceca, quasi sempre per ragioni legate a un aumento dei flussi migratori ritenuto eccessivo e, più di rado, per minacce legate al terrorismo o a seguito di un attentato subito sul territorio nazionale.

      Insieme all’Italia vari altri paesi dell’Unione Europea hanno notificato alle istituzioni europee la decisione di sospendere Schengen temporaneamente in questi giorni e nelle prossime settimane: tra questi Austria, Germania, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia. L’Italia è però l’unica, finora, a citare tra le ragioni a giustificazione della sospensione il conflitto israelo-palestinese. La motivazione ufficiale del governo cita anche «la costante pressione migratoria via mare e via terra» collegandola a una presunta «possibile infiltrazione terroristica» che «conferma la necessità di un ulteriore rafforzamento delle misure di prevenzione e controllo».

      Pochi minuti dopo l’annuncio, la Lega di Matteo Salvini ha diffuso a sua volta un comunicato in cui dice che la decisione adottata «è un’ottima notizia che conferma la serietà e la concretezza del governo. Avanti così, a difesa dell’Italia e dei suoi confini».

      https://www.ilpost.it/2023/10/18/controlli-frontiera-slovenia-schengen

    • Ripristinati i controlli al confine tra Italia e Slovenia

      ICS - Ufficio Rifugiati di Trieste: usato uno stratagemma che può riproporre gravissime condotte illegali

      7.000 sono le persone migranti intercettate e respinte in Slovenia nel corso del 2023. A fornire questi numeri è direttamente il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, all’indomani del ripristino dei controlli sul confine orientale per prevenire, secondo il Viminale, “infiltrazione terroristiche“.

      E’ difatti con questa motivazione che il Governo italiano giustifica la decisione di ripristinare i controlli: il Codice frontiere Schengen (Regolamento UE n. 2016/399) prevede che il ripristino dei controlli di frontiera interni può avvenire “solo come misura di extrema ratio (…) in caso di minaccia grave per l’ordine pubblico o la sicurezza interna di uno Stato membro” (Codice, art. 25) per il tempo più breve possibile. Il rischio di “attentati o minacce terroristiche” (Codice, art. 26) può motivare il temporaneo ripristino dei controlli di frontiera, ma tale rischio deve essere concreto e specifico.

      Secondo ICS – Ufficio Rifugiati onlus di Trieste le motivazioni del governo «appaiono del tutto vaghe e inadeguate; in particolare l’inserimento, nelle motivazioni, dell’esistenza di presunto problema dell’arrivo in tutto il Friuli Venezia-Giulia di un modestissimo numero di rifugiati (circa 1.500 persone al mese nel corso del 2023), in assoluta prevalenza provenienti dall’Afghanistan, risulta risibile e del tutto privo di alcuna connessione logico-giuridica con i criteri richiesti dal Codice Schengen per legittimare una scelta così estrema quale il ripristino dei confini interni».

      «E non può – ricorda l’associazione – comportare alcuna compressione o limitazione del diritto d’asilo in quanto “gli Stati membri agiscono nel pieno rispetto (…) del pertinente diritto internazionale, compresa la convenzione relativa allo status dei rifugiati firmata a Ginevra il 28 luglio 1951 «convenzione di Ginevra»), degli obblighi inerenti all’accesso alla protezione internazionale, in particolare il principio di non-refoulement (non respingimento), e dei diritti fondamentali”. (Codice, art. 3)».
      Ciò significa «che anche durante il periodo di temporaneo ripristino dei controlli di frontiera rimane dunque inalterato, alla frontiera italo-slovena, l’obbligo da parte della polizia, di recepire le domande di asilo degli stranieri che intendono farlo e di ammettere gli stessi al territorio per l’espletamento delle procedure previste dalla legge».

      L’Italia non più tardi di cinque mesi fa è stata condannata per le riammissioni / respingimenti illegali attuate nel 2020 e perfino al risarcimento economico dei richiedenti asilo, mentre la Corte di giustizia UE ha ribadito, a fine settembre, che è vietato il respingimento sistematico alle frontiere interne.

      Tutto questo fa emergere che l’inadeguatezza delle motivazioni fornite da Roma rendono non infondato il sospetto che la decisione – secondo ICS – «ben poco abbia a che fare con la difficile situazione internazionale, bensì rappresenti una misura propagandistica e uno stratagemma, attraverso le quasi già annunciate proroghe della misura, per riproporre gravissime condotte illegali al confine italo-sloveno tramite respingimenti di richiedenti asilo che sono tassativamente vietati dal diritto internazionale ed europeo».

      «In un pericolosissimo effetto domino, la situazione potrebbe facilmente degenerare in uno scenario di respingimenti collettivi a catena, radicalmente vietati dal diritto internazionale, in ragione della decisione assunta dalla Slovenia a seguito della decisione italiana di ripristinare a sua volta i controlli di frontiera con la Croazia e l’Ungheria», conclude l’associazione.

      https://www.meltingpot.org/2023/10/ripristinati-i-controlli-al-confine-tra-italia-e-slovenia
      #terrorisme

    • 27 ottobre 2023: Controlli ai confini con la Slovenia: divieto di circolazione, libertà di respingimento

      Preoccupa la reintroduzione dei controlli ai confini interni con la Slovenia annunciata il 18 ottobre dal Governo Meloni dopo gli attacchi compiuti da Hamas in territorio israeliano. Si tratta infatti di un’iniziativa infondata e strumentale, per la distorsione della presunta “costante pressione migratoria” (appena 1.500 persone al mese in Friuli-Venezia Giulia dall’inizio dell’anno), grave, per l’equivalenza che suggerisce all’opinione pubblica tra migranti in transito e potenziali “lupi solitari”, e che rischia soprattutto di tradursi in un palese “via libera” a riammissioni e respingimenti a catena a danno dei migranti e richiedenti asilo, in violazione del diritto interno ed europeo.

      Il tutto in un punto di transito, quello tra Italia e Slovenia, che ha già vissuto nel 2020 l’esperienza delle riammissioni informali attive disposte dall’allora capo di gabinetto della ex ministra dell’Interno Luciana Lamorgese e oggi titolare di quel dicastero, Matteo Piantedosi. Pratiche che hanno comportato il respingimento a catena delle persone, esponendole a violenze e trattamenti inumani e degradanti, e per questo dichiarate illegittime dai tribunali nel corso di questi anni. E che pure sembrano rappresentare ancora in principio l’unico strumento per l’esecutivo: uno strumento, è bene ribadirlo, illegale.

      Come hanno già fatto notare anche altri osservatori e organizzazioni sul campo, il ripristino dei controlli di frontiera interni e il sacrificio della libera circolazione può avvenire in base al Codice frontiere Schengen (Regolamento (UE) 2016/399) “solo come misura di extrema ratio […] in caso di minaccia grave per l’ordine pubblico o la sicurezza interna di uno Stato membro” (Codice, art. 25) per il tempo più breve possibile. Il rischio di “attentati o minacce terroristiche” (Codice, art. 26) può motivare il temporaneo ripristino dei controlli di frontiera, ma tale rischio deve essere concreto e specifico.

      Giocando all’equivoco intorno al concetto di minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza interna, e liquidando in poche battute il flop delle preesistenti “misure di polizia alla frontiera italo-slovena” annunciate in pompa magna solo pochi mesi fa, il governo ha però già esplicitato di voler prorogare il ripristino dei controlli per i prossimi mesi (la misura doveva durare per 10 giorni dal 21 ottobre 2023). A significare che il reale scopo della reintroduzione dei controlli ai confini interni non è contrastare la minaccia terroristica -verso la quale, come noto, è totalmente inefficace- quanto tentare di dar parvenza di (non) legittimità a prassi operative sovrapponibili a riammissioni e respingimenti. Puntando magari a vietare l’accesso al territorio per coloro che intendano chiedere asilo, scavalcando gli obblighi di informativa che stanno in capo alle autorità di frontiera, respingendo le persone senza lasciar loro in mano alcun provvedimento.

      “Le modalità di controllo saranno attuate in modo da garantire la proporzionalità della misura, adattate alla minaccia e calibrate per causare il minor impatto possibile sulla circolazione transfrontaliera e sul traffico merci”, ha provato a chiarire Palazzo Chigi. Ci si augura che dietro queste parole non si prefiguri il ricorso a forme di profilazione razziale, tema sul quale il nostro Paese è già stato bacchettato dal Comitato Onu per l’eliminazione delle discriminazioni razziali.

      Ecco perché è fondamentale monitorare l’attività delle autorità italiane al confine sloveno. La rete RiVolti ai Balcani, tramite le realtà che vi aderiscono, lo sta già facendo.

      Ed è molto importante al riguardo informare correttamente la cittadinanza.
      Ecco perché giovedì 9 novembre alle ore 18.30 sui canali social della rete è stata organizzata l’iniziativa pubblica online “Divieto di circolazione. Libertà di respingimento” per fare il punto della situazione sia per quanto riguarda la frontiera Italia-Slovenia e sia per quanto attiene alla condizione delle persone in transito lungo le rotte balcaniche, dove le violenze sono tornate ancora una volta a governare la “gestione” dei passaggi. Una gestione oscura, come insegna anche la “novità” italiana della reintroduzione dei controlli ai confini interni con la Slovenia.

      https://www.rivoltiaibalcani.org/news-5

    • Rotta balcanica, Piantedosi lancia le brigate antimigranti

      Lo stesso Piantedosi ha altresì annunciato che, non appena i controlli alle frontiere cesseranno (al momento sono prorogati fino al 20 novembre), è intenzione del Governo prevedere l’istituzione di “brigate miste” (di polizia) da “rendere stabili nel tempo”. Il termine utilizzato – brigate – è già piuttosto militaresco, ma, soprattutto, tali brigate miste come sarebbero composte, con quale mandato e con quali garanzie opererebbero al di fuori del territorio italiano? Anche sul confine sloveno-croato e su quello croato-bosniaco?

      https://seenthis.net/messages/1025275

  • Cet automne c’est une suite d’annonces du rétablissement des #contrôles_systématiques_aux_frontières dans les pays de l’#Union_européenne (#UE / #EU)... tentative de #métaliste

    La liste complète des demandes de réintroduction des contrôles systématiques à la commission européenne :
    https://home-affairs.ec.europa.eu/policies/schengen-borders-and-visa/schengen-area/temporary-reintroduction-border-control_en

    #Schengen #asile #migrations #réfugiés #frontières #contrôles_frontaliers #2023 #automne_2023

  • Israël-Gaza : le Conseil de sécurité rejette un projet de résolution en raison du veto des Etats-Unis
    18 octobre 2023 | ONU Info
    https://news.un.org/fr/story/2023/10/1139767

    Proposé par le Brésil, le texte, tout en condamnant sans équivoque les « attaques terroristes odieuses » perpétrées par le Hamas en Israël à partir du 7 octobre 2023, encourageait la mise en place de couloirs humanitaires et d’autres initiatives pour l’acheminement de l’aide humanitaire aux civils palestiniens.

    Il demandait également d’annuler l’ordre donné aux civils et au personnel de l’ONU d’évacuer le nord de l’enclave, ainsi qu’à fournir électricité, eau, carburant, nourriture et fournitures médicales en quantité suffisante à la population de Gaza.
    Explications de vote

    Les États-Unis ont justifié leur veto par le fait que le texte ne faisait nulle part mention du droit d’Israël à la légitime défense. « Israël a le droit inhérent de se défendre, comme le prévoit l’article 51 de la Charte des Nations Unies », a souligné l’Ambassadrice des États-Unis auprès des Nations Unies, Linda Thomas-Greenfield. Elle a aussi noté que ce droit avait été réaffirmé par le Conseil dans des résolutions antérieures concernant des attaques terroristes, et que « cette résolution aurait dû faire de même ». (...)