• Méditerranée : 68 migrants sauvés par le bateau « Ocean-Viking », l’Italie lui assigne un débarquement 1 500 km plus loin
    https://www.lemonde.fr/international/article/2023/09/10/mediterranee-68-migrants-sauves-par-le-bateau-ocean-viking-l-italie-lui-assi

    Méditerranée : 68 migrants sauvés par le bateau « Ocean-Viking », l’Italie lui assigne un débarquement 1 500 km plus loin
    Le navire-ambulance de l’ONG SOS Méditerranée est intervenu au large de la Libye, dimanche matin. Les autorités italiennes lui ont assigné le port d’Ancône, situé dans la mer Adriatique, pour les débarquer.
    Le Monde avec AFP
    L’Ocean-Viking, navire-ambulance affrété par SOS Méditerranée, a secouru soixante-huit migrants en détresse dans les eaux internationales au large de la Libye dans la matinée du dimanche 10 septembre, a annoncé l’ONG humanitaire basée en France. Les naufragés ont été trouvés sur « une embarcation en bois à double pont qui avait quitté Zouara, en Libye, la nuit dernière, a précisé l’ONG dans un communiqué. Plusieurs d’entre [eux] souffrent du mal de mer et sont actuellement soignées par l’équipe médicale de SOS Méditerranée et de la Fédération internationale des sociétés de la Croix-Rouge et du Croissant-Rouge (IFRC) à bord de l’Ocean-Viking. » Pour débarquer ces soixante-huit rescapés, les autorités italiennes ont assigné au bateau le port… d’Ancône, situé dans la mer Adriatique, « à 1 560 kilomètres (soit quatre jours de navigation) de la zone d’opération », a déploré SOS Méditerranée. Sur des photos publiées par l’ONG sur X (ex-Twitter), on y voit plusieurs dizaines de migrants entassés dans un bateau de fortune portant des gilets de sauvetage orange. Fin août, l’Ocean-Viking avait déjà secouru en mer 438 migrants en détresse dans les eaux internationales au large de la Libye et de la Tunisie avant de faire route vers Gênes (nord de l’Italie), le port sûr éloigné qui lui avait été assigné par les autorités italiennes pour débarquer les personnes rescapées.
    La Méditerranée centrale est la route migratoire la plus dangereuse du monde, selon l’Organisation internationale pour les migrations (OIM). L’agence onusienne estime que depuis début 2023, 2 013 migrants y ont disparu contre 1 417 sur toute l’année 2022. En juin, un naufrage présenté comme l’un des plus graves impliquant des migrants en Méditerranée, a fait au moins 82 morts, mais en Méditerranée orientale. L’Ocean-Viking avait été retenu durant dix jours en juillet par les autorités italiennes qui lui reprochaient des défaillances de sécurité, mais il avait été autorisé à reprendre la mer le 21 juillet.

    #Covid-19#migrant#migration#mediterranee#routemigratoire#OIM#tunisie#libye#italie#traversee#associationhumanitaire#traversee#mortalite

  • Italie, septembre 1920 : l’occupation des usines
    https://www.lutte-ouvriere.org/publications/brochures/italie-septembre-1920-loccupation-des-usines-159715.html

    Ce texte est la traduction d’une brochure éditée en Italie en septembre 2020 par le groupe l’Internazionale (Union communiste internationaliste)

    SOMMAIRE

    Le mouvement socialiste
    – La diffusion des idées socialistes
    – Le #socialisme en #Italie

    La #guerre et la crise de la #Deuxième_Internationale
    – La guerre et les socialistes
    – Un coup totalement inattendu  ?

    La ville de l’industrie et de la lutte des classes
    #Turin, ville ouvrière d’avant-garde

    Le développement des luttes et des organisations ouvrières
    – La croissance des #syndicats et du #Parti_socialiste après la guerre
    – Vers l’occupation des usines
    – Trois faits importants

    L’occupation des usines
    – Le début
    – Les travailleurs s’organisent
    – Les dirigeants réformistes retrouvent l’initiative
    – La révolution mise aux voix
    – Vers la fin

    Les prémisses de la révolution
    – Les conditions d’une #révolution_prolétarienne étaient-elles réunies  ?
    – Une crise profonde
    – Que signifie qu’il manquait un #parti_révolutionnaire  ?
    – Ce qui manqua concrètement
    – La révolution, il faut «  la vouloir faire  »

  • Il sistema delle “coop pigliatutto”

    Per anni hanno dominato il settore dell’accoglienza in Veneto prima di sbarcare nella detenzione amministrativa. Oggi gestiscono due Cpr, tra cui quello di Gradisca d’Isonzo, dove dalla sua riapertura sono morte quattro persone

    Il 16 dicembre del 2019 il Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Gradisca d’Isonzo, in provincia di Gorizia, riapre, a sei anni dalle proteste che hanno portato alla sua chiusura. Tra i primi trattenuti del nuovo corso, c’è un gruppo di circa settanta persone provenienti dal centro di Bari, dove sono stati bruciati tre degli ultimi quattro moduli rimasti dopo le proteste dei mesi precedenti. Bibudi Anthony Nzuzi è tra coloro che sono stati trasferiti «di punto in bianco», dice, in Friuli. L’accoglienza non è stata delle migliori: «Pioveva, faceva freddo, ci siamo ritrovati i poliziotti in tenuta antisommossa. Non avevamo materassi, non c’erano coperte, non avevamo niente per poterci vestire. Ci siamo ritrovati a dormire al freddo perché non c’era il riscaldamento», racconta.

    Nzuzi è nel Cpr friulano anche tra il 17 e il 18 gennaio 2020, quando muore un trattenuto georgiano di 37 anni, Vakhtang Enukidze. I poliziotti di cui parla Nzuzi stanno sedando una protesta. «Hanno inizialmente pestato tutti, solo che lui [Vakhtang Enukidze] era caduto – racconta – ma continuavano a pestarlo e gli altri ragazzi si sono buttati addosso ai poliziotti e l’hanno tirato via».

    Nzuzi si trova nello stesso reparto di Enukidze ma in un’altra cella. «La sera lui [Vakhtang Enukidze] lamentava dolori, non si sentiva bene – ricorda, ripensando ai momenti dopo che la polizia ha lasciato il Cpr -. È andato a dormire e non si è più risvegliato». Questa versione è stata confermata da alcune testimonianze raccolte dal deputato Riccardo Magi durante due visite ispettive subito dopo il decesso. Non dagli investigatori, però.

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    L’inchiesta in breve

    - Ekene nasce nel 2017 come diretta emanazione di Ecofficina ed Edeco, enti che hanno dominato il mercato dell’accoglienza in Veneto guadagnandosi l’appellativo di “coop pigliatutto”
    - A gestirla è Simone Borile, imprenditore padovano che proviene dal business dei rifiuti. Sebbene non compaia mai nella visura camerale, viene considerato dagli inquirenti di Venezia “amministratore di fatto” delle cooperative
    - Nel 2016, Ecofficina-Edeco si aggiudica due centri di accoglienza, a Cona e Bagnoli. Per la gestione dei due hub, sono nati due processi paralleli a Padova e Venezia, dove sono indagati alcuni funzionari delle due prefetture e i vertici della cooperativa, tra cui Simone Borile. Le accuse, a vario titolo, sono di frode nell’esecuzione del contratto, inadempimento e frode degli obblighi contrattuali, rivelazioni di segreto d’ufficio
    - Con la liquidazione di Edeco nasce Ekene, che segna l’ingresso nel mondo della detenzione amministrativa con l’aggiudicazione dei Cpr di Gradisca d’Isonzo, in Friuli-Venezia Giulia, e Macomer, in Sardegna
    – Dalla sua riapertura nel gennaio 2019, nel Cpr friulano sono morte quattro persone. Borile è indagato per omidicio colposo per il decesso di Vakhtang Enukidze, lasciato secondo l’accusa per nove ore senza soccorsi
    – Nell’ottobre 2022, la cooperativa veneta ha vinto la gara per la gestione del Cpr di Caltanissetta. Dopo sette mesi la Prefettura ha annullato l’aggiudicazione per i procedimenti a carico dei vertici

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    A seguito della morte di Enukidze, la procura di Gorizia ha cominciato a indagare. L’autopsia sul deceduto ha stabilito come causa della morte un edema polmonare e cerebrale dovuto non a un pestaggio, ma a un cocktail di farmaci e stupefacenti. Così a essere riviati a giudizio con l’accusa di omicidio colposo sono stati il direttore del centro, Simone Borile, e il centralinista che era di turno quel giorno. La cooperativa che ha in gestione il Cpr si chiama Ekene. È nata dalle ceneri di Ecofficina ed Edeco, conosciute in Veneto come “coop pigliatutto”, per aver dominato per anni la gestione dell’accoglienza in tutta la regione.

    Secondo la ricostruzione degli inquirenti, Enukidze è stato lasciato senza soccorso per diverse ore, nonostante le richieste di aiuto degli altri trattenuti, prima di essere trasferito in ospedale, dove è morto alle 15:37. La sorella, Asmat, ricorda l’ultima telefonata in cui percepiva una voce diversa: «Sembrava che avesse bevuto. Aveva dei dolori e gli avevano dato qualcosa per calmarlo, un antidolorifico. Stava talmente male che non riusciva nemmeno ad andare all’udienza. Mi diceva di contattare l’ambasciata georgiana, per farlo uscire dal Cpr», racconta. Simone Borile, raggiunto al telefono da IrpiMedia, ha una versione diversa dei fatti: «È stato soccorso immediatamente, appena c’è stata la chiamata», il problema «riguarda il mancato funzionamento del sistema di chiamata. Niente a che vedere con il mancato soccorso».
    L’ascesa di Ecofficina tra le coop dell’accoglienza

    Borile ha cominciato a lavorare con i migranti dai tempi di Ecofficina Educational, cooperativa con sede a Battaglia Terme, in provincia di Padova, fondata il 2 agosto 2011. Il direttore del Cpr di Gradisca non appare nella visura camerale in quanto sarebbe stato un semplice consulente esterno. Gli inquirenti di Venezia e Padova che indagheranno sulla società, sosterranno tuttavia che sia lo stesso Borile l’amministratore di fatto delle “coop pigliatutto”.

    I legami tra Borile e i vertici di Ecofficina sono però evidenti: vicepresidente della cooperativa è la moglie Sara Felpati mentre il presidente del consiglio di amministrazione è Gaetano Battocchio, coinvolto con lui nel processo per bancarotta della società di gestione dei rifiuti della Bassa Padovana, Padova Tre srl, ma poi assolto, al contrario di Borile che a marzo 2023 è stato uno dei due condannati in primo grado a quattro anni e otto mesi per peculato perché avrebbe trattenuto illegalmente un importo di oltre tre milioni di euro.

    È nel dicembre 2014 che per la prima volta il nome di Ecofficina viene accostato a un caso di frode nelle pubbliche forniture e maltrattamenti sugli ospiti. Il processo che ne è scaturito si chiuderà otto anni e mezzo dopo, il 12 luglio 2023, con l’assoluzione dei vertici della cooperativa perché il fatto non sussiste.

    Durante gli anni passati a processo, Ecofficina Educational – che nel 2015 ha ceduto parte dell’azienda a un’altra cooperativa, Ecofficina Servizi – si aggiudica diversi appalti per l’accoglienza migranti in particolare nella provincia di Padova, con un monopolio che comprende l’ex Caserma Prandina di Padova, l’Hotel Maxim’s a Montagnana, lo Sprar del comune di Due Carrare e l’accoglienza di più di 700 migranti nelle province di Venezia, Vicenza e Rovigo.

    Nel caso dello Sprar di Due Carrare, uno dei requisiti fondamentali per partecipare era aver svolto in modo continuativo, e per almeno due anni, l’attività di accoglienza. A gennaio 2016, la cooperativa ha depositato una dichiarazione attestante una convenzione con la Prefettura di Padova che provava l’inizio dell’attività il 6 gennaio 2014, nonostante Ecofficina fosse entrata nel settore solo nel maggio dello stesso anno. Grazie alla documentazione falsa, secondo l’ipotesi degli inquirenti di Padova, Ecofficina avrebbe ottenuto l’aggiudicazione provvisoria delle gare per la gestione di centri di accoglienza. Il processo che è scaturito dall’indagine è ancora in corso, riporta il Mattino di Padova. IrpiMedia non ha ricevuto alcuna risposta a domande di chiarimento rivolte via email alla cooperativa su questo e su altri temi.

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    Cpa, Cas, Sai: le sigle dell’accoglienza

    In Italia il sistema di accoglienza dovrebbe svilupparsi su due binari: a un primo livello ci sono i Centri di prima accoglienza (Cpa) e gli hotspot, e a un secondo il Sistema di accoglienza e integrazione (Sai), strutture gestite dagli enti locali su base volontaria, che dovrebbero rappresentare il sistema ordinario. I Centri di accoglienza straordinaria (Cas), invece, dovrebbero essere individuati e istituiti dalle prefetture nel caso in cui i posti negli altri centri fossero esauriti. La maggior parte delle persone che arrivano sul territorio però sono accolte nei Cas, sintomo di una gestione perennemente emergenziale del fenomeno. In base ai dati del rapporto di Actionaid Centri d’Italia del 2022, i posti nei Cas, dove è ospitato oltre il 65% delle persone, e nei Cpa sono infatti quasi 63 mila, a fronte dei 34 mila posti del Sai.

    I centri di prima accoglienza e gli hotspot sono invece strutture nate per identificare, fotosegnalare e assistere dal punto di vista sanitario le persone appena arrivate in Italia. Dovrebbero fornire anche le prime informazioni legali per la richiesta di protezione internazionale.

    Nel Sai – prima conosciuto come Siproimi (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati) e prima ancora come Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) – i servizi assicurati sono solitamente superiori rispetto agli altri centri e mirano ad accompagnare le persone accolte nei loro percorsi di vita e di autonomia: oltre al vitto e all’alloggio, sono infatti assicurate assistenza legale, mediazione linguistica, orientamento lavorativo, insegnamento della lingua italiana, assistenza psicosociale.

    A parte alcune categorie di soggetti, come i minori stranieri non accompagnati, il decreto firmato il 10 marzo 2023 dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha escluso i richiedenti asilo dalla possibilità di essere accolti nel sistema ordinario, riservando loro i pochi servizi di base garantiti dal Cas, ulteriormente ridotti: l’assistenza materiale, sanitaria e linguistica, vitto e alloggio, eliminando i servizi di assistenza psicologica, i corsi di italiano e l’orientamento legale.

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    Gli anni di Edeco

    Dopo le vicende di Ecofficina, la cooperativa cambia nome. Spunta dunque un nuovo attore nel mercato dell’accoglienza in Veneto: Edeco. I vertici però rimangono invariati. La cooperativa inizia a partecipare ai bandi per la gestione dell’accoglienza a partire dal 2016, quando il suo organigramma si arricchisce di nuove figure. Tra queste, Annalisa Carraro, che con Battocchio, Felpati e Borile sarà imputata nel processo di Venezia. Quell’anno in Italia il numero dei Centri di accoglienza straordinaria (Cas) cresce di quasi il doppio rispetto all’anno precedente, con 137 mila strutture dove si concentra il 78% dei richiedenti asilo. In particolare, in Veneto questa tendenza si affianca alla resistenza degli amministratori locali verso il sistema di accoglienza diffusa rappresentato dagli Sprar (oggi Sai).

    È in questo contesto che nascono centri come la tendopoli nell’ex base militare di Cona, in provincia di Venezia, gestita provvisoriamente da Ecofficina fino al luglio del 2016. Quel mese sarà proprio Edeco, in un raggruppamento temporaneo d’imprese con Ecos e Food Service, ad aggiudicarsi il nuovo appalto.

    Le denunce sulle condizioni interne emergono già dal giugno dello stesso anno, quando alcune associazioni effettuano una visita al centro evidenziando il sovraffollamento e la carenza dei servizi essenziali. Le proteste successive dei richiedenti asilo spingono il presidente della Confcooperative del Veneto, Ugo Campagnaro, a prendere la decisione di sospendere Ecofficina-Edeco con queste motivazioni: «Non esiste una legge che impedisca di ospitare e gestire centinaia di profughi in un’unica struttura. Questo però è un sistema che non risponde alle logiche della buona accoglienza […]. Si tratta invece di un modello che guarda soprattutto al business».

    I problemi diventano evidenti quando a gennaio 2017 Sandrine Bakayoko, 25enne ivoriana ospite del centro di Cona, muore per trombosi polmonare. Questo episodio porterà ad alcuni lavori di ristrutturazione e alla riduzione degli ospiti da 1.600 a 1.000, misure comunque non sufficienti a evitare la protesta dei richiedenti asilo, che a novembre si mettono in marcia verso Venezia per ottenere un incontro con il prefetto di Venezia, che alla fine deciderà di spostarli in altre strutture, scrive Internazionale.

    Due anni più tardi la Procura di Venezia chiede il rinvio a giudizio per i vertici di Ecofficina-Edeco. Borile, sempre “amministratore di fatto” a quanto afferma l’accusa, e i suoi colleghi avrebbero impiegato un numero di operatori inferiore agli obblighi contrattuali, un’inadempienza che sarebbe stata coperta dai trasferimenti di personale dall’altro grande centro gestito dalla cooperativa, quello di Bagnoli, in provincia di Padova, e dalla falsificazione dei documenti, che avrebbero fatto apparire un numero di operatori superiore. Inoltre, l’impiego di medici e infermieri con turni e orari inferiori rispetto a quanto previsto dal capitolato d’appalto avrebbe procurato un ingiusto profitto di oltre 200 mila euro. Tutto questo sarebbe stato possibile anche grazie alle informazioni fornite dalla Prefettura. Secondo quanto emerge da alcune intercettazioni contenute nelle carte processuali, ex prefetti e funzionari avrebbero preannunciato e in alcuni casi concordato con i responsabili della cooperativa l’orario e la data delle visite ispettive. Una prassi che avrebbe permesso a Ecofficina-Edeco di organizzarsi in anticipo per coprire eventuali falle.

    Per questo motivo, la giudice per le indagini preliminari ha accolto le richieste di rinvio a giudizio, tra gli altri, anche nei confronti dell’ex prefetto pro tempore di Venezia Domenico Cuttaia e dell’allora vice prefetto vicario Vito Cusumano per rivelazione di segreto d’ufficio.

    Raggiunto al telefono, Simone Borile ha commentato in questo modo: «Non si trattava di ispezioni, ma esclusivamente di una visita di cortesia». Il processo è ancora in primo grado, in fase dibattimentale: nell’ultima udienza, un’ex operatrice ha raccontato che era il personale a firmare il foglio presenze per conto dei richiedenti asilo, in modo da poter ricevere dalla Prefettura la quota diaria per ogni persona accolta, riporta Il Gazzettino.

    Un processo molto simile si sta svolgendo a Padova sulla gestione del Cas di Bagnoli. Tra gli imputati ci sono ancora una volta Sara Felpati, Simone Borile, Gaetano Battocchio, oltre all’ex viceprefetto Pasquale Aversa, il vicario Alessandro Sallusto e una funzionaria della Prefettura. Le accuse a vario titolo sono di turbativa d’asta, frode nelle forniture pubbliche, truffa, concussione per induzione, rivelazione di segreti d’ufficio e falso ideologico. Secondo l’accusa, grazie ai contatti con la Prefettura, Borile, Battocchio e Felpati avrebbero ottenuto informazioni sui concorrenti, partecipando a un bando su misura per Edeco. Anche in questo caso viene contestata la presenza di personale in numero inferiore rispetto al capitolato d’appalto e le chiamate di preavviso della Prefettura prima di alcune ispezioni per permettere alla cooperativa di farsi trovare in regola.
    I danni delle indagini

    Le indagini finiscono per danneggiare la “coop pigliatutto” che alla fine del 2018, anno di chiusura delle strutture di Cona e Bagnoli, avvia una procedura di licenziamento collettivo per 57 lavoratori, a cui se ne aggiungono 71 in scadenza di contratto. Si tratta di addetti alle pulizie e custodia, operai, insegnanti, tecnici, psicologi, educatori che riducono sensibilmente la rosa di Edeco, composta fino ad allora da 228 dipendenti. Nel 2020, Edeco inizia il processo di liquidazione, ma comincia a prendere nuova forma, sempre con lo stesso sistema: la creazione di nuove cooperative.

    Questa volta sono due le cooperative che prendono il testimone di Edeco, segnando l’ingresso nel mondo del trattenimento dei cittadini stranieri: Ekene e Tuendelee. La prima è dedicata quasi esclusivamente alla gestione dei Cpr, la seconda all’attività principale di «pulizia generale (non specializzata) di edifici», oltre a servizi educativi e socio-sanitari come le «attività di prima accoglienza per cittadini stranieri».

    Simone Borile, che di nuovo non compare nelle visure camerali, ha giustificato così a La Nuova Venezia la necessità di creare nuovi soggetti: «Era impossibile continuare a lavorare a causa del danno reputazionale che abbiamo subito». Le stesse persone coinvolte nei processi di Padova e Venezia sono presenti anche nei nuovi organigrammi, come Sara Felpati, prima presidente del Cda di Ekene, ruolo passato poi alla sorella Chiara, e Annalisa Carraro, ex consigliera di Edeco, che oggi ricopre il ruolo di vicepresidente di Ekene e di consigliera in Tuendelee.

    Le controversie del passato non hanno quindi impedito l’aggiudicazione di nuove strutture: nell’agosto del 2019 Edeco ottiene in gestione il Cpr di Gradisca d’Isonzo, poi ceduto due anni dopo a Ekene, e nel dicembre 2021 quello di Macomer. In Friuli, la cooperativa si aggiudica una gara da quasi cinque milioni di euro, grazie al ribasso dell’11,9% rispetto alla base d’asta, dopo l’esclusione delle prime quattro società in graduatoria. Ekene a marzo 2023 vince anche un ricorso al Tar per ottenere la gestione di un centro di accoglienza a Oderzo, nel trevigiano, nell’ex caserma Zanusso.

    Ekene ha poi preso in gestione il Cpr di Macomer dopo l’aggiudicazione della gara del 2021. In una visita, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) ha riportato criticità simili a quelle emerse nella struttura friulana, come la violazione del diritto alla salute, all’informazione normativa e alla corrispondenza, poiché «neanche i difensori possono contattare i loro assistiti in caso di comunicazioni urgenti se non attraverso il filtro del gestore», si legge nel rapporto. Inoltre, secondo Asgi la visita medica è spesso assente o viene fatta in modo superficiale.

    La cooperativa veneta ha poi vinto, nell’ottobre 2022, la gara per la gestione del Cpr di Caltanissetta. Ma dopo sette mesi, a maggio 2023, la Prefettura ha annullato l’aggiudicazione per i procedimenti a carico dei vertici: nel decreto di esclusione si riconosce esplicitamente Ekene come diretta emanazione di Edeco. Ricordando i gravi reati contestati nei procedimenti penali in corso, la Prefettura afferma di non poter «valutare favorevolmente l’integrità e l’affidabilità dell’operatore economico». Considerazioni diverse rispetto a quelle della Prefettura di Gorizia, che ha permesso a Simone Borile di mantenere il ruolo di direttore del centro di Gradisca d’Isonzo.

    L’imputazione di Borile per omicidio colposo, secondo i verbali della nuova gara indetta dalla Prefettura di Gorizia per la gestione del Cpr, «può avere rilievo solo al fine di considerare l’affidabilità dell’operatore economico sotto la cui gestione è occorso l’evento morte», dato che Borile non ricopre alcun incarico formale in Ekene. Nella stessa gara, la cooperativa Badia Grande è stata esclusa per il rinvio a giudizio del rappresentante legale per diversi reati, tra cui frode nelle pubbliche forniture per la gestione dei Cpr di Trapani e Bari. Dai verbali della prefettura disponibili in rete risulta che la posizione della cooperativa veneta sia ancora in fase di valutazione.
    Morire di Cpr a Gradisca d’Isonzo

    Dalla riapertura del 2019 ad oggi sono morti quattro trattenuti al Cpr di Gradisca d’Isonzo. Dopo Vakhtang Enukidze, Orgest Turia, cittadino albanese di 28 anni, è morto per overdose da metadone quattro giorni dopo essere entrato nel centro, il 10 luglio 2020, in una cella di isolamento, dove si trovava con altre cinque persone per il periodo di quarantena. Andrea Guadagnini, avvocato di Turia, ha scoperto della sua morte proprio in sede di convalida del trattenimento ed esprime perplessità sulla provenienza di quella sostanza. Altre due persone si sono poi tolte la vita nella struttura: Anani Ezzedine era un cittadino tunisino di 44 anni. Anche lui in isolamento per il periodo di quarantena, si è suicidato nella sua cella nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2021. Arshad Jahangir, un ragazzo 28enne di origine pakistana, si è suicidato il 31 agosto 2022 in camera un’ora dopo essere entrato nel Cpr.

    «È chiaro che per noi i Cpr debbano essere chiusi, ma nel frattempo volevamo instaurare delle prassi virtuose per agevolare la tutela dei diritti dei detenuti», afferma Eva Vigato, che insieme ad altre due colleghe, tra dicembre 2019 e novembre 2020 ha svolto il servizio di assistenza legale per l’ente gestore. Sostiene che anche per lei fosse molto difficile intervenire: i diritti dei trattenuti nei Cpr non sono delineati da una legge, ma da un semplice regolamento ministeriale, di cui non possono essere contestate le violazioni.

    https://www.youtube.com/watch?v=xq-OrG9-V7c&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Firpimedia.irpi.eu%2

    «Sono successe delle cose che ci hanno sconvolto», ricorda l’avvocata Vigato. Dopo la morte di Vakhtang Enukidze, Vigato e le sue colleghe hanno assistito a un’altra serie di irregolarità: «Abbiamo deciso di tener duro e ci siamo date come limite la Convenzione di Ginevra – spiega -. Di fronte a una violazione del trattato internazionale avremmo sporto denuncia».

    L’occasione si è presentata a novembre 2020: le legali si sono rese conto che dal Cpr transitavano cittadini tunisini senza che venisse registrato il loro ingresso nel sistema e senza che riuscissero a incontrarli e a informarli dei loro diritti, tra cui la richiesta di asilo, tutelata proprio dalla Convenzione di Ginevra. Le avvocate avevano dunque incaricato formalmente i mediatori di informare i trattenuti della possibilità di chiedere protezione internazionale e di metterlo per iscritto. In risposta, l’ente gestore ha deciso di diminuire le ore di ufficio legale, portando l’avvocata a inviare una segnalazione per denunciare la violazione della Convenzione di Ginevra alla Prefettura e al Garante nazionale. Ha risposto «il prefetto in persona – racconta Vigato – dicendo che non c’era nulla di irregolare ravvisabile nell’operato. Mi domando come abbia fatto, in così pochi giorni e senza un serio controllo, ad affermare una cosa del genere». La sera stessa Edeco ha rimosso Vigato e le sue colleghe dall’incarico.

    Nella segnalazione inviata alle autorità, Vigato ha evidenziato la violazione di molteplici diritti, tra cui quello alla salute e all’assistenza legale. Sostiene ci fosse un abuso di medicine nella struttura: «A un certo punto ci siamo rese conto che non c’era un controllo reale sui farmaci e potevano essere utilizzati anche in modo improprio dai detenuti». Le legali spesso non riuscivano ad accedere alle informazioni sanitarie e, in alcuni casi, non veniva caricato il resoconto delle visite, soprattutto quelle psicologiche. «L’impressione che è uscita sia dal processo Edeco sia dalla mia esperienza nel Cpr – conclude Vigato – è che ci sia una sorta di soluzione di comodo tra l’ente gestore e l’istituzione, per cui va bene così».

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    La storia di Anthony

    Bibudi Anthony Nzuzi è nato in Libano, da genitori congolesi, nel 1983, in piena guerra civile. «Era la fase del bombardamento massiccio», racconta, ma dopo cinque anni «la situazione era diventata veramente insostenibile». Per questa ragione, sua madre ha deciso di mandare i figli fuori dal Paese: due dei tre fratelli più grandi sono emigrati in Congo Brazzaville, ma lui, il più piccolo, è rimasto con lei. Poi sono fuggiti insieme in Siria e, visto che il conflitto si stava avvicinando, in Turchia, ad Ankara e a Istanbul.

    Infine, hanno deciso di venire in Italia per ricongiungersi con il fratello maggiore, che si trovava nel Paese da diversi anni. «Nel 1998 mia madre, dopo anni di duro lavoro, è riuscita a riunire tutta la famiglia qui a Jesi, nelle Marche», dice Anthony, che ha poi studiato come perito elettrotecnico, mentre uno dei fratelli ha partecipato alle Olimpiadi di Pechino del 2008 con l’Italia nella disciplina delle arti marziali.

    Anthony vive quindi in Italia da quasi trent’anni e ha conosciuto il mondo dei Cpr «per un errore», racconta: «Vivevo a Modena e mi sono fidato di una persona, sbagliando. Mi sono trovato a dover scontare una pena di 11 mesi e 29 giorni in carcere». Mentre era recluso gli è scaduto il permesso di soggiorno senza, sostiene, che gli fosse data la possibilità di rinnovarlo. «A luglio mi è arrivato il foglio di via e il 10 ottobre a mezzanotte sono venuti a prendermi in cella, mi hanno fatto preparare tutte le mie cose perché dovevano espatriarmi in Congo». Ma dopo essere stato trasferito a Fiumicino alle quattro di mattina e alcune ore di attesa, il volo non è partito ed è stato riportato in cella.

    Uscito dal carcere, dopo uno sconto di pena per buona condotta, ha potuto passare un giorno con la famiglia per poi essere recluso in un Cpr. «Era l’unico modo per me per rimanere in Italia – racconta con commozione – non è facile, ma sono riuscito ad andare avanti». È stato portato al Cpr di Bari, ma per la sua avvocata, che esercita nelle Marche, era diventato difficile seguirlo.

    Dopo pochi giorni le condizioni nel centro pugliese erano già critiche: cibo ammuffito, carenze igieniche e, secondo Anthony, negli altri moduli la situazione era anche peggiore. Per questo sono iniziate rivolte interne che hanno reso inagibile la struttura, andata a fuoco. «La mattina dell’incendio ci siamo ritrovati caricati su dei pullman e portati a Gorizia – dice – di punto in bianco».

    Anthony considera il carcere molto meglio del Cpr: «Hai una vita dignitosa, per quanto è possibile. Sei detenuto, ma comunque hai la tua dignità. Nel Cpr ti tolgono tutto, o almeno ci provano». E aggiunge: «Se arrivo a dire una cosa del genere significa che stavo meglio in carcere per davvero. I primi giorni a Gradisca abbiamo patito il freddo, il cibo arrivava gelato e crudo. Non è stato per niente facile».

    Grazie all’assistenza legale della sua avvocata è riuscito a uscire, ma se fosse stato rimpatriato nel Paese di origine dei suoi genitori, dove lui non è mai stato, avrebbe dovuto arrangiarsi senza soldi: «Non mi hanno dato un euro quando sono arrivato in aeroporto», spiega. Anthony rischiava di essere rimpatriato in Congo, dove ha alcuni parenti, «ma non so neanche dove siano, come si chiamino o come contattarli». E, oltre ad avere sempre avuto i documenti in regola, già prima di entrare nel Cpr, aveva un figlio di nazionalità italiana.

    «Metà delle persone che trovi nel Cpr – conclude Anthony – hanno semplicemente voglia di trovare un futuro. Magari c’è chi vorrebbe veramente lavorare, ma non ha possibilità perché lo trattano come un cane. Dagli la possibilità di dimostrarti che può rimanere nel tuo Paese. Non ne vuole tante, gliene basta una».

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    https://irpimedia.irpi.eu/cprspa-coop-ekene-gradisca-isonzo-macomer

    ici aussi : https://seenthis.net/messages/1016060

    #accueil #rétention #détention_administrative #asile #migrations #réfugiés #sans-papiers #business #Gradisca_d'Isonzo #Italie #CPR #Vakhtang_Enukidze #Enukidze #Simone_Borile #Ecofficina-Edeco #Ecofficina #Edeco #Cona #Bagnoli #Ekene #Macomer #coopérative #Ecofficina_Educational #Sara_Felpati #Gaetano_Battocchio #Ecofficina_Servizi #Due_Carrare #CPA #CAS #SAI #centri_di_prima_accoglienza #Sistema_di_accoglienza_e_integrazione #Centri_di_accoglienza_straordinaria #Edeco #Annalisa_Carraro #Ecos #Food_Service #Sandrine_Bakayoko #Tuendelee #Oderzo #caserma_Zanusso #Caltanissetta #Badia_Grande

  • Les demandes d’asile dans l’Union européenne, la Norvège et la Suisse en hausse de 28 % au premier semestre
    https://www.lemonde.fr/international/article/2023/09/05/les-demandes-d-asile-dans-l-union-europeenne-la-norvege-et-la-suisse-en-haus

    Les demandes d’asile dans l’Union européenne, la Norvège et la Suisse en hausse de 28 % au premier semestre
    Les requêtes sont au plus haut depuis 2015-2016, années au cours desquelles l’afflux de réfugiés en Europe dépassait 1,2 million de personnes.
    Le Monde avec AFP
    Les demandes d’asile enregistrées dans les pays de l’Union européenne, la Norvège et la Suisse au premier semestre 2023 ont augmenté de 28 % par rapport aux six premiers mois de 2022, a annoncé l’Agence de l’Union européenne pour l’asile (AUEA), mardi 5 septembre. Quelque 519 000 demandes d’asile ont été déposées dans ces vingt-neuf pays entre janvier et la fin de juin, selon l’agence, qui estime que, « d’après les tendances actuelles, les demandes pourraient excéder 1 million d’ici à la fin de l’année ». Les Syriens, Afghans, Vénézuéliens, Turcs et Colombiens sont les principaux demandeurs, comptant pour 44 % des requêtes.
    Les demandes au premier semestre sont au plus haut à cette période de l’année depuis 2015-2016. Lors de l’afflux de réfugiés en Europe provoqué notamment par l’enlisement du conflit en Syrie, le nombre de demandes d’asile avait atteint 1,3 million (en 2015) et 1,2 million (en 2016). En 2022, elles étaient de 994 945.
    L’Allemagne est le pays qui a reçu le plus de dossiers (30 %). C’est près de deux fois plus que l’Espagne (17 %) et la France (16 %). L’AUEA souligne qu’en raison de cette hausse de nombreux pays européens « sont sous pression pour traiter les demandes », et que le nombre de dossiers en attente de décision a augmenté de 34 % par rapport à 2022. En première instance, 41 % des demandes ont reçu une réponse positive. Par ailleurs, quelque 4 millions d’Ukrainiens fuyant l’invasion de l’armée russe bénéficient actuellement d’une protection temporaire dans l’UE.

    #Covid-19#migrant#migration#UE#asile#demandeurdasile#AUEA#syrie#afghanistan#venezuela#turquie#colombie#allemagne#espagne#france#ukraine#protection#sante#crisemigratoire#norvege#suisse

  • PODCAST- FRONTIERA SOLIDALE #MEDU

    Medici per i Diritti Umani presenta Frontiera solidale: un podcast di tre puntate per raccontare, attraverso le voci dei testimoni diretti, il fenomeno epocale delle migrazioni, assumendo come osservatorio una frontiera nel cuore dell’Europa, quella tra l’Italia e la Francia, nell’Alta Val di Susa.

    https://mediciperidirittiumani.org/podcast-frontiera-solidale-medu
    #podcast #audio #Alpes #frontière_sud-alpine #montagne #Italie #migrations #asile #réfugiés #frontières #Val_de_Suse

  • What safey are they talking about? Why Turkey cannot be considered a „safe third country“

    Le rapport est en anglais, mais je ne trouve que le résumé en allemand:

    Warum die Türkei nicht als „sicherer Drittstaat“ betrachtet werden kann – ein Expert:innengutachten im Auftrag von medico international.

    Die Erweiterung des Begriffs des ‚sicheren Drittstaates‘ und damit die ausgedehnte Anwendung dieses Konzepts ist ein wesentlicher Bestandteil des ‚Neuen Pakts für Migration und Asyl‘ der Europäischen Union (EU) und der Reform des Gemeinsamen Europäischen Asylsystems (GEAS). Die Bezeichnung eines Staates als ‚sicherer Drittstaat‘ ermöglicht es in der Praxis, dass Asylanträge von Personen, die durch diesen angeblich sicheren Drittstaat gereist sind, formell als unzulässig einzustufen. Mit anderen Worten: Ihre Asylanträge werden inhaltlich gar nicht erst geprüft. Die Einstufung eines Drittstaates als ‚sicher‘, um damit Geflüchteten den Zugang zum europäischen Asylsystem zu verwehren, ist jedoch nicht neu.

    Der EU-Türkei-Erklärung von 2016 lag die Annahme zugrunde, dass die Türkei ein ‚sicherer Drittstaat‘ im Sinne von Artikel 38 der EU-Asylverfahrensrichtlinie sei. Das ebnete den Weg für die Abschiebung von Geflüchteten in die Türkei, nachdem sie eine der griechischen Ägäis-Inseln erreicht hatten. Damals – und heute – war diese Einstufung eine politische Entscheidung und nicht das Ergebnis einer Evaluierung der Gegebenheiten vor Ort, die sich an der gelebten Erfahrung von Geflüchteten orientiert. Vielmehr kritisierten Nichtregierungsorganisationen bereits zum Zeitpunkt der Aushandlung der EU-Türkei-Erklärung die Einstufung der Türkei als ‚sicher‘ und dokumentierten schwere Menschenrechtsverletzungen wie zum Beispiel Massenabschiebungen nach Syrien. Das vorliegende Gutachten zeigt auf, wie sich die Situation von Geflüchteten in der Türkei seither kontinuierlich weiter verschlechtert hat.

    Zusammenfassung auf Deutsch

    Im ersten Abschnitt des Gutachtens wird das Konzept des ‚sicheren Drittstaates‘ erläutert und die praktische Bedeutung seiner Anwendung in der heutigen Migrationspolitik der EU dargelegt (I.). Im nachfolgenden Abschnitt wird der rechtliche Rahmen in der Türkei dargestellt (II.): Obwohl die Türkei die Genfer Flüchtlingskonvention (GFK) von 1951 ratifiziert hat, hält sie immer noch an deren geografischer Begrenzung fest und schließt damit faktisch alle außereuropäischen Asylsuchenden vom Flüchtlingsschutz nach der GFK aus (II.1.). Dementsprechend können Asylsuchende aus nicht-europäischen Ländern in der Türkei nur internationalen Schutz nach türkischem Recht oder eine der anderen Aufenthaltsgenehmigungen im Rahmen der innerstaatlichen Gesetzgebung beantragen (II.2.).

    Konkret stehen in der Türkei folgende Formen des ‚Schutzes‘ zur Verfügung: erstens der temporäre Schutzstatus für syrische Staatsangehörige (II.2.a. & II.3.a.); zweitens der ‚bedingte Flüchtlingsstatus‘ und der subsidiäre Schutzstatus (II.2.b & II.3.b.); und drittens eine Aufenthaltserlaubnis auf der Grundlage der allgemeinen migrationsrechtlichen Gesetzgebung. Solche Aufenthaltstitel können rechtlich jedoch nicht als ‚Schutzstatus‘ betrachtet werden (II.2.c.). Zudem entsprechen weder der internationale Schutz nach türkischem Recht noch migrationsrechtliche Aufenthaltstitel dem Schutz, der gestützt auf die GFK gewährt werden muss.

    Darüber hinaus werden besonderen Schutzbedürfnissen und spezifischen Anforderungen an die Aufnahmebedingungen von z.B. Überlebenden von Folter, Überlebenden sexueller und geschlechtsspezifischer Gewalt (SGBV) oder LGBTQIA+ nur unzureichend Rechnung getragen (II.3.c.). Die damit verbundenen Unzulänglichkeiten gegenüber bestimmten Gruppen von Geflüchteten können sowohl in konkreten Situationen gegen völkerrechtlich verankerte Antidiskriminierungsnormen verstoßen als auch in Extremfällen eine Bedrohung für das Leben oder die Freiheit einer Person darstellen und damit Artikel 38 Abs. 1 Bst. a der Asylverfahrensrichtlinie verletzten.

    Von allen Personen, die für das vorliegende Gutachten interviewt wurden, wurde als bedeutendstes Hindernis auf dem Weg zur Erlangung eines Schutzstatus in der Türkei der eingeschränkte Zugang zur Registrierung hervorgehoben (III.). Im Jahr 2018 hat die regionale Migrationsbehörde (damals PDMM, heute PPMM) die Registrierung neu ankommender Syrer:innen, mit Ausnahme von besonders schutzbedürftigen Fällen, in neun Provinzen de facto eingestellt. Betroffen waren große Städte wie İstanbul und andere Provinzen, in denen Geflüchtete einen relativ hohen Bevölkerungsanteil ausmachten.

    Seither hat die Zahl derjenigen Städte und Viertel, die für Neuregistrierungen von Anträgen auf temporären und internationalen Schutz ‚geschlossen‘ sind, weiter zugenommen. So wurde im Februar 2022 bekannt gegeben, dass in 16 Provinzen keine Registrierungen mehr angenommen würden. Zudem wurde ab Mai 2022 der Anteil Geflüchteter an der Gesamtbevölkerung in jedem Stadtteil gesetzlich auf 25 Prozent begrenzt – mit der Folge, dass die Registrierung oder die Neuanmeldung durch Umzug in 781 Stadtteile für der meisten ausländischen Staatsangehörigen mit temporärem Schutz, internationalem Schutz oder einer Aufenthaltsgenehmigung ‚geschlossen‘ wurden.

    Seit dem 1. Juli 2022 darf der Anteil Geflüchteter 20 Prozent der Gesamtbevölkerung nicht überschreiten, wodurch die Zahl der ‚geschlossenen‘ Viertel auf 1.169 anstieg. Gemäß Angaben von NGOs und Rechtsanwält:innen gäbe es aber selbst in Provinzen, die nicht ’offiziell geschlossen’ seien, Probleme bei der Registrierung neuer Anträge. Fortlaufend aktualisierte Informationen über den ‚Registrierungsstatus‘ einer Stadt oder Provinz seien zudem öffentlich nicht zugänglich. Vor diesem Hintergrund würden Antragsteller:innen, in der Hoffnung eine Stelle zu finden, die sich bereit erklärt, ihren Antrag auf internationalen Schutz zu registrieren, von einem regionalen Migrationsbüro zum nächsten geschickt – von Human Rights Watch als „wild-goose chase“[1] bezeichnet.

    Anträge auf temporären Schutz müssen seit Juni 2022 in einem der ‚Temporären Unterbringungslager‘ entlang der syrisch-türkischen Grenze gestellt werden. Zum Zeitpunkt der Erstellung dieses Gutachtens ist es für syrische Staatsangehörige jedoch faktisch unmöglich geworden, neue Anträge zu registrieren. Vor diesem Hintergrund müssen vorliegend die Voraussetzungen nach Artikel 38 Abs. 1 Bst. e Asylverfahrensrichtlinie – und damit die Definition des ‚sicheren Drittstaates‘ – wiederum als nicht erfüllt qualifiziert werden.

    Geflüchtete, die ihren Antrag auf temporären oder internationalen Schutz in der Türkei nicht registrieren können, bleiben gleichzeitig vom Ausüben anderer Rechte sowie von der Inanspruchnahme sozialer Dienstleistungen ausgeschlossen. Wem es gelingt, entweder einen Schutzstatus oder ein Identitätsdokument für Antragsteller:innen zu erhalten, hat theoretisch das Recht auf Zugang zu Bildung sowie Gesundheitsversorgung und hat die Möglichkeit, eine Arbeitserlaubnis zu beantragen (IV.).

    In der Praxis ist es jedoch äußerst schwierig, diese Rechte auszuüben. Prekäre Lebensbedingungen zwingen Menschen oft dazu, die ihnen zugewiesene Wohnprovinz zu verlassen und in größere Städte zu ziehen, um dort ihren Lebensunterhalt zu verdienen. Wer die zugewiesene Stadt aber verlässt, verliert den Zugang zu allen mit dem Status verbundenen sozialen Rechte und Ansprüche.

    Im vorliegenden Gutachten wird dargelegt, dass Geflüchtete in der Türkei oft gezwungen sind, unter katastrophalen Bedingungen in völliger Armut zu leben. In seiner Rechtsprechung hat der Europäische Gerichtshof für Menschenrechte (EGMR) festgehalten, dass die Verpflichtungen aus dem Non-Refoulement-Gebot nach Artikel 3 der Europäischen Menschenrechtskonvention (EMRK) einem Vertragsstaat verbieten können, eine Person in ein Land zurückzuschicken, wenn diese Person dort Aufnahmebedingungen ausgesetzt würde, die als unmenschlich oder erniedrigend eingestuft werden. Zudem kann der Ausschluss eines bestimmten Personenkreises vom Zugang zu sozialen Rechten und Dienstleistungen sowie das Nichtzurverfügungstellen adäquater Aufnahmebedingungen Diskriminierung darstellen, die als solche gegen menschenrechtliche Verpflichtungen verstößt.

    Gleichzeitig hat die zunehmende rassistische Hetze in der türkischen Politik zur Verbreitung einer xenophoben Stimmung geführt, die immer wieder auch in physische Gewalt umschlägt. Insgesamt wurde damit ein Umfeld geschaffen, in dem sich viele Geflüchtete nicht mehr sicher fühlen (IV.5.). Darüber hinaus steht das Risiko, als geflüchtete Person in der Türkei Ziel verbaler oder physischer, rassistischer Gewalt zu werden, in einem potenziellen Konflikt mit Artikel 38 Abs. 1 Bst. a der Asylverfahrensrichtlinie.

    Zwar ist das bereits erwähnte Non-Refoulement-Gebot auch in der türkischen Gesetzgebung verankert. Dennoch beinhaltet die Erteilung eines Schutzstatus in der Türkei nicht unbedingt einen wirksamen Schutz vor Refoulement. Erstens ist zu beachten, dass Personen mit temporärem oder internationalem Schutzstatus respektive einem migrationsrechtlichen Aufenthaltstitel stets der potenziellen Gefahr ausgesetzt sind, dass die Aufenthaltserlaubnis willkürlich aufgehoben wird (II.4. & V.1.). In der Praxis bedeutet dies, dass die betroffenen Personen einem tatsächlichen Risiko ausgesetzt sind, ohne vorherige Berücksichtigung der persönlichen Umstände – einschließlich individueller Risiken im Herkunftsstaat oder der Dauer ihres Aufenthalts in der Türkei – abgeschoben zu werden (VI.3.).

    Zweitens bedient sich die Türkei routinemäßig dem Mittel der erzwungenen ‚freiwilligen Rückkehr‘, um außereuropäische Staatsangehörige – z.B. nach Syrien – deportieren zu können. Hierbei wird die Unterschrift der betroffenen Personen auf der entsprechenden Einverständniserklärung entweder erschlichen oder gewaltsam erzwungen (VI.2.). Im Juli 2022 hat der EGMR mit seinem Urteil Akkad v. Turkey faktisch anerkannt, dass die Türkei Zwangsmittel einsetzt, um Menschen zur ‚freiwilligen Rückkehr‘ nach Syrien zu bewegen und gleichzeitig festgestellt, dass die türkischen Behörden mit dieser Praxis in mehrfacher Hinsicht gegen die individuellen Menschenrechte des Beschwerdeführers verstoßen haben.

    Drittens werden Schutzsuchende von türkischen Sicherheitskräften systematisch über die Landgrenzen nach Syrien und Iran zurück gepusht (VI.1.). Seit Mai 2015 – und damit noch vor Abschluss der EU-Türkei-Erklärung – hat sich die türkische Regierung von der „Politik der offenen Tür gegenüber Syrien“[2] abgewandt und versucht seither, diese Grenze, unter anderem durch eine von der EU teilfinanzierte Grenzmauer, zu schließen. Bereits im November 2015 erschienen erste Berichte, wonach die Türkei Syrer:innen gewaltsam in das kriegsversehrte Syrien zurückdrängt. Im August 2022 und November 2022 haben Amnesty International[3] und Human Rights Watch[4] sodann ausführliche Berichte über systematische und äußerst gewaltvolle Pushbacks afghanischer Staatsbürger:innen veröffentlicht. Diese Berichte bestätigen, dass die Türkei Geflüchteten keinen wirksamen Schutz bietet und daher die Voraussetzungen eines ‚sicheren Drittstaates‘ gemäß Artikel 38 Abs. 1 Bst. c, d und e der Asylverfahrensrichtlinie nicht erfüllt.

    Vor einer allfälligen Abschiebung werden Geflüchtete in der Regel inhaftiert (V.), dies teilweise unter unmenschlichen und erniedrigenden Haftbedingungen (V.2.). Zwar sieht das türkische Recht sowohl gegen die Abschiebung als auch gegen die Inhaftierung Rechtsmittel vor, laut Rechtsanwält:innen und NGOs fehle den Betroffenen jedoch oft der Zugang zu Rechtsbeistand, weshalb die Ausübung dieser Verfahrensrechte während der Haft erheblich erschwert sei (V.3.) – in der Praxis blieben die meisten Inhaftierten ohne Rechtsvertretung.

    Konkrete Hürden bilden etwa systemische Mängel wie unzureichende Informationen über die bestehenden Rechte, begrenzter oder fehlender Zugang zu Kommunikationsmitteln, kurze Fristen oder die häufigen Transfers zwischen den Abschiebehaftanstalten. Diese systematischen Hindernisse, wenn Geflüchtete versuchen wollen, aus der Haft heraus eine Rechtsvertretung zu mandatieren, führen letztlich dazu, dass sich Betroffene mit einer potenziellen Gefährdung der Freiheit konfrontiert sehen und damit gleichzeitig zur Annahme der Nichterfüllung von Artikel 38 Abs. 1 Bst. a der Asylverfahrensrichtlinie.

    Im letzten Abschnitt geht das Gutachten der Frage nach, wie sich die Situation von Geflüchteten nach den verheerenden Erdbeben Anfang Februar 2023 entwickelt hat (VII.) Insgesamt wurden mehr als 50.000 Menschen getötet und schätzungsweise 2,7 Millionen Menschen – einschließlich Geflüchtete – allein in der Türkei vertrieben. Im Zusammenhang mit den Erdbeben „haben sich die Lebensbedingungen für Migrant:innen verschlechtert“ und neu aufkommender „Rassismus hat zu gewalttätigen Übergriffen geführt“.[5] Zudem wurden Syrer:innen – zumindest anfangs – von Hilfslieferungen ausgeschlossen und hatten Schwierigkeiten, Zugang zu Notunterkünften zu erhalten. Dieser diskriminierende Ausschluss eines bestimmten Personenkreises vom Zugang zu Nothilfe kann wiederum eine völkerrechtswidrige Diskriminierung darstellen.
    Die Türkei erfüllt die Kriterien eines ‚sicheren Drittstaats‘ nicht

    Zusammenfassend wird im vorliegenden Gutachten festgestellt, dass die Türkei die Kriterien eines ‚sicheren Drittstaats‘ nicht erfüllt – und zwar weder nach dem derzeitigen Artikel 38 der Asylverfahrensrichtlinie noch nach der geplanten GEAS-Reform (I.) –, weil die Türkei außereuropäischen Schutzsuchenden keinen ‚effektiven Schutz‘ bietet (VIII.). Der EGMR hat in seiner Rechtsprechung bestätigt, dass Asylsuchende durch Abschiebung nicht der Gefahr einer Verletzung von Artikel 3 der EMRK ausgesetzt werden dürfen – weder direkt in diesem Drittstaat oder indirekt, zum Beispiel durch eine Kettenabschiebung. Wenn es also Gründe zur Annahme gibt, dass nach einer Abschiebung eine eben solche, den Artikel 3 der EMRK verletzende Behandlung drohen könnte, hat der EGMR die Verpflichtung bestätigt, die betroffene Person dieser Gefahr nicht auszusetzen und sie daher nicht abzuschieben. Dies schließt auch die Pflicht ein, die allgemeinen Aufnahmebedingungen für Geflüchtete im Zielstaat sowie die individuelle Situation der jeweiligen Person in die Prüfung einer drohenden Verletzung von Artikel 3 der EMKR zu berücksichtigen. Zu betonen ist, dass diese Pflicht unabhängig von jeder politischen Vereinbarung gilt, die ein bestimmtes Land als ‚sicher‘ bezeichnet – einschließlich der EU-Türkei-Erklärung.

    Der eklatante Widerspruch zwischen der Behauptung, die Türkei sei ‚sicher‘ und der gelebten Erfahrung von Geflüchteten vor Ort lässt nur eine Schlussfolgerung zu: Die Einstufung der Türkei als ‚sicherer Drittstaat‘ entspringt politischem Kalkül und hält rechtlichen Kriterien nicht stand. Am Beispiel der Türkei zeigt sich, dass die erweiterte Anwendung des Konzepts des ‚sicheren Drittstaates‘ die Gefahr für nichts Geringeres birgt, als die komplette Erosion des Rechts auf Asyl.

    https://www.medico.de/von-welcher-sicherheit-sprechen-sie-19176

    #rapport #migrations #réfugiés #Turquie #pays_sûr #pays-tiers_sûr #medico #medico_international

    ping @_kg_

  • En Italie, le gouvernement Meloni dans l’impasse sur la gestion des flux migratoires
    https://www.lemonde.fr/international/article/2023/08/29/en-italie-le-gouvernement-meloni-dans-l-impasse-sur-la-gestion-des-flux-migr

    En Italie, le gouvernement Meloni dans l’impasse sur la gestion des flux migratoires
    Le rythme des arrivées sur l’île de Lampedusa, depuis la Tunisie, ne cesse d’augmenter en dépit de la politique de voisinage menée par Rome.
    Par Allan Kaval(Rome, correspondant)
    Le gouvernement de Giorgia Meloni avait fait de la réduction des arrivées irrégulières de migrants en Italie l’une de ses priorités. Lundi 28 août, leur nombre, sur les huit premiers mois de l’année, s’élevait à près de 113 500, soit plus du double de celui enregistré à la même période en 2022. Face à une rapide augmentation des départs depuis la Tunisie, les mesures d’urgence prises par l’exécutif depuis le début de son mandat, fin octobre, n’ont pas suffi. De nouveau, l’île de Lampedusa concentre les arrivées. Du 25 au 27 août, plus de 4 000 personnes y ont ainsi accosté après une traversée commencée depuis les rivages tunisiens. Du côté du gouvernement, entre promesses de mesures plus restrictives, attaques ou appels à l’aide en direction de Bruxelles et efforts diplomatiques encore improductifs en Méditerranée, les données de la gestion de la question migratoire restent les mêmes.
    « La situation des derniers jours est la plus critique depuis le 1er juin », indique au Monde Rosario Valastro, le président de la Croix-Rouge italienne qui gère le « hot spot » de Lampedusa, un centre à partir duquel les migrants sont transférés vers le continent lorsque les conditions météorologiques le permettent. Lundi, en fin de journée, 3 000 personnes y étaient hébergées, dans une structure initialement conçue pour en accueillir 600. « Ce qui nous préoccupe avec ce rythme d’arrivées c’est de pouvoir continuer à garantir une assistance à des personnes qui viennent dans des conditions très critiques, dont beaucoup de mineurs », déplore M. Valastro. En trois mois, plus de 48 000 personnes sont passées par le centre pour être ensuite dirigées vers un système d’accueil national dont des élus locaux et acteurs associatifs dénoncent la saturation.
    La grande majorité a transité par la région de Sfax, dans l’est de la Tunisie, devenue le point de passage principal pour des migrants majoritairement originaires d’Afrique subsaharienne. Cette situation persiste en dépit de la politique de voisinage menée par Rome en Tunisie et présentée comme le modèle de son approche diplomatique en Méditerranée. Depuis son entrée en fonction, Mme Meloni prône la conclusion d’accords avec les pays de départ et de transit censés garantir des investissements et des financements en échange d’un contrôle accru des flux migratoires en amont des frontières italiennes. La présidente du conseil a obtenu de la présidente de la Commission européenne, Ursula von der Leyen, qu’elle souscrive à cette approche en se rendant à Tunis, le 16 juillet, afin de signer avec elle et le président autoritaire tunisien, Kaïs Saïed, un accord de cette nature dont les traductions pratiques doivent encore prendre forme.
    Mardi, Mme Meloni est attendue à Athènes, Rome ayant l’ambition, entre autres dossiers, de rallier la Grèce à sa vision de la politique migratoire régionale. Le vice-président du conseil italien, Antonio Tajani, également ministre des affaires étrangères et secrétaire national de Forza Italia (centre droit), a appelé à une « action européenne » en réponse aux flux migratoires en provenance d’Afrique. L’autre vice-président du conseil et ministre des infrastructures, Matteo Salvini, s’est appuyé sur la situation à Lampedusa, mais aussi à Trieste, ville italienne située sur la route des Balkans, pour blâmer Bruxelles. Son parti, la Ligue (extrême droite), a construit ses succès sur un discours violemment hostile aux migrants et multiplie, en vue des élections européennes de juin 2024, les prises de position dissonantes au sein de la majorité. « Après tant de bavardages et de bavardages, l’Europe doit se réveiller, se bouger et nous aider », a-t-il déclaré, en jugeant nécessaire un nouveau « décret sécurité » porteur de mesures plus dures contre les migrants.
    La politique préconisée de l’exécutif emmené par Mme Meloni s’inscrit pour l’instant dans le sillage de décrets déjà pris depuis le début de la législature pour restreindre les activités des ONG de sauvetage et le régime de protection internationale en vigueur. En avril, le gouvernement italien avait par ailleurs instauré un état d’urgence sur le dossier migratoire, une mesure censée simplifier et accélérer le travail des administrations, mais servant aussi d’affichage politique alors que l’augmentation des arrivées en provenance de Tunisie se faisait déjà sentir. Pour le maire de Lampedusa, Filippo Mannino, cité dimanche par l’agence Adnkronos, « la déclaration [de l’état] d’urgence n’a produit aucun effet » sur son île et se limite à « des annonces ».Avec l’augmentation des arrivées, la gestion de l’accueil a également conduit les maires de centre gauche à demander davantage d’implication de l’Etat. Elle provoque aussi des critiques virulentes d’élus de la Ligue mécontents de devoir accueillir des migrants dans leurs villes. Ils réclament une répression plus dure à Matteo Salvini et au ministre de l’intérieur, Matteo Piantedosi, sommés de leur donner des gages au seuil d’une nouvelle période électorale. Des nouvelles mesures ont toutefois été annoncées après les arrivées massives depuis le 25 août. Elles sont censées aboutir à une rationalisation de la gestion de la politique migratoire, centralisée au niveau de la présidence du conseil.
    Face au gouvernement, le monde catholique italien dont les structures sont impliquées dans la délégation de l’accueil, prône un changement d’approche plus franc. « La question migratoire doit cesser d’être traitée comme une urgence et devenir une politique planifiée et ordinaire pour dissiper une atmosphère qui génère des politiques menaçant les droits des personnes », explique le prêtre Marco Pagniello, directeur de Caritas Italie qui appelle à plus de solidarité européenne envers l’Italie, pays de transit vers lequel la France renvoie les migrants interceptés à sa frontière. « Nous devons construire avec tous les acteurs associatifs impliqués et le gouvernement une structure permanente de gestion des flux qui s’inscrive dans la durée, car on ne peut pas arrêter le mouvement », juge-t-il. Pour le gouvernement Meloni, cela reviendrait à renoncer à endiguer un phénomène qu’il s’est engagé à faire disparaître.

    #Covid-19#migrant#migration#italie#politiquemigratoire#droit#frontiere#transit#caritas#accueil#fluxmigratoire#tunisie#afriquesubsaharienne#postcovid

  • #Racisme_anti-noirs dans le monde arabe : le difficile dévoilement d’un #tabou

    Le 1er juillet, #Fati_Dasso et sa fille Marie, respectivement âgées de 30 ans et de 6 ans, sont retrouvées mortes, la tête enfouie dans le sable à la frontière entre la Tunisie et la Libye. Comme des milliers de migrants venus de l’Afrique subsaharienne, elles ont été raflées, puis abandonnées dans le désert. Ce drame est survenu dans le cadre d’une campagne massive d’arrestation et d’expulsion de migrants menée par la Tunisie de Kaïs Saïed depuis le début de l’été. Interpellés et battus par les forces de police à Sfax, les migrants subsahariens sont relâchés dans le désert situé entre la Tunisie et la Libye où une morte lente et douloureuse les attend.

    L’épisode n’est malheureusement pas un fait divers isolé ni tout à fait nouveau dans la région. Le drame de cet été a focalisé l’attention sur la #Tunisie mais la question semble concerner tout le #Maghreb et même une bonne partie du monde arabe. Ainsi, en mars dernier, l’ONG Médecins sans frontières (MSF) dénonçait l’abandon de milliers de migrants subsahariens par l’Algérie à la frontière nigéro-algérienne dans des conditions « sans précédents ». En 2017 déjà, la chaîne américaine CNN révélait dans un documentaire l’existence de trafics de migrants subsahariens en Libye, non loin de la capitale Tripoli.

    Ces #violences envers les migrants s’accompagnent du déferlement d’une #parole_raciste à leur encontre, prononcée parfois jusqu’au sommet de l’Etat. Dans un discours récent, donné en février 2023, le président tunisien #Kaïs_Saïed a assimilé la présence migratoire à « une volonté de faire de la Tunisie seulement un pays d’Afrique et non pas un membre du monde arabe et islamique ». Mais ce #racisme ne concerne pas que les personnes exilées. Maha Abdelhamid, chercheuse associée au Centre arabe de recherches et d’études politiques de Paris (Carep) et cofondatrice du collectif Voix des femmes tunisiennes noires (VFTN), explique que « les #noirs sont une minorité dans les pays arabes et subissent chaque jour le racisme verbal, institutionnel, social et économique. Ils subissent un #rejet fort de leur part ». La faute, selon elle, à une #mémoire_historique encore trop peu documentée et à des #constructions_identitaires figées par le #nationalisme.

    « L’organisation économique est en partie héritière de la structure esclavagiste »

    Le maintien d’un système de #discrimination envers les personnes noires semble aller de pair avec une forme de gêne autour de la question de la #traite transsaharienne – qui concerne principalement, mais pas exclusivement des personnes d’origine subsaharienne – pratiquée du VIIe siècle jusqu’à la fin du XIXe siècle au Maghreb et au Moyen-Orient : « Parler de l’esclavage consiste à reconnaître que l’organisation économique actuelle est en partie héritière de la #structure_esclavagiste », argumente Shreya Parikh, doctorante en sociologie à Sciences-Po Paris qui travaille sur les processus de #racialisation en #Afrique_du_Nord. Elle prend ces femmes et ces hommes principalement noirs exploités dans le milieu travail agricole à #Sfax ou aux environs de #Tataouine.

    Sur le plan universitaire, des productions scientifiques autour de la #traite_arabe ont émergé ces dix dernières années, non sans difficultés. Salah Trabelsi, professeur des universités en histoire et civilisation du monde arabe et musulman à l’université de Lyon-2 évoque un colloque qu’il a coorganisé en 2009 à Tozeur et notamment consacré à l’esclavage dans le monde arabo-musulman : « Nous avons dû changer le titre en les “Interactions culturelles entre le Maghreb et l’Afrique subsaharienne” pour le faire financer », dit-il en souriant.

    A la fin de ce même colloque, aucun des intervenants – hormis l’auteur Edouard Glissant, l’historien Abdelhamid Larguèche et le professeur Trabelsi – n’ont accepté de signer une charte signalant une volonté de faire figurer l’#histoire de l’esclavage dans les #manuels_scolaires tunisiens. « L’histoire de l’esclavage n’apparaît pas dans les manuels scolaires. Dans le secondaire, il n’est pas encore possible d’aborder des faits historiques avec un positionnement critique. Ce déficit intellectuel est, en tous les cas, aggravé par un aveuglement politique et moral, reléguant les noirs au rang de citoyens de seconde zone », poursuit Salah Trabelsi.

    Les productions scientifiques ou littéraires – encore timides sur le sujet – doivent aussi faire face à des problèmes de diffusion : « Il existe un grand nombre de productions contemporaines, de romans notamment comme “l’Océan des Britanniques” [non traduit en français] de Fareed Ramadanparu à Beyrouth en 2018, qui parlent de ces questions. Bien sûr, cela touche un public restreint car tout le monde ne lit pas des romans ou des essais tirés de thèses universitaires », note M’hamed Oualdi, professeur des universités à Sciences-Po Paris et spécialiste de l’histoire du Maghreb.

    Cette éclosion difficile de la #mémoire de l’esclavage s’explique également par une vision apologétique de la traite arabe dont la #violence est minorée : « Pour se donner bonne conscience, certains vont parler “d’esclavage familial et intégrateur”, qui serait différent de la #traite_transatlantique. C’est un #déni d’histoire. Les sources nous apprennent que l’une des plus grandes révoltes de l’histoire de l’esclavage a eu lieu dans le sud de l’Irak au IXe siècle. Elle a duré un an et s’est soldée par la mort de 50 000 de personnes à deux millions de personnes. Elles travaillaient dans les marécages du sud de Bassora pour dégager le sel et revivifier les terres pour qu’elles deviennent des domaines pour l’aristocratie musulmane. On ne peut pas dire que ce n’est pas un esclavage de travail », rapporte Salah Trabelsi.

    Années 2010 : un tournant dans l’appréhension des inégalités sociales et raciales

    Par ailleurs, le tabou se maintient également par une pression religieuse : « Parlez de l’esclavage dans le monde arabe, on vous opposera l’islam, comme si l’esclavage était un fait religieux et non un phénomène social qui a perduré dans le monde arabe durant plus de quatorze siècles », explique Salah Trabelsi, avant de rappeler que la traite arabo-musulmane s’est principalement déroulée dans les régions du Moyen-Orient, de l’Afrique du Nord et de l’Afrique de l’Est. Evoquer l’esclavage qui s’est déroulé sur ces terres peut être perçu comme une remise en question du rôle de l’#islam en tant que rempart contre l’esclavage.

    Cette mémoire apparaît comme secondaire d’autant plus que les discours portant sur la nécessité de construire une #unité_arabe sont depuis les années 60 considérés comme indispensables afin de lutter contre la présence coloniale et forger une #identité politique et sociale fortes : « Les régimes nationalistes dans le monde arabe n’ont pas accepté et n’acceptent pas les divergences autour des questions identitaires car ces mêmes dissensions ont été utilisées par le régime colonial pour créer des oppositions par exemple entre arabophones et berbérophones. Depuis, toute division paraît dangereuse », explique M’hamed Ouldi. La #pensée_panarabe vient alors imposer l’idée d’une #identité_arabe forcément musulmane, invisible et imperméable à toutes reconnaissances d’une #altérité et de revendication identitaires.

    Bien qu’en marge du débat, le racisme anti-noirs n’est pourtant pas totalement ignoré. Les années 2010, grâce aux printemps arabes, ont constitué un tournant dans l’appréhension des inégalités sociales et raciales : « En Tunisie, certains ont vécu la révolution comme une opportunité pour rompre avec la #tunisianité – une identité homogène imposée par l’Etat qui n’avait laissé aucune place à ceux qui étaient minorisés », rapporte Shreya Parikh. En 2018, la Tunisie adoptait une loi inédite, la première dans le monde arabe, pénalisant la #discrimination_raciale. L’#Algérie adoptera en 2020 un dispositif législatif similaire.

    Depuis, les débats et les contestations sont principalement concentrés sur les réseaux sociaux et portés par une jeune génération : la #chasse_aux_migrants en Algérie où le meurtre en 2013 d’un Sénégalais au Maroc ont donné lieu à de vives indignations. En juin 2020, la vidéo de l’actrice et réalisatrice palestinienne noire Maryam Abou Khaled dénonçant les #discriminations_raciales dans la région, avait dépassé le million de vues.

    Au Maghreb, l’augmentation du nombre de #migrants_subsahariens ces dernières années semble avoir provoqué un effet ambivalent entre déferlement de la parole raciste – accusant les exilés d’accroître les difficultés économiques du pays – tout en permettant de lancer une discussion autour du racisme latent dans cette région du monde. Mehdi Alioua, professeur de sociologie à Sciences-Po Rabat, assume lui « une révolution épistémique » sur ces questions : « En Tunisie ou au Maroc, des débats télévisés portent sur le racisme. Dans le même temps, on constate également un backlash avec des discours réactionnaires, racistes et figés sur l’identité. C’est deux pas en avant et deux pas en arrière. »

    https://www.liberation.fr/idees-et-debats/racisme-anti-noirs-dans-le-monde-arabe-le-difficile-devoilement-dun-tabou

    #identité #esclavage

    ping @_kg_

  • Le naufrage d’un bateau de migrants fait quatre morts au large de l’île de Lesbos, en Grèce
    https://www.lemonde.fr/international/article/2023/08/28/le-naufrage-d-un-bateau-de-migrants-fait-quatre-morts-au-large-de-l-ile-de-l

    Le naufrage d’un bateau de migrants fait quatre morts au large de l’île de Lesbos, en Grèce
    Aucun détail ni sur les conditions du naufrage ni sur l’identité des personnes n’a été publié pour l’instant par les autorités.
    Le Monde avec AFP
    Quatre personnes ont péri, lundi 28 août, dans le naufrage d’une embarcation de migrants, au large de Lesbos, île de mer Egée. Dix-huit autres personnes auraient survécu, ont déclaré les gardes-côtes grecs, après avoir secouru le bateau en difficulté. Un des patrouilleurs « a repéré et secouru vingt-deux étrangers au large de l’île de Lesbos dont quatre » étaient morts, a signalé la police portuaire dans un bref communiqué.
    « Ils ont tous été transférés au port de Mytilène », chef-lieu de Lesbos, passage habituel de migrants venant des côtes occidentales proches de la Turquie, ajoute le document. Aucun détail, ni sur les conditions du naufrage ni sur l’identité des personnes, n’a été publié pour l’instant par les autorités.
    La police portuaire grecque, avec l’aide de l’agence européenne de surveillance des frontières, Frontex, patrouille régulièrement dans la zone maritime dans l’Est de la mer Egée, en face de la Turquie, d’où de nombreux migrants tentent de passer en Grèce à destination, souvent, de l’Europe occidentale. Malgré de nombreuses opérations de sauvetage, par les autorités grecques, des embarcations en difficulté, de nombreux naufrages ont lieu dans cette zone faisant souvent des victimes. Les autorités grecques sont souvent accusées par des médias et ONG des droits humains d’avoir procédé à des refoulements illégaux de migrants vers les eaux turques afin de limiter le nombre d’arrivées sur le sol grec.

    #Covid-19#migrant#migration#grece#lesbos#turquie#frontex#traversee#mortalite#routemigratoire#sante#ue#mediterranee

  • En Grèce, les feux attisent des propos et des actes racistes
    https://www.lemonde.fr/international/article/2023/08/25/en-grece-les-feux-attisent-des-propos-et-des-actes-racistes_6186488_3210.htm

    En Grèce, les feux attisent des propos et des actes racistes
    A la frontière gréco-turque, les migrants sont tenus pour responsables des incendies qui brûlent la forêt depuis six jours par des groupes d’habitants, qui s’organisent pour les chasser.
    Par Marina Rafenberg(Athènes, correspondance)
    Avec plus de 73 000 hectares brûlés en six jours, les incendies autour d’Alexandroupoli, ville frontalière avec la Turquie, dans le nord-est de la Grèce, sont désormais les feux les plus dévastateurs jamais enregistrés dans l’Union européenne. Devant des paysages de désolation, la tristesse laisse place depuis deux jours à la rage, voire à la haine envers des boucs émissaires tout trouvés, des migrants, désignés comme responsables des départs de feux par des groupes d’extrême droite agissant dans la région.
    Mercredi 23 août, 19 personnes – dont deux enfants, selon le médecin légiste –, très probablement des migrants, selon les autorités, qui avaient traversé le fleuve Evros séparant la Grèce et la Turquie, ont été retrouvées mortes. Quelques heures après cette annonce, des rumeurs alimentées par des groupuscules d’extrême droite circulaient sur les réseaux sociaux : des migrants auraient été à l’origine des feux, il ne s’agirait pas d’un hasard si les incendies ont lieu sur la route empruntée par les exilés. S’ensuit une vidéo diffusée sur Facebook par un homme qui montre un groupe de migrants enfermés dans la remorque de son véhicule. (...)
    Sous la publication, un internaute commente : « Jette-les dans le feu ! » Les propos, repris par les médias grecs, ont choqué le pays et le ministre de la protection du citoyen, Yannis Oikonomou, a réagi : « La Grèce est un Etat de droit, doté de solides acquis démocratiques et d’une tradition humanitaire. Faire justice par soi-même ne peut être toléré. » Le propriétaire de la voiture et deux de ses complices ont été interpellés et ont été inculpés pour « enlèvement à caractère raciste et mise en danger de la vie d’autrui ». Les treize demandeurs d’asile, syriens et pakistanais, sont eux aussi détenus, accusés d’être entrés illégalement sur le territoire grec et d’avoir été non intentionnellement à l’origine de départs de feux. Tous doivent être présentés devant la justice, aujourd’hui vendredi.
    Depuis mardi, plusieurs groupes d’hommes, des chasseurs, des pêcheurs de la région frontalière de l’Evros, s’organisent pour patrouiller et débusquer ceux qu’ils appellent les « clandestins ». Dans une vidéo, diffusée par le média en ligne The Press Project, un homme en treillis militaire s’adresse à la foule : « Commencez à patrouiller, prenez toutes les informations nécessaires… Mais s’il vous plaît, pas d’armes, pas de couteaux sur vous, vous allez avoir des problèmes ! Les autorités ne nous laissent pas faire, même si nous faisons face à une guerre hybride ! »
    Thanassis Mananas, un journaliste local, le confirme : « Autour d’Alexandroupoli, des patrouilles de civils s’organisent pour attraper des migrants (…). Ils échangent sur des groupes Viber ou WhatsApp et appellent clairement à des actes violents. (...) Les appels à la haine sont relayés par des députés d’extrême droite, notamment ceux du petit parti Solution grecque, qui a recueilli 8,8 % dans le nome de l’Evros aux élections législatives, en juin. (...) Le député s’adresse aux membres de l’Ainisio Delta, l’association des propriétaires de cabanes de la région du delta de l’Evros, qui, fin février-début mars 2020, avaient coopéré avec la police et l’armée pour empêcher le passage de milliers de migrants, incités par le président turc, Recep Tayyip Erdogan, à prendre le chemin de l’Europe.
    En février 2020, dans le village de Poros, le maire, Athanassios Pemoussis, confiait au Monde que « la démonstration de force » des agriculteurs qui avaient quadrillé le fleuve de l’Evros avec des tracteurs avait été efficace. Aujourd’hui, il assure que « les patrouilles n’ont plus lieu, mais que les arrivées de migrants ont repris de plus belle ». « Malheureusement, rien n’arrête les passeurs et les migrants, même pas les feux ! », lâche-t-il.
    « Ces hommes jouissent d’une grande impunité »
    Lena Karamanidou, une chercheuse spécialisée sur la question migratoire, estime que « les feux ont été instrumentalisés par ces groupes d’extrême droite, mais les phénomènes de violence et de chasse aux migrants ne sont pas nouveaux ». En 2020, lorsque M. Erdogan était prêt à laisser passer en Europe des dizaines de milliers de réfugiés, « ces hommes ont été valorisés, dépeints par les médias grecs comme des héros qui défendent les frontières de la Grèce et de l’Europe. Les hommes politiques, dont le premier ministre, leur ont rendu visite en les remerciant pour leur action et ils jouissent d’une grande impunité, puisqu’ils côtoient la police et les gardes-frontières quotidiennement ! », explique-t-elle. Plusieurs ONG qui ont déjà dénoncé, à maintes reprises, les refoulements illégaux de migrants à la frontière gréco-turque, accompagnés de vols, de violences et d’humiliations, s’inquiètent du sort des centaines d’exilés qui seraient actuellement bloqués à la frontière avec les feux. Adriana Tidona, chercheuse à Amnesty International, appelle « les autorités grecques à évacuer de toute urgence toutes les personnes bloquées dans la région d’Evros (…), et à enquêter sur tout acte de violence raciste ou tout discours incitant à de tels comportements, y compris de la part d’hommes politiques ».

    #Covid-19#migrant#migration#grece#incendie#violence#turquie#frontiere#racisme#media#reseauxsociaux#europe#refoulement#migrationirreguliere

  • Tunisie : des migrants consignés dans un lycée pendant les vacances scolaires
    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2023/08/24/tunisie-des-migrants-consignes-dans-un-lycee-pendant-les-vacances-scolaires_

    Tunisie : des migrants consignés dans un lycée pendant les vacances scolaires
    Les autorités tunisiennes ont fait de l’établissement de l’oasis de Tamerza un centre de rétention provisoire pour des dizaines de personnes expulsées de Sfax ou interceptées aux frontières libyenne ou algérienne.
    Par Monia Ben Hamadi(Tamerza (Tunisie), envoyée spéciale)
    Tamerza, oasis de montagne située à quelques kilomètres de la frontière algérienne, dans le sud-ouest de la Tunisie, est surtout connue pour ses paysages à couper le souffle, le long de canyons et de sources. A la lisière du village, une montagne rocheuse surplombe le lycée. Au début du mois d’août, alors qu’élèves et professeurs sont toujours en vacances scolaires, plusieurs agents de la garde nationale surveillent l’entrée de l’établissement. Des hommes et des femmes portant pour certains des gilets de l’organisation humanitaire du Croissant-Rouge font des va-et-vient.« Personne ne peut entrer, à part les bénévoles », avertit Salwa (le prénom a été modifié), une volontaire de la région. Profitant de la livraison de nourriture et de produits de première nécessité envoyés par des associations tunisiennes, Le Monde a pu accéder au bâtiment pendant plusieurs minutes, avant d’éveiller les soupçons des agents de sécurité présents à l’intérieur.
    Dans la cour du lycée, des tables et des chaises en plastique sont disposées de manière disparate. Abdoulaye (le prénom a été modifié), un jeune Ivoirien au physique athlétique portant une barbe de quelques jours, est installé là avec trois hommes et deux femmes. Au coucher du soleil, le groupe tente de chasser l’ennui en jouant aux cartes. « On n’a pas le droit de sortir d’ici, on ne sait pas ce qu’ils veulent faire de nous », explique le jeune homme à voix basse, sous le regard méfiant des gardes.
    Quarante-six hommes, femmes et enfants sont toujours retenus dans ce lycée à l’approche de la rentrée scolaire. La plupart ont été expulsés de Sfax puis récupérés à la frontière libyenne ou algérienne, selon Wafa, une surveillante de l’établissement qui s’est portée volontaire, avec le soutien du Forum tunisien pour les droits économiques et sociaux, de la Ligue tunisienne des droits de l’homme et de bénévoles indépendants pour assurer une aide vitale aux migrants en détresse. Ces bénévoles s’activent particulièrement dans les villes frontalières, dans le bassin minier de Gafsa, l’oasis de Nefta ou celle de Tamerza, qui ont connu des arrivées massives de migrants expulsés à la frontière ou arrivés directement d’Algérie. Ils se coordonnent aussi avec d’autres associations à Tunis, ou encore avec l’Organisation internationale pour les migrations, qui gère des centres d’hébergement et les procédures de retour « volontaire ». Ces aides sont fournies parallèlement au soutien apporté par le Croissant-Rouge, qui collabore principalement avec les autorités.
    Installé depuis des années à Sfax, Abdoulaye a vécu les tensions survenues dans la deuxième ville du pays après la mort d’un jeune Tunisien tué par des migrants – selon les premiers éléments de l’enquête – dans la nuit du 3 au 4 juillet. Dans la foulée, le jeune Ivoirien et plusieurs centaines d’autres migrants subsahariens ont été expulsés à la frontière avec la Libye, à l’est, près du poste-frontière de Ras Jedir. Sous la pression des ONG et des médias, les autorités tunisiennes, qui nient toujours ces expulsions, ont autorisé le Croissant-Rouge, dès le 9 juillet – après que le chef de l’Etat tunisien, Kaïs Saïed, a reçu le président de l’organisation – à se rendre dans la zone tampon entre les deux pays, dont l’accès est contrôlé par les militaires.Dans les jours qui ont suivi, ces centaines de migrants bloqués entre la mer et le désert sous une chaleur caniculaire ont été répartis dans plusieurs centres d’hébergement situés dans le sud du pays. Abdoulaye et près d’une cinquantaine d’autres personnes se sont alors retrouvés enfermés dans l’enceinte du lycée de Tamerza, le 13 juillet, dormant dans l’internat des élèves. « Ils sont bien traités, y compris par les agents de sécurité, explique Wafa, mais le problème est qu’ils n’ont pas le droit de sortir. » Selon la jeune surveillante, les autorités tunisiennes tenteraient de collecter les informations nécessaires pour établir l’identité et le parcours de chaque personne retenue sur place depuis plus d’un mois. Trois personnes qui ont exprimé leur volonté de retourner dans leur pays auraient été transférées dans un autre centre, et quarante-six autres sont toujours dans l’attente. Contactés par Wafa et ses collègues, les anciens bailleurs ou employeurs de certains de ces migrants se seraient dits prêts à les accueillir de nouveau. « Il y a même des étudiants dont nous essayons de régulariser la situation », affirme la jeune femme. Mais le temps presse et le lycée de Tamerza ne pourra plus être utilisé comme lieu de rétention ou de tri dès le début du mois de septembre, avec la rentrée scolaire. Bientôt, les lits devront être libérés pour laisser place aux élèves. Le destin des hôtes temporaires de l’internat demeure incertain.

    #Covid-19#migrant#migration#tunisie#migrationirreguliere#retention#ONG#OIM#droit#regularisation#libye#algerie#frontiere#retour#postcovid

  • bienvenue @michequiche !

    si tu farfouille parmi mes abonnements, tu devrais trouver des comptes qui t’intéressent.
    idem en utilisant la barre de menu. si tu clique sur ’personnes", des « personnes qui pourraient vous intéresser » te seront suggérées.
    une des manières de suivre ce qui se passe ici est de s’abonner à @7h36 qui chaque matin envoie un mel recommandant une sélection des seens publiés.

    le moteur de recherche fonctionne.
    les hachetagues permettent des recherches qui peuvent s’avérer fructueuses.

    quant à la manière de publier, j’ai malencontreusement perdu la trace de #tutos sérieux déjà édités ici... ce qui suis est lacunaire et doit répéter moins bien une partie de ce que tu trouves dans la rubrique « à lire » en haut de la colonne de gauche. en gros (?) lorsque tu es sur une page que tu veux citer ici tu en sélectionne l’extrait qui va bien et clique sur l’onglet, seenthis. l’extrait apparaitra comme une

    citation

    . un autre moyen de citer un ou des extraits apparait en haut de chaque seen (suffit de sélectionner le passage visé et de cliquer), ce qui permet au lecteur de distinguer ce que tu écris de ce que tu cites, et d’utiliser le cas échéant un bouton de traduction automatique. idem pour des ital ou pour graisser.

    lorsque de l’icono n’apparait pas, tu peux tenter de modifier ton seen en ajoutant le suffixe #.jpeg à son adresse.

    c’est supposé être du microblogging, il semble que plus la citation est brève mieux le pattern est respecté. ne prend pas mes seen pour exemple !

    #tuto_seenthis (faux)

  • En Tunisie, des migrants revenus de l’enfer
    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2023/08/23/en-tunisie-des-migrants-revenus-de-l-enfer_6186320_3212.html

    En Tunisie, des migrants revenus de l’enfer
    Chassés du pays et repoussés plusieurs fois par des soldats algériens en plein désert, Alpha Oumar et Ibrahima n’aspirent qu’à une seule chose : rentrer chez eux, en Guinée.
    Par Monia Ben Hamadi(Nefta, Tunisie, envoyée spéciale)
    Assis sur un tronc d’arbre à l’entrée de l’oasis de Nefta, Alpha Oumar et Ibrahima s’estiment chanceux. Les deux jeunes hommes originaires de Guinée ont survécu à l’enfer à la frontière tuniso-algérienne. Chassés par les autorités des deux pays, ils ont enduré des semaines de violences et d’humiliations avant de trouver un abri de fortune à l’ombre de palmiers, grâce à une poignée de bénévoles. Comme eux, des centaines de migrants guinéens, gambiens, soudanais, somaliens, éthiopiens ou ivoiriens – dont des femmes enceintes et des enfants en bas âge – sont parvenus à rejoindre les nombreuses oasis qui entourent la petite ville de Nefta, située dans le sud-ouest de la Tunisie, à 40 kilomètres du poste-frontière de Hazoua.
    Si les autorités ferment les yeux, tant que les migrants se font discrets, ces derniers ne peuvent pas se déplacer librement en ville et ne sont pas acceptés dans les transports en commun sans laissez-passer. « On n’arrive plus à gérer, ils sont de plus en plus nombreux et c’est dangereux, surtout pour les femmes et les enfants », s’alarme Assewer, l’une des volontaires présentes sur place.
    Ibrahima n’était pas encore majeur quand il a quitté son pays natal au début de l’année. En voiture et à pied, il est passé par la Côte d’Ivoire, le Mali et l’Algérie avant d’atteindre, en mai, la frontière tuniso-algérienne. De là, il s’est rendu directement à Sfax, le port tunisien devenu l’épicentre de la migration en Méditerranée. Des centaines de personnes tentent chaque jour la traversée vers l’île italienne de Lampedusa, principale porte d’entrée pour l’Union européenne. Ibrahima veut en être.
    A Sfax, le jeune homme n’a aucune difficulté à trouver un logement en colocation dans le centre-ville. Il y fait la connaissance de son compatriote, Alpha Oumar, 23 ans, arrivé de son côté huit mois plus tôt. Lui a déjà tenté de traverser en décembre 2022, mais, à une dizaine de kilomètres de Lampedusa, le moteur de son embarcation a lâché. Resté à la dérive pendant quatre jours, le bateau a finalement été secouru par des pêcheurs tunisiens. Ramené à terre, il assiste, impuissant, à la montée du sentiment antimigrant en Tunisie. En février, une campagne raciste déferle sur le pays après que le président, Kaïs Saïed, a accusé des « hordes » de « clandestins » d’être source de « violence, de crimes et d’actes inacceptables », soutenant l’existence d’une « entreprise criminelle ourdie à l’orée de ce siècle pour changer la composition démographique de la Tunisie ». Pressés de quitter Sfax, Ibrahima et Alpha Oumar tentent de partir en juin, mais ils sont rattrapés en mer par la garde nationale tunisienne. Dans la nuit du 3 au 4 juillet, la mort d’un jeune Tunisien, poignardé par des migrants, selon les premiers éléments de l’enquête, déclenche une véritable chasse à l’homme à l’encontre des Subsahariens, dont des centaines ont été expulsés de chez eux et violentés. La nuit suivante, des policiers débarquent chez Alpha Oumar et Ibrahima. Ils « ont défoncé la porte et nous ont demandé de sortir en nous disant qu’ils étaient là pour nous sécuriser », se souvient le plus âgé.
    Au poste de police, des centaines d’hommes, de femmes et d’enfants s’entassent déjà. « Des personnes se sont rendues elles-mêmes au commissariat de peur d’être attaquées par la population, d’autres sont arrivées blessées », poursuit Ibrahima. Les policiers assurent alors aux migrants qu’ils seront emmenés à l’extérieur de la ville, dans un camp, le temps que la situation se calme à Sfax. Alpha Oumar et Ibrahima montent dans un bus, sans connaître leur destination.
    « Les chauffeurs ne savaient clairement pas où ils allaient, ils suivaient le convoi de la garde nationale. Ils ont marqué plusieurs arrêts, toujours sur leur téléphone pour attendre de nouvelles instructions, cela n’avait pas été préparé », estime Alpha Oumar. Mais, très vite, les passagers commencent à comprendre, grâce au GPS de leurs téléphones, qu’ils sont emmenés vers la frontière algérienne. (...) Ces expulsions vers les frontières algérienne ou libyenne sont toujours niées par les autorités tunisiennes, qui ont accusé plusieurs fois les médias, les organisations non gouvernementales et même les autorités libyennes, qui ont documenté certains cas, de vouloir nuire à l’image de la Tunisie.
    Pourtant, dès le 5 juillet, Moez Barkallah, député de Sfax, a décrit précisément les modalités d’expulsion des Subsahariens dans une déclaration à la radio Mosaïque FM, faisant état d’un millier de personnes acheminées par bus en un seul jour. Un chiffre qui correspond aux dizaines de témoignages recueillis par Le Monde. Des vidéos partagées sur les réseaux sociaux montrent également des habitants de Sfax applaudir et insulter les migrants au passage des bus qui les transportaient.
    A quelques centaines de mètres de la frontière algérienne, Alpha Oumar, Ibrahima et des dizaines d’autres sont sommés de quitter les bus et de poursuivre leur périple à pied, en plein désert. « Ils nous ont dit d’avancer, sinon ils nous frappaient », se souvient le plus jeune. De l’autre côté, d’autres migrants, encore réunis et tout aussi nombreux, sont confrontés aux militaires algériens. Pris en tenaille entre les agents de la garde nationale tunisienne d’un côté et les militaires algériens de l’autre, Ibrahima et Alpha Oumar errent dans le désert, sans réseau, assoiffés.
    Côté algérien, ils avancent vers une source de lumière, espérant trouver de l’eau, mais le groupe tombe sur un camp militaire. Après les avoir encerclés, les soldats algériens les dépouillent de leurs affaires : téléphones, sacs, passeports, argent, tout y passe. (...) Après leur avoir donné deux bidons d’eau, les soldats ordonnent aux migrants de « courir sans s’arrêter » vers la Tunisie. Les deux Guinéens affirment avoir été malmenés d’un côté et de l’autre de la frontière, plusieurs fois. « C’était marche ou crève », malgré quelques moments d’accalmie où ils ont pu recevoir de l’eau et de la nourriture de la part d’habitants des deux pays. Pendant leur périple, qui a duré une dizaine de jours, ils ont croisé « des Gambiens retrouvés presque morts de soif », un « Camerounais qui avait survécu en buvant son urine », d’autres Subsahariens blessés…
    Après des dizaines de kilomètres de marche, à se cacher des militaires et des gendarmes, et une énième expulsion vers l’Algérie, Alpha Oumar et Ibrahima sont retrouvés par Moez (le prénom a été modifié pour des raisons de sécurité) et d’autres bénévoles qui font régulièrement des rondes dans le désert et les oasis alentour pour venir secourir les migrants en détresse. Ils rejoignent l’oasis de Nefta le 17 juillet, treize jours après avoir été expulsés de Sfax. Ils y séjourneront trois semaines, avant d’être finalement transférés en août dans un centre géré par l’Organisation internationale pour les migrations (OIM) à Médenine, dans le sud-est de la Tunisie. Ibrahima, revenu malade de cet enfer à cause du manque d’hygiène et d’avoir bu de l’eau non potable, et Alpha Oumar, qui a laissé sa femme et sa fille au pays pour tenter de subvenir à leurs besoins, souhaitent à présent retourner en Guinée. « On a trop souffert en Tunisie », conclut le premier, résigné.

    #Covid-19#migrant#migration#tunisie#afrique#algerie#expulsion#violence#frontiere#migrationirreguliere#OIM#retour#postcovid

  • 2 groups of ~250 people in total stranded on different islets of the #Evros river ! (22.08.2023)

    We are in contact with 2 groups of ~250 people in total, who are stranded on different islets of the #Evros river! One group shared a video of the fires raging nearby. They say “The fires are getting very close to us now. We need help as soon as possible!”

    https://twitter.com/alarm_phone/status/1693972420858609721
    #limbe #zone_frontalière #île #Evros #asile #migrations #réfugiés #frontières #fleuve_Evros #Turquie #Grèce #Thrace #îlots
    #nudité

    –-

    ajouté à la métaliste sur #métaliste sur des #réfugiés abandonnés sur des #îlots dans la région de l’#Evros, #frontière_terrestre entre la #Grèce et la #Turquie :
    https://seenthis.net/messages/953343

  • Bulgaria migrant pushbacks: What’s behind the rise in violence at the Bulgarian-Turkish border? (1/4)

    The Bulgarian-Turkish border is seeing an upsurge in pushbacks and violence against migrants. InfoMigrants uncovers the reasons why and who are the most at risk.

    This article is the first in a four-part series. All research and interviews were conducted between June and August 2023, with field reporting in Bulgaria carried out between June 18 and 24, 2023.

    Pushbacks are “a very serious problem” in Bulgaria, Krassimir Kanev, chair of the Bulgarian Helsinki Committee, a non-profit dedicated to protecting human rights, told InfoMigrants.

    “We even had people who were killed, who were seriously injured, who were pushed back and they died in the snow in Turkey…There have been many such cases, cases of physical ill treatment, sometimes resulting in death…use of firearms sometimes resulting in death…” he said.

    Last year alone, an estimated 5,200 migrants were subject to pushbacks at the Bulgarian-Turkish border, according to the Committee.

    Similarly, the European Council on Refugees and Exiles recorded 5,268 alleged pushbacks in Bulgaria in 2022 affecting 87,647 persons – but the actual figure is believed to be much higher.

    Pushbacks are prohibited under European Union (EU) and international law. They violate the 1951 Refugee Convention principle of non-refoulement, which provides that refugees should not be returned to a country where they face serious threats to their life or freedom.

    In interviews carried out between June and August 2023, migrants, humanitarian workers, human rights experts and lawyers told InfoMigrants violence against migrants and pushbacks at the Bulgarian-Turkish border have increased in the last two years.

    The Bulgarian government, however, has maintained that “Checks have been carried out of formal pushback signals made by foreigners who tried to illegally cross the state border of Bulgaria. The checks ended with the finding that there was no evidence of physical violence.”

    A spokesperson from the ministry told InfoMigrants, “It should be noted that many of the claims of ’pushbacks’ are unfounded.”

    Greek migrant repression marks turning point in Bulgaria

    Hamid Khoshseiar, a translator and coordinator at the Mission Wings Foundation in Harmanli near to the Bulgarian-Turkish border, works with migrants from the town’s refugee reception center. He said more migrants started trying to enter the EU via the Bulgarian-Turkish border after the Greek government’s swing to the right in 2019. Those numbers have climbed even higher in the last year.

    “Around a year ago, we started to see a new practice. People were coming in our office to be registered…because of the increase of the number of pushbacks at the border…” Khoshseiar told InfoMigrants.

    In August 2022, a bus carrying at least 47 migrants collided with a police car in Bulgaria, leaving two officers dead.

    “After that, the border escalated and became very intensive,” with “more forces,” Khoshseiar explained. “Even the army started to help border police and the gendarmerie [military police]. And also the number of pushbacks and violence increased a lot… people give themselves the right to interpret the law,” he added.

    Bulgarian authorities have been stripping migrants at the border before “pushing them back (into Turkey) without any clothes,” Khoshseiar said.

    “We also heard a lot about beatings on the border. Some of them (migrants) were sharing that when they (Bulgarian authorities) caught a group, there were six, seven officers opening one small door in the border. And like a tunnel they were hitting everyone who was crossing.”

    Khoshseiar added that many migrants told him it was their fifth or sixth time attempting to enter Bulgarian territory.

    In order to find out which forces are involved in pushbacks, Khoshseiar also asks his clients about the color of their clothing.

    “[The] forces ... involved [are] technically all of them. Border police with green, gendarmerie with dark blue, and police with blue – it’s not specifically one,” he said.

    Khoshseiar is also concerned about chain pushbacks, a practice often initiated by European countries where people are pushed back through multiple consecutive countries.

    “We heard from people… ’Bulgarian police arrested us, they started beating us. They sent us back to Greece. After that, the Greece police started beating us and send us back to Turkey,’ – chain pushbacks.”

    Bulgarian-Turkish border sees jump in migrant arrivals

    Boris Cheshirkov, an external relations officer at the UN refugee agency UNHCR in Sofia, told InfoMigrants that Bulgaria received some 20,000 asylum applications last year – “the highest number in a single year over 30 years of recorded statistics.”

    He said the main countries of origin were Syria, Afghanistan and Morocco, adding that this trend has largely continued in 2023. The number of refugees, asylum seekers and stateless persons at the end of 2022 was almost double than that of the year before.

    The Taliban takeover of Afghanistan in 2021 and ongoing conflict in Syria are pushing citizens to journey to Bulgaria, while continued economic and political instability in neighboring Turkey – as well as the devastating aftermath of the February earthquake – are driving Syrians previously living in Turkey to cross the border into Bulgaria.

    Migration activities have also resumed following the COVID-19 pandemic. In addition, slow and inefficient application processes across the EU have prompted many more to search for unofficial ways to enter the bloc, usually through the use of people smugglers.

    The trilateral Bulgaria-Greece-Turkey contact center at the Kapitan Andreevo border checkpoint confirmed that the Bulgarian-Turkish border has seen another strong wave of irregular migration in the past year, and is making prevention their top priority.

    “The first and biggest issue is cross-border crime related to illegal migration – foremost in terms of volume,” a Bulgarian border police spokesperson at the trilateral center told InfoMigrants. The center was established in 2016 soon after refugee arrivals in Europe peaked in 2015.

    Higher migrant numbers arguably increase the probability of pushbacks. Migrants are also increasingly aiming for the Bulgarian-Turkish border as other European countries beef up security.

    “In the past, much more migration has been through Greece than through Bulgaria,” Kanev from the Helsinki Committee said. “But the Greek government introduced some measures of patrolling the sea. Their border is very well protected. Their land border with Turkey is shorter. Also, the Bulgarian border is very difficult to protect because it goes through a mountain. And it’s quite big and therefore it is very hard to install appropriate technology and supervision throughout this border,” he explained.

    Migrants are also increasingly opting for the Bulgarian-Turkish border after hearing stories about violent pushbacks and aggressive behavior from Greek authorities at the Greek-Turkish border or experiencing violence firsthand in a previous failed crossing at the Greek border.

    Authorities beat, stripped, robbed and shot at migrants

    Diana Dimova, head of the Bulgarian human rights organization Mission Wings, said nearly 700 migrants who crossed the Bulgarian-Turkish border have passed through her consultation center in Stara Zagora city in the last year.

    “The practices they (migrants) share are: being stripped, robbing of personal belongings, phones and money, beatings with police batons, harassment with police dogs, and illegal detention for 24-72 hours in unregulated premises,” Dimova told InfoMigrants.

    She and her colleagues have also traveled to Turkey to film the testimonies of scores of refugees who recount being abused and pushed back.

    “The resistance from the authorities to cover up these crimes is great,” she said.

    Many migrants walk through dense forested areas, crossing the Strandja Nature Park at the border with Turkey. They typically walk four to eight days without food or water, and smugglers “give them pills to endure the journey,” Dimova said. “Many are dehydrated and exhausted to the limit. Huge numbers of people are dying in the forests, mostly in the area of Sredets municipality.”

    GPS coordinates given by migrants in distress to hotlines in Europe “are rarely responded to by border police,” she said.

    “Usually we call 112 who forward the signal to the border police. We have found that in many cases the border police do not look for them at all or leave them to their fate. In most cases, when 112 is called insistently and help is sought, they arrive at the scene of the tragedy, load those who have survived and send them back onto Turkish territory,” Dimova told InfoMigrants.

    “Bulgaria does not have a working system for rescuing refugees in distress – many of these people are left to perish in the forests,” she said.

    Her foundation is funded by various foreign organizations as the Bulgarian government does not provide them with financial support.

    “There are very few organizations in Bulgaria helping refugees. Most do not want to engage in this topic because of negative public opinion” and are pressured by various institutions to stop their activities, Dimova explained. A number of organizations focusing on refugees in Bulgaria are under investigation – including Mission Wings.

    “For more than 10 months, we have been under investigation for suspicions expressed by the State Agency for Refugees that we are involved in the trafficking and smuggling of unaccompanied refugee children. The national security services pressured and harassed us for nearly a year, trying to stop us from helping those arriving from the Bulgarian-Turkish border,” she told InfoMigrants.

    Journalists expose migrant shooting

    Sofia Bahudela, an Arabic language worker at Caritas Bulgaria, said the charity is very familiar with migrants who are “extremely traumatized when entering the country.”

    “Everything is very dependent on the people serving as border guards,” she told InfoMigrants.

    Recounting the story of Ali Husseini, a young man who had been granted protection status in Bulgaria, Bahudela explains how when he traveled to the border to find his brother in 2022, he was stripped, beaten, robbed and then pushed into Turkey. After a week of talks with a lawyer and a trip to Istanbul, he was able to return to Bulgaria, but had to wait a further five months to have his ID reissued. His brother, meanwhile, was deported from Turkey to Afghanistan.

    In another case, the Bulgarian government repeatedly rejected accusations that its border guards shot a Syrian refugee in October 2022 after a video released two months after the incident showed a man being fired at on the Bulgarian-Turkish border.

    The video was part of a joint investigation by several European media outlets led by the Netherlands-based Lighthouse Reports. In a separate video captured days later, the man identified himself as 19-year-old Abdullah El Rustum of Syria. He said he was shot by Bulgarian border officers after his group was caught trying to enter Bulgaria irregularly. The Lighthouse investigation found that unarmed refugees were fired at from the same position on the Bulgarian side, where the border police were seen to be located.

    Maria Cheresheva, a Bulgarian journalist based in the capital Sofia, participated in the Lighthouse probe. She has since been denied access to the Bulgarian-Turkish border on numerous occasions, and said she rarely receives comments from the government on her work.

    “There has been no information or progress on this investigation,” Cheresheva told InfoMigrants. The border is a “heavily monitored area. So we are curious why after the rejection of the authorities of both countries (Turkey and Bulgaria), no progress has been done in terms of this report, which was broadly broadcasted around big European media.”

    Testimonies of migrants who were pushed back and suffered violence at the border “are rarely taken into account” Cheresheva explained, adding that she has dealt with a number of similar cases, but noted it’s “extremely difficult to prove who caused the violence and how did those people end up in such a situation.”

    The stressful and violent situations of pushbacks also make it difficult for migrants to identify the people responsible for the illegal acts: Are they Bulgarian border police, gendarmerie, European Border and Coast Guard Agency (#Frontex) officers, or vigilantes.

    Women and children face increased risks at border crossing

    Women who attempt to enter Europe via the Bulgarian-Turkish border face heightened risks of sexual violence.

    “We have cases of women who say they have experienced violence, including sexual violence, on the way to Bulgaria at the hands of traffickers or police officers in Turkey. Some women have had to pay for their journey to Europe with sex due to lack of financial means,” said Dimova of Mission Wings.

    Cases of rape and abuse are difficult to record because “many of the women do not recognize the violence that has been perpetrated against them as a problem or are ashamed to share,” she told InfoMigrants.

    The Bulgarian Helsinki Committee also confirmed it received reports of sexual harassment and rape from migrants. Chairman Kanev cited a female migrant who informed the Committee that she was stripped naked and subjected to sexual harassment by Bulgarian authorities.

    “I suspect that she was also raped, maybe, but she didn’t say that. And then from third parties, you also hear cases of women who were raped,” Kanev said.

    Unaccompanied minors also face greater risks at the Bulgarian-Turkish border, journalist Cheresheva said, because there is “nobody to protect them on the way.” Many problems can arise because the “mistreatment and violence happens outside of the system.”

    Cheresheva said she has interviewed many migrants who experienced violence at the border as minors. One boy she interviewed was kept in a detention center in Bulgaria and was expecting his asylum procedure to start, but instead he was sent back to Turkey where he was kidnapped. The last Cheresheva heard about the child was that he had been rescued by other refugees living in Turkey.

    “With all this violence happening along the borders, not only by authorities but through all kinds of criminal groups, I’m very concerned about the fate of these kids,” Cheresheva said.

    Khoshseiar from Mission Wings said he had come across two unaccompanied migrant children in Harmanli, a brother and sister aged 12 and 14.

    “I just showed them the way how to get to the reception center, because the reception center should register them. After that we understood that they put them into the car and pushed them back into Turkey,” he said.

    Bulgaria is a ’peaceful country,’ says Syrian barber

    Several migrants InfoMigrants spoke to recounted positive stories of how Bulgaria had welcomed them, and said they had not experienced violence on Bulgarian territory.

    Ahmed is a Syrian barber in Sofia. He journeyed to Bulgaria with a group of friends in 2015, when their country was being torn apart by war and conflict.

    “I came through the mountains for three days on the border between Turkey and Bulgaria – the situation was very difficult, very difficult indeed,” he told InfoMigrants from his barbershop in the bustling center of the Bulgarian capital.

    “For me personally, there were no issues with the (asylum) documents,” he said.

    When asked if he had any issues with border police during the journey, he responded: “No, very good people, really. I swear. I lived in Turkey for nine months. The police there were bad people. In Turkey, not here. I came to Bulgaria because of the police in Turkey, very bad people.”

    All of Ahmed’s friends continued on to Germany, except for him.

    “I love Bulgaria…I like it, good, peaceful country…” he beamed.

    *Name changed

    https://www.infomigrants.net/en/post/51197/bulgaria-migrant-pushbacks-whats-behind-the-rise-in-violence-at-the-bu

    #Bulgarie #Turquie #push-backs #refoulements #frontières #asile #migrations #réfugiés #montagne #violence #violence_sexuelle #murs #barrières_frontalières

    • Tra le persone respinte e lasciate senza soccorsi in Bulgaria, frontiera d’Europa

      Al confine tra Turchia e Bulgaria le persone in movimento sono sottoposte a continue violazioni dei loro diritti, dall’omissione di soccorso ai respingimenti illegali. A denunciare dal campo queste violenze, che ancora una volta evidenziano un ruolo problematico dell’Agenzia Frontex, c’è il Collettivo rotte balcaniche Alto vicentino

      Di quanto accade alla frontiera tra Turchia e Bulgaria si sa poco. Eppure si tratta di una delle porte dell’Unione europea sulla quale le persone in movimento sono sottoposte a continue violenze. Secondo i dati diffusi dalla stessa polizia di frontiera bulgara -una polizia a tutti gli effetti europea, avendo Sofia aderito all’Ue nel 2007- sarebbero stati 46.940 i tentativi di attraversamento cosiddetto “illegale” del confine solo nei mesi di giugno e luglio di quest’anno. Tantissime delle persone intercettate dalle autorità, dopo essere state catturate, vengono respinte in Turchia attraverso pratiche totalmente illegittime.

      Chi svolge un prezioso lavoro di documentazione e testimonianza di quanto succede in questi luoghi è il Collettivo rotte balcaniche Alto vicentino, impegnato nel Sud della Bulgaria, nella città di Harmanli, dove si trova il più grande campo del Paese, e Svilengrad, nelle vicinanze del campo di Pastrogor. Da metà luglio gli attivisti hanno cominciato a rispondere a chiamate di aiuto da parte di migranti in difficoltà, che hanno poi raggiunto nei punti in cui si erano fermati. Questo gli ha permesso di essere testimoni delle omissioni di soccorso e delle violenze da parte delle autorità bulgare, che spesso non avviano nemmeno le ricerche di chi si trova in situazione di urgenza.

      “Pensiamo alle tante persone che ogni notte muoiono senza nemmeno poter chiedere aiuto, oltre alle poche che lo chiedono invano. Lungo le frontiere di terra come di mare, l’omissione di soccorso è una precisa strategia delle autorità -ha scritto il collettivo in un report su quanto avvenuto nel caso del salvataggio di una donna incinta e delle sue due bambine-. […] Ci è chiara l’urgenza di agire in prima persona e disobbedire a chi uccide lasciando morire”. Tra gli attivisti del collettivo che si spendono quotidianamente per portare aiuto a chi si trova in difficoltà ci sono anche Giuseppe Pederzolli e Giovanni Marenda.

      Che cosa sta succedendo in Bulgaria oggi?
      GM Il confine con la Turchia ultimamente è diventato un buco nero dal punto di vista informativo. Da poco abbiamo cominciato a occuparci di casi di emergenza, che ormai sono quasi quotidiani. Abbiamo un numero di telefono e un network con altre organizzazioni europee. Ci arrivano segnalazioni di persone in stato di urgenza o di stress durante il viaggio dalla Turchia. Fin dalle prime volte siamo andati di persona, oltre a dare segnalazione ufficiale al 112, perché ci siamo accorti che spesso le autorità omettono il soccorso. Mentono rispetto a quello che fanno: sostengono di stare conducendo una ricerca anche se non è vero. In alcuni casi, quando hanno capito che noi ci stavamo recando sul posto, hanno iniziato a uscire per arrivare prima di noi per sfruttare l’occasione per respingere illegalmente le persone. In sostanza, quindi, cerchiamo di arrivare sul luogo per “metterci in mezzo”, costringendo la polizia, per esempio, a far venire anche l’ambulanza o a far fare richiesta di asilo. Le autorità non possono respingere davanti ai nostri occhi.

      Ci sono segnalazioni che ritenete particolarmente emblematiche rispetto a quanto accade sul confine turco-bulgaro?
      GP Una questione importante con la quale ci stiamo misurando anche dal punto di vista emotivo è quella delle persone morte lungo i confini; anche a noi che siamo una piccola realtà arrivano segnalazioni di familiari da mezza Europa che dicono di non avere più notizie di un loro caro. Qui, al confine con la Turchia, è un problema molto rilevante. Decine di persone muoiono nella foresta. Oltre al ritrovamento c’è anche la questione della restituzione del corpo alla famiglia, che spesso non avviene. In un caso, quello di H., un migrante siriano di trent’anni, la morte ci è stata segnalata dai compagni di viaggio, che in tempi rapidi l’hanno detto anche alla famiglia. Tre attiviste sono partite verso la posizione che ci era stata mandata -e che abbiamo trasmesso più volte anche al 112-, una zona a due ore di distanza da noi. Il luogo era abbastanza difficile da raggiungere, una quarantina di minuti a piedi dalla strada principale. La polizia è arrivata circa 12 ore dopo; noi siamo rimasti lì, perché volevamo essere sicuri che la salma sarebbe stata raccolta e anche capire dove sarebbe stata portata, per darne notizia alla famiglia. Abbiamo poi coinvolto anche un’avvocata per fare da tramite ai parenti per la questione del funerale.

      Tra le testimonianze che avete fornito, anche la storia di una donna incinta, soccorsa con le sue due bambine.
      GM Si è trattato del nostro primo soccorso. Appena è arrivata la segnalazione abbiamo chiamato il 112; poi abbiamo capito che le autorità ci stavano mentendo: ci dicevano che c’era un’unità di ricerca sul posto, che c’era anche un’ambulanza, ma noi eravamo in contatto diretto con la donna, che per fortuna aveva con sé il telefono carico, e sapevamo che non c’era nessuno che la stava cercando, perché lei si trovava a pochi metri dalla strada. A un certo punto abbiamo deciso di andare noi, rendendo sempre noti al 112 i nostri movimenti. L’abbiamo trovata, quando siamo arrivati sul posto, semplicemente urlando per far sentire la nostra voce. Al mattino è arrivata la prima pattuglia della polizia di frontiera, che si è fermata perché ci ha visti lungo una strada molto delicata, in cui ci sono molti passaggi. Hanno iniziato a importunarci, a minacciarci. Non sapevano assolutamente nulla delle segnalazioni che avevamo fatto. Abbiamo chiesto un’ambulanza, che non è mai arrivata. Successivamente siamo stati portati alla stazione di polizia, dove è venuto un dottore, che ha fatto una visita sommaria di cinque minuti, al termine della quale ha consigliato alla donna di bere molta acqua. Poi ci hanno allontanati: per 20 giorni non abbiamo saputo più nulla della persona che abbiamo soccorso, anche se quotidianamente abbiamo cercato di rintracciarla. Alla fine avevamo quasi paura, ci eravamo convinti l’avessero respinta in Turchia. Poi abbiamo saputo, per fortuna, che era stata trasferita al campo aperto di Harmanli e che aveva potuto fare domanda d’asilo.

      Avete avuto ripercussioni legali per la vostra attività?
      GM Per ora non siamo mai stati denunciati o accusati di nulla, perché ci siamo sempre coperti attraverso le segnalazioni al 112. Ci sono state minacce in diverse occasioni, ci hanno detto “Vi arresteremo la prossima volta che fate cose del genere”, ma alla fine non hanno potuto farci nulla. Di certo, tuttavia, non siamo noi ad avere il coltello dalla parte del manico, è anche un discorso politico, rispetto a quanto spazio riesci a guadagnarti. La polizia di frontiera qui fa quello che vuole; abbiamo visto poliziotti con la maglietta del fascio littorio, insieme ad agenti di Frontex. L’Agenzia e l’Unione europea nei documenti ufficiali continuano a negare di essere coinvolte e sostengono di non sapere nulla di quanto succede. Nella stazione di Sredets -paese vicino al luogo di ritrovamento della donna incinta-, però, tra gli armadietti ce ne sono due riservati proprio a Frontex.

      Il collettivo non si occupa solo del soccorso e della documentazione delle violenze. Qual è la vostra storia?
      GP Il collettivo è nato tra il 2018 e il 2019, dall’esigenza di stare in alcuni luoghi sui confini, innanzitutto per una questione di cura delle persone in movimento. Poi abbiamo iniziato a collaborare con diverse realtà internazionali, per esempio in Serbia, in Bosnia ed Erzegovina, in Grecia e a Trieste. Negli anni le nostre attività sono state diverse. Abbiamo iniziato, soprattutto in Bosnia, sistemando gli squat dove stavano le persone, costruendo stufe, aiutando in maniera molto pratica. Poi nel tempo ci siamo interessati alla questione igienica, quindi abbiamo costruito e diffuso ai vari gruppi internazionali dei kit doccia portatili.

      https://altreconomia.it/tra-le-persone-respinte-e-lasciate-senza-soccorsi-in-bulgaria-frontiera

  • Pinar Selek n’en finit pas avec le harcèlement judiciaire !

    Sociologue, écrivaine et conteuse turque, naturalisée française après avoir reçu l’asile politique en France, elle subit un harcèlement judiciaire depuis 25 ans en Turquie parce qu’elle a travaillé à une recherche sur ce que vivent les Kurdes dans son pays.

    Elle a été arrêtée et torturée afin d’obtenir les noms des militant·x·e·s qu’elle avait rencontré·x·e·s, noms qu’elle n’a jamais donnés. Puis elle a été condamnée pour un « attentat » qui n’a pas eu lieu. L’explosion de gaz au marché aux épices d’Istanbul en 1998 était en réalité un accident… mais avec des preuves fabriquées, tout est possible… Décidément, Pinar Selek dérange le gouvernement turc ! Elle a pourtant été acquittée à quatre reprises par les tribunaux, mais le procureur a systématiquement fait appel.

    www.pinarselek.fr

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2023/08/21/pinar-selek-nen-finit-pas-avec-le-harcelement-

    #international #turquie

  • « La politique migratoire européenne transforme les pays du sud de la Méditerranée en garde-frontières »
    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2023/08/16/la-politique-migratoire-europeenne-transforme-les-pays-du-sud-de-la-mediterr

    « La politique migratoire européenne transforme les pays du sud de la Méditerranée en garde-frontières »
    Tribune. Alors que l’Union européenne vient de signer avec la Tunisie le Partenariat stratégique global et cherche à l’inciter à accueillir les réfugiés renvoyés par l’Europe en échange de la somme de 250 millions d’euros et d’un soutien financier de 900 millions d’euros conditionné à la conclusion d’un accord de prêt avec le Fonds monétaire international (FMI), le pays traverse une crise socio-économique exacerbée par une montée des violences contre les Africains noirs présents sur son territoire, notamment dans la ville de Sfax. En effet, depuis le 3 juillet, et suite à l’assassinat d’un Tunisien par trois ressortissants présumés d’origine camerounaise, la Tunisie connaît un déferlement de violences contre les Africains noirs. Actes xénophobes, agissements racistes, discours haineux et différentes formes d’agressions mettent en péril l’intégrité physique et morale des expatriés subsahariens. A ce sujet, les médias, les ONG et autres acteurs de la société civile, ainsi que des citoyens tunisiens s’exprimant via les réseaux sociaux, tirent la sonnette d’alarme sur une véritable violation des droits humains.
    Ont été documentés : des expulsions de familles entières de leur domicile – dont des femmes enceintes et des enfants –, des interpellations, refoulements et arrestations arbitraires, des agressions physiques et verbales, des vols d’effets personnels et de documents d’identité, des attaques directes et virtuelles sur les réseaux sociaux et jusqu’à des déportations de centaines de personnes – dont certaines avec une situation en règle ou des demandeurs d’asile – vers les frontières tuniso-libyennes désertiques sans aucune forme d’assistance, à une période de l’année particulièrement éprouvante en raison des chaleurs torrides et des pénuries d’eau.
    Plusieurs communiqués, tribunes et pétitions ont été signés par nombre d’organisations, d’intellectuels, de militants et d’acteurs de la société civile dans les médias internationaux afin de dénoncer cette situation insoutenable. Des collectes de fonds ont été lancées pour venir en aide aux victimes de ces évènements. Nous rejoignons toutes ces prises de parole et tenons à manifester notre plein soutien et notre solidarité envers les cibles de ces agissements. En tant que chercheurs et citoyens provenant de Tunisie, d’Allemagne et de France, nous nous engageons pour une Méditerranée qui corresponde à un espace d’échanges, de libre circulation et de diversité. A la place de cela, la politique migratoire européenne transforme les pays du sud de la Méditerranée, et notamment la Tunisie, en garde-frontières, tout en favorisant l’exode des cerveaux vers l’Europe, à un moment où le pays a besoin de ses compétences pour faire face aux différentes crises qu’il connaît.
    L’intention d’expulser des personnes et familles vulnérables dans un pays tiers, contre leur gré, est inadmissible en soi. Les expulser en Tunisie à un moment où cette dernière traverse des difficultés importantes sur tous les fronts met en péril l’un des derniers pays stables dans la région. N’est-ce pas notre but d’atténuer les effets de cette crise et de travailler à ce que personne ne soit plus dans l’obligation d’émigrer ? A ce que la circulation devienne un choix au lieu d’une nécessité, dans un monde où les deux rives de la Méditerranée coopéreraient avec un souci d’égalité grâce à des conditions économiques et sociales plus équitables ? Dans ce cas, l’Union européenne doit veiller à mieux soutenir la stabilité de la société tunisienne et à envisager des coopérations effectives et pérennes, dans l’intérêt à la fois de la Tunisie et des Européens.
    Signé par les membres suivants du projet de recherche trinational de l’Office franco-allemand pour la jeunesse (OFAJ) « Transmed : penser la Méditerranée ensemble – Transmediterrane Jugendpolitik » : Nour Bchini (université de La Manouba) ; Baraa Ben Dhif (université Mahmoud-Al-Materi/Labo’Démocratique) ; Ichrak Ben Hammouda (université Paris-3 Sorbonne nouvelle & université de La Manouba) ; Anna Damon (université d’Aix-Marseille) ; Azyza Deiab (Universität des Saarlandes) ; Karima Dirèche-Slimani (université d’Aix-Marseille) ; Nicole Fischer (Universität des Saarlandes et université Paris-3 Sorbonne nouvelle) ; Farah Hached (université Mahmoud-Al Materi/Labo’Démocratique) ; Louna Hassaini (université d’Aix-Marseille) ; Franck Hofmann (Universität des Saarlandes) ; Fatma Pia Hotait (Universität des Saarlandes) ; Mélina Joyeux (université d’Aix-Marseille) ; Mario Laarmann (Universität des Saarlandes) ; Mariem Maarfi (université de La Manouba) ; Fabian Meinel (Centre franco-allemand de Provence) ; Ines Mejri (université Mahmoud-Al-Materi/Labo’Démocratique) ; Markus Messling (Universität des Saarlandes) ; Freddy Ndi (Universität des Saarlandes) ; Line Perrin (Universität des Saarlandes) ; Sihem Sidaoui (université de La Manouba) ; Julian Wendlinger (Universität des Saarlandes).

    #Covid-19#migrant#migration#tunisie#UE#politiquemigratoire#mediterranee#routemigratoire#partenariatstrategiqueglobal#droit#vulnerabilite#expulsion#postcovid

  • Contre les politiques européennes et tunisiennes anti-migrant·e·s et anti-noir·e·s

    Lettre ouverte de chercheur·se·s et membres de la société civile

    En tant que chercheur·euse·s et membres de la société civile, du Sud et du Nord, nous affirmons prendre collectivement position contre le « Mémorandum d’entente sur un partenariat stratégique et global entre l’Union Européenne (UE) et la Tunisie », signé le 16 juillet 2023, et contre les politiques d’externalisation des frontières de l’UE. Nous nous opposons également aux différentes interventions publiques du président Kaïs Saïed, du Ministère de l’Intérieur, du Ministère des Affaires Etrangères, et de plusieurs membres de l’Assemblée des Représentants du Peuple (ARP) ciblant les populations migrantes depuis février 2023.

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2023/08/17/contre-les-politiques-europeennes-et-tunisienn

    #international #tunisie

  • Bulgaria – Let somebody die is killing. Chronicle of a failure to render aid on the Bulgarian-Turkish border.

    The facts refer to the night of 19-20 July 2023. In order to protect the people involved, we are releasing this report after a few weeks. After this first intervention, as Collettivo Rotte Balcaniche we continue to deal with similar emergencies, acting in first person in the search and rescue of people stranded in the woods along the Bulgarian-Turkish border.

    1:00 am. The telephone of our collective rings. “We got a pregnant woman on Route 79”; it’s a person living in Harmanli camp that we met some weeks before, he is a friend of the woman’s husband. He is helped by a translator, who is also living in the camp. He fears to be accused of smuggling, so he asks us if we can call an ambulance. Route 79 is one of the most patrolled by the border police, as most of the people who cross the Turkish border need to pass by here to go to Sofia. With the help of the interpreter we call the woman: she is eight months pregnant and she is alone in the “jungle” with her two children. They were exhausted so they have been left near the street by the group they were walking with, waiting for rescue. She gives us her location: 42.12.31.6N 27.00.20.9E. We explain to her that the ambulance number is the same of police, so she risks to be illegally pushed-back to Turkey. She knows that and she tells us to call anyway.

    2:00 am. We call 112 for the first time. We record this call and all the following ones. No questions about the health conditions of the woman and the children, but the call lasts 11 minutes in order to explain how we got in contact with the woman, how she crossed the border, where she is from, who we are, what we are doing in Bulgaria. They suspect a case of trafficking and we are forced to give them the number of the person who put us in contact with her. We feel under interrogation. “In a couple of minutes our units are gonna be there to search for the woman”, it’s 02:06 am. We realize that we didn’t speak with a rescuer but with a policeman.

    03:21 am. One hour passed but nothing happened: we call 112 again. We ask if they called the woman and they answer: “we tried contacting but we can’t reach the phone number”. The woman tells us that she has never received any telephone call. We give them again her location: 42.12.37.6N 27.00.21.5E. We add that it is very near to the street but they answer: “not exactly, it’s more like inside of the woods”, “it’s exactly like near the border, and it’s inside of a wood region, it’s a forest, not a street”. In order to dispel any doubts, we ask: “do you confirm that the coordinates are near to route 79?”. They make us wait and they answer: “they are near a main road. Can’t exactly specify if it’s 79″. We say to them that the woman fainted. “Can she dial us? Can she call so we can get a bit more information?”. We don’t understand which other information they need, we are incredulous: “She’s not conscious so I don’t think she’ll be able to make the call”. They suggest that the translator should contact them. We suspect that they want us to be out of the issue. Other 18 minutes passed, the call has been a farce. Before we feared the consequences of the police arrival, now we are afraid that nobody will arrive. We decide to go there, we have to travel 1 hour and 40 minutes.

    04:42 am. Third call. They ask us again for all the information, and again we give the geographical coordinates. We tell them that we are going there and we insist: “Are there any news on the research?”. “I can’t tell this”. Through the interpreter we keep constantly in touch with the woman. She confirms that no searching unit has arrived. The farce is becoming a tragedy.

    06:18 am. Fourth call. We are at the location but the street is empty. We want to be irreproachable and let them know that we arrived. We repeat again that we are calling for a pregnant woman in bad conditions. The conversation is absurd, they start again with the questions: “which month?”, “which baby is this? First? Second?”, “how old does she look like?”, “how do you know she’s there? she called you or what?”. We tell them that we are about to start to look for her and they answer: “we are looking for her also”. We say: “Well, where are you because there is no one here, we are on the spot and there is no one”. They justify themselves: “you have new information because obviously she is not at the one coordinates you gave”, “the police went three times to the coordinates and they didn’t find the woman, the coordinates are wrong”. Once again we understand that they are lying.

    We will make another call at 06:43 am, when we have already found her. They will ask again for the coordinates and they will tell us to wait for them along the street.

    Our research lasts a few minutes. The woman sends us the location again: 42.12′.36.3N 2700.43.3E. She is 500 meters far from the previous coordinates but nearer to the street. We shout “hello” and we follow the voices we hear: we find her 2 meters far from the street, on a gentle slope, lying down under a tree with her two children by her side. They come from Syria, the children are 4 and 7 years old. She is too weak to stand up. We have only some water and bread for them. There is also a boy with them, probably he is underage. He found them and he stopped to help them. We warn him that the police will arrive soon. He doesn’t want to be pushed-back to Turkey, so he goes away, alone and without a backpack. We look around: in reality, the so-called “forest” is a little wooded area of some meters, which divides the street from the fields.

    Some minutes later a border police patrol passes by and stops. They approach us with the hand on the gun. They have not been warned about the situation: they assail us with thousands of questions without any interest for the woman and the children. They take our telephones and they delete the photos taken at the police arrival. We decide to call a local lawyer that we met some days before: she answers that it’s normal that the rescuers are late in the “jungle” and she suggests us to go away in order to let the police work. Meanwhile, the gendarmerie and the local police arrive. It’s missing the only essential and requested thing: the ambulance, which will never arrive.

    07:45 am. The police escort us to the nearest village (Sredets) and assure us that there is a hospital there. They try to divide the woman and the children in two different cars. We ask to bring them all together in our car. In Sredets we are brought to the border police station nevertheless. We see many border policemen dressed in camouflage, armed with machine guns, leaving in groups with military vehicles. We see two Dutch Frontex agents and also a Bulgarian policeman with a fascist T-shirt of Predappio gatherings. We are constrained at the end of a corridor, standing, with only one chair for the woman, surrounded by five policemen. The youngest one shouts at us that we will be detained “because you are making illegal migrants cross the border”. We ask for some water and a toilet for the woman and the children, at the beginning they deny them. We keep waiting, then they tell us that they can’t go to the hospital because they are undocumented and that they are arrested.

    09:00 am. Finally the doctor arrives. He speaks only Bulgarian, he visits the woman in the corridor without any privacy, asking her to uncover the belly in front of five policemen. We call once again the lawyer, we want to demand a doctor’s office and an interpreter for the woman. We are not listened.After 5 minutes the doctor finishes the visit, suggesting only to drink a lot of water.

    09:35 am. They give us back our id cards and they invite us to go away. It’s the last time that we see the woman and the two children. The police will confiscate her telephone. They are not given the possibility to apply for asylum and they are brought to the pre-removal detention centre in Lyubimets. Before leading us to the exit, a certain inspector Palov asks us to sign three papers, which justify the hours we spent in the police station as a conversation held with him after an official summons. We reject.

    On the way back, we drive again on the Route 79, it’s patrolled by a lot of police. We think about all the people who die every night without the possibility to ask for help. We think about the few people who ask for it in vain. On the land borders as on the sea ones, the failure to render aid is a strategy planned by authorities.

    The following day we meet the friend of the woman’s husband. He knows that he will not be able to do such things anymore because he will be accused of smuggling and he will lose all the possibilities to build a new life in Europe. Instead, we can and have to go on as independent activists: we have much less to lose. It’s clear to us the urgency to act first-hand and to disobey to who kills letting people die.

    After 20 days we manage to meet the woman with the children, who finally have been transferred to the Harmanli camp. They stayed in the pre-removal detention centre in Lyubimets for 19 days. The woman tells us that, during their stay, she had never been brought to the hospital for a visit, in order to check her pregnancy. She has been visited only by the doctor of the centre: a very superficial and hasty check-up, a treatment very similar to the one received in the Sredets police station. She also gives us her approval to share this report.

    https://www.meltingpot.org/en/2023/08/bulgaria-let-somebody-die-is-killing
    #Bulgarie #frontières #migrations #réfugiés #Turquie #Harmanli

  • Michela Murgia : « Il tempo migliore della mia vita »

    Ha scelto un anello nuziale con la rana, animale «ibrido», come la sua famiglia queer, un capolavoro di creatività degli affetti.

    Michela Murgia racconta la sua rivoluzione dell’amore, di un mondo dove ci sono coraggio e impegno, della morte (che non le fa paura). E si dichiara felice. Con un ultimo sogno coreano.

    https://www.youtube.com/watch?v=xklhwR90Djk


    #Michela_Murgia #amour #patriarcat #violence #père_violent #famille_queer #fuite #bible #foi #féminisme #pardon #famille #queer #famille_traditionnelle #couple #responsabilité #femmes #mariage #parentalité #seuil #maladie #tumeur #mort #douleur

    • La ricerca e la fede. Michela Murgia e quella sete di assoluto

      Era credente, e non ne aveva mai fatto mistero. Non le dispiaceva definirsi «teologa». La sua simpatia per papa Francesco non aveva niente di ideologico. Il ricordo di chi l’ha conosciuta da vicino

      L’ultima volta che ci siamo visti, Michela Murgia aveva appena donato a papa Francesco una copia della rivista di cui era stata direttrice per un solo numero. In copertina c’era lei, elegantissima e sorridente come sempre appariva da quando, nel maggio scorso, aveva deciso di rendere pubblica la fase terminale della sua malattia. “Aspetta, ho bisogno di appoggiarmi un attimo”, aveva detto mentre cercava uno sgabello. Era affaticata ma orgogliosa: di quel giornale che era diventato un manifesto delle sue convinzioni (“La famiglia è di tutti”, annunciava il titolo principale) e del fatto di averlo potuto consegnare nelle mani del Papa che proprio lei, conosciuta come iconoclasta, aveva difeso dalle accuse piovutegli addosso all’indomani dell’elezione (a proposito di titoli, quel “Bergoglio e pregiudizio” scelto per sintetizzare le sue posizioni resta memorabile).

      Michela Murgia era credente e non ne aveva mai fatto mistero. Fin dal suo libro di esordio, Il mondo deve sapere del 2006, non le dispiaceva definirsi teologa, una qualifica poi rivendicata in modo militante attraverso i suoi saggi, in particolare Ave Mary del 2011 e il controverso “catechismo femminista” God Save The Queer del 2022. Non erano mere provocazioni, anche se come tali si è cercato di farle passare. Tutto sommato, anche a Michela Murgia sarebbe convenuto metterla sul piano del paradosso intellettuale, dell’esagerazione argomentativa. Alla peggio, la si poteva buttare in politica, che in certi casi è il modo migliore per chiudere il discorso. Il punto è che la narratrice di Accabadora (il suo libro più celebre e compiuto, pervaso da un’incombenza del sacro per la quale è difficile trovare corrispettivi nella recente letteratura italiana) non si limitava a essere orgogliosa. Era anche una persona esigente, con gli altri e con sé stessa, con la propria scrittura e con le proprie convinzioni, sempre messe alla prova. Prendeva sul serio la fede e proprio per questo si aspettava molto dalla Chiesa.

      La sua simpatia nei confronti di Francesco non aveva niente di ideologico. Era la condivisione intima e istintiva di una dottrina della misericordia dalla quale nessuno, per nessun motivo, può sentirsi escluso. Su questi, che erano i temi che più le stavano a cuore, sapeva essere polemica come sono a volte gli adolescenti, che alzano la voce e sbattono le porte solo per essere sicuri di essere amati nonostante tutto, senza condizioni. A volte esagerano, d’accordo, ma hanno dalla loro la certezza che un amore che ponga condizioni semplicemente non è amore.

      Di tutto il resto si può discutere, ma a questo desiderio di assolutezza non si può né si deve aggiungere nulla. “Ho bisogno di appoggiarmi un attimo”, diceva Michela Murgia l’ultima volta che ci siamo visti. Ne abbiamo bisogno tutti, sempre, solo che spesso non abbiamo il coraggio di ammetterlo. Lei, invece, non ha voluto nascondere la sua fragilità finale. “Voglio andare avanti così, fino alla fine”, ripeteva. “Riesco a scrivere solo quando mi sento minacciata, quando il cuore mi impazzisce per la paura”, aveva confidato in un’altra occasione. Non so se fosse intenzionale, ma stava citando san Paolo, Seconda lettera ai Corinzi, “quando sono debole, è allora che sono forte”. È una bella definizione della fede. Senz’altro, è la definizione migliore per la fede di Michela Murgia, che sorrideva al Papa e si aspettava tanto – tutto – dalla Chiesa.

      https://www.avvenire.it/agora/pagine/le-sue-idee-1-michela-murgia-e-quella-sete-di-assoluto
      #foi #religion

  • Soutien à Walid Bourouis, journaliste tunisien contraint de fuir son pays, où il est menacé

    Le SNJ, le SNJ-CGT et la CFDT-Journalistes apportent tout leur soutien à Walid Bourouis, journaliste tunisien contraint de fuir son pays où il n’était plus en sécurité dans l’exercice de son métier. Nos organisations syndicales réclament que sa demande d’asile en France soit étudiée rapidement et avec bienveillance, au regard des menaces dont il a été victime en Tunisie, pour avoir simplement fait son travail de journaliste.

    Figure du syndicalisme au SNJT (Syndicat National des Journalistes Tunisiens), Walid Bourouis a dû quitter la Tunisie en toute urgence, après avoir subi, comme il le précise, « de nombreuses menaces, représailles juridiques et intimidations ». Nommé en 2011 rédacteur en chef de Cactus Prod, une structure de production confisquée par l’Etat après la révolution, Walid Bourouis a révélé une affaire de corruption au sein même de cette société, qui aurait détourné plus de 4 millions d’euros. L’affaire Cactus Prod a suscité une attention médiatique sans précédent en Tunisie.

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2023/08/11/soutien-a-walid-bourouis-journaliste-tunisien-

    #international #tunisie

  • La Tunisie et la Libye trouvent un accord pour accueillir les migrants bloqués à la frontière
    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2023/08/10/la-tunisie-et-la-libye-trouvent-un-accord-pour-accueillir-les-migrants-bloqu

    La Tunisie et la Libye trouvent un accord pour accueillir les migrants bloqués à la frontière
    Le Monde avec AFP
    La Tunisie et la Libye ont annoncé jeudi 10 août s’être entendus pour se répartir l’accueil des migrants africains subsahariens bloqués, pour certains depuis un mois, près du poste frontière de Ras Jedir, après y avoir été conduits par la police tunisienne, selon de multiples témoignages. Lors d’une rencontre entre les ministres de l’intérieur des deux pays à Tunis mercredi, « on s’est mis d’accord pour se partager les groupes de migrants présents sur la frontière », a confirmé à l’Agence france-Presse (AFP) un porte-parole du ministère tunisien. Environ trois cents migrants originaires d’Afrique subsaharienne étaient encore bloqués ces derniers jours dans des conditions très précaires sur une langue de terre au bord de la mer, dans la zone tampon de Ras Jedir, ont affirmé à l’AFP des sources humanitaires. « La Tunisie va prendre en charge un groupe de 76 hommes, 42 femmes et 8 enfants », a précisé le porte-parole tunisien, Faker Bouzghaya. C’est le ministère de l’intérieur libyen qui a le premier annoncé dans la nuit la conclusion d’un accord bilatéral « pour une solution consensuelle, afin de mettre fin à la crise des migrants irréguliers, bloqués dans la zone frontalière ». Côté tunisien, le communiqué officiel s’est borné à annoncer que le ministre tunisien Kamel Feki avait reçu son homologue libyen, Imed Trabelsi, soulignant le besoin d’une « coordination des efforts pour trouver des solutions qui tiennent compte des intérêts des deux pays ».
    L’accord prévoit que les Libyens prendront en charge le reste des migrants bloqués, de 150 à 200 personnes. « Le transfert du groupe a eu lieu hier [mercredi] dans des centres d’accueil à Tataouine et Médenine avec la participation du Croissant-Rouge » tunisien (CRT), a ajouté M. Bouzghaya.
    Dans un nouveau communiqué jeudi, le ministère libyen a annoncé qu’« il n’y avait plus aucun migrant irrégulier dans la zone frontalière » après l’accord bilatéral. « Des patrouilles sont organisées en coordination » entre les deux pays pour « sécuriser la frontière ». Jusqu’à 350 personnes ont été bloquées à Ras Jedir, parmi lesquelles 12 femmes enceintes et 65 enfants et mineurs, d’après des sources humanitaires et selon lesquelles l’essentiel des aides (nourriture, eau, soins médicaux) leur était apporté depuis le 20 juillet par le Croissant-Rouge libyen avec le soutien des agences onusiennes. Après la mort le 3 juillet d’un Tunisien lors d’une rixe avec des migrants à Sfax, épicentre de l’émigration clandestine en Tunisie, « au moins 2 000 ressortissants subsahariens » ont été « expulsés » par les forces de sécurité tunisiennes et déposés dans des zones inhospitalières aux frontières libyenne, tunisienne et algérienne, avaient rapporté plusieurs sources humanitaires à l’AFP. Le 12 juillet, le CRT a mis à l’abri, environ 630 personnes récupérées à Ras Jedir, selon des ONG. Il en a aussi pris en charge environ 200 autres, refoulées initialement vers l’Algérie. Mais les semaines suivantes, divers médias dont l’AFP ont documenté avec des témoignages de migrants, des gardes-frontières libyens et d’ONG, que plus de 350 migrants se trouvaient toujours à Ras Jedir. Des centaines d’autres migrants affluent en outre en Libye, en provenance de Tunisie, à la hauteur de Al’Assah, à 40 kilomètres au sud de Ras Jedir, errant sans nourriture ni eau jusqu’à ce que des gardes libyens viennent à leur secours, a constaté une équipe de l’AFP début août. L’ONU a dénoncé, le 1er août depuis son siège de New York, « l’expulsion de migrants de Tunisie vers la Libye », appelant à ce que « les expulsions cessent immédiatement ». Les autorités tunisiennes ont réfuté deux jours plus tard « les allégations sur des expulsions », évoquant des « imprécisions voire des contrevérités ». Depuis début juillet, « au moins 27 migrants » sont morts dans ce désert et « 73 sont portés disparus », a affirmé cette source. La Libye, qui compte sur son sol plus de 600 000 migrants, a elle été épinglée par plusieurs rapports de l’ONU sur de graves violences à leur encontre.

    #Covid-19#migration#migrant#tunisie#libye##ONU#violence#refoulement#frontiere#afriquesusaharienne#politiquemigratoire#migrationirreguliere#postcovid#crise

  • Travailleuses oubliées : les femmes dans l’économie informelle en Tunisie

    Souad Mahmoud écrit sur la vulnérabilité sociale et les difficultés rencontrées par les travailleuses Tunisiennes dans l’économie informelle

    Le terme « économie informelle » concerne des individus « qui travaillent en dehors du cadre légal formel, sans enregistrement officiel et sans réglementation conforme aux lois sur le travail et la protection sociale ». C’est la définition de l’Organisation internationale du Travail.

    Le concept d’économie informelle continue de présenter des défis pour les milieux économiques et de la recherche en général. La difficulté conceptuelle vient de la complexité sociale du phénomène et des variations de ses manifestations entre les pays, en particulier entre les centres mondiaux riches et les régions périphériques appauvries. De plus, le travail dans l’économie informelle est associé au phénomène de « l’emploi précaire », influencé par divers facteurs, notamment les conditions de travail, les faibles revenus et l’absence de réglementation légale.

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2023/08/09/travailleuses-oubliees-les-femmes-dans-leconom

    #international #tunisie #féminisme

  • Pénurie de pain en Tunisie : la crise s’amplifie au fil des mois Eric Destine et Lauren Cornet - RTBF

    En Tunisie, il existe des boulangeries dites « traditionnelles », qui vendent uniquement du pain à prix très réduit, fabriqué à base de farine subventionnée, et puis les autres boulangeries, dites « non classées » qui vendent en plus d’autres produits, comme des pâtisseries. Mais depuis la guerre Ukraine, comme la matière première manque, le gouvernement tunisien a décidé de priver ces boulangeries « non classées » de farine subventionnée. Des établissements menacés de disparition puisque les coûts, intenables, les poussent à licencier ou à fermer boutique.

    Devant les boulangeries encore ouvertes, de longues files se créent dès l’aube avec l’espoir pour les Tunisiens de trouver une baguette à prix réduit. Un véritable défi. "Notre demande comme pour toutes les boulangeries, c’est de pouvoir s’approvisionner en farine", s’exprime Zayneb Becha, une boulangère.

    Comme elle, des centaines de boulangers sont en grève depuis plusieurs jours et sont venus le crier devant le ministère tunisien du commerce. Abdelbeki Abdellawi, propriétaire d’une boulangerie « non classée », est également présent et dénonce le manque de revenu créé par la situation. « 1500 boulangeries sont fermées et leurs propriétaires risquent la prison car ils ne sont plus capables de payer leurs loyers et leurs crédits. 1500 boulangeries qui emploient 6 à 7 ouvriers chacune ! Ils sont tous sans emploi ni abri », ajoute-t-il.

    Le gouvernement indique avoir supprimé cette aide car certains boulangers auraient détourné la farine subventionnée au détriment de la fabrication de pain à petit prix. Avec l’envolée des coûts des matières premières, la Tunisie, en tout cas, manque de pain depuis des mois.

    #Pain #alimentation #Tunisie #Révolte à venir #blocus de la Russie

    Source : https://www.rtbf.be/article/penurie-de-pain-en-tunisie-la-crise-samplifie-au-fil-des-mois-11238226

  • Au Niger, l’incertitude politique pèse sur la politique migratoire de l’Europe
    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2023/08/08/au-niger-l-incertitude-politique-pese-sur-la-politique-migratoire-de-l-europ

    Au Niger, l’incertitude politique pèse sur la politique migratoire de l’Europe
    Depuis 2016, les autorités de Niamey ont aidé l’Union européenne à endiguer les flux d’arrivées de migrants subsahariens en Afrique du Nord.
    Par Frédéric Bobin
    Des migrants sur la route connectant Assamakka et Arlit, au sud de la frontière entre l’Algérie et le Niger, le 12 novembre 2022. Chaque année, l’Algérie expulse des milliers d’Africains subsahariens vers le Niger, les abandonnant à un endroit appelé Point-Zéro sur la frontière au milieu du Sahara. Le village nigérien d’Assamaka, à quelques heures de marche au sud, a été submergé par ces vagues de refoulements successifs.
    Une crise peut en cacher une autre. Derrière l’effervescence diplomatique et militaire autour du coup d’Etat à Niamey se profile un lourd enjeu pour les Européens : la question de la migration subsaharienne. Le Niger occupe en effet une place stratégique sur les routes migratoires du continent en sa qualité couloir de transit privilégié vers la Libye, plate-forme de projection – aux côtés de la Tunisie – sur l’Italie. A Rome, l’inquiétude est déjà palpable.
    Depuis le putsch ayant renversé le 26 juillet le président Mohamed Bazoum, les dirigeants italiens multiplient les mises en garde contre la tentation d’une intervention militaire à Niamey qui risque à leurs yeux d’approfondir le chaos sahélien. Evoquant le rebond de la courbe d’arrivées de migrants sur la Péninsule par la Méditerranée (87 000 sur les sept premiers mois 2023, soit plus qu’un doublement par rapport à la même période de 2022), le ministre italien des affaires étrangères Antonio Tajani a averti lundi 7 août dans le quotidien La Stampa : « Le problème de la nouvelle vague d’immigrants est déjà une réalité. Chaque jour qui passe, si aucun accord n’est trouvé, la situation risque de s’aggraver. Si une guerre éclate au Niger, ce sera une catastrophe. »
    Le Niger a pleinement pris sa place dans la stratégie de l’Union européenne (UE) de contrôle des flux au lendemain du sommet de La Valette (Malte) en novembre 2015, dominé par la crise migratoire à laquelle le Vieux Continent faisait alors face sur une échelle inédite. Sous pression de Bruxelles, les autorités de Niamey ont globalement joué le jeu, mettant en œuvre toute une série de mesures visant à freiner l’accès à sa frontière septentrionale avec la Libye. A partir de 2017, elles ciblent la ville d’Agadez, « capitale » du pays touareg, qui officiait jusque-là comme le grand carrefour des migrants se préparant à la traversée du Sahara.
    A cette fin, le grand architecte de ce plan d’endiguement, le ministre de l’intérieur de l’époque – un certain… Mohamed Bazoum – décide d’appliquer avec la plus grande sévérité une loi de 2015 réprimant le trafic illicite de migrants, jusqu’alors mollement respectée. Les ressortissants du Sénégal, de Côte d’Ivoire, du Mali ou du Nigeria font subitement l’objet de multiples tracasseries administratives – le plus souvent en contradiction avec les règles de libre-circulation prévues au sein de la Communauté économique des Etats de l’Afrique de l’Ouest (Cedeao) – dans leurs tentatives de rallier Agadez par bus en provenance de Niamey.
    Surtout, le gouvernement s’attaque aux réseaux de passeurs, au risque de raréfier les ressources du nord du pays. L’oasis d’Agadez, par où avaient transité en 2016 près de 333 000 migrants vers l’Algérie et la Libye, avait longtemps prospéré sur une vibrante économie migratoire. Ultime porte d’accès au désert, là où on harnache les convois de 4x4 et de camions pour l’odyssée saharienne, la ville fourmillait de prestataires de « services migratoires » – criminalisés du jour au lendemain – guidant, logeant, nourrissant, équipant et transportant les migrants. Dans les années 2010, la floraison de ces activités était venue opportunément compenser l’effondrement du tourisme, victime des rébellions touareg (1990-1997 et 2007-2009), ainsi que les aléas de l’exploitation minière régionale (uranium, or). A partir de 2017, Agadez n’était plus que l’ombre d’elle-même. Certains notables locaux se plaignaient ouvertement que l’Europe avait réussi à « imposer sa frontière méridionale à Agadez ».
    Cette soudaine répression des réseaux de passeurs a avivé les crispations locales et fragilisé le délicat équilibre politico-ethnique qui avait permis à Niamey d’apaiser les revendications irrédentistes touareg. Conscient du danger, le gouvernement a confié à Abou Tarka, le président de la Haute Autorité à la consolidation de la paix (HACP), institution qui avait joué un rôle-clé dans la stabilisation du nord touareg, le soin de superviser la reconversion professionnelle des anciens passeurs – désormais pudiquement appelés « acteurs de la migration » – à partir de financements de l’UE. Mission semée d’embûches et génératrice de frustrations, les nouveaux emplois n’étant pas aisés à trouver.
    D’où la résilience des réseaux de passeurs, toujours actifs bien que plus discrets. « Les flux de migrants ont diminué mais les réseaux contournent désormais Agadez », témoigne Amadou Moussa Zaki, magistrat et ancien procureur à Agadez. Les nouveaux itinéraires évitent également les grands axes trop contrôlés menant aux postes-frontières de Toummo (en Libye) et d’Assamakka (frontière avec l’Algérie), situés respectivement à 1 150 km et 418 km d’Agadez, pour emprunter des routes sahariennes secondaires impossibles à surveiller. Ce redéploiement des circuits explique que les chiffres de migrants parvenant à gagner l’Algérie et la Libye à partir du Niger sont repartis à la hausse : 8 800 en février 2003, selon l’Organisation internationale pour les migrations (OIM), comparé à une moyenne mensuelle de 5 400 en 2017. On reste certes loin du pic de 27 000 traversées par mois en 2016 mais le rebond est là, témoignant de la fragilité des acquis de la pression de l’UE.
    La reconfiguration des routes comporte en outre un coût humain élevé, le moindre accident à l’écart des grands axes étant susceptible de virer en tragédie. Selon l’OIM, 5 600 personnes transitant par le désert du Sahara depuis 2014 sont mortes ou disparues. L’insécurité à laquelle sont désormais soumis les migrants a récemment pris une autre dimension avec une politique d’expulsion sans état d’âme menée par les autorités d’Alger. Ces dernières ont refoulé 20 000 migrants subsahariens vers le Niger depuis le début de l’année, selon l’organisation Alarm Phone Sahara. Les turbulences actuelles à Niamey remettront-elles en cause cette nouvelle équation migratoire autour du nord du Niger ? Toute réponse est à ce stade prématurée

    #Covid19#migrant#migration#niger#UE#routemigratoire#politiquemigratoire#OIM#tunisie#algerie#afriquesubsaharienne#Alarmphonesahara#cedeao#assamakka#arlit#crise