• I grandi marchi della fast fashion non vogliono rinunciare al petrolio russo

    Nel 2023 le due principali società produttrici di poliestere, l’indiana #Reliance industries e la cinese #Hengli group, hanno continuato a utilizzare il greggio di Mosca. La maggior parte dei brand -da #Shein a #H&M, passando per #Benetton- chiude un occhio o promette impegni generici. Il dettagliato report di #Changing_markets.

    Quest’anno i principali produttori globali di poliestere, la fibra tessile di origine sintetica derivata dal petrolio, non solo non hanno interrotto i propri legami con la Russia ma al contrario hanno incrementato gli acquisti della materia prima fondamentale per il loro business. È quanto emerge da “#Crude_Couture”, l’inchiesta realizzata da Changing markets foundation pubblicata il 21 dicembre, a un anno di distanza dalla precedente “Dressed to kill” che aveva svelato i legami segreti tra i principali marchi della moda e il petrolio di Mosca.

    “Quest’indagine -si legge nell’introduzione- evidenzia il ruolo fondamentale svolto dall’industria della moda nel perpetuare la dipendenza dai combustibili fossili e segnala una preoccupante mancanza di azione per rompere i legami con il petrolio russo”. Un’inazione, sottolineano i ricercatori, che sta indirettamente finanziando la guerra in Ucraina. E non si tratta di un contributo di poco conto: le fibre sintetiche, infatti, pesano per il 69% sulla produzione di fibre e il poliestere è di gran lunga il più utilizzato, lo si può trovare infatti nel 55% dei prodotti tessili attualmente in circolazione. Se non ci sarà una netta inversione di tendenza, si stima che entro il 2030 quasi tre quarti di tutti i prodotti tessili verranno realizzati a partire da combustibili fossili.

    Il poliestere è fondamentale per l’esistenza dell’industria del fast fashion, e ancora di più per i marchi di moda ultraveloce come Shein: un’inchiesta pubblicata da Bloomberg ha mostrato che il 95% dei capi prodotti dal marchio di moda cinese conteneva materiali sintetici mentre per brand come #Pretty_Little_Thing, #Misguided e #Boohoo la percentuale era dell’83-89%.

    Al centro delle due inchieste realizzate da Changing markets ci sono due importanti produttori di questo materiale: l’indiana #Reliance_industries (con una capacità produttiva stimata in 2,5 milioni di tonnellate all’anno) e la cinese #Hengli_group. I filati e i tessuti che escono dai loro stabilimenti vengono venduti ai produttori di abbigliamento di tutto il mondo che, a loro volta, li utilizzano per confezionare magliette, pantaloni, cappotti, scarpe e altri accessori per importanti brand. Su 50 marchi presi in esame in “Dressed to kill” 39 erano direttamente o indirettamente collegati alle catene di fornitura di Hengli group or Reliance industries, tra questi figurano #H&M, #Inditex (multinazionale spagnola proprietaria, tra gli altri, di #Bershka e #Zara), #Adidas, #Uniqlo e #Benetton.

    Anche dopo la pubblicazione di “Dressed to kill”, Reliance e Hengli hanno continuato ad acquistare petrolio russo. A marzo 2023 l’India ha acquistato da Mosca la quantità record di 51,5 milioni di barili di greggio: “Insieme a Nayara Energya, la principale compagnia petrolifera indiana, Reliance industries ha rappresentato più della metà (52%) delle importazioni totali”, si legge nell’inchiesta. In crescita anche le importazioni cinesi (+11,7% rispetto all’anno precedente). “Nel maggio 2023, #Hengli_Petrochemical ha ricevuto 6,44 milioni di barili di greggio russo, come riportato dai dati di tracciamento delle navi dell’agenzia Reuters -scrivono gli autori del report-. Queste tendenze rivelano il persistente legame tra le aziende di moda che si riforniscono da questi produttori di poliestere e il petrolio russo”. Oltre alla violazione delle sanzioni imposte a Mosca da diversi governi, compresi quello degli Stati Uniti e dell’Unione europea.

    I ricercatori di Changing markets hanno quindi deciso di tracciare un bilancio e hanno inviato un questionario a 43 brand (compresi i 39 già presi in esame in “Dressed to kill”) per verificare se avessero interrotto i rapporti con Reliance ed Hengli. Appena 18 hanno risposto alle domande e solo due aziende (Esprit e G Star Raw) hanno dichiarato di aver tagliato i ponti con i due produttori. Una terza (Hugo Boss) si è impegnata a eliminare gradualmente il poliestere e il nylon: “Le altre rimangono in silenzio o minimizzano l’urgenza della crisi ucraina con vaghe promesse di cambiamento a diversi anni di distanza o con false soluzioni, come il passaggio al poliestere riciclato, per lo più da bottiglie di plastica”, si legge nel report.

    Tre società (H&M, C&A e Inditex) hanno risposto al questionario “distogliendo l’attenzione” dal legame con il petrolio russo per enfatizzare future strategie di transizione dal poliestere vergine a quello riciclato (da bottiglie di plastica) o verso materiali di nuova generazione. H&M ad esempio ha dichiarato la propria intenzione di non approvvigionarsi più di poliestere vergine entro il 2025 “tuttavia non ha chiarito le sue attuali pratiche per quanto riguarda i fornitori di poliestere legati al petrolio russo”. Analogamente, la catena olandese C&A afferma di volersi concentrare su materiali riciclati e di nuova generazione senza fornire informazioni sui legami con i fornitori oggetto dell’inchiesta. Nemmeno la spagnola Inditex ha risposto alle domande in merito a Reliance ed Hengli. Anche l’italiana Benetton avrebbe fornito risposte insufficienti o generiche: “Si è impegnata vagamente a una transizione verso materiali ‘preferiti’ -scrivono gli autori dell’inchiesta-, senza specificare però l’approccio ai materiali sintetici”.

    Tra quanti non hanno risposto al questionario c’è proprio Shein ma i suoi legami con il produttore indiano di poliestere sono evidenti: a maggio 2023 infatti le due società hanno sottoscritto un accordo in base al quale il colosso può utilizzare le capacità di approvvigionamento, l’infrastruttura logistica e l’ampia rete di negozi fisici e online di Reliance Retail, segnando così il ritorno di Shein in India dopo una pausa di tre anni. “Poiché il poliestere rappresenta il 64% del mix di materiali del brand e il 95,2% dell’abbigliamento di contiene plastica vergine, l’imminente collaborazione con Reliance suggerisce che una parte significativa delle circa 10mila novità giornaliere di Shein potrebbe in futuro essere derivata da prodotti di plastica vergine prodotti grazie a petrolio russo”, conclude il report.

    https://altreconomia.it/i-grandi-marchi-della-fast-fashion-non-vogliono-rinunciare-al-petrolio-

    #Russie #pétrole #fast-fashion #mode #polyester #rapport #textile #industrie_textile #industrie_de_la_mode

    • Fossil Fashion

      Today’s fashion industry has become synonymous with overconsumption, a snowballing waste crisis, widespread pollution and the exploitation of workers in global supply chains. What is less well known is that the insatiable fast fashion business model is enabled by cheap synthetic fibres, which are produced from fossil fuels, mostly oil and gas. Polyester, the darling of the fast fashion industry, is found in over half of all textiles and production is projected to skyrocket in the future. Our campaign exposes the clear correlation between the growth of synthetic fibres and the fast fashion industry – one cannot exist without the other. The campaign calls for prompt, radical legislative action to slow-down the fashion industry and decouple it from fossil fuels.

      Crude Couture: Fashion brands’ continued links to Russian oil

      December 2023

      Last year, our groundbreaking ‘Dressed to Kill’ investigation delved deep into polyester supply chains, unveiling hidden ties between major global fashion brands and Russian oil. We exposed Russia’s pivotal role as a primary oil supplier for key polyester producers India’s Reliance Industries and China’s Hengli Group, which were found to be supplying fibre for the apparel production of numerous fashion brands.

      Now, a year later, we returned to the fashion companies to evaluate if they have severed ties with these suppliers. Shockingly, our latest report reveals an alarming trend: the two leading polyester producers are increasingly reliant on war-tainted Russian oil in 2023. Despite prior warnings about these ties, major fashion brands continue to turn a blind eye, profiting from cheap synthetics, while Ukraine suffers. Only two companies – Esprit and G Star Raw – said they cut ties with the two polyester producers, while Hugo Boss committed to phase out polyester and nylon. The others remain silent or downplay the urgency of the Ukrainian crisis with vague promises of change several years ahead or with false solutions, such as switching to recycled polyester – mostly from plastic bottles. This investigation sheds light on the fashion industry’s persistent dependance on fossil fuel and their lack of action when it comes to climate change and fossil fuel phase out.

      https://changingmarkets.org/portfolio/fossil-fashion

  • Fin de grève amère dans les usines textiles du Bangladesh
    https://www.lemonde.fr/economie/article/2023/11/17/fin-de-greve-amere-dans-les-usines-textiles-du-bangladesh_6200798_3234.html


    Des #ouvriers textiles bangladais retournent travailler dans leur usine à Ashulia, au nord de Dhaka (?), le 15 novembre 2023. MUNIR UZ ZAMAN / AFP

    Le mouvement de revendication pour de meilleurs salaires, qui a mis l’industrie textile à l’arrêt pendant trois semaines, n’a pas eu gain de cause. Presque aucun donneur d’ordre occidental n’a incité ses fournisseurs à payer décemment les ouvriers.

    Les ouvriers des usines textiles du Bangladesh n’ont pas eu gain de cause. Après trois semaines de #grève, de manifestations et de heurts avec la police, ceux qui fabriquent les vêtements #Levi’s, #Zara et autres H&M ont repris le travail, mercredi 15 novembre, sans obtenir le quasi-triplement de leurs salaires demandé.
    Le comité du #salaire minimum du secteur textile a décidé d’augmenter la rémunération de base de 56 %, la portant à 12 500 takas, soit 104 euros, mardi 8 novembre. Un montant que les syndicats jugent « ridicule » au regard des 23 000 takas, soit environ 190 euros, revendiqués.
    Sheikh Hasina, la première ministre du pays qui briguera un cinquième mandat lors des élections générales, le 7 janvier 2024, a refusé toute nouvelle hausse du salaire minimum et intimé les ouvriers de reprendre le travail sous peine de perdre leur emploi et d’avoir « à retourner dans leurs villages ».

    Troisième plus gros fournisseur mondial

    De fait, « c’est par obligation financière et sous la pression du gouvernement et la menace des autorités policières, y compris physiques, que les ouvriers grévistes ont repris le travail », observe Christie Miedema, coordinatrice de Clean Clothes Campaign, une fédération d’organisations non gouvernementales qui militent pour le respect des droits humains.
    « La situation ressemble à celle d’il y a cinq ans », déplore Mme Miedema. En 2018, le salaire minimum dans ce secteur, qui emploie quatre millions de personnes, avait été révisé à 8 000 takas, soit 65 euros, pour cinq ans. Depuis, le secteur a traversé la crise du Covid-19 et essuyé l’inflation galopante, de l’ordre de 35 % depuis 2019.

    A l’été 2023, pour la première fois, le gouvernement a monté un comité pour déterminer un #salaire_minimum applicable dans le secteur du #prêt-à-porter au 1er décembre, sans attendre l’échéance de 2024. Toutefois, aucun des syndicats représentatifs du personnel de cette puissante industrie n’y siège. A l’évidence, le patronat local rechigne à augmenter les salaires de peur de dégrader la compétitivité d’un secteur qui représente 85 % des 55 milliards d’euros d’exportations annuelles du pays. Grâce à un réseau de 3 500 usines, le secteur est connu pour être l’un des moins chers au monde : le pays est le troisième fournisseur de vêtements, derrière la Chine et le Vietnam.

    Quatre morts à Dacca

    Dix ans après l’effondrement de l’immeuble du Rana Plaza à Dacca, tuant plus de 1 100 ouvriers textiles, les conditions de travail n’ont guère évolué. En outre, le #Bangladesh est toujours dans la ligne de mire des ONG qui y dénoncent les atteintes au droit syndical. En juin dernier, Luc Triangle, secrétaire général de la Confédération syndicale internationale, a condamné le meurtre de Shahidul Islam Shahid, responsable syndical de la Fédération des travailleurs de l’industrie et des usines textiles du Bangladesh, « battu à mort » par un gang après avoir assisté à une réunion syndicale. « Cet assassinat s’inscrit dans un contexte d’attaques ciblées contre les leaders syndicaux au Bangladesh et aura un effet dissuasif sur le mouvement ouvrier déjà très restreint », avait alors réagi l’ONG américaine Human Rights Watch.

    Les manifestations de l’automne ont aussi été très violentes pour les grévistes, notamment à Dacca. Au moins quatre ouvriers ont été tués lors des manifestations, dont trois ont été abattus par les forces de l’ordre, d’après l’AFP. Quelque 140 ouvriers et plusieurs dirigeants syndicaux ont été arrêtés, et environ 10 000 travailleurs font l’objet de poursuites pour violences, selon la police, précise aussi l’agence d’informations.

    Mercredi 15 novembre, le principal dirigeant syndical, Babul Akhter, a demandé au gouvernement de « libérer tous les ouvriers arrêtés », avant d’appeler à reprendre le travail, tout en maintenant ses revendications. « Nous n’avons pas dévié de notre revendication d’un salaire minimum de 23 000 takas », a-t-il déclaré à l’AFP. « La colère des ouvriers a été alimentée par la hausse du coût de la vie, avec des denrées de base qui sont devenues inabordables, affirme Taslima Akhter, membre du mouvement d’ouvriers Bangladesh Garment Workers Solidarity, mais la violence s’exprime d’autant plus facilement que les syndicats ne sont autorisés que sur le papier et sont contrôlés par les propriétaires d’usines. »

    Les marques occidentales « responsables »

    De son côté, le patronat bangladais pointe le rôle ambivalent des #donneurs_d’ordre. L’Association des fabricants et des exportateurs de vêtements du Bangladesh a notamment estimé que le niveau de salaire pratiqué dans leurs usines découlait des prix imposés par leurs clients, dont surtout des #marques occidentales. « Elles sont autant responsables de la hausse des salaires que les fabricants bangladais », déclare au Monde Miran Ali, son vice-président. Selon lui, il n’est pas acceptable que ces donneurs d’ordre « prennent publiquement position en faveur d’une hausse des salaires et, en privé, refusent d’absorber cette hausse de coûts » en relevant leurs prix d’achat.
    De fait, rares sont les marques à avoir répondu aux appels de soutien des revendications salariales. L’association Clean Clothes Campaign avait notamment interpellé une douzaine d’entre elles, dont #H&M et #C&A, qui fabriquent leurs collections à moindre prix au Bangladesh. Mais seule Patagonia a répondu, observe Mme Miedema. La marque de sport américaine a rejoint l’association Fair Labor pour appeler Dacca à porter le salaire minimum à 23 000 takas. « Les autres fabricants sont moins explicites, voire totalement muets », pointe Mme Miedema. En septembre, Human Rights Watch constatait que la question de la liberté d’expression était « à peine abordée » dans la plupart des rapports d’audit sociaux commandés par les grandes marques d’habillement.
    En France, #Carrefour se contente de rappeler avoir « pris position le 13 septembre en faveur d’une revalorisation du salaire minimum des travailleurs des usines textiles ». En Espagne, #Inditex est aussi fort prudent. Le numéro un mondial de l’habillement refuse de commenter les événements récents et renvoie à ses déclarations de septembre. Il exprimait alors toute sa confiance envers le comité du salaire minimum du secteur textile afin « d’établir un salaire minimum au Bangladesh qui couvre le coût de la vie des ouvriers et de leurs familles ».

    Il n’en a rien été, estiment nombre d’ONG, dont la Fair Wear Foundation. L’association, qui travaille avec des marques, des usines et des syndicats pour améliorer les conditions de travail des employés dans l’industrie textile, fait partie des 2 500 signataires d’une lettre envoyée le 16 novembre à la première ministre pour exprimer « leur inquiétude » et l’inviter « à revoir sa décision » puisque, prévient-elle, le nouveau salaire minimum « ne couvre pas les besoins fondamentaux » des ouvriers textiles du Bangladesh.

    #textile #mode

  • Un exemple à généraliser :

    Les vendeuses d’#Inditex (#Zara) […] viennent d’obtenir une #augmentation_de_salaire de 20 % en moyenne (jusqu’à 40 % parfois), à l’issue de plusieurs semaines d’un mouvement de #grèves et de mobilisation inédit dans un groupe plutôt connu pour sa tranquillité sociale. […]

    C’est une victoire de celles qu’au sein du #groupe_Inditex, on appelle souvent, avec une sorte de #paternalisme affectueux, « #Las_niñas », les gamines. Une terme qui désigne les vendeuses comme d’éternelles mineures, la dernière roue du carrosse Inditex, le groupe espagnol qui avait été lancé dans les années 1960 par #Amancio_Ortega - un autodidacte visionnaire devenu aujourd’hui l’un des hommes les plus riches du monde.

    Le mouvement de protestation qui avait démarré en #Galice, la région d’origine d’Inditex, à la pointe ouest de l’#Espagne, a donc remporté la manche. Il avait été fortement poussé par le syndicat local #CIG, qui pointait à la fois les salaires et la précarité des contrats parmi le personnel de magasin, très largement féminin et moins bien considéré au sein du groupe que les collègues de secteurs plus masculinisés.

    (Les Échos)

    #prêt-à-porter #lutte_de_classe

    • Zara : une mobilisation victorieuse http://www.lutte-ouvriere.org/breves/zara-une-mobilisation-victorieuse-499803.html

      En Espagne, la direction d’Inditex a accordé des augmentations de salaire de l’ordre de 20 % en moyenne selon les régions. Inditex est le géant du prêt-à-porter qui possède Zara, entre autres marques. Le groupe emploie plus de 165 000 travailleurs dans le monde dont 46 000 en Espagne.

      Les travailleuses, en majorité des vendeuses, se mobilisaient depuis des mois, multipliant les journées de grèves et les manifestations devant les magasins. Leurs salaires sont particulièrement bas. Beaucoup de vendeuses gagnent moins de 1 400 € par mois et la hausse des prix, officiellement à plus 8 % sur l’année, a fait dégringoler leur niveau de vie. Cette lutte des travailleuses de Zara est un exemple à suivre !

  • Pemex: el negocio de los 3 billones de dólares
    https://contralinea.com.mx/pemex-el-negocio-de-los-3-billones-de-dolares
    “La distribución del gas ya está virtualmente controlada por unas cuantas empresas voraces que esquilman a los consumidores con la complacencia oficial. Quince de ellas acaparan alrededor del 85 por ciento del mercado nacional: #Grupo Tomza, #Gas Uribe, #Vela Gas, #Nieto y #Zaragoza. Dichas empresas gaseras tienen un nombre comercial matriz en todo el país, pero cada una de ellas llega a tener de 25 a 30 filiales con similares o distintos nombres o forma nuevas compañías con el uso de prestanombres. Lo mismo ocurre con la distribución de gasolinas”

  • Travail forcé des #Ouïgours : une enquête ouverte en France contre des géants du textile, dont Uniqlo et Zara
    https://www.nouvelobs.com/justice/20210701.OBS46003/travail-force-des-ouigours-une-enquete-ouverte-en-france-contre-des-geant

    Le parquet national antiterroriste (PNAT) a ouvert fin juin une enquête pour « recel de crimes contre l’humanité » visant quatre géants du textile, dont Inditex et Uniqlo, accusés d’avoir profité du travail forcé d’Ouïgours en Chine, a indiqué une source judiciaire ce jeudi 1er juillet à l’AFP, confirmant une information de Mediapart.

    • Ouïghours : une enquête ouverte en France contre Uniqlo et des géants du textile pour recel de crimes contre l’humanité
      1 juillet 2021 Par François Bougon
      https://www.mediapart.fr/journal/international/010721/ouighours-une-enquete-ouverte-en-france-contre-uniqlo-et-des-geants-du-tex

      Une enquête pour recel de crimes contre l’humanité a été ouverte fin juin à Paris à la suite d’une plainte déposée deux mois auparavant contre Uniqlo et trois autres géants du textile par trois ONG (le collectif Éthique sur l’étiquette, l’association Sherpa et l’Institut ouïghour d’Europe) et une rescapée ouïghoure.

      Pour la première fois, la justice française se saisit d’un dossier lié à la répression impitoyable des minorités ethniques turcophones, notamment les Ouïghours, au Xinjiang, dans le nord-ouest de la Chine, par le régime chinois. Une enquête a été ouverte fin juin à Paris pour recel de crimes contre l’humanité à la suite d’une plainte déposée deux mois auparavant par trois ONG (le collectif Éthique sur l’étiquette, l’association Sherpa et l’Institut ouïghour d’Europe) et une rescapée ouïghoure, a-t-on appris de source judiciaire.

      Cette action ne vise pas directement les autorités de la République populaire de Chine – « Il semble actuellement peu probable que les dirigeants chinois puissent être renvoyés devant une juridiction répression pour répondre de leurs actes », reconnaît le texte de la plainte –, mais les multinationales aux marques connues qui sont accusées de profiter du système de répression mis en place par Pékin dans cette région stratégique proche de l’Asie centrale : en l’occurrence trois géants du textile – le groupe espagnol Inditex, propriétaire de la marque Zara, le japonais Uniqlo et le français SMCP (Sandro, Maje, Claudie Pierlot et De Fursac) – et le fabricant américain de chaussures de sport Skechers.

      Pour les plaignants, ces grandes entreprises, qui se sont pourtant dotées ces dernières années de comités d’éthique chargés de veiller aux bonnes pratiques parmi leurs sous-traitants, profitent malgré tout du travail forcé des Ouïghours et des autres minorités turcophones (kazakhes et kirghizes) en commercialisant des produits dans des usines y ayant recours.

      Manifestation de solidarité avec les Ouïghours devant l’ambassade de Chine à Paris en juillet 2020. © Noémie Coissac/Hans Lucas/AFP Manifestation de solidarité avec les Ouïghours devant l’ambassade de Chine à Paris en juillet 2020. © Noémie Coissac/Hans Lucas/AFP

      Ils avaient porté plainte à la fois pour recel du crime de réduction en servitude aggravée, recel du crime de traite des êtres humains en bande organisée, recel du crime de génocide et recel de crime contre l’humanité, mais seul ce dernier chef a été retenu par le parquet. L’enquête a été confiée au pôle spécialisé du tribunal de Paris dans la lutte contre les crimes contre l’humanité qui dépend du Parquet national antiterroriste (PNAT) et a une compétence universelle.

      « C’est une très bonne nouvelle, d’autant plus que le collectif parlementaire de solidarité avec les Ouïghours vient de déposer une proposition de résolution pour la reconnaissance du génocide au Xinjiang par la France. Cela ne peut que renforcer nos demandes et nos démarches », a déclaré à Mediapart Dilnur Reyhan, présidente de l’Institut Ouïghour d’Europe.
      « Un moment historique »

      Interrogé par Mediapart, l’avocat William Bourdon, à l’origine de la plainte, estime que « l’ouverture de cette enquête va faire tomber les masques sur le cynisme des grandes enseignes de textiles qui communiquent à tour de bras sur leurs engagements éthiques et s’accommodent de s’enrichir, en connaissance de cause, au prix des pires crimes commis à l’encontre des communautés ouïghoures ».

      « L’ouverture d’une enquête pour recel de crime contre l’humanité est une première, elle ouvre une porte pour l’avenir essentielle afin de mettre un terme à une culture de duplicité qui reste encore trop familière pour les grandes entreprises multinationales », a-t-il poursuivi.

      Pour sa part, Sherpa, par la voix de sa directrice Sandra Cossart, « se réjouit de l’ouverture d’une enquête préliminaire pour recel de crime contre l’humanité, qui témoigne de l’implication potentielle des acteurs économiques dans la commission des crimes les plus graves afin d’augmenter leurs marges bénéficiaires ».

      « Cela démontre que le travail innovant de Sherpa, qui aboutit ici pour la première fois à l’ouverture d’une enquête pour “recel de crimes contre l’humanité” contre des multinationales, permet de faire bouger les lignes du droit afin de lutter contre l’impunité des acteurs économiques, poursuit-elle. Il importe néanmoins de ne pas se limiter aux quelques acteurs ciblés ici : un système de dispositions légales rend possible chaque jour ces pratiques, c’est ce système qu’il faut combattre. »

      De son côté, l’eurodéputé Raphaël Glucksmann, au premier rang dans le combat pour la reconnaissance du génocide au Xinjiang, tout en évoquant « un moment historique », juge qu’il s’agit d’« un message extrêmement puissant envoyé à ces multinationales ».
      Tensions à venir

      Récemment, en dévoilant un rapport de son organisation sur les crimes exercés au Xinjiang, la secrétaire générale d’Amnesty International, Agnès Callamard, avait dénoncé l’apathie de la communauté internationale et des instances des Nations unies. Elle avait appelé la communauté internationale à « s’exprimer et agir à l’unisson pour que cessent ces atrocités, une fois pour toutes » et à une enquête indépendante des Nations unies.

      Des ONG dénoncent l’internement par Pékin depuis 2017 de plus d’un million de personnes au Xinjiang dans des centres de rééducation politique. Le régime communiste dément ce chiffre, évoque des « centres de formation professionnelle » aux fins de déradicalisation.

      Alors que la Chine célèbre avec faste le centenaire du Parti communiste (voir ici le spectacle donné lundi soir dans le Stade olympique en présence du secrétaire général Xi Jinping et là le grand rassemblement jeudi sur la place Tiananmen), l’annonce de l’ouverture de cette enquête ne manquera pas de provoquer de nouvelles tensions avec Pékin, qui réfute en particulier les accusations de génocide, portées par exemple par Washington et d’autres capitales occidentales (pas par Paris).

      En mars, la Chine avait imposé des sanctions à dix responsables politiques européens – dont cinq eurodéputés, dont Raphaël Glucksmann –, ainsi qu’à l’encontre de centres de réflexion et d’organes diplomatiques, en représailles à celles imposées par les Occidentaux aux hauts dirigeants chinois accusés de violations des droits de l’homme au Xinjiang.
      Lire aussi

      Amnesty dénonce des crimes contre l’humanité contre les musulmans du nord-ouest de la Chine Par François Bougon
      Gulbahar Jalilova, rescapée ouïghoure : « Nous ne sommes pas des êtres humains pour eux » Par Rachida El Azzouzi

      Par la suite, le Parlement européen avait voté une résolution suspendant la ratification d’un accord encadrant les investissements avec la Chine conclu en décembre tant que Pékin n’aura pas levé ces mesures de rétorsion.

      Une cinquantaine de députés français, parmi lesquels Frédérique Dumas et Aurélien Taché, ont déposé le 17 juin une proposition de résolution afin que la France reconnaisse le génocide au Xinjiang, comme l’ont fait le gouvernement des États‑Unis, les Parlements britannique, néerlandais et canadien.

      « Des procédures similaires sont en cours dans d’autres États (Belgique, Allemagne, Lituanie et Nouvelle‑Zélande). Quant à elle, la France a dénoncé un “système de répression institutionnalisé” en février 2021 et a engagé des réflexions sur l’emploi du terme de “génocide”, sans toutefois reconnaître ni condamner ce crime en tant que tel », expliquent-ils. Lors d’une conférence de presse mardi, Alain David, du groupe socialiste et membre de la commission des affaires étrangères, a espéré pouvoir la présenter au vote à l’automne.
      Devoir de vigilance

      Parallèlement au combat des ONG, des députés européens ont poussé pour l’adoption d’un cadre législatif plus sévère pour encadrer les pratiques des multinationales et de leurs sous-traitants, en particulier dans le secteur textile. Une loi a été adoptée en 2017 en France mais son champ d’action reste limité.

      En mars a été adopté par le Parlement européen à une très large majorité un projet d’initiative sur le devoir de vigilance, qui pourrait servir de base à une proposition de directive que la Commission doit présenter à l’automne.

      Les eurodéputés souhaitent contraindre les entreprises à « identifier, traiter et corriger » toutes les opérations, y compris dans leurs filières, qui pourraient porter préjudice aux droits humains, à l’environnement ou encore à la « bonne gouvernance » (corruption, pots-de-vin). Ils proposent aussi l’interdiction dans l’UE de produits liés à de graves violations des droits humains, comme le travail forcé ou des enfants.

      « L’ouverture de l’enquête [par la justice française – ndlr] est dans le droit-fil du combat que l’on mène au Parlement européen sur le devoir de vigilance », a souligné Raphaël Glucksmann auprès de Mediapart.

      Cependant, Total, Bayer ou des géants du textile à l’instar d’Inditex (Zara) ne manquent pas d’investir à fond dans le lobbying à Bruxelles, dans l’espoir d’assouplir le texte (lire ici). Business first…

  • Enquête vidéo : ce que les réseaux sociaux chinois révèlent des camps d’internement et du travail forcé des Ouïgours
    https://www.lemonde.fr/international/video/2021/01/06/enquete-video-ce-que-les-reseaux-sociaux-chinois-revelent-des-camps-d-intern

    Malgré la censure et les dénégations de Pékin, l’analyse des réseaux sociaux chinois par « Le Monde » expose la politique de répression menée contre les musulmans ouïgours, au Xinjiang. Près de 400 camps d’internement, plus d’un million de détenus et des centaines de milliers de travailleurs forcés… Depuis 2018, l’ampleur de la persécution des Ouïgours en Chine émerge progressivement. Mais selon le gouvernement chinois, ces camps d’internement seraient des « centres de formation professionnelle » et les (...)

    #Nike #Amazon #domination #religion #Islam #prison #SocialNetwork #surveillance #travail (...)

    ##Zara

  • Dans le #business de l’#humanitaire : doit-on tirer #profit des #réfugiés ?

    Depuis la crise économique de 2008 et la multiplication des conflits dans le monde, l’insuffisance des fonds alloués au secteur humanitaire n’a jamais été aussi importante. En effet seulement 59 % des besoins en la matière ont été financés en 2018.

    Pour l’une des crises humanitaires les plus médiatisées, celle des réfugiés, les chiffres sont plus alarmants encore. Le Haut-commissariat pour les Réfugiés (HCR) estime que pour l’année 2019 tout juste 14 % de l’aide nécessaire a été financée pour venir en aide aux 68,5 millions de réfugiés, demandeurs d’asile, personnes déplacées et apatrides.
    L’échec du système d’asile

    Bien que garanti par le droit international l’accueil de ces populations vulnérables reste globalement infime. En moyenne, seulement 1 % des réfugiés sont référés par le HCR pour être réinstallés dans des pays d’accueil chaque année. Le cantonnement en camps ou les installations plus ou moins précaires dans les pays limitrophes des zones de conflits deviennent les seules alternatives pour la grande majorité des réfugiés, pour qui la durée moyenne d’exil est d’environ 26 ans.

    Victimes des politiques d’asile de plus en plus restrictives des pays occidentaux plus de 85 % vivent dans des pays « en développement », dont les services élémentaires sont déjà sous pression.

    Le privé à la rescousse

    Pour pallier ces tensions, les capacités financières et innovatrices du secteur privé semblent aujourd’hui s’imposer comme une solution. Le HCR reconnaît en effet que le monde commercial joue un rôle central pour fournir des opportunités aux réfugiés et les soutenir.

    Le Pacte mondial sur les réfugiés adopté par 181 membres de l’ONU en décembre 2018 a lui aussi souligné le rôle primordial du secteur privé pour contrer les failles du système humanitaire.

    Que ce soit en termes d’emploi, d’opportunités commerciales ou de fourniture de biens et de services essentiels par l’intermédiaire de partenariats public-privé, ou encore en aidant les agences non gouvernementales ou gouvernementales à innover pour améliorer la qualité et la provision de l’aide, le monde du business semble désormais indissociable du monde humanitaire.

    Mais normaliser la condition du réfugié dans la logique économique de marché, n’est pas un artifice idéologique servant de plus en plus les intérêts corporatifs ? Et ces derniers ne passeront-ils pas avant ceux des réfugiés dans ce business désormais très rentable – fort de ses 20 milliards de dollars par an- qu’est devenu l’humanitaire ?
    De nombreuses plates-formes impliquées

    Le secteur commercial est impliqué à de nombreux niveaux du système d’asile. Par exemple, via des forums consultatifs comme la branche UNHCR Innovation du HCR créée en 2012 et financée par la fondation IKEA. Ce forum cherche à développer des moyens créatifs d’engager les entreprises et leurs ressources technologiques.

    D’autres plates-formes comme l’initiative #Connecting_Business ou encore #The_Solutions_Alliance tendent à impliquer le secteur privé dans les solutions en déplacement et en mesurer l’impact.

    Ou encore des organismes comme #Talent_beyond_boundaries ou la plate-forme française #Action_emploi_réfugiés élaborent des #bases_de_données regroupant des réfugiés et leurs #compétences techniques et académiques afin de les connecter à des employeurs potentiels dans les pays les autorisant à travailler.

    Afin de coordonner et de conseiller les actions et réponses du monde du profit, d’autres acteurs comme les consultants #Philanthropy_Advisors ont vu le jour pour promouvoir le développement de la collaboration philanthropique stratégique entre les #entreprises et le monde humanitaire, et les aider à projeter leur retour sur #investissement.

    Les marchés prospèrent

    Ainsi les partenariats public-privé avec le HCR et les ONG se multiplient, tant pour les prestations de service que l’expertise du secteur privé dans l’innovation.

    De gigantesques salons commerciaux réunissent régulièrement les grandes agences onusiennes, des ONG et des sociétés privées de toute taille afin d’essayer de prendre les marchés de l’humanitaire. Au salon DIHAD de Dubai par exemple, des stands de vendeurs de drones, de lampes photovoltaïques ou encore de kits alimentaires côtoient ceux des sociétés de services financiers comme MasterCard Worldwide ou des grands cabinets d’audit et de réduction des coûts en entreprise, comme Accenture et Deloitte.

    Cette concurrence grandissante des marchés de l’humanitaire semble suggérer que le système d’asile s’inscrit lui aussi progressivement dans un modèle néolibéral, appliquant la logique économique de marché jusque dans la sphère humanitaire.
    Abus et philanthropie des bailleurs de fonds

    Ce monde humanitaire qui pratique une logique propre à celle du monde des affaires soulève de multiples questions éthiques et pragmatiques.

    Au niveau philanthropique par exemple, les partenaires majeurs du HCR incluent des multinationales comme #Nike, #Merck, #BP, #Nestlé, #IKEA ou encore #Microsoft.

    Or, bien que l’apport financier de ces corporations soit essentiel pour contrer le manque de fonds du système d’asile, la crédibilité et la légitimité de certains partenaires a été contestée.

    Pour cause, les exploitations et abus déjà recensés à l’encontre de ces corporations. Nestlé a récemment été accusé d’esclavagisme en Thaïlande ; Nike et BP ont eux aussi été régulièrement critiqués pour leur modèle économique peu regardant des droits du travail ; ou encore Microsoft, récemment accusé d’exploitation d’enfants dans les mines de cobalt en République Démocratique du Congo. L’entreprise IKEA, bailleur majeur du HCR à quant à elle été inculpée dans un scandale d’évasion fiscale, accusée d’échapper ainsi aux taxes dans les états qui entre autres, financent le HCR.
    Des employeurs douteux

    En tant qu’employeur, le secteur privé embauche et rémunère des réfugiés dans des contextes légaux comme clandestins.

    Par exemple, 20 % de la main d’œuvre de la compagnie #Chobani, spécialiste du yaourt à la grecque implantée aux États-Unis est réfugiée. Son PDG estime que dans le monde actuel le secteur privé est l ‘agent de changement le plus efficace et a ainsi créé la fondation #Partenariat_Tent, afin de sensibiliser le monde commercial à l’importance du secteur privé dans la cause réfugiée.

    Par l’intermédiaire de cette plate-forme, plus de 20 entreprises dont #Microsoft, #Ikea, #H&M et #Hilton ont annoncé des initiatives d’#emploi destinées à contrer la crise des déplacements.

    Cependant, puisque souvent sans droit de travail dans les pays d’accueil de la majorité des réfugiés, ceux-ci sont souvent prêts à accepter n’importe quelle opportunité, et s’exposent à toute sorte de mécanisme d’exploitation, des multinationales aux petites entreprises, légalement ou dans l’économie informelle.

    Des enfants réfugiés Rohingya au Bangladesh aux Syriens en Turquie, Irak, Jordanie ou au Liban exploités dans diverses industries, les exemples d’abus par des entreprises de toutes tailles sont souvent recensés et vaguement relayés dans la presse. Parfois, les entreprises inculpées ne sont autres que des géants comme #Zara, #Mango, #Marks_and_Spencer, qui ne sont pas légalement réprimandés car il n’existe ni mécanisme de coercition ni cadre de sanction pour les multinationales.

    L’ambiguïté des sous-traitants

    Par ailleurs, les gouvernements, le #HCR et les #ONG sous-traitent progressivement l’assistance et la protection des réfugiés à divers partenaires commerciaux afin d’améliorer les conditions de vie dans des secteurs aussi divers que la finance, la provision de service, le conseil, la construction, la santé, la technologie ou encore l’éducation.

    Si de tels projets sont souvent très positifs, d’autres se font complices ou tirent profit de politiques publiques allant à l’encontre de la protection des droits humains. La multinationale espagnole #Ferrovial, un entrepreneur indépendant contracté par l’état australien pour gérer son système carcéral des demandeurs d’asile offshore, a été accusée de mauvais traitements chroniques envers les réfugiés dans des centres de détention extraterritoriaux administrés par l’Australie. Cette dernière est elle-même accusée de crimes contre l’humanité pour son traitement des demandeurs d’asile arrivés par bateau.

    Amnesty International a aussi dénoncé des actes de torture par la compagnie Australienne #Wilson_Security, sous-traitant de la filiale australienne de Ferrovial, #Broadspectrum.

    La compagnie britannique de sécurité #G4S a elle aussi fait l’objet d’une multitude d’allégations concernant des violences physiques perpétrées par ses employés dans des camps contre des réfugiés, par exemple à Daddab au Kenya, et sans conséquence pour G4S.

    Des compagnies comme #European_Homecare ou #ORS spécialisées dans la provision de service aux migrants et réfugiés ont été accusées de #maltraitance dans les milieux carcéraux envers les gardes et les réfugiés.

    Ainsi, selon un rapport de L’Internationale des services publics, la privatisation des services aux réfugiés et aux demandeurs d’asile a un impact direct sur leur qualité et aboutit à des services inappropriés, caractérisés par un manque d’empathie, et ne respectant souvent pas les droits humains.

    Le business de la catastrophe

    Par soucis d’efficacité, en privatisant de plus en plus leurs services et en laissant le monde du profit infiltrer celui de l’humanitaire, le HCR et les ONG prennent le risque de créer des conditions d’exploitation échappant aux mécanismes légaux de responsabilité.

    Aux vues de nombreuses questions éthiques, le monde commercial peut-il réellement contrer les failles étatiques et organisationnelles du monde humanitaire ? L’intégration du secteur privé dans le système de protection et d’assistance aux réfugiés, est-ce aussi en soi justifier le désengagement des États de leurs obligations en matière de protection des personnes les plus vulnérables ?

    Comment ainsi éviter que cette source d’opportunité commerciale pour les entreprises, et les opportunités d’émancipation que cela engendre pour les réfugiés, n’entraîne leur marchandisation et exploitation, dans un contexte où les cadres juridiques en matière de business et droits humains ne sont visiblement pas assez strictes ?

    https://theconversation.com/dans-le-business-de-lhumanitaire-doit-on-tirer-profit-des-refugies-
    #privatisation #partenariats_public-privé #PPP #asile #migrations #philanthropie #travail #salons_commerciaux #salons #DIHAD #néolibéralisme #sous-traitance

  • These People Did Something For This Show In 2018
    http://www.radiopanik.org/emissions/moacrealsloa/these-people-did-something-for-this-show-in-2018

    Tonight we will present you the music of a lot of musicians who did something (playing and/or interview) for Moacrealsloa in 2018, it is a random selection chosen from these participants :

    #Osilasi, #Jacques_Foschia, #Pak_Yan_Lau, #Aloysius_Suwardi, #Eduardo_Ribuyo, #Judit_Emese_Konopas, #Drew_McDowell, #Ka_Baird, Philip Jeck, #Han_Bennink, #Kurt_Overbergh, #Dirk_Serries, #Guy_Segers, #Chris_Corsano, #Joëlle_Léandre, #Niels_Van_Heertum, #Michael_Baird, #Charlemagne_Palestine, #Geoff_Leigh, #Xylourius_White, #Renaldo_and_The_Loaf, #Kanker_Kommando, #Weiland, #Stefan_Christensen, #Guillermo_Lares, #Stefan_Schneider, #Peter_Zummo, #Tomoko_Sauvage, #Hariprasad_Chaurasia, #Yoshio_Machida, #Lu_Edmonds, #Bruce_Smith, #Beatriz_Ferreyra, #Robin_Storey, #Ghédalia_Tazartès, #Walter_Robotka, #Lori_Goldston, #Ben_Bertrand, Fumihico (...)

    #SEF_III #Fumihico_Natsuaki #Red_Brut #Zarabatana #Jung_An_Tagen #Niels_Latomme #Philip_Jack #Transport #Tommy_De_Nys #Sandra_Boss #Frosty #YPY #Radian #Vomit_Heat #Jacques_Foschia,Guy_Segers,Ben_Bertrand,Kanker_Kommando,Han_Bennink,Chris_Corsano,Weiland,Stefan_Christensen,SEF_III,Fumihico_Natsuaki,Drew_McDowell,Beatriz_Ferreyra,Renaldo_and_The_Loaf,Tomoko_Sauvage,Michael_Baird,Geoff_Leigh,Dirk_Serries,Red_Brut,Eduardo_Ribuyo,Zarabatana,Jung_An_Tagen,Ka_Baird,Judit_Emese_Konopas,Niels_Latomme,Xylourius_White,Philip_Jack,Peter_Zummo,Ghédalia_Tazartès,Stefan_Schneider,Walter_Robotka,Pak_Yan_Lau,Transport,Tommy_De_Nys,Hariprasad_Chaurasia,Robin_Storey,Niels_Van_Heertum,Osilasi,Yoshio_Machida,Aloysius_Suwardi,Lori_Goldston,Guillermo_Lares,Sandra_Boss,Kurt_Overbergh,Charlemagne_Palestine,Lu_Edmonds,Bruce_Smith,Frosty,YPY,Radian,Vomit_Heat,Joëlle_Léandre
    http://www.radiopanik.org/media/sounds/moacrealsloa/these-people-did-something-for-this-show-in-2018_05997__1.mp3

  • Ce n’est pas la fin du monde !
    La phrase du président du Bundestag me fait aussi, très incorrectement, simplement par association d’idées, penser au tube de Zarah Leander « Davon geht die Welt nicht unter » dans le film à succès national-socialiste « Die große Liebe » (1942) : https://www.youtube.com/watch?v=p8D126NPTrU


    (Attendre la dernière minute de la chanson pour la savourer pleinement…)
    Zarah Leander (1907-1981), sublime chanteuse et actrice suédoise, a fait carrière dans l’Allemagne nazie. Contrairement à Marlene Dietrich, elle estimait qu’en tant qu’artiste elle n’avait pas à prendre position politiquement. Stigmatisée par sa compromission passive (cf. le terme allemand de MitläuferIN, celle ou celui qui court avec) avec le régime, elle deviendra cependant, dans les années 1980, une icône LGBT, en raison de de son alto très particulier et du contenu de ses chansons, qui vantaient... l’amour libre et assumé. Il est vrai que tous les systèmes autoritaires ou très régulés et codifiés ont leurs soupapes de sécurité (Norbert Elias) et les nazis ne semblent pas avoir dérogé à la règle.

    #Zarah_Leander

  • Enquête. H&M, Zara, Topshop : la “fast fashion”, un fléau écologique | Courrier international
    http://www.courrierinternational.com/article/enquete-hm-zara-topshop-la-fast-fashion-un-fleau-ecologique

    En renouvelant leurs collections jusqu’à deux fois par semaine, les chaînes de prêt-à-porter génèrent un énorme gaspillage. Faute de pouvoir être recyclées, des millions de tonnes de vêtements finissent à la décharge.

    Et comme les personnes qui les fabriquent sont payées une misère et dans des conditions lamentables, ça coûte quetchi au fabricant !
    #esclavage #gâchis #capitalisme #honte et #paywall donc pas pu tout lire

    • Article original en anglais :

      http://europe.newsweek.com/old-clothes-fashion-waste-crisis-494824

      et l’article complet en français

      –—

      En renouvelant leurs collections jusqu’à deux fois par semaine, les chaînes de prêt-à-porter génèrent un énorme gaspillage. Faute de pouvoir être recyclées, des millions de tonnes de vêtements finissent à la décharge.
      Nos services

      Ce 4 avril, des monceaux de vieux vêtements étaient entassés jusqu’au plafond dans le showroom de H&M à New York. Sur un mur, une citation de T. S. Eliot (“Dans ma fin se trouve mon commencement”) donnait au lieu un air de galerie d’art. Dans la pièce d’à côté, des journalistes et des blogueuses mode sirotaient du vin en examinant une demi-douzaine de mannequins portant des créations fabriquées à partir de vieux jeans, vestes et chemisiers.

      Cette soirée célébrait le lancement de l’édition 2016 de la collection Conscious. L’actrice Olivia Wilde, égérie de cette ligne écoresponsable, portait une robe de la collection.

      Mais le géant de la fast fashion [mode rapide ou jetable], qui compte plus de 4 000 magasins dans le monde et a enregistré un chiffre d’affaires de 25 milliards de dollars en 2015 [22,5 milliards d’euros], voulait aussi promouvoir un autre projet [lancé début 2013] : encourager les clients à recycler leurs vêtements, ou plutôt les convaincre de les rapporter (toutes marques confondues) dans les magasins H&M du monde entier. “H&M les recyclera et créera une nouvelle fibre textile. En échange, vous recevrez des bons d’achat à utiliser chez H&M. Tout le monde y gagne !” peut-on lire sur le blog de la marque.
      Simplification grossière

      C’est une idée louable, mais aussi une grossière simplification de la situation. À peine 0,1 % des vêtements collectés par les œuvres de bienfaisance et les programmes de récupération sont recyclés pour fabriquer de nouvelles fibres textiles, reconnaît le responsable du développement durable chez H&M, Henrik Lampa, qui était à la soirée pour répondre aux questions de la presse.

      Bien qu’elle ait consacré un gros budget marketing – qui a notamment financé un clip de la rappeuse M.I.A. – à sa Semaine mondiale du recyclage de la mode, l’entreprise ne fait rien d’extraordinaire. Les vêtements qu’elle récupère suivent exactement le même parcours que ceux donnés à [l’entreprise sociale] Goodwill ou à n’importe quel autre organisme.

      Imaginons que, après avoir rangé votre placard, vous ayez rempli un sac de vieux vêtements. Pour en tirer un peu d’argent, vous les emportez dans un dépôt-vente ou dans une friperie – à moins que vous ne les proposiez sur une plateforme de vente en ligne. Au final, la plupart de ces fringues seront probablement refusées, y compris celles que vous avez payées cher, parce qu’elles ont de petits défauts ou ne sont plus à la mode.

      La mode rapide raccourcit les saisons, et vos habits sont sûrement dépassés s’ils ont été achetés il y a plus d’un an. Beaucoup de friperies n’acceptent pas les pièces de chaînes comme Forever 21, H&M, Zara et Topshop. Elles sont de mauvaise qualité, leur prix de revente est insignifiant et il y en a simplement beaucoup trop.
      Les vêtements ne se compostent pas

      En général, l’étape suivante consiste à les jeter à la poubelle. Selon l’Agence américaine de protection de l’environnement (EPA), 84 % des vêtements dont les Américains ont voulu se débarrasser en 2012 ont fini dans une décharge ou un incinérateur.

      Dans une décharge, la dégradation des fibres naturelles comme le coton, le lin, la soie, ou des fibres semi-synthétiques fabriquées à partir de cellulose végétale (notamment la rayonne, le Tencel et le modal), produit du méthane (un gaz à effet de serre), tout comme les déchets organiques.

      Mais contrairement aux peaux de banane, on ne peut pas composter les vêtements. Comme l’explique Jason Kibbey, PDG de la Sustainable Apparel Coalition [Coalition pour l’habillement durable] :

      Les fibres naturelles sont soumises à de nombreux processus artificiels avant de devenir des vêtements. Elles sont décolorées, teintes, imprimées et décapées dans des bains chimiques.”

      Ces produits chimiques peuvent s’échapper des textiles et, si les décharges ne sont pas étanches, s’infiltrer dans les nappes phréatiques. Brûler ces textiles dans des incinérateurs peut libérer des toxines dans l’air. Les fibres synthétiques comme le polyester, le Nylon et l’acrylique sont tout aussi nocives pour l’environnement. Et comme elles sont dérivées du pétrole, leur biodégradation prendra des centaines, voire un millier d’années.

      Depuis la fin des années 1990, le volume de vêtements jetés chaque année aux États-Unis est passé de 7 à 14 millions de tonnes – soit 36 kilos par personne. Selon l’EPA, recycler tous ces textiles au lieu de les jeter reviendrait à retirer de la circulation 7,3 millions de voitures (et leurs émissions de CO2).
      Félicitez-vous d’être si généreux !

      Dans le cadre du programme Re-FashioNYC mené en partenariat avec la ville de New York, l’ONG Housing Works a récupéré, depuis 2011, près de 3 millions de tonnes de vêtements qu’elle a mis en vente dans ses boutiques. Mais cela ne représente que 0,3 % des 200 000 tonnes de textiles qui finissent à la benne chaque année dans la métropole. Sur les 35 000 immeubles qui pourraient accueillir un conteneur à vêtements Re-FashioNYC, 690 seulement participent au programme.

      Dans la plupart des villes, la meilleure solution semble être de donner vos vieux vêtements à une œuvre de bienfaisance. Déposez votre sac chez Goodwill ou à l’Armée du salut, repartez avec un reçu fiscal et félicitez-vous d’être si généreux. Ces habits auront quitté votre vie et votre esprit.

      Mais leur long voyage ne fait sans doute que commencer. Selon le Council for Textile Recycling, les organismes caritatifs ne vendent que 20 % des pièces déposées dans leurs boutiques. Pietra Rivoli, professeure d’économie à l’université de Georgetown, commente :


      Les gens aiment penser qu’ils font une bonne action. Mais le problème, dans un pays comme les États-Unis, c’est qu’il n’y a pas assez de personnes qui ont besoin de vêtements par rapport aux volumes produits.”

      À Washington DC, par exemple, l’association N Street Village, qui vient en aide aux femmes pauvres et sans abri, est débordée par les dons et n’accepte plus de vêtements, à l’exception de certains articles très utiles et difficiles à trouver comme les soutiens-gorge et les ponchos imperméables.

      La fast fashion oblige les organisations caritatives à s’occuper plus vite de plus grandes quantités de vêtements afin de maintenir leur chiffre d’affaires – agissant ainsi comme des boutiques de mode rapide encore plus bas de gamme. “Nous devons trier de plus en plus de dons pour trouver de bons produits, ce qui nous coûte de plus en plus cher”, résume David Raper, [ancien] directeur du développement commercial de Housing Works.

      Cette stratégie – proposer des nouveautés toutes les semaines – est remarquablement similaire à celle de la marque espagnole Zara, qui a chamboulé le prêt-à-porter en commercialisant des nouveaux modèles deux fois par semaine au lieu d’une ou deux fois par saison. Ainsi, les vêtements passent de la boutique d’origine aux friperies et aux recycleurs de plus en plus rapidement, dans l’espoir de trouver quelqu’un, n’importe qui, prêt à dépenser quelques centimes.

      Dans la région de New York, si vous donnez des vêtements et qu’ils ne sont pas vendus dans une friperie, ils finiront sans doute chez Trans-Americas Trading Co. Dans son grand entrepôt de Clifton, dans le New Jersey, les employés reçoivent et traitent 36 tonnes de textiles par jour.
      Un pull kitsch de Noël

      C’est Eric Stubin – propriétaire de Trans-Americas, mais aussi président du Council for Textile Recycling et de la Secondary Materials and Recycled Textiles Association [Association des matériaux de récupération et des textiles recyclés] – qui me fait visiter l’entrepôt. Il marque une pause pour laisser passer un chariot élévateur qui va décharger un ballot de vêtements, avant de repartir en chercher un autre dans un camion. Devant des tapis roulants, les employés décident en une fraction de seconde quels articles valent la peine d’être sortis du lot. Ils dénichent parfois des trésors – un Levi’s vintage, un pull kitsch de Noël, une veste militaire – que l’entreprise pourra vendre à bon prix aux boutiques vintages de Brooklyn.

      Mais ça ne représente que 2 % du volume total. Le reste est trié d’abord par catégorie – tee-shirts, pantalons, vêtements d’hiver – puis en fonction de la qualité et de la composition.

      Quelque 40 % des habits sont empaquetés et expédiés dans le monde entier pour être revendus en l’état. Les États-Unis, puis le Japon, héritent des meilleurs articles vintages, l’Amérique du Sud reçoit les articles de milieu de gamme, l’Europe de l’Est obtient les vêtements d’hiver et l’Afrique écope des produits de mauvaise qualité dont personne ne veut.
      Sur le marché de Gikomba, à Nairobi (Kenya), le plus important marché de fripes de l’Afrique de l’Est (2012). AFP PHOTO/SIMON MAINA
      Sur le marché de Gikomba, à Nairobi (Kenya), le plus important marché de fripes de l’Afrique de l’Est (2012). AFP PHOTO/SIMON MAINA

      Dans les années 1980, les habits de seconde main ont commencé à affluer dans les pays africains qui avaient abandonné leurs politiques protectionnistes. Et comme ces vêtements étaient moins chers et jugés de meilleure qualité que la confection locale, ils ont envahi le marché. En 2004, 81 % des vêtements achetés en Ouganda étaient usagés.
      Comment la fripe occidentale tue le textile africain

      Selon un rapport de l’ONG Oxfam, les vêtements de seconde main représentaient la moitié des importations textiles en Afrique subsaharienne en 2005. Pour cette raison, les industries textiles de ces pays africains se sont effondrées à partir des années 1990.

      Début 2015, lors d’un sommet de chefs d’État, plusieurs leaders régionaux ont proposé d’interdire l’importation de vêtements [et de chaussures] d’occasion ; des sites d’information anglophones comme Voices of Africa et CNN ont abondé en ce sens, expliquant que ces fringues venues du Royaume-Uni et des États-Unis provoquaient un désastre économique postcolonial. Andrew Brooks, du Kings College à Londres, déclare :


      Exporter des habits de mauvaise qualité qui n’ont aucune valeur dans notre société crée un rapport de dépendance. Vous pouvez me taxer d’idéaliste, mais je ne veux pas vivre dans un monde où la population du Sud ne peut s’offrir que des articles dont vous et moi ne voulons plus.”

      Cette analyse ne fait pas l’unanimité. Pietra Rivoli, par exemple, estime que ce secteur crée des emplois, car les vêtements doivent non seulement être vendus, mais aussi nettoyés, raccommodés et ajustés.

      Si les Africains achètent les vieux vêtements des États-Unis, c’est parce qu’ils estiment qu’ils présentent un bon rapport qualité-prix. Mais ce ne sera peut-être pas vrai très longtemps. Au Kenya, selon le rapport d’Oxfam, un quart des vêtements importés en balles en 2005 étaient invendables en raison de leur mauvaise qualité.

      Depuis, la part de marché de la fast fashion a encore augmenté, même si les consommateurs occidentaux admettent que ces produits tombent en lambeaux après deux lavages. Les Africains finiront sans doute par réaliser que les vêtements de seconde main sont juste des produits bon marché fabriqués en Asie et qui ont fait une brève escale au Royaume-Uni ou aux États-Unis. Et comme les Américains, ils décideront peut-être qu’ils préfèrent acheter du neuf.

      Environ 30 % des vêtements livrés à l’entrepôt de Trans-Americas sont des tee-shirts et des polos qui seront découpés en chiffons et utilisés dans des garages ou d’autres sites industriels ; 20 % des articles – abîmés et tachés – seront passés à la moulinette, créant ainsi une fibre grossière utilisée comme isolant, rembourrage de tapis ou tapis de voiture. Ce sont les produits les moins rentables pour Trans-Americas. Le développement de la mode rapide est un problème pour cette entreprise, explique Eric Stubin.


      De plus en plus d’habits sont en polyester [ou] à base de mélanges de fibres synthétiques et de coton. Si nous recevons des articles de mauvaise qualité, nous finissons avec plus de chiffons et de matériaux destinés au marché de la fibre, qui n’est pas du tout rémunérateur actuellement. Nous perdons de l’argent sur la moitié de ce que nous revendons.”

      Certes, le décyclage [downcycling, ou transformation en un produit de moindre valeur] vaut mieux que rien, mais il ne résout pas le problème. Ces chiffons finiront quand même à la décharge après quelques utilisations ; l’isolant sera jeté à la benne une fois arraché d’un mur ou d’une vieille voiture. Tout sera découpé et broyé plusieurs fois, jusqu’à ce que la seule issue soit la décharge.

      Le coût écologique ne se limite pas aux dégâts provoqués par les produits qui se décomposent dans le sol. Le gaspillage des ressources utilisées pour fabriquer un textile est également dévastateur pour la planète. “Un matériau qui finit à la décharge est un matériau gaspillé”, affirme Annie Gullingsrud, du Cradle to Cradle Products Innovation Institute [qui, dans la logique de l’économie circulaire, certifie des produits en fonction de plusieurs critères : toxicité et réutilisation des matériaux, utilisation d’énergies renouvelables, gestion raisonnée de l’eau et responsabilité sociale].

      Les grandes marques comme Adidas, Levi’s, Nike et H&M ne veulent pas que vous arrêtiez d’acheter leurs produits, mais elles ne veulent pas non plus que vous rejetiez leur modèle économique. Marie-Claire Daveu, directrice du développement durable de la multinationale de luxe Kering (qui possède Gucci, Alexander McQueen, Saint-Laurent et Stella McCartney, entre autres), expliquait à Vogue [en décembre 2015] :


      Le Graal de la mode durable, c’est l’approvisionnement en boucle fermée. Réutiliser d’anciens matériaux. Fabriquer de nouveaux textiles avec de vieux matériaux. Réexploiter les fibres.”

      Le principe de la boucle fermé [fondement de l’économie circulaire], qui consiste à recycler un produit pour recréer quasiment le même, reproduit en fait le processus naturel de la vie. Une plante sort de terre, meurt, retourne à la terre, puis une autre plante naît du même sol. Il n’y a pas de gaspillage. Si ce concept était appliqué à la mode, rien ne finirait à la décharge. Il faudra pourtant attendre cinq à dix ans pour qu’il soit applicable commercialement.

      Selon un rapport de 2014 commandé par la Sustainable Apparel Coalition, la technologie existe pour les tissus 100 % coton, qui peuvent être décomposés et retissés – mais ce n’est plus possible une fois que le coton est teint, traité ou mélangé à d’autres matériaux. Le coton, le lin, la soie et la laine traités peuvent être lacérés mécaniquement, mais le résultat est une fibre courte de mauvaise qualité qui doit être mélangée à des fibres vierges pour fabriquer un nouveau vêtement.

      Avec un taux de 20 % de coton réutilisé, la collection en denim recyclé présentée par H&M en 2015 atteint les limites de ce qui est actuellement possible : un pourcentage plus élevé de coton recyclé donnerait un textile de moins bonne qualité qui se déchirerait trop facilement.
      Le jour où les déchets disparaîtront

      En mai, Levi’s a suscité un nouvel espoir grâce à un partenariat avec la start-up américaine Evrnu : les deux entreprises ont présenté un prototype de jean composé d’un mélange de coton vierge et de vieux tee-shirts en coton recyclés au moyen d’un processus chimique qui fonctionne même avec certaines teintures. La start-up espère un jour arriver à des jeans fabriqués en totalité à partir de coton réutilisé.

      Sur le plan commercial, le recyclage en boucle fermée des synthétiques (notamment les mélanges d’élasthanne et de Nylon) est encore plus lointain. On sait traiter chimiquement le polyester de manière à dissocier ses principaux composants et à recréer un fil de polyester. La marque Patagonia utilise déjà cette technologie, mais elle le fait par principe et non pour gagner de l’argent, car ce traitement a un coût prohibitif et il est particulièrement pointu : il faut partir de textiles en polyester d’excellente qualité (les polaires fabriquées par Patagonia) et non des fibres bon marché qui sont utilisées par les marques de fast fashion.

      Viennent ensuite les mélanges, très largement utilisés, de polyester et de fibres naturelles : actuellement, il est tout bonnement impossible de les recycler en boucle. Et comme la production de polyester grimpe en flèche – de 5,8 millions de tonnes en 1980 à environ 100 millions de tonnes en 2015 –, nous serons incapables de gérer le volume de vêtements d’occasion tant que ce problème n’aura pas été résolu.

      H&M le sait bien, c’est pourquoi en février, sa fondation, H&M Conscious, a subventionné cinq équipes travaillant sur des technologies de recyclage du textile, pour un montant total de 1,1 million de dollars.
      Des bactéries capables de digérer le polyester

      Une équipe [finlandaise] étudie par exemple un processus qui dissout le coton [plus spécifiquement, la cellulose] pour créer un matériau proche du coton dont les fibres peuvent être filées. Une autre équipe [américaine] développe des bactéries capables de digérer le polyester même quand il est combiné à une fibre naturelle et de le décomposer en éléments réutilisables.

      Les efforts déployés par ces marques pour parvenir à “boucler la boucle” pourraient déboucher sur un marché nouveau et – espérons-le – rentable pour les textiles usagés. Il y a urgence. L’année dernière, le marché de l’occasion s’est effondré, poussant l’ensemble du système au bord du gouffre.

      Dès lors que vos vieux vêtements sont mis en balles pour être vendus à un recycleur, ils cessent d’être des pièces dont la valeur dépend de la marque, de la qualité ou de la mode. Ils ne sont plus qu’une matière première dont le prix au kilo dépend de l’offre et de la demande mondiale.

      Depuis le début 2015, ce prix a chuté à quelques centimes, écrasé par la force du dollar, la faible demande due aux troubles au Moyen-Orient (où l’essentiel des vêtements d’occasion est traité), la mobilité économique ascendante dans les pays d’Europe de l’Est et la destruction par un incendie du plus grand marché d’occasion d’Afrique de l’Est [à Nairobi, en juillet 2015].

      Cette baisse de prix s’explique aussi par l’augmentation de l’offre de vêtements de seconde main de mauvaise qualité. Alan Wheeler, directeur de la Textile Recycling Association [Association britannique pour le recyclage des textiles], analysait en avril dans Sourcing Journal :


      Le secteur du vêtement d’occasion traverse une période extrêmement difficile au Royaume-Uni et dans le monde. La consommation de vêtements neufs, dont les prix sont bien plus bas qu’autrefois, continue d’augmenter. La pression sur les prix des habits usagés n’est pas près de faiblir.”

      Le recyclage devenant moins rémunérateur, le taux de collecte a diminué de 4 % l’année dernière [aux États-Unis], après avoir régulièrement progressé depuis la récession de la fin des années 2000.

      Si la qualité et la demande internationale des vêtements usagés continuent de chuter et si la technologie du recyclage en boucle fermée ne peut être mise en œuvre, nous risquons d’être confrontés à une crise du vêtement d’occasion. Et là, il n’y aura plus personne pour reprendre vos vieilles fringues.

    • @aude_v : absolument ! La plupart des marques font fabriquer dans les mêmes endroits sordides le même genre de guenilles. J’ai des T-shirts Camaïeu qui datent d’avant ma fille (et on est très loin du top !) : ça se tient. Les derniers que j’ai tâté chez eux, vendus dans la même gamme de prix, tu as l’impression qu’ils ont limé le tissu : tout fin, très très fin, presque transparent, le truc qui tient pas.

      En gros, dans la friperie, ce qui arrive le plus souvent, ce sont des nippes qui ont déjà résisté à quelques lavages…
      Manière, là où je vais (une annexe d’Emmaüs : Ding Fring), ils séparent en gros les fringues de qualité (un peu plus chères) et les choses qui arrivent des boutiques à guenilles, pratiquement vendues au poids.

    • Pareil, je ne mets pas les pieds dans ces boutiques, je porte des fringues que j’ai depuis des années. Et quand je suis bien dans une fringue, je la porte jusqu’à ce qu’elle tombe en lambeaux :) Sinon, une copine tient une boutique de vêtements d’occasion et parfois je vais dans une solderie qui vend des vêtements de qualité (mais aussi de la merde) à prix imbattables.

    • Oui, tout comme en électro ils font n’importe quoi. Quelque soit l’objet, pour qu’il soit vraiment recyclable, c’est toujours un truc à prévoir dès le début, dès la conception, ça parait évident. Et donc c’est pareil pour les habits. Mais c’est toujours des mélanges des 3 fibres à la fois dans toutes ces merdes…

      À la limite c’est pratique pour les fringues de gosses, parce que quelque soit la marque, en primaire ils trouent leurs pantalons en quelques mois (surtout les garçons… :( ). En fait obligatoire même, car en vide-greniers ou récup, tu trouves des habits pour les bébés, bambins, jusqu’à maternelle ça va encore. Mais primaire ensuite t’as quasiment plus rien, justement parce que trop abimé pour être revendu. Ensuite tu retrouves de nouveau à partir des ados/adultes.

      Mais habits de qualité ou pas, il y a déjà tellement d’habits encore mettables en circulation, que c’est totalement hallucinant et fou la quantité de nouvelle production qui continue… On vit vraiment dans un monde de taré… (et le fait que la production soit à l’autre bout du monde est évidemment le point le plus important qui fait qu’on ne voit pas l’horreur du truc, comme pour tous les prods de masse)

      Bref on redit les mêmes choses à chaque fois, en fait, non ? (sourire jaune)

      (Et MIA qui fait un clip pour eux, non mais…)

  • Syrian Refugee Children Appeal for Education

    As the United Nations pushes for more commitments from world leaders to resettle, aid and educate refugees, Syrian children in Turkey describe their dreams of going back to school.


    https://www.newsdeeply.com/refugees/articles/2016/09/21/syrian-refugee-children-appeal-for-education
    #éducation #école #réfugiés_syriens #Turquie #asile #migrations #réfugiés #travail #enfants #mineurs

  • Die Fans der Zarah Leander
    http://www.zarahleander.de/fans-travestie.html

    Der jüngste Leander-Verehrer, der mich aufsuchte, war 1988 15 Jahre alt: Tim Fischer. Heute will er sicher nicht mehr gerne an diese Zeit erinnert werden, in der er Curt Delander, den Leander-Darsteller aus Bonn, und mich mit Zarah-süchtigen Briefen überhäufte und sich bei uns mit rührenden, kindlichen Zeilen für jedes Foto von der Leander und für jede Info herzlichst bedankte. Die Leander war seine Göttin, seine Lehrmeisterin, ihren Stil hat er sich zu eigen gemacht.

    Dadurch gelang es ihm, ohne Ausbildung direkt von der Schulbank eine Karriere zu starten: Zarah ohne Kleid. Bei seinem ersten Besuch in meinem Archiv bat er darum, in ein Tourneekleid der Leander zu schlüpfen und tanzte damit durch die Wohnung. Der Wind hat mir ein Lied erzählt, dröhnte seine tiefe Knabenstimme. Aber er spürte, dass ich seiner Imitationskunst recht distanziert gegenüber stand, der Kontakt brach ab. „Kluge Köpfe“ rieten ihm nach seinen Anfangserfolgen, sich von der Leander zu distanzieren, seine Karriere sollte ohne „braune Flecken“ stattfinden. Er beugte sich dem allgemeinen Mainstream.

    Jetzt blickt er leider ohne Dankbarkeit auf seine Anfänge zurück, die, ohne dass er den exaltierten Stil der späten Zarah zu seinem machte, nie möglich gewesen wären. Er hat den großen Namen der Leander für seine Zwecke benutzt, wie es so viele andere auch tun. Jetzt ist er „klug und weise“ und hat von „Zarahs Schmachtfetzen die Schnautze voll!“ und es ist ihm ein Anliegen, auch das verführte Zarah-Publikum restlos an sich zu binden. Aber es gelang und gelingt ihm nicht.

    Nur nicht aus Liebe weinen
    https://www.youtube.com/watch?v=umJrSSg0gNk

    https://de.wikipedia.org/wiki/Tim_Fischer

    https://www.youtube.com/watch?v=m20La_Sg4Dc&nohtml5

    #musique #Zarah_Leander #Suède #Allemagne #LGBT

  • WOW ! Watch this little girl name the presidents of 30 countries
    http://africasacountry.com/wow-watch-this-little-girl-name-the-presidents-of-30-countries

    Some people think that #Africa_is_a_Country. Some people, such as the New York Times editors, think that #Ivory_Coast is two countries (see below). Many people struggle to name prominent politicians in the countries where they live. #Zara is not like any of these people. She is a little girl who can name the […]

    #BREAKING #EDITORIAL #UNCATEGORIZED #VIDEO #Angola #Botswana #Brazil #Burkina_Faso #Cameroon #China #Colombia #Congo #Equatorial_Guinea #Ethiopia #France #Gambia #Ghana #Girl_names_30_presidents #Guinea-Bissau #Kenya #Mali #Namibia #Nigeria #Philippines #Portugal #Russia #Senegal #South_Africa #Sudan #Tanzania #Uganda #USA #Zimbabwe

  • #Textile : les ouvrières asiatiques en lutte pour un salaire vital
    http://multinationales.org/Textile-les-ouvrieres-asiatiques

    Alors que les manifestations se multiplient au #Cambodge et au #Bangladesh, le collectif Éthique sur l’étiquette lance en France sa campagne « Soldées », qui vise à sensibiliser l’opinion sur les #salaires de misère offerts aux ouvrières textiles en Asie. La conjonction entre les luttes sociales des ouvrières asiatiques et la pression des consommateurs occidentaux peut-elle briser la logique de moins-disant social et salarial qui gouverne depuis des décennies le développement du secteur #Textile (...)

    #Enquêtes

    / Cambodge, Bangladesh, Textile, H&M, #Gap, #Zara, Kering (ex PPR), #Inditex, H&M, #Puma, #Puma, Textile, #Libertés_syndicales, salaires, #syndicats, #chaîne_d'approvisionnement, #femmes, #conditions_de_travail, #campagne_citoyenne, responsabilité sociale des (...)

    #H&M #Kering_ex_PPR_ #responsabilité_sociale_des_entreprises
    « http://www.ethique-sur-etiquette.org/-Salaire-vital- »
    « http://www.ituc-csi.org/les-syndicats-et-les-marques-font »
    « http://www.theguardian.com/business/2014/sep/21/fashion-retailers-offer-raise-minimum-wage-cambodia »
    « http://www.ipsnews.net/2014/02/poverty-wages-unraveling-cambodias-garment-industry »
    « http://www.phnompenhpost.com/business/hm-exec-talks-cambodia-vision »
    « https://www.flickr.com/photos/andrevanderstouwe/5983087704

    Flickr
     »
    « http://webdoc.france24.com/cambodge/textile/index.html »
    « http://www.lemonde.fr/economie/article/2013/11/13/au-cambodge-la-revolte-des-ouvrieres-du-textile-s-ete_3512849_3234.html »
    « http://www.triplepundit.com/2014/09/hm-others-commit-living-wages-cambodia-wake-new-protests »
    « http://www.industriall-union.org/fr/des-marques-pretes-a-integrer-de-meilleurs-salaires-au-cambodge »

  • Le nouveau site de la photographe Zara Samiry

    http://www.zarasamiry.com

    Au Maroc, tous mes amis et proches pensent que ma place est ici en France. Selon eux, je ne suis pas née pour vivre au Maroc. Je m’y suis toujours sentie loin de moi, étrangère. Les codes culturels m’échappent. Je ne fais partie ni d’un monde ni de l’autre, je me sens entre les deux. Au Maroc, j’étais assistée. Je n’avais jamais cuisiné. Je n’avais jamais fait de démarches administratives. Très jeune, j’avais été victime d’agressions qui m’avaient profondément marquée. Je sortais rarement seule… J’ai quitté le Maroc, ma famille, mes amis, mes repères…

    

    #photographie #art

  • En #Europe de l’Est aussi, l’industrie #Textile paie des #salaires de misère
    http://multinationales.org/En-Europe-de-l-Est-aussi-l

    Depuis la catastrophe du Rana Plaza au Bangladesh, l’opinion publique internationale est un peu plus informée sur les #conditions_de_travail des ouvriers et ouvrières du secteur #Textile en Asie. Ces ouvriers fabriquent les vêtements commercialisés par les grandes marques occidentales pour un salaire minimal, équivalent à quelques dizaines d’euros par mois. Mais contrairement aux idées reçues, les salaires perçus par leurs collègues d’Europe de l’Est ou de #Turquie, qui travaillent pour les mêmes marques, (...)

    Actualités

    / #Roumanie, Europe, #Bulgarie, #Ukraine, Turquie, Textile, Textile, #Croatie, #union_européenne, salaires, #droits_des_travailleurs, conditions de travail, #Clean_Clothes Campaign / Éthique sur l’étiquette, #Adidas, #Inditex, H&M, #Adidas, #Benetton, H&M, #Zara, Clean (...)

    #Clean_Clothes_Campaign_/_Éthique_sur_l'étiquette #H&M
    « http://www.cleanclothes.org/livingwage/stitched-up »
    « http://www.ethique-sur-etiquette.org/-Vivre-de-son-travail-c-est-vital- »
    « http://www.cleanclothes.org/resources/publications/stitched-up-1 »

  • Concerts : Flying Robot Rockstars ; le premier morceau - Also sprach Zarathustra, Friedrich Nietzsche, Richard Strauss -, repris dans le 2001 de Kubrick et qui servait d’entrée en scène à Elvis pour le concert à Hawaii en 1973 !
    https://www.youtube.com/watch?v=Qlqe1DXnJKQ


    https://www.youtube.com/watch?v=xqBiE0nUnMM

    https://www.youtube.com/watch?v=ct4bFKwZJRo

    #musique #robots #zarathustra #kubrick #elvis

  • Je découvre la #broyeuse_binaire de l’artiste David #Guez, qui permet de transformer n’importe quel fichier (notamment audio ou vidéo) en un #pdf avec son code #binaire : Ici par exemple, le début de l’ouverture du #Zarathustra de Strauss.

    http://www.guez.org/broyeuse

    C’est marrant, mais je suis plus dubitatif face à l’objectif sous-jacent proclamé, à savoir la #conservation de tous types de documents sur papier face à un risque d’effaçage…

    #musique #archivage

  • Optimisation fiscale : enquête sur les pratiques d’Inditex (Zara)
    http://multinationales.org/Optimisation-fiscale-enquete-sur

    La firme espagnole #Inditex (Zara) est devenue en quelques années le numéro un mondial des chaînes de prêt-à-porter. Parmi les clés de cette réussite, des pratiques sophistiquées d’optimisation fiscale qui lui permettent d’afficher un taux de rentabilité supérieur à 15%. Comme les géants de l’internet (Apple, Amazon, Google) et de la restauration (McDonald’s, Starbucks), les grands groupes textiles comme Inditex recourent à des circuits financiers opaques pour abriter leurs profits dans les pays à fiscalité (...)

    #Actualités

    / #Espagne, #Suisse, #Pays-Bas, #Bloomberg, #Textile, Inditex, #Zara, #Textile, #Paradis_fiscaux, #propriété_intellectuelle, fiscalité, #évasion_fiscale, #financiarisation, (...)

    #fiscalité #transparence
    « http://www.bloomberg.com/news/2014-02-26/ortega-s-zara-fashions-tax-avoidance-by-shifting-profits-to-alps.html »
    « http://www.bloomberg.com/infographics/2014-02-26/inditex-shifts-profits-to-reduce-taxes.html »