• Legal fiction of non-entry in EU asylum policy

    The fiction of ’#non-entry' is a claim that states use in border management to deny the legal arrival of third-country nationals on their territory, regardless of their physical presence, until granted entry by a border or immigration officer. It is usually applied in transit zones at international airports between arrival gates and passport control, signifying that the persons who have arrived have not yet entered the territory of the destination country. Although physically present, they are not considered to have legally entered the country’s official territory until they have undergone the necessary clearance. In the EU, all Member States make use of the fiction of non-entry in transit zones at ports of entry, but usually in a non-asylum context. In 2018, Germany was one of the first Member States to extend this concept to include land crossings. Since the mass arrival of asylum-seekers in 2015-2016, other Member States too have increasingly looked into ways of using this claim to inhibit asylum-seekers’ entry to their territory and thereby avoid the obligation under international law to provide them with certain protection and aid. This, however, may lead to a risk of refoulement, as the fiction of non-entry limits asylum-seekers’ movement and access to rights and procedures, including the asylum procedure. This is a revised edition of a briefing published in March 2024.

    #pacte #asile #migrations #réfugiés #droit_d'asile #fiction_juridique #fiction_légale #legal_fiction #non-entrée #aéroports #territoire #géographie #zones_frontalières #zones_de_transit #présence_physique

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  • The pact kills : l’istituzionalizzazione della fine del diritto d’asilo nell’UE

    Un documento dell’Associazione #Open_Your_Borders di Padova sul nuovo patto europeo sulla migrazione e l’asilo.

    Il 10 aprile il Parlamento europeo ha approvato il Nuovo Patto sulla Migrazione e l’Asilo, frutto di un lungo negoziato cominciato nel 2020 tra Parlamento, Consiglio e Commissione.

    Prima di entrare in vigore, dovrà essere votato anche dal Consiglio dell’UE, l’organo in cui risiedono i rappresentanti dei governi dei 27 stati membri, la cui votazione è attesa entro la fine di aprile.

    In sintesi, questo Nuovo Patto prevede una serie di riforme del sistema di gestione dei flussi migratori e della richiesta di protezione internazionale nel territorio dell’Unione Europea e, in particolare, raccoglie al suo interno dieci proposte di legge che vanno brutalmente a rafforzare l’approccio securitario della ormai consolidata “fortezza Europa”, costituita dalle 27 nazioni, sulle 43 + 7 dell’Europa geografica.

    È evidente che i tempi e i contenuti di questa mossa hanno chiare motivazioni elettoralistiche in vista delle elezioni Europee, con il riposizionamento dei vari partiti nazionali in funzione sia della propria affermazione locale che della futura riaggregazione in probabili inedite coalizioni. Infatti “il Patto” è stato approvato trasversalmente con 301 voti favorevoli, 269 contrari e 51 astensioni.

    La coalizione di centrodestra governativa guidata da Giorgia Meloni è risultata non omogenea, con lo spostamento di Fratelli d’Italia (attualmente all’opposizione in Europa) a favore e con la Lega che ha confermato il proprio voto contrario, probabilmente perché considera la linea adottata troppo moderata e poco sovranista.

    Con motivazioni opposte, si sono schierati contrari anche il PD (che è organico dell’attuale maggioranza in UE) e il Movimento 5 stelle.

    Si rincorrono i toni trionfalistici per la “decisione storica” presa, dipinta come “un enorme risultato per l’Europa”, “un solido quadro legislativo su come affrontare la migrazione e l’asilo nell’Unione europea” e per una fantomatica e propagandistica “vittoria italiana” sottolineata da Meloni, nonostante il tanto criticato Regolamento di Dublino (per cui è il paese di primo ingresso l’unico responsabile di esaminare le richieste di protezione internazionale e di gestire e trattenere al suo interno le persone migranti) sia stato di fatto rafforzato.

    Noi, in questa giornata buia per il diritto d’asilo europeo e per la libertà di movimento internazionale, vediamo solo un consolidamento di pratiche di violazione dei diritti umani, che sono già attuate e condivise da parecchio tempo, sia alle frontiere che nei territori degli Stati dell’Unione Europea, in vista di quello che si prospetta come un inasprimento e allargamento del conflitto mediorientale e di una sempre maggiore instabilità di tutta l’area del Sahel (testimoniato da 7 colpi di Stato in pochi anni e dalla guerra solo apparentemente interna in Sudan che continua nell’indifferenza generale) dove si stanno giocando gli interessi egemonici in Africa dei due blocchi politici ed economici contrapposti, con Stati Uniti e Francia su tutti da un lato, e paesi Brics (Russia, Cina, India, ecc.) dall’altro.

    Con l’Unione Europa dal peso politico inconsistente tra le due parti e i suoi Stati membri che si percepiscono (erroneamente) come meta di approdo per tutti i movimenti di fuga delle popolazioni, i confini esterni dell’Unione diventano in primis la rappresentazione materiale da blindare assolutamente a scopo preventivo.

    Di seguito, analizziamo nello specifico le nuove norme per noi più critiche e problematiche.
    1) Procedure accelerate e sommarie per la richiesta di protezione internazionale

    Il Nuovo Patto divide in maniera importante i percorsi di richiesta di protezione internazionale, con l’applicazione di una procedura accelerata e generalizzata basata soprattutto sulla provenienza geografica legata alla classificazione dei cosiddetti “Stati sicuri” e non sulla storia individuale delle persone.

    Il testo prevede che tali procedure accelerate – che dovrebbero durare al massimo 12 settimane – siano svoltedirettamente nelle zone di frontiera, con il trattenimento di migliaia di persone in centri di detenzione posizionati ai confini degli Stati dell’Unione Europea.

    Lo svolgimento dell’esame approssimativo delle richieste sulla base della nazionalità porterà quindi ad un aumento generalizzato delle espulsioni, limitando la possibilità di richiesta di asilo, in violazione del principio internazionale del non respingimento, ma anche, ad esempio, al diritto alle cure mediche e al ricongiungimento familiare.

    Il criterio basato sullo Stato di provenienza è già stato eccezionalmente usato per velocizzare l’ingresso e l’integrazione diffusa delle persone rifugiate ucraine – però limitato a donne, bambin* e anzian*. Tale applicazione, causata dal conflitto Russia-Ucraina, che evidentemente ci tocca da vicino sia per posizione geografica che etnica, ha però contestualmente escluso l’evacuazione di tutti gli altri “non bianchi” presenti in quel territorio per motivi di lavoro, di studio o in transito migratorio. Anche per questo motivo, utilizzare solamente il criterio di provenienza geografica di origine senza considerare le specificità delle persone nelle procedure accelerate è funzionale alla negazione dell’asilo, in quanto arbitraria e strumentale da parte degli Stati.
    2) Un nuovo regolamento di screening (ovvero l’esercizio della bio-politica)

    Le persone richiedenti asilo non possono scegliere se seguire una procedura tradizionale (che richiede molti mesi) o accelerata, ma vengono divisi e indirizzati in base al loro profilo, stilato attraverso un nuovo e uniforme regolamento di screening obbligatorio inserito nell’Eurodac, creando così una enorme banca dati comune: questa “procedura di frontiera” preliminare, da farsi entro 7 giorni dall’arrivo, comprende identificazione, raccolta dei dati biometrici, controlli sanitari e di sicurezza, controllo di eventuali trasferimenti e precedenti, il tutto a partire dai 6 anni di età. Questa procedura sarà adottata principalmente per le persone richiedenti asilo che per qualche motivo vengono considerati un “pericolo” per i paesi dell’Unione, per coloro che provengono dai paesi considerati “sicuri” e per chi proviene da paesi che, anche per altri motivi, hanno un tasso molto basso (sotto il 20 per cento) di domande d’asilo accolte.
    3) Introduzione del concetto di “finzione del non ingresso”

    Il patto introduce il concetto di “finzione giuridica di non ingresso”, secondo il quale le zone di frontiera sono considerate come non parte del territorio degli Stati membri. Questo interessa in particolare l’Italia, la Grecia e la Spagna per gli sbarchi della rotta mediterranea, mentre sono più articolati “i confini” per la rotta balcanica. Durante le 12 settimane di attesa per l’esito della richiesta di asilo, le persone sono considerate legalmente “non presenti nel territorio dell’UE”, nonostante esse fisicamente lo siano (in centri di detenzione ai confini), non avranno un patrocinio legale gratuito per la pratica amministrativa e tempi brevissimi per il ricorso in caso di un primo diniego (e in quel caso rischiano anche di essere espulse durante l’attesa della decisione che li riguarda). In assenza di accordi con i paesi di origine (come nella maggioranza dei casi), le espulsioni avverranno verso i paesi di partenza.

    Tale concetto creadelle pericolose “zone grigie” in cui le persone in movimento, trattenute per la procedura accelerata di frontiera, non potranno muoversi sul territorio né tantomeno accedere a un supporto esterno. Tutto questo in spregio del diritto internazionale e della tutela della persona che, sulla carta, l’UE si propone(va) di difendere.
    4) L’istituzione di un meccanismo di “solidarietà obbligatoria” e l’esternalizzazione dei confini

    All’interno di una narrazione in cui le persone in movimento sono un onere da cui gli Stati Europei cercano di sottrarsi, viene istituito un meccanismo di “accettazione obbligatoria” di ricollocamento e trasferimento delle persone migranti, ma solo in caso di non precisate impennate di arrivi. Gli Stati potranno però scegliere se “accettare” un certo numero di migranti o, in alternativa all’accoglienza, fornire supporto operativo al paese d’arrivo, inviando del personale o mezzi, oppure pagare una quota di 20mila euro per ogni richiedente che si rifiutano di accogliere, da versare in un fondo comune dell’Unione Europea.

    I soldi versati in questo fondo comune, oltre a poter essere redistribuiti tra i paesi di frontiera (come l’Italia), potranno essere utilizzati per sostenere e finanziare «azioni nei paesi terzi o in relazione ad essi che hanno un impatto diretto sui flussi migratori verso l’UE» ossia paesi, come Libia e Tunisia da cui le persone migranti partono per raggiungere l’Europa.

    Un meccanismo disumanizzante e che trasforma le persone e le garanzie dei diritti umani in merci barattabili con un compenso economico destinabile a rafforzare i confini ancora più esternamente.

    Un ulteriore sviluppo è dato dalla delocalizzazione della zona di frontiera, attraverso la creazione di hotspot al di fuori dei confini nazionali, come nel caso dei futuri centri italiani in Albania.

    L’adozione di questo Nuovo Patto – non ancora definitivo, si ricorda – dimostra come i valori di accoglienza e “integrazione” e il diritto alla libertà di movimento, previsto dall’art. 12 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, vengano sgretolati di fronte ad una sempre più marcata diffidenza, chiusura e difesa della sovranità nazionale.

    Con la recrudescenza dei nazionalismi negli Stati Europei e la loro incapacità di agire con una lungimiranza alternativa e una visione decolonializzata nello scacchiere geopolitico, la tutela degli individui e della dignità umana viene “semplicemente” sostituita da inquietanti concetti privi di senso legati alla purezza della nazione e dell’etnia e alla difesa, in modalità securitaria e repressiva, della patria e della tradizione, che si traducono in istituzionalizzazione e normalizzazione dell’agire violento ai confini della UE e in una crescente esternalizzazione della frontiera attraverso il respingimento delle persone razzializzate nell’ultimo Paese di partenza, con l’intento dichiarato di voler scoraggiare la mobilità verso l’Europa.

    https://www.meltingpot.org/2024/04/the-pact-kills-listituzionalizzazione-della-fine-del-diritto-dasilo-nell
    #pacte #asile #migrations #réfugiés #droit_d'asile #procédure_accélérée #pays_sûrs #rétention #frontières #rétention_aux_frontières #screening #Eurodac #procédure_de_frontière #biométrie #fiction_juridique #zones_frontalières #solidarité_obligatoire #externalisation #relocalisation #fiction_légale #legal_fiction

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  • SAINTE SOLINE, AUTOPSIE D’UN CARNAGE

    Le 25 mars 2023, une #manifestation organisée par des mouvements de défense de l’environnement à #Sainte-Soline (#Deux-Sèvres) contre les #megabassines pompant l’#eau des #nappes_phréatiques pour l’#agriculture_intensive débouche sur de véritables scènes de guerre. Avec près de 240 manifestants blessés, c’est l’une des plus sanglantes répressions de civils organisée en France depuis le 17 octobre 1961 (Voir en fin d’article le documentaire de Clarisse Feletin et Maïlys Khider).

    https://www.off-investigation.fr/sainte-solineautopsie-dun-carnage
    Vidéo :
    https://video.off-investigation.fr/w/9610c6e9-b18f-46b3-930c-ad0d839b0b17

    #scène_de_guerre #vidéo #répression

    #Sainte_Soline #carnage #méga-bassines #documentaire #film_documentaire #violences_policières #violence #Gérald_Darmanin #résistance #militarisation #confédération_paysanne #nasse
    #off_investigation #cortège #maintien_de_l'ordre #gaz_lacrymogènes #impuissance #chaos #blessés #blessures #soins #élus #grenades #LBD #quads #chaîne_d'élus #confusion #médic #SAMU #LDH #Serge_Duteuil-Graziani #secours #enquête #zone_rouge #zone_d'exclusion #urgence_vitale #ambulances #évacuation #plainte #justice #responsabilité #terrain_de_guerre #désinformation #démonstration_de_force #récit #contre-récit #mensonge #vérité #lutte #Etat #traumatisme #bassines_non_merci #condamnations #Soulèvements_de_la_Terre #plainte

    à partir de 1h 02’26 :

    Hélène Assekour, manifestante :

    « Moi ce que je voudrais par rapport à Sainte-Soline c’est qu’il y ait un peu de justice. Je ne crois pas du tout que ça va se faire dans les tribunaux, mais au moins de pouvoir un peu établir la vérité et que notre récit à nous puisse être entendu, qu’il puisse exister. Et qu’il puisse même, au fil des années, devenir le récit qui est celui de la vérité de ce qui s’est passé à Sainte-Soline ».

    • question « un peu de vérité », il y avait aussi des parlementaires en écharpe, sur place, gazé.es et menacé.es par les quads-à-LBD comme le reste du troupeau alors qu’ils protégeaient les blessés étendus au sol ; personne n’a fait de rapport ?

      Il y a eu une commission d’enquête parlementaire aussi, je crois, qui a mollement auditionné Gérald ; pas de rapport ?

  • La #rémunération hors norme d’#Arnaud_Rousseau, président de la #FNSEA, à la tête du groupe #Avril

    L’émission de France 2 « Complément d’enquête », consacrée jeudi soir à la FNSEA, révèle le montant de la rémunération d’Arnaud Rousseau par sa société Avril : 187 000 euros en 2022. Sans compter ses autres revenus liés à ses multiples casquettes.

    Le chiffre est dix fois supérieur au revenu moyen des agriculteurs et agricultrices du pays. Président du conseil d’administration du groupe Avril et président du syndicat de la FNSEA, Arnaud Rousseau a touché en 2022 une rémunération supérieure à 187 000 euros de la part de la société spécialisée dans le colza et le tournesol. C’est ce que révèle l’émission de France 2 « Complément d’enquête », dans un long format consacré à la FNSEA, diffusé jeudi 29 février à partir de 23 heures (https://www.france.tv/france-2/complement-d-enquete/5714862-agriculture-pour-qui-roule-la-fnsea.html).

    Rapportée à une moyenne mensuelle, cette rémunération, dans laquelle sont inclus des jetons de présence et des avantages en nature – voiture et logement de fonction –, est équivalente à plus de 15 500 euros par mois. L’information de l’équipe de « Complément d’enquête » a été confirmée par le directeur juridique du groupe Avril. Il a toutefois été précisé à France 2 que « ce que perçoit Arnaud Rousseau est confidentiel ».

    Ce montant ne fait pas le tour des rémunérations d’Arnaud Rousseau, dont l’ensemble des revenus est, à l’évidence, encore supérieur. L’homme est en effet président de la FNSEA – où il touche des indemnités d’élu –, exploitant agricole à la tête de plusieurs structures bénéficiaires des aides publiques de la PAC – dont Mediapart révélait les montants l’an dernier –, vice-président de la chambre d’agriculture de la région Île-de-France, vice-président de la FOP (Fédération française des producteurs d’oléagineux et de protéagineux), et maire de sa commune.
    Des manœuvres pour empêcher la reconnaissance de maladies liées aux pesticides

    Dans son enquête, le magazine de France 2 révèle également comment la FNSEA a tenté de manœuvrer pour empêcher la reconnaissance de maladies liées aux pesticides. Au cours de réunions rassemblant expert·es et partenaires sociaux pour décider de la reconnaissance de maladies professionnelles agricoles, le syndicat majoritaire des exploitantes et exploitants agricoles s’est notamment opposé, en 2011, à la reconnaissance de la maladie de Parkinson et, en 2013, à la reconnaissance du lymphome non hodgkinien. L’une et l’autre seront tout de même reconnus respectivement en 2012 et en 2015.

    La reconnaissance de maladies liées aux pesticides permet aux victimes de toucher, via la MSA, la Mutuelle sociale agricole, des indemnités à vie. Plus il y a de maladies reconnues, plus les cotisations sociales des exploitantes et exploitants agricoles sont susceptibles d’augmenter. À ce jour, de nombreuses victimes sont obligées d’aller jusqu’en justice pour faire reconnaître leur maladie.

    https://www.mediapart.fr/journal/ecologie/290224/la-remuneration-hors-norme-d-arnaud-rousseau-president-de-la-fnsea-la-tete
    #agriculture

    • Le groupe Avril, présidé par le patron de la FNSEA, carbure aux frais de l’État

      L’entreprise d’Arnaud Rousseau est devenue leader sur le marché des « #biocarburants ». Son or jaune, c’est le #colza. La société a prospéré grâce à une réglementation sur mesure et à un important #rabais_fiscal.

      Le 30 mars 2022, à quelques jours du premier tour de l’élection présidentielle, la #Fédération_nationale_des_syndicats_d’exploitants_agricoles (FNSEA) organise un « grand oral » des candidats à la fonction suprême à l’occasion de son congrès annuel qui se tient à Angers (Maine-et-Loire). Emmanuel Macron intervient, en vidéo, depuis son QG de campagne. Et il fait cette promesse : « Je voulais ici vous le dire très clairement. Le Crit’Air 1 sera attribué aux véhicules qui roulent en permanence au B100. C’était, je le sais, attendu. »

      Le #B100 ? C’est un #carburant fait d’#huile_de_colza. Les #poids_lourds roulant exclusivement avec ce produit vont donc obtenir la #vignette qui autorise à circuler dans les « #zones_à_faibles_émissions » (#ZFE) mises en place dans les grandes agglomérations pour limiter la pollution locale. Deux semaines plus tard, le 16 avril, l’arrêté paraît au Journal officiel. On est entre les deux tours de la présidentielle, il n’y a eu aucune consultation publique.

      La décision ne tombe pas du ciel. Elle est particulièrement favorable à une société étroitement liée à la FNSEA : Avril, quatrième groupe agroalimentaire français, qui a lancé trois ans et demi plus tôt l’Oleo100, un carburant B100. De la graine de colza qu’il achète auprès des coopératives de producteurs comme sur les marchés mondiaux, et qu’il fait passer dans ses usines de trituration, le groupe Avril tire à la fois un produit sec – ce qu’on appelle les tourteaux, destinés à l’alimentation animale – et une huile végétale. C’est cette huile qui fait tourner des moteurs Diesel.

      L’entreprise est présidée par Arnaud Rousseau, alors premier vice-président de la FNSEA et dans les starting-blocks pour succéder à sa présidente, Christiane Lambert – il prendra la tête du syndicat un an plus tard. L’attribution de la vignette vient compléter un arsenal règlementaire qui contribue directement aux bénéfices mirobolants du groupe : grâce à un important rabais fiscal et à la vente, en plus de son propre carburant, de « certificats » censés aider à la décarbonation des transports, le groupe Avril, via sa filiale Saipol, dégage des dizaines de millions d’euros de bénéfices sur un produit à la rentabilité hors normes. Loin, très loin, de ce que touchent réellement agricultrices et agriculteurs. Et sans que l’écologie y gagne.

      Le jour même de l’intervention d’Emmanuel Macron au congrès de la FNSEA, Arnaud Rousseau se réjouit de la nouvelle dans un communiqué de la FOP (Fédération française des producteurs d’oléagineux et de protéagineux), qu’il préside également à ce moment-là : « L’ensemble des acteurs de la filière française des huiles et protéines végétales se félicite de l’obtention de la vignette Crit’Air 1 pour le B100, carburant 100 % végétal », écrit-il.

      La mesure était, de fait, attendue. Une présentation commerciale de l’Oleo100 auprès de potentiels clients évoquait déjà, début 2021, la future vignette en indiquant « actions en cours pour Crit’Air 1 et classification “véhicule propre” ».

      Elle ne fait certes pas grand bruit mais certains s’en émeuvent. Le sénateur (Europe Écologie-Les verts) Jacques Fernique s’est étonné de cette décision discrétionnaire, prise au profit d’un seul produit. « Cette évolution réglementaire soudaine interpelle […] au sortir d’un premier quinquennat marqué par la tenue de la convention citoyenne pour le climat et à l’orée d’un second, placé, selon le président de la République, sous le signe d’une “méthode nouvelle” associant l’ensemble des acteurs et dont l’écologie serait “la politique des politiques” », dit-il dans une question adressée au Sénat le 14 juillet 2022.

      Répondant à nos questions, le service communication d’Avril le reconnaît : « La demande de classification Crit’Air 1 a été portée par les différentes associations professionnelles représentatives des industriels producteurs de B100, des constructeurs et des transporteurs ». On peut d’ailleurs relever sur le site de la Haute Autorité pour la transparence de la vie publique (HATVP) que le groupe déclare avoir mené des actions de lobbying auprès de décideurs sur le sujet.

      Côté producteurs de B100, ces associations, précise-t-il, ce sont « Estérifrance, le syndicat français des producteurs de biocarburants de type Ester méthylique d’acide gras [type dont fait partie l’huile de colza – ndlr] », et « l’European Biodiesel Board, une association européenne visant à promouvoir l’utilisation des biocarburants dans l’UE ». La filiale Saipol d’Avril fait partie de l’une et de l’autre.
      Un « biocarburant » polluant

      L’an dernier, le député (MoDem) Mohamed Laqhila posait une question similaire à l’Assemblée nationale, s’interrogeant sur la différence de « traitement » entre le B100 et le HVO, alors même que ce dernier « est homologué dans de nombreux pays européens depuis plusieurs années ».

      Le HVO est un autre carburant alternatif qui peut être composé, celui-là, à partir d’huiles usagées, de graisses animales et de déchets. Autrement dit, sans recourir aux terres agricoles. Mais les véhicules roulant au HVO, eux, ne sont pas autorisés dans les centres-villes classés ZFE.

      Pourquoi une telle distinction ? Au regard de ce que dit la science, elle n’a pas lieu d’être. « Dans un moteur, la combustion du B100 se traduit par plus de NOx [oxydes d’azote – ndlr] qu’un carburant fossile, explique le chercheur Louis-Pierre Geffray, de l’institut Mobilités en transition. Ces NOx supplémentaires sont normalement traités par le système antipollution du véhicule, mais il n’y a aucune raison objective qui explique pourquoi, en usage réel, ce biocarburant est classé Crit’Air 1, à la différence du HVO et du diesel qui sont restés en Crit’Air 2. »

      AirParif, qui observe la qualité de l’air en Île-de-France, est arrivé aux mêmes conclusions en comparant les émissions du diesel et des carburants alternatifs.

      Interrogé sur le sujet, le ministère des finances – auquel est maintenant rattachée la Direction générale de l’énergie et du climat qui avait signé l’arrêté en question – indique que le B100 permet des réductions d’autres émissions. Et que si le HVO est exclu, c’est qu’il n’y a pas de moteur permettant de s’assurer qu’« il ne sera utilisé que du carburant HVO ».

      Ce traitement favorable au carburant issu de l’huile de colza n’est pas anecdotique. Il fait partie du « business model » d’Avril, mastodonte présent dans dix-neuf pays, au chiffre d’affaires, en 2022, de 9 milliards d’euros. Depuis longtemps, le groupe développe une stratégie d’influence auprès de la puissance publique comme auprès des gros acteurs du secteur, afin de s’assurer une position hégémonique sur le marché.

      Comme Mediapart l’avait écrit, une importante niche fiscale était déjà favorable, au cours des années 2000 et 2010, à un produit du groupe Avril – qui s’appelait alors Sofiprotéol –, le diester.
      De niche fiscale en niche fiscale

      Les bonnes affaires avec la bénédiction de l’État ne se sont pas arrêtées là. Dès son homologation par arrêté ministériel, en avril 2018, le B100 a bénéficié d’un énorme rabais fiscal. Cette année-là, Avril déclare à la HATVP l’action de lobbying suivante : « défendre les intérêts de la filière française lors des révisions du dispositif fiscal d’incitation à l’incorporation de biocarburants ».

      Sept mois après l’arrêté ministériel, Saipol annonçait le lancement de l’Oleo100. La société est la première sur le coup. Les concurrents n’arriveront que dans un second temps - un an plus tard pour la coopérative Centre ouest céréales, trois ans plus tard pour Bolloré. Eux et une poignée d’autres resteront minoritaires sur le marché.

      Cette ristourne fiscale donne un sacré avantage au B100 sur les autres carburants : il n’est taxé qu’à hauteur de 118,30 euros par mètre cube. Le produit alternatif HVO, commercialisé entre autres par TotalEnergies, Dyneff ou encore le néerlandais Neste, est imposé au même niveau que le diesel issu du pétrole, soit une taxe à hauteur de 607,5 euros par mètre cube.

      Pour l’État, la perte est substantielle. Elle pèse 489,20 euros par mètre cube de B100. Pour l’année 2023 où la filiale Saipol d’Avril, a vendu, selon ses propres chiffres, 185 000 mètres cubes d’Oleo100, ce manque à gagner dans les recettes publiques s’élève à 90,5 millions d’euros.

      Le ministère des finances dément avoir mis en place un traitement privilégié. « Aucune mesure favorisant un groupe n’a été prise. » Bercy explique la différence de taxation entre B100 et HVO par leurs caractéristiques chimiques. Le B100 est « un carburant qui ne peut être utilisé qu’avec des moteurs dédiés, et dans le cadre de flottes captives de camions spécifiquement conçus pour ce carburant. Son utilisation est donc particulièrement encadrée et restrictive ». À l’inverse, le HVO pouvant être utilisé dans différents types de moteur, le contrôle de sa bonne utilisation n’est pas possible.

      Au total, selon les chiffres d’Avril, la société présidée par Arnaud Rousseau a vendu environ 360 000 m³ d’Oleo100 depuis 2020. Ce sont plus de 176 millions d’euros qui ne sont pas allés dans les caisses de l’État. Et ce trou dans les recettes fiscales pourrait encore se creuser : selon nos informations, les projections du groupe continuent de suivre une courbe ascendante, avec l’estimation que le marché du B100 avoisinera les 600 000 m³ en 2025.

      Même si le B100 est moins émetteur de gaz à effet de serre que le gazole ordinaire, l’apport écologique de ce développement n’est pas avéré. « La fiscalité très avantageuse sur le B100 se traduit par un fort développement de ce carburant, au détriment de l’incorporation de renouvelables dans le diesel classique B7 vendu à la pompe aux particuliers, fait valoir le chercheur Louis-Pierre Geffray. Car, sur l’ensemble des carburants, l’incorporation d’énergies issues de productions agricoles en concurrence avec l’alimentation humaine est limitée par le cadre réglementaire européen à 7 %, et ce seuil a été atteint en France. » Au bénéfice du B100, donc, et au détriment des autres carburants. « Ce qui ne se justifie que partiellement en termes de vertu environnementale », souligne le chercheur.

      Dans une note publiée l’année dernière par l’Institut du développement durable et des relations internationales (Iddrri), ce chercheur et deux de ses collègues relèvent en outre que la culture de colza est très consommatrice de produits phytosanitaires. C’est « la deuxième culture française la plus traitée » aux pesticides, et elle absorbe en moyenne 170 kilos par hectare d’engrais azoté, estiment-ils, soulignant par ailleurs que la consommation française d’huile de colza est très dépendante des importations.

      Fin 2021, la fiscalité du B100 a d’ailleurs été étrillée par la Cour des comptes, qui avait mis en exergue, dans un rapport sur le développement des biocarburants, des taux d’imposition « sans aucune rationalité », conduisant à un système « qui n’est pas conforme à la réglementation européenne sur la taxation des produits énergétiques ». De fait, le niveau d’imposition du B100 est plus de deux fois inférieur au minimum fixé par la directive européenne sur la taxation de l’énergie pour les équivalents au gazole routier.

      La stratégie de maximisation du quatrième groupe agroalimentaire français ne s’est pas arrêtée là. Ces dernières années, il a étendu son emprise du côté des acheteurs de carburant. C’est ainsi qu’il a noué des partenariats avec des constructeurs automobiles – Renault Trucks, Volvo Trucks, Man, Scania –, comme l’écrivait Transport Infos l’an dernier, mais aussi signé des contrats avec des sociétés de la logistique et des transports. L’objectif ? garantir des débouchés pour son carburant, en concevant des modèles de véhicules qui ne peuvent rouler qu’au B100, et en incitant des transporteurs à se tourner vers ces nouveaux poids lourds.

      Depuis le projet de loi de finances (PLF) 2020, une nouvelle niche fiscale est apparue : l’achat de tels véhicules, pour les entreprises qui en font l’acquisition, entraîne, suivant le poids de l’engin, une déduction d’impôt de 5 à 15 %. C’est ce que le secteur appelle le « suramortissement ».
      Le bénéfice de Saipol, une info « confidentielle »

      Il est, enfin, encore une politique publique qui contribue directement aux juteuses affaires du groupe Avril sans pour autant contribuer efficacement à la décarbonation du secteur pour laquelle elle a été conçue. C’est celle des « certificats ». Ce système complexe, mis en place en 2019 – au départ pour pousser le secteur des carburants vers la décarbonation –, est un marché secondaire, où ne s’échangent plus des matières premières, mais des tickets permettant d’éviter des pénalités de l’État. Un mécanisme semblable aux droits à polluer pour le CO2.

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      Le marché des certificats

      Le marché des certificats permet à un fournisseur de gazole qui a dépassé le seuil obligatoire d’incorporation de 9 % d’énergie renouvelable dans son produit de vendre l’équivalent de son surplus sous forme de certificats. C’est le cas de la filiale Saipol d’Avril, dont le produit Oleo100 est constitué à 100 % de renouvelable, et qui peut donc vendre des certificats pour 91 % de ses volumes.

      À l’inverse, le fournisseur n’ayant pas atteint ce seuil des 9 % achète les certificats qui lui permettent de combler virtuellement l’écart. S’il ne le fait pas, des pénalités, plus douloureuses pour ses comptes, lui sont imposées par l’État. C’est la taxe incitative relative à l’utilisation d’énergie renouvelable dans le transport (Tiruert).

      Le principe de ce mécanisme, non réglementé et opaque, est de donner aux fournisseurs abondants en renouvelables une assise financière confortable de façon à ce qu’ils poursuivent dans cette voie, afin d’obtenir, sur l’ensemble de la production française de carburant le mix attendu par les directives européennes. Cela génère donc pour eux deux sources de revenu : la vente du biocarburant en lui-même, et la vente des certificats.

      Le premier est indexé sur le prix du gazole, vendu quelques centimes au-dessous. Pour les seconds, les prix ne sont pas publics. Selon nos informations, ces certificats s’échangeaient l’année dernière autour de la coquette somme de 900 euros par mètre cube de carburant renouvelable – en ce début d’année, le prix était descendu à 700 euros.

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      La filiale d’Avril vend à la fois son produit Oleo100 et des certificats qui lui sont associés. C’est ainsi qu’elle dégage, sur son carburant, une marge incongrue. Celle-ci pèserait, pour la seule année 2023, entre 110 et 150 millions d’euros (voir en annexes notre calcul à partir du prix de vente du carburant, du coût de production et de la vente des certificats).

      Si l’on retient le bas de la fourchette, cela donnerait un taux de marge d’environ 29 %. Soit une rentabilité digne de l’industrie du luxe - en 2023, le taux de marge de LVMH, qui a publié ses chiffres en début d’année, était de 26,5 %...

      Comment justifier ce profit colossal que les contribuables financent pour partie ? Contacté, Arnaud Rousseau ne nous a pas répondu. Il n’est que le président « non exécutif » du groupe, nous précise le groupe Avril, lequel nous indique que le montant des bénéfices et du chiffre d’affaires de la filiale Saipol en 2023 est une information « confidentielle ».

      À l’évidence, l’activité biocarburants, avec ces dispositifs et traitements fiscaux particuliers, est la locomotive du groupe. En 2022, où le chiffre d’affaires d’Avril avait fait un bond à 9 milliards d’euros, la filiale Saipol dégageait, selon les derniers comptes disponibles, 135,5 millions d’euros de bénéfices. Ce qui représentait plus de 50 % du résultat net du groupe Avril.

      Depuis le début du mouvement de colère du monde agricole, l’un des principaux arguments d’Arnaud Rousseau pour maintenir la pression et obtenir la levée d’un maximum de contraintes pour le secteur est d’invoquer la fonction nourricière de l’agriculture et la nécessité de préserver la souveraineté alimentaire de la France.

      Il l’a répété sur France 2, sur RTL et sur France Inter ces dernières semaines : « Notre objectif, c’est de produire pour nourrir. » Devant les grilles du parc des expositions Paris Expo, Porte de Versailles à Paris, peu avant l’ouverture du Salon de l’agriculture samedi matin, où il réclamait « une vision » et « des réponses » du chef de l’État, le patron de la FNSEA le disait encore : « Produire pour nourrir, pour nous ça a du sens. La souveraineté alimentaire et faire en sorte que dans ce pays on continue à produire une des alimentations les plus sûres du monde, dont on est fiers […], tout cela, ça a du sens pour nous. »

      L’activité phare du mastodonte qu’il préside bénéficie pourtant déjà des attentions du gouvernement, et n’a rien à voir avec le fait de nourrir la population : elle fait tourner des bus et des camions, et elle rapporte énormément d’argent.

      https://www.mediapart.fr/journal/economie-et-social/290224/le-groupe-avril-preside-par-le-patron-de-la-fnsea-carbure-aux-frais-de-l-e
      #fiscalité #fisc

  • « Le pavillon fait partie du rêve français » : Attal promet de doper la construction de maisons - Figaro Immobilier
    https://immobilier.lefigaro.fr/article/le-pavillon-fait-partie-du-reve-francais-attal-promet-de-doper-l

    « Oui, le pavillon fait partie du rêve français ! » Gabriel Attal a été ferme : le premier ministre veut relancer la construction de maisons individuelles. Les Français dont on dit que leurs envies sont souvent en décalage avec la politique du gouvernement, apprécieront. « J’assume de vouloir continuer à permettre à tous les Français qui le veulent, de s’offrir leur propre maison. Ça fait partie du rêve de beaucoup de familles, de classes moyennes qui travaillent dur et aspirent à se loger, si c’est leur choix, dans une maison individuelle », a déclaré le chef du gouvernement, en déplacement à Villejuif (94) pour présenter les grandes lignes de son « choc d’offre ».

    « Ceux qui ont pu émettre des doutes, sur cette question, se trompent », a ajouté Gabriel Attal.

    #immobilier #construction #logement #propriétaire #propriété #artificialisation

    • Ça sent le bétonnage de zone agricole et l’étalement urbain, pas du tout viable écologiquement. La maison individuelle #prête_a_crever française date du libéral de droite Giscard (voiture individuelle, maison individuelle, four individuel… cf en quoi l’individualisme a été une stratégie poilitique) et le coup d’Attal ne vient pas de nulle part… A une époque, j’étais locataire d’un logement où on recevait des publications au nom de mes propriétaires. Au bout d’un moment, avant que mon pote Mohammed ne leur fasse la blague de leur courir après avec dans les mains le paquet des envois, je me suis mise à ouvrir les blisters noirs qui les recouvraient, c’était nh l’hebdo du fn, arf. Bref, donner à chaque français une maison avec un jardin faisait partie des promesses de campagne de l’extrême droite. Comme c’est étonnant.

    • En marche arrière
      Coups de rabot sur la rénovation énergétique des logements
      https://www.lemonde.fr/societe/article/2024/02/20/coups-de-rabots-sur-la-renovation-energetique-des-logements_6217454_3224.htm

      La ponction de 1 milliard d’euros dans les crédits de MaPrimeRénov’, annoncée dimanche par le ministre de l’économie, Bruno Le Maire, suscite l’incompréhension du secteur.
      Par Claire Ané

      MaPrimeRénov’ est le dispositif qui paie le plus lourd tribut aux nouvelles réductions de dépenses annoncées par le ministre de l’économie, Bruno Le Maire, dimanche 18 février : cette aide à la rénovation énergétique va perdre 1 milliard d’euros de crédits en 2024. Elle s’élèvera toutefois à 4 milliards d’euros, soit 600 millions d’euros de plus qu’en 2023, mais sans permettre l’accélération initialement prévue.

      Deux trains de mesures venaient déjà d’être présentés, afin que la rénovation énergétique contribue au « choc de simplification » dans le logement, promis par le chef du gouvernement, Gabriel Attal. La première salve a été lancée par le ministre de la transition énergétique, Christophe Béchu, dans un entretien au Parisien, lundi 12 février. Elle prévoit de modifier le diagnostic de performance énergétique (#DPE), afin de faire sortir 140 000 logements de moins de 40 mètres carrés du statut de #passoire_thermique – étiquetés F ou G –, soit 15 % d’entre eux. Ils échapperont ainsi à l’interdiction de mise en #location, à laquelle sont déjà soumis les logements classés G+, qui doit être étendue à l’ensemble de logements G début 2025 et aux F en 2028.
      S’ajoute une confirmation : les travaux de rénovation des G ne s’imposeront pas dès le 1er janvier 2025, mais lors d’un changement de locataire ou d’un renouvellement de bail. Dans ce dernier cas, le propriétaire en sera désormais exonéré si le locataire en place refuse de déménager le temps des travaux. Autre nouveauté : l’interdiction de louer un logement classé G sera suspendue pendant deux ans si la copropriété, dont il fait partie, vote en assemblée générale une rénovation des parties communes

      Deuxième étape, jeudi 15 février : M. Béchu et le ministre délégué au logement, Guillaume Kasbarian, ont rencontré le président de la Fédération française du bâtiment, Olivier Salleron, et celui de la Confédération de l’artisanat et des petites entreprises du bâtiment (Capeb), Jean-Christophe Repon. Ils ont promis de simplifier l’accès à MaPrimeRénov’, début mars, sur trois points : limiter l’obligation de recourir à Mon accompagnateur Rénov’aux propriétaires bénéficiant des subventions les plus élevées, « simplifier le label RGE [pour « reconnu garant de l’environnement » ; que les professionnels doivent obtenir pour que les #travaux soient finançables par MaPrimeRénov’] » et « lever les restrictions de financement concernant les gestes de #rénovation simples et efficaces ».
      Si les premières annonces ont été saluées par certains, le coup de rabot sur MaPrimeRénov’est largement critiqué. La Fédération nationale de l’immobilier (Fnaim) a estimé que les allégements sur les DPE et l’interdiction de louer « vont dans le bon sens », tout en appelant à « aller plus loin ». Avant de s’alarmer, six jours plus tard, sur X, du fait que « Bruno Le Maire supprime encore 1 milliard d’euros pour le logement » – le budget 2024 prévoyait déjà 2 milliards d’euros d’économies grâce à la fin du dispositif de défiscalisation Pinel, et un autre gain de 400 millions d’euros par le recentrage du prêt à taux zéro. Et la Fnaim d’insister : la baisse des crédits alloués à MaPrimeRénov’ est « incompréhensible, alors que les obligations de travaux énergétiques imposées par la loi doivent s’accélérer ».

      « Incohérence totale »
      La Fédération française du bâtiment, après avoir apprécié les « intentions » du gouvernement visant à relancer MaPrimeRénov’, dénonce l’« incohérence totale » consistant à amputer cette aide, trois jours plus tard. « Comme sur le logement neuf, ces coups de barre laissent craindre qu’il n’y ait plus de vision au sommet de l’Etat. (…) Organiser la mutation d’une filière dans ces conditions devient tout simplement impossible », affirme le syndicat dans un communiqué.

      Le président de la Capeb, qui représente des entreprises du bâtiment de moins de dix salariés (97 % du secteur), estime pour sa part que « la priorité, c’est de ramener les particuliers et les artisans sur la rénovation. Donc de simplifier, alors que les budgets MaPrimeRénov’ont été moins consommés l’an dernier qu’en 2022 ». De fait, les aides attribuées ont diminué en 2023 – passant de 3,1 milliards d’euros à 2,7 milliards d’euros, tandis que 3,4 milliards avaient été alloués, en hausse de 500 millions d’euros. « Si l’enveloppe de 4 milliards d’euros désormais prévue pour 2024 est dépensée, nous aurons réussi un sacré coup de pouce », fait valoir l’entourage du ministre du logement.

      Pour nombre d’acteurs, cependant, il est malvenu de revoir MaPrimeRénov’, alors que la nouvelle formule vient à peine d’entrer en vigueur, au 1er janvier. « On craint un retour en arrière. Pourtant, on a obtenu de généraliser Mon accompagnateur Rénov’, ce qui évite les arnaques et les travaux peu pertinents. Cela permet aussi de donner la priorité aux rénovations d’ampleur, qui sont bien plus efficaces et moins coûteuses qu’une succession de monogestes, et de renforcer les aides pour les ménages les plus modestes. Réduire leur #consommation est d’autant plus nécessaire que les prix de l’#énergie ont flambé », alerte Léana Miska, responsable des affaires publiques de Dorémi, entreprise solidaire spécialisée dans la rénovation performante.
      « Réduire l’ambition sur MaPrimerénov’ est une catastrophe concernant le signal et la lisibilité, considère le directeur des études de la Fondation Abbé Pierre, Manuel Domergue. Et assouplir les obligations de rénovation va aussi créer de l’attentisme de la part des propriétaires bailleurs. Tout cela à cause du fantasme d’une sortie des passoires thermiques du marché locatif. Ce ne sera pas le cas. Si le calendrier de rénovation n’est pas respecté, l’Etat, les maires ne peuvent rien faire, seuls les #locataires gagnent une petite arme : la possibilité de demander au juge d’instance que leur bailleur effectue des travaux. »

      Inquiétude sur l’assouplissement annoncé du DPE
      Olivier Sidler, porte-parole de NégaWatt, association d’experts qui développe des solutions pour atteindre la neutralité carbone en 2050, ne comprend pas le recul prévu sur MaPrimeRénov’. Même s’il lui rappelle la mise en pause de la réduction des pesticides dans l’agriculture, annoncée par Gabriel Attal au début du mois. « Au sein même du gouvernement, le secrétariat général à la planification écologique prévoit 200 000 rénovations d’ampleur dès 2024 [contre 71 600 en 2023] et une montée en puissance pour arriver à 900 000 par an en 2030. Comment y parvenir sans une forte hausse des crédits ? Il faut que tout le monde s’y mette, y compris les professionnels : ils ont fait déraper le coût de la rénovation quand ils avaient assez de travail sur la construction neuve, plus simple. »
      Le responsable associatif s’inquiète aussi de l’assouplissement annoncé du DPE. « Si une partie des petits logements sont mal classés, ce n’est pas à cause du mode de calcul, mais parce qu’ils consomment beaucoup, notamment pour produire de l’eau chaude. Le gouvernement s’apprête donc à changer le thermomètre, mais pas la fièvre ! »

      M. Sidler juge essentiel de ne pas céder à l’Union nationale des propriétaires immobiliers, à la Fnaim et à Bruno Le Maire, désormais chargé de l’énergie (dont EDF), qui voudraient de nouveau modifier le thermomètre : « Ils considèrent que le calcul du DPE désavantage le chauffage à l’électricité, ce qui n’est pas le cas. Or, s’ils obtenaient gain de cause, énormément de logements gagneraient des classes énergétiques et échapperaient aux rénovations nécessaires. »
      Claire Ané

    • Oui, il n’y a pas de pilote dans l’avion.

      Faut savoir que pour lancer des travaux dans une résidence, faut compter au moins 2 ans : dans un premier temps, faut présenter et faire voter un diagnostique obligatoire. Puis débriefer le diag, faire voter le principe des travaux, lancer un appel d’offres, dépouiller les propositions… quand il y en a et repasser au vote.

      Là, avec des gus qui changent les règles tous les 2 mois, c’est totalement impossible.

      On a lancé un appel d’offres pour le DPE obligatoire et fait voter pour l’une des propositions (6 mois de travail) et comme les règles ont encore changé depuis le début de l’année, la boite choisie ne répond plus, vu qu’on a voté pour un devis qui concrètement n’a plus d’objet car ne correspond plus à la législation en cours.

      Donc, va falloir recommencer ?

      Pendant ce temps, les travaux sont bloqués sur les réparations d’urgence qui ne résolvent rien et consomment les budgets.

  • #Green_Border

    Ayant fui la guerre, une famille syrienne entreprend un éprouvant périple pour rejoindre la Suède. A la frontière entre le Belarus et la Pologne, synonyme d’entrée dans l’Europe, ils se retrouvent embourbés avec des dizaines d’autres familles, dans une zone marécageuse, à la merci de militaires aux méthodes violentes. Ils réalisent peu à peu qu’ils sont les otages malgré eux d’une situation qui les dépasse, où chacun - garde-frontières, activistes humanitaires, population locale - tente de jouer sa partition

    https://fr.wikipedia.org/wiki/Green_Border
    https://www.youtube.com/watch?v=5ufcsLA7xow


    #frontières #Biélorussie #asile #migrations #réfugiés #Pologne #forêt #mourir_aux_frontières #violence #push-backs #refoulements #instrumentalisation_de_la_migration #zone_frontalière #film #cinéma #Agnieszka_Holland #solidarité #marécage #zone_interdite #état_d'urgence #zone_d'exclusion

    –---
    ajouté à la métaliste autour de la création de zones frontalières (au lieu de lignes de frontière) en vue de refoulements ou autres pratiques de contrôles migratoires :
    https://seenthis.net/messages/795053

  • Le #Mali, le #Burkina_Faso et le Niger quittent la #Cedeao, la région ébranlée

    Les trois régimes issus de coups d’Etat prennent le risque de compromettre la #libre_circulation des biens et des personnes, et repoussent le retour des civils au pouvoir.

    En décidant de se retirer de la #Communauté_économique_des_Etats_d’Afrique_de_l’Ouest (Cedeao), les régimes militaires du Mali, du Burkina Faso et du Niger issus de coups d’Etat prennent le risque de compromettre la libre circulation et repoussent le retour des civils au pouvoir. La Cedeao, organisation économique régionale de quinze pays, s’est opposée aux coups d’Etat ayant successivement porté au pouvoir les militaires au Mali, au Burkina Faso et au Niger, imposant de lourdes sanctions économiques au Niger et au Mali.

    En août 2023, elle est allée jusqu’à menacer d’intervenir militairement au Niger pour y rétablir l’ordre constitutionnel et libérer le président Mohamed Bazoum renversé. Le dialogue est pratiquement rompu entre l’organisation et les régimes de Bamako, Ouagadougou et Niamey, qui ont créé l’Alliance des Etats du Sahel (AES) et accusent leurs voisins d’agir sous l’influence de « puissances étrangères », en premier lieu la France, ancienne puissance coloniale dans la région.

    Des élections étaient en théorie prévues au Mali et au Burkina Faso en 2024, censées assurer le retour à un gouvernement civil, préalable exigé par la Cedeao pour lever ses sanctions et rétablir ces pays dans ses instances décisionnelles. Mais les partisans des régimes militaires souhaitent allonger la durée des transitions, invoquant la lutte antidjihadiste. Le nouvel homme fort du Niger, le général Abourahamane Tiani, n’a pas encore annoncé de calendrier de transition.

    « Les Etats de l’AES ont anticipé un débat qui devait venir, celui de la fin des transitions. La sortie de la Cedeao semble remettre au second plan cette question », estime Fahiraman Rodrigue Koné, spécialiste du Sahel à l’Institut des études de sécurité (ISS). « Bien installés dans les palais et devant les délices du pouvoir, ils [les dirigeants des pays de l’AES] veulent s’éterniser dans les fauteuils présidentiels », fustige Le Patriote, quotidien du parti au pouvoir en Côte d’Ivoire.

    L’inquiétude des ressortissants des trois pays

    La Cedeao garantit aux citoyens des pays membres de pouvoir voyager sans visa et de s’établir dans les pays membres pour y travailler ou y résider. L’annonce du retrait burkinabé, nigérien et malien, suscite donc l’inquiétude de centaines de milliers de ressortissants de ces pays, particuliers ou commerçants.

    Les trois pays enclavés du Sahel et leurs principaux partenaires économiques côtiers comme le Sénégal et la Côte d’Ivoire sont toutefois membres de l’#Union_économique_et_monétaire_ouest-africaine (#Uemoa, huit pays), qui garantit elle aussi en principe la « liberté de circulation et de résidence » pour les ressortissants ouest-africains, ainsi que le dédouanement de certains produits et l’harmonisation des tarifs et des normes, à l’instar de la Cedeao.

    Les conséquences d’un #retrait pourraient être plus marquées aux frontières du Niger et du Nigeria, pays n’appartenant pas à l’Uemoa. Le géant économique d’Afrique de l’Ouest représente plus de la moitié du PIB de la Cedeao et est le premier partenaire économique du Niger dans la région. Les 1 500 kilomètres de frontière qui séparent les deux Etats sont toutefois mal contrôlés et en proie aux attaques des groupes armés. Une part importante des flux échappent aux contrôles douaniers.

    « Même si c’est par la contrebande, les biens et les personnes vont rentrer au Niger. Vous ne pouvez pas séparer Sokoto [nord du Nigeria] de Konni [Niger], c’est un même peuple », assure ainsi Chaïbou Tchiombiano, secrétaire général du Syndicat des commerçants, importateurs exportateurs et grossistes du Niger.

    « Juridiquement, un retrait sans délai n’est pas possible »

    Les régimes du Mali, du Burkina et du Niger ont annoncé leur retrait « sans délai », mais les textes de la Cedeao prévoient qu’une demande doit être déposée par écrit un an avant. La Cedeao a affirmé dimanche qu’elle n’avait pas encore reçu une telle notification. « Juridiquement, un retrait sans délai n’est pas possible. Ces Etats devront trouver une forme d’entente et des négociations iront dans le sens de trouver les moyens de faire ce retrait de manière progressive », estime Fahiraman Rodrigue Koné.

    Alors que les groupes djihadistes progressent au Sahel et jusqu’aux marges des Etats côtiers, « la région se fragmente, devient objet de concurrence géostratégique plus forte, et cela n’est pas une bonne nouvelle pour la stabilité », avertit le chercheur.

    Les vives critiques formulées par ces régimes et leurs partisans à l’encontre du franc CFA, la monnaie commune des pays membres de l’Uemoa, pourraient également conduire les pays de l’AES à quitter cette organisation, et à renoncer à la libre circulation des biens et des personnes en attendant l’émergence d’une #zone_de_libre-échange continentale africaine, encore à l’état de projet.

    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2024/01/29/le-mali-le-burkina-faso-et-le-niger-quittent-la-cedeao-la-region-ebranlee_62
    #fin

  • Cette #hospitalité_radicale que prône la philosophe #Marie-José_Mondzain

    Dans « Accueillir. Venu(e)s d’un ventre ou d’un pays », Marie-José Mondzain, 81 ans, se livre à un plaidoyer partageur. Elle oppose à la #haine d’autrui, dont nous éprouvons les ravages, l’#amour_sensible et politique de l’Autre, qu’il faudrait savoir adopter.

    En ces temps de crispations identitaires et même de haines communautaires, Marie-José Mondzain nous en conjure : choisissons, contre l’#hostilité, l’hospitalité. Une #hospitalité_créatrice, qui permette de se libérer à la fois de la loi du sang et du #patriarcat.

    Pour ce faire, il faut passer de la filiation biologique à la « #philiation » − du grec philia, « #amitié ». Mais une #amitié_politique et proactive : #abriter, #nourrir, #loger, #soigner l’Autre qui nous arrive ; ce si proche venu de si loin.

    L’hospitalité fut un objet d’étude et de réflexion de Jacques Derrida (1930-2004). Née douze ans après lui, à Alger comme lui, Marie-José Mondzain poursuit la réflexion en rompant avec « toute légitimité fondée sur la réalité ou le fantasme des origines ». Et en prônant l’#adoption comme voie de réception, de prise en charge, de #bienvenue.

    Son essai Accueillir. Venu(e)s d’un ventre ou d’un pays se voudrait programmatique en invitant à « repenser les #liens qui se constituent politiquement et poétiquement dans la #rencontre de tout sujet qu’il nous incombe d’adopter ».

    D’Abraham au film de Tarkovski Andreï Roublev, d’Ulysse à A. I. Intelligence artificielle de Spielberg en passant par Antigone, Shakespeare ou Melville, se déploie un plaidoyer radical et généreux, « phraternel », pour faire advenir l’humanité « en libérant les hommes et les femmes des chaînes qui les ont assignés à des #rapports_de_force et d’#inégalité ».

    En cette fin novembre 2023, alors que s’ajoute, à la phobie des migrants qui laboure le monde industriel, la guerre menée par Israël contre le Hamas, nous avons d’emblée voulu interroger Marie-José Mondzain sur cette violence-là.

    Signataire de la tribune « Vous n’aurez pas le silence des juifs de France » condamnant le pilonnage de Gaza, la philosophe est l’autrice d’un livre pionnier, adapté de sa thèse d’État qui forait dans la doctrine des Pères de l’Église concernant la représentation figurée : Image, icône, économie. Les sources byzantines de l’imaginaire contemporain (Seuil, 1996).

    Mediapart : Comment voyez-vous les images qui nous travaillent depuis le 7 octobre ?

    Marie-José Mondzain : Il y a eu d’emblée un régime d’images relevant de l’événement dans sa violence : le massacre commis par le Hamas tel qu’il fut en partie montré par Israël. À cela s’est ensuite substitué le tableau des visages et des noms des otages, devenu toile de fond iconique.

    Du côté de Gaza apparaît un champ de ruines, des maisons effondrées, des rues impraticables. Le tout depuis un aplomb qui n’est plus un regard humain mais d’oiseau ou d’aviateur, du fait de l’usage des drones. La mort est alors sans visages et sans noms.

    Face au phénomène d’identification du côté israélien s’est donc développée une rhétorique de l’invisibilité palestinienne, avec ces guerriers du Hamas se terrant dans des souterrains et que traque l’armée israélienne sans jamais donner à voir la moindre réalité humaine de cet ennemi.

    Entre le visible et l’invisible ainsi organisés, cette question de l’image apparaît donc extrêmement dissymétrique. Dissymétrie accentuée par la mise en scène des chaînes d’information en continu, qui séparent sur les écrans, avec des bandes lumineuses et colorées, les vues de Gaza en ruine et l’iconostase des otages.

    C’est avec de telles illustrations dans leur dos que les prétendus experts rassemblés en studio s’interrogent : « Comment retrouver la paix ? » Comme si la paix était suspendue à ces images et à la seule question des otages. Or, le contraire de la guerre, ce n’est pas la paix − et encore moins la trêve −, mais la justice.

    Nous assistons plutôt au triomphe de la loi du talion, dont les images deviennent un levier. Au point que visionner les vidéos des massacres horrifiques du Hamas dégénère en obligation…

    Les images deviennent en effet une mise à l’épreuve et une punition. On laisse alors supposer qu’elles font suffisamment souffrir pour que l’on fasse souffrir ceux qui ne prennent pas la souffrance suffisamment au sérieux.

    Si nous continuons à être uniquement dans une réponse émotionnelle à la souffrance, nous n’irons pas au-delà d’une gestion de la trêve. Or la question, qui est celle de la justice, s’avère résolument politique.

    Mais jamais les choses ne sont posées politiquement. On va les poser en termes d’identité, de communauté, de religion − le climat très trouble que nous vivons, avec une indéniable remontée de l’antisémitisme, pousse en ce sens.

    Les chaînes d’information en continu ne nous montrent jamais une carte de la Cisjordanie, devenue trouée de toutes parts telle une tranche d’emmental, au point d’exclure encore et toujours la présence palestinienne. Les drones ne servent jamais à filmer les colonies israéliennes dans les Territoires occupés. Ce serait pourtant une image explicite et politique…

    Vous mettez en garde contre toute « réponse émotionnelle » à propos des images, mais vous en appelez dans votre livre aux affects, dans la mesure où, écrivez-vous, « accueillir, c’est métamorphoser son regard »…

    J’avais écrit, après le 11 septembre 2001, L’#image peut-elle tuer ?, ou comment l’#instrumentalisation du #régime_émotionnel fait appel à des énergies pulsionnelles, qui mettent le sujet en situation de terreur, de crainte, ou de pitié. Il s’agit d’un usage balistique des images, qui deviennent alors des armes parmi d’autres.

    Un tel bombardement d’images qui sème l’effroi, qui nous réduit au silence ou au cri, prive de « logos » : de parole, de pensée, d’adresse aux autres. On s’en remet à la spontanéité d’une émotivité immédiate qui supprime le temps et les moyens de l’analyse, de la mise en rapport, de la mise en relation.

    Or, comme le pensait Édouard Glissant, il n’y a qu’une poétique de la relation qui peut mener à une politique de la relation, donc à une construction mentale et affective de l’accueil.

    Vous prônez un « #tout-accueil » qui semble faire écho au « Tout-monde » de Glissant…

    Oui, le lien est évident, jusqu’en ce #modèle_archipélique pensé par Glissant, c’est-à-dire le rapport entre l’insularité et la circulation en des espaces qui sont à la fois autonomes et séparables, qui forment une unité dans le respect des écarts.

    Ces écarts assument la #conflictualité et organisent le champ des rapports, des mises en relation, naviguant ainsi entre deux écueils : l’#exclusion et la #fusion.

    Comment ressentir comme un apport la vague migratoire, présentée, voire appréhendée tel un trop-plein ?

    Ce qui anime mon livre, c’est de reconnaître que celui qui arrive dans sa nudité, sa fragilité, sa misère et sa demande est l’occasion d’un accroissement de nos #ressources. Oui, le pauvre peut être porteur de quelque chose qui nous manque. Il nous faut dire merci à ceux qui arrivent. Ils deviennent une #richesse qui mérite #abri et #protection, sous le signe d’une #gratitude_partagée.

    Ils arrivent par milliers. Ils vont arriver par millions − je ne serai alors plus là, vu mon âge −, compte tenu des conditions économiques et climatiques à venir. Il nous faut donc nous y préparer culturellement, puisque l’hospitalité est pour moi un autre nom de la #culture.

    Il nous faut préméditer un monde à partager, à construire ensemble ; sur des bases qui ne soient pas la reproduction ou le prolongement de l’état de fait actuel, que déserte la prospérité et où semble s’universaliser la guerre. Cette préparation relève pour moi, plus que jamais, d’une #poétique_des_relations.

    Je travaille avec et auprès d’artistes − plasticiens, poètes, cinéastes, musiciens −, qui s’emparent de toutes les matières traditionnelles ou nouvelles pour créer la scène des rapports possibles. Il faut rompre avec ce qui n’a servi qu’à uniformiser le monde, en faisant appel à toutes les turbulences et à toutes les insoumissions, en inventant et en créant.

    En établissant des #zones_à_créer (#ZAC) ?

    Oui, des zones où seraient rappelées la force des faibles, la richesse des pauvres et toutes les ressources de l’indigence qu’il y a dans des formes de précarité.

    La ZAD (zone à défendre) ne m’intéresse effectivement que dans la mesure où elle se donne pour but d’occuper autrement les lieux, c’est-à-dire en y créant la scène d’une redistribution des places et d’un partage des pouvoirs face aux tyrannies économiques.

    Pas uniquement économiques...

    Il faut bien sûr compter avec ce qui vient les soutenir, anthropologiquement, puisque ces tyrannies s’équipent de tout un appareil symbolique et d’affects touchant à l’imaginaire.

    Aujourd’hui, ce qui me frappe, c’est la place de la haine dans les formes de #despotisme à l’œuvre. Après – ou avant – Trump, nous venons d’avoir droit, en Argentine, à Javier Milei, l’homme qui se pose en meurtrier prenant le pouvoir avec une tronçonneuse.

    Vous y opposez une forme d’amitié, de #fraternité, la « #filia », que vous écrivez « #philia ».

    Le [ph] désigne des #liens_choisis et construits, qui engagent politiquement tous nos affects, la totalité de notre expérience sensible, pour faire échec aux formes d’exclusion inspirées par la #phobie.

    Est-ce une façon d’échapper au piège de l’origine ?

    Oui, ainsi que de la #naturalisation : le #capitalisme se considère comme un système naturel, de même que la rivalité, le désir de #propriété ou de #richesse sont envisagés comme des #lois_de_la_nature.

    D’où l’appellation de « #jungle_de_Calais », qui fait référence à un état de nature et d’ensauvagement, alors que le film de Nicolas Klotz et Élisabeth Perceval, L’Héroïque lande. La frontière brûle (2018), montre magnifiquement que ce refuge n’était pas une #jungle mais une cité et une sociabilité créées par des gens venus de contrées, de langues et de religions différentes.

    Vous est-il arrivé personnellement d’accueillir, donc d’adopter ?

    J’ai en en effet tissé avec des gens indépendants de mes liens familiaux des relations d’adoption. Des gens dont je me sentais responsable et dont la fragilité que j’accueillais m’apportait bien plus que ce que je pouvais, par mes ressources, leur offrir.

    Il arrive, du reste, à mes enfants de m’en faire le reproche, tant les font parfois douter de leur situation les relations que je constitue et qui tiennent une place si considérable dans ma vie. Sans ces relations d’adoption, aux liens si constituants, je ne me serais pas sentie aussi vivante que je le suis.

    D’où mon refus du seul #héritage_biologique. Ce qui se transmet se construit. C’est toujours dans un geste de fiction turbulente et joyeuse que l’on produit les liens que l’on veut faire advenir, la #vie_commune que l’on désire partager, la cohérence politique d’une #égalité entre parties inégales – voire conflictuelles.

    La lecture de #Castoriadis a pu alimenter ma défense de la #radicalité. Et m’a fait reconnaître que la question du #désordre et du #chaos, il faut l’assumer et en tirer l’énergie qui saura donner une forme. Le compositeur Pascal Dusapin, interrogé sur la création, a eu cette réponse admirable : « C’est donner des bords au chaos. »

    Toutefois, ces bords ne sont pas des blocs mais des frontières toujours poreuses et fluantes, dans une mobilité et un déplacement ininterrompus.

    Accueillir, est-ce « donner des bords » à l’exil ?

    C’est donner son #territoire au corps qui arrive, un territoire où se créent non pas des murs aux allures de fin de non-recevoir, mais des cloisons – entre l’intime et le public, entre toi et moi : ni exclusion ni fusion…

    Mon livre est un plaidoyer en faveur de ce qui circule et contre ce qui est pétrifié. C’est le #mouvement qui aura raison du monde. Et si nous voulons que ce mouvement ne soit pas une déclaration de guerre généralisée, il nous faut créer une #culture_de_l’hospitalité, c’est-à-dire apprendre à recevoir les nouvelles conditions du #partage.

    https://www.mediapart.fr/journal/culture-et-idees/271123/cette-hospitalite-radicale-que-prone-la-philosophe-marie-jose-mondzain
    #hospitalité #amour_politique

    via @karine4

    • Accueillir - venu(e)s d’un ventre ou d’un pays

      Naître ne suffit pas, encore faut-il être adopté. La filiation biologique, et donc l’arrivée d’un nouveau-né dans une famille, n’est pas le modèle de tout accueil mais un de ses cas particuliers. Il ne faut pas penser la filiation dans son lien plus ou moins fort avec le modèle normatif de la transmission biologique, mais du point de vue d’une attention à ce qui la fonde : l’hospitalité. Elle est un art, celui de l’exercice de la philia, de l’affect et du lien qui dans la rencontre et l’accueil de tout autre exige de substituer au terme de filiation celui de philiation. Il nous faut rompre avec toute légitimité fondée sur la réalité ou le fantasme des origines. Cette rupture est impérative dans un temps de migrations planétaires, de déplacements subjectifs et de mutations identitaires. Ce qu’on appelait jadis « les lois de l’hospitalité » sont bafouées par tous les replis haineux et phobiques qui nous privent des joies et des richesses procurées par l’accueil. Faute d’adopter et d’être adopté, une masse d’orphelins ne peut plus devenir un peuple. La défense des philiations opère un geste théorique qui permet de repenser les liens qui se constituent politiquement et poétiquement dans la rencontre de tout sujet qu’il nous incombe d’adopter, qu’il provienne d’un ventre ou d’un pays. Le nouveau venu comme le premier venu ne serait-il pas celle ou celui qui me manquait ? D’où qu’il vienne ou provienne, sa nouveauté nous offre la possibilité de faire œuvre.

      https://www.quaidesmots.fr/accueillir-venu-e-s-d-un-ventre-ou-d-un-pays.html
      #livre #filiation_biologique #accueil

  • ZLECAf : plus de libre-échange ? Au profit de qui ?

    Depuis le début des années 2000, le peuple africain a dit « NON aux APE » (Accords de partenariat économique) qui étaient réclamés par l’Europe pour poursuivre son pillage colonial du Sud. Aujourd’hui, un autre projet néolibéral menace l’Afrique : la Zone de libre-échange continentale africaine (ZLECAf).

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2023/11/11/zlecaf-plus-de-libre-echange-au-profit-de-qui

    #international #afrique

  • #Taux_de_change : retour sur la politique israélienne des #otages

    Eyal Weizman, fondateur du collectif Forensic Architecture, revient sur la manière dont les #civils installés autour de #Gaza ont servi de « #mur_vivant » lors des massacres du 7 octobre perpétrés par le #Hamas, et retrace l’évolution de la politique israélienne à l’égard des otages.

    Au printemps 1956, huit ans après la Nakba (un terme arabe qui désigne « la catastrophe » ou « le désastre » que fut pour les Palestiniens la création d’Israël), un groupe de fedayins palestiniens franchit le fossé qui sépare Gaza de l’État d’Israël. D’un côté se trouvent 300 000 Palestiniens, dont 200 000 réfugiés expulsés de la région ; de l’autre, une poignée de nouvelles installations israéliennes. Les combattants palestiniens tentent de pénétrer dans le kibboutz de Nahal Oz, tuent Roi Rotberg, un agent de sécurité, et emportent son corps à Gaza, mais le rendent après l’intervention des Nations unies.

    #Moshe_Dayan, alors chef de l’état-major général d’Israël, se trouvait par hasard sur place pour un mariage et a demandé à prononcer, le soir suivant, l’éloge funèbre de Rotber. Parlant des hommes qui ont tué #Rotberg, il a demandé : « Pourquoi devrions-nous nous plaindre de la #haine qu’ils nous portent ? Pendant huit ans, ils se sont assis dans les camps de réfugiés de Gaza et ont vu de leurs yeux comment nous avons transformé les terres et les villages où eux et leurs ancêtres vivaient autrefois. » Cette reconnaissance de ce que les Palestiniens avaient perdu, les hommes politiques israéliens d’aujourd’hui ne peuvent plus se permettre de l’exprimer. Mais Dayan ne défendait pas le #droit_au_retour : il a terminé son discours en affirmant que les Israéliens devaient se préparer à une #guerre_permanente et amère, dans laquelle ce qu’Israël appelait les « #installations_frontalières » joueraient un rôle majeur.

    Au fil des ans, le #fossé s’est transformé en un système complexe de #fortifications - une #zone_tampon de 300 mètres, où plus de deux cents manifestants palestiniens ont été tués par balle en 2018 et 2019 et des milliers d’autres blessés, plusieurs couches de #clôtures en barbelés, des #murs en béton s’étendant sous terre, des mitrailleuses télécommandées - et des équipements de #surveillance, dont des tours de guet, des caméras de vidéosurveillance, des capteurs radar et des ballons espions. À cela s’ajoute une série de #bases_militaires, dont certaines situées à proximité ou à l’intérieur des installations civiles qui forment ce que l’on appelle l’#enveloppe_de_Gaza.

    Empêcher le retour des réfugiés

    Le #7_octobre_2023, lors d’une attaque coordonnée, le Hamas a frappé tous les éléments de ce système interconnecté. #Nahal_Oz, l’installation la plus proche de la clôture, a été l’un des points névralgiques de l’attaque. Le terme « #Nahal » fait référence à l’unité militaire qui a créé les installations frontalières. Les installations du Nahal ont débuté comme des avant-postes militaires et sont devenues des villages civils, principalement de type #kibboutz. Mais la transformation n’est jamais achevée et certains résidents sont censés se comporter en défenseurs quand la communauté est attaquée.

    La « #terre_des_absents » a été la #tabula_rasa sur laquelle les planificateurs israéliens ont dessiné le projet des colons sionistes après les expulsions de 1948. Son architecte en chef était #Arieh_Sharon, diplômé du Bauhaus, qui a étudié avec Walter Gropius et Hannes Meyer avant de s’installer en Palestine en 1931, où il a construit des lotissements, des coopératives de travailleurs, des hôpitaux et des cinémas. Lors de la création de l’État d’Israël, David Ben Gourion l’a nommé à la tête du département de planification du gouvernement. Dans The Object of Zionism (2018), l’historien de l’architecture Zvi Efrat explique que, bien que le plan directeur de Sharon soit fondé sur les principes les plus récents du design moderniste, il avait plusieurs autres objectifs : fournir des logements aux vagues d’immigrants arrivés après la Seconde Guerre mondiale, déplacer les populations juives du centre vers la périphérie, sécuriser la frontière et occuper le territoire afin de rendre plus difficile le retour des réfugiés.

    Dans les années 1950 et 1960, le #plan_directeur de Sharon et de ses successeurs a conduit à la construction, dans les « #zones_frontalières », définies à l’époque comme représentant environ 40 % du pays, de centres régionaux ou « #villes_de_développement » qui desservaient une constellation d’#implantations_agraires. Ces villes de développement devaient accueillir les immigrants juifs d’Afrique du Nord – les Juifs arabes – qui allaient être prolétarisés et devenir des ouvriers d’usine. Les implantations agraires de type kibboutz et #moshav étaient destinées aux pionniers du #mouvement_ouvrier, principalement d’Europe de l’Est. Les #terres appartenant aux villages palestiniens de #Dayr_Sunayd, #Simsim, #Najd, #Huj, #Al_Huhrraqa, #Al_Zurai’y, #Abu_Sitta, #Wuhaidat, ainsi qu’aux tribus bédouines #Tarabin et #Hanajre, sont occupées par les villes de développement #Sderot et #Ofakim et les kibboutzim de #Re’im, #Mefalsim, #Kissufim et #Erez. Toutes ces installations ont été visées le 7 octobre.

    La première #clôture

    À la suite de l’#occupation_israélienne de 1967, le gouvernement a établi des installations entre les principaux centres de population palestinienne à Gaza même, dont la plus grande était #Gush_Katif, près de Rafah, à la frontière égyptienne ; au total, les #colonies israéliennes couvraient 20 % du territoire de Gaza. Au début des années 1980, la région de Gaza et ses environs a également accueilli de nombreux Israéliens évacués du Sinaï après l’accord de paix avec l’Égypte.

    La première clôture autour du territoire a été construite entre 1994 et 1996, période considérée comme l’apogée du « #processus_de_paix ». Gaza était désormais isolée du reste du monde. Lorsque, en réponse à la résistance palestinienne, les colonies israéliennes de Gaza ont été démantelées en 2005, certaines des personnes évacuées ont choisi de s’installer près des frontières de Gaza. Un deuxième système de clôture, plus évolué, a été achevé peu après. En 2007, un an après la prise de pouvoir du Hamas à Gaza, Israël a entamé un #siège à grande échelle, contrôlant et limitant les flux entrants de produits vitaux - #nourriture, #médicaments, #électricité et #essence.

    L’#armée_israélienne a fixé les privations à un niveau tel que la vie à Gaza s’en trouve presque complètement paralysée. Associé à une série de campagnes de #bombardements qui, selon les Nations unies, ont causé la mort de 3 500 Palestiniens entre 2008 et septembre 2023, le siège a provoqué une #catastrophe_humanitaire d’une ampleur sans précédent : les institutions civiles, les hôpitaux, les systèmes d’approvisionnement en eau et d’hygiène sont à peine capables de fonctionner et l’électricité n’est disponible que pendant la moitié de la journée environ. Près de la moitié de la population de Gaza est au #chômage et plus de 80 % dépend de l’#aide pour satisfaire ses besoins essentiels.

    L’enveloppe de Gaza

    Le gouvernement israélien offre de généreux #avantages_fiscaux (une réduction de 20 % de l’impôt sur le revenu par exemple) aux habitants des installations autour de Gaza, dont beaucoup longent une route parallèle à la ligne de démarcation, à quelques kilomètres de celle-ci. L’enveloppe de Gaza comprend 58 installations situées à moins de 10 km de la frontière et comptant 70 000 habitants. Au cours des dix-sept années depuis la prise de pouvoir par le Hamas, malgré les tirs sporadiques de roquettes et de mortiers palestiniens et les bombardements israéliens sur le territoire situé à quelques kilomètres de là, les installations n’ont cessé d’augmenter. La hausse des prix de l’immobilier dans la région de Tel-Aviv et les collines ouvertes de la région (que les agents immobiliers appellent la « Toscane du nord du Néguev ») a entraîné un afflux de la classe moyenne.

    De l’autre côté de la barrière, les conditions se sont détériorées de manière inversement proportionnelle à la prospérité croissante de la région. Les installations sont un élément central du système d’#enfermement imposé à Gaza, mais leurs habitants tendent à différer des colons religieux de Cisjordanie. Démontrant l’aveuglement partiel de la gauche israélienne, certaines personnes installées dans le Néguev sont impliquées dans le #mouvement_pacifiste.

    Le 7 octobre, les combattants du Hamas ont forcé les éléments interconnectés du réseau de siège. Des tireurs d’élite ont tiré sur les caméras qui surplombent la zone interdite et ont lancé des grenades sur les #tours_de_communication. Des barrages de roquettes ont saturé l’#espace_radar. Plutôt que de creuser des tunnels sous les clôtures, les combattants sont venus par le sol. Les observateurs israéliens ne les ont pas vus ou n’ont pas pu communiquer assez rapidement ce qu’ils ont vu.

    Les combattants ont fait sauter ou ouvert quelques douzaines de brèches dans la clôture, élargies par les bulldozers palestiniens. Certains combattants du Hamas ont utilisé des parapentes pour franchir la frontière. Plus d’un millier d’entre eux ont pris d’assaut les bases militaires. L’armée israélienne, aveuglée et muette, n’a pas de vision claire du champ de bataille et les détachements mettent des heures à arriver. Des images incroyables sont apparues sur Internet : des adolescents palestiniens ont suivi les combattants à vélo ou à cheval, sur une terre dont ils avaient peut-être entendu parler par leurs grands-parents, maintenant transformée au point d’en être méconnaissable.

    Les #massacres du 7 octobre

    Les événements auraient pu s’arrêter là, mais ce ne fut pas le cas. Après les bases, ce furent les installations, les horribles massacres maison par maison, et le meurtre d’adolescents lors d’une fête. Des familles ont été brûlées ou abattues dans leurs maisons, des civils incluant des enfants et des personnes âgées ont été prises en otage. Au total, les combattants ont tué environ 1 300 civils et soldats. Plus de 200 personnes ont été capturées et emmenées à Gaza. Jusqu’alors, rien, dans la #violence ni la #répression, n’avait rendu de tels actes inévitables ou justifiés.

    Israël a mis des décennies à brouiller la ligne de démarcation entre les fonctions civiles et militaires des installations, mais cette ligne a aujourd’hui été brouillée d’une manière jamais envisagée par le gouvernement israélien. Les habitants civils cooptés pour faire partie du mur vivant de l’enveloppe de Gaza ont subi le pire des deux mondes. Ils ne pouvaient pas se défendre comme des soldats et n’étaient pas protégés comme des civils.

    Les images des installations dévastées ont permis à l’armée israélienne d’obtenir carte blanche de la part de la communauté internationale et de lever les restrictions qui avaient pu être imposées précédemment. Les hommes politiques israéliens ont appelé à la #vengeance, avec un langage explicite et annihilationiste. Les commentateurs ont déclaré que Gaza devrait être « rayée de la surface de la Terre » et que « l’heure de la Nakba 2 a sonné ». #Revital_Gottlieb, membre du Likoud à la Knesset, a tweeté : « Abattez les bâtiments ! Bombardez sans distinction ! Assez de cette impuissance. Vous le pouvez. Il y a une légitimité mondiale ! Détruisez Gaza. Sans pitié ! »

    L’échange de prisonniers

    Les otages civils des installations dont Israël a fait un « mur vivant » sont devenus pour le Hamas un #bouclier_humain et des atouts pour la #négociation. Quelle que soit la façon dont le #conflit se termine, que le Hamas soit ou non au pouvoir (et je parie sur la première solution), Israël ne pourra pas éviter de négocier l’#échange_de_prisonniers. Pour le Hamas, il s’agit des 6 000 Palestiniens actuellement dans les prisons israéliennes, dont beaucoup sont en #détention_administrative sans procès. La prise en otages d’Israéliens a occupé une place centrale dans la #lutte_armée palestinienne tout au long des 75 années de conflit. Avec des otages, l’#OLP et d’autres groupes cherchaient à contraindre Israël à reconnaître implicitement l’existence d’une nation palestinienne.

    Dans les années 1960, la position israélienne consistait à nier l’existence d’un peuple palestinien, et donc qu’il était logiquement impossible de reconnaître l’OLP comme son représentant légitime. Ce déni signifiait également qu’il n’y avait pas à reconnaître les combattants palestiniens comme des combattants légitimes au regard du droit international, et donc leur accorder le statut de #prisonniers_de_guerre conformément aux conventions de Genève. Les Palestiniens capturés étaient maintenus dans un #vide_juridique, un peu comme les « combattants illégaux » de l’après 11-septembre.

    En juillet 1968, le Front populaire de libération de la Palestine (FPLP) a détourné un vol d’El-Al et l’a fait atterrir en Algérie, inaugurant une série de détournements, dont l’objectif explicite était la libération de prisonniers palestiniens. L’incident d’Algérie a conduit à l’échange de 22 otages israéliens contre 16 prisonniers palestiniens, bien que le gouvernement israélien ait nié un tel accord. Seize contre 22 : ce taux d’échange n’allait pas durer longtemps. En septembre 1982, après l’invasion du Liban par Israël, le Commandement général du FPLP d’Ahmed Jibril a capturé trois soldats de l’armée israélienne ; trois ans plus tard, dans le cadre de ce qui a été appelé l’accord Jibril, Israël et le FPLP-CG sont finalement parvenus à un accord d’échange de prisonniers : trois soldats contre 1 150 prisonniers palestiniens. Dans l’accord de 2011 pour la libération de Gilad Shalit, capturé par le Hamas en 2006, le taux d’échange était encore plus favorable aux Palestiniens : 1 027 prisonniers pour un seul soldat israélien.
    Directive Hannibal

    Anticipant de devoir conclure de nombreux accords de ce type, Israël s’est mis à arrêter arbitrairement davantage de Palestiniens, y compris des mineurs, afin d’augmenter ses atouts en vue d’un échange futur. Il a également conservé les corps de combattants palestiniens, qui devaient être restitués dans le cadre d’un éventuel échange. Tout cela renforce l’idée que la vie d’un colonisateur vaut mille fois plus que la vie d’un colonisé, calcul qui évoque inévitablement l’histoire du #colonialisme et du commerce d’êtres humains. Mais ici, le taux de change est mobilisé par les Palestiniens pour inverser la profonde asymétrie coloniale structurelle.

    Tous les États ne traitent pas de la même manière la capture de leurs soldats et de leurs citoyens. Les Européens et les Japonais procèdent généralement à des échanges secrets de prisonniers ou négocient des rançons. Les États-Unis et le Royaume-Uni affirment publiquement qu’ils ne négocient pas et n’accèdent pas aux demandes des ravisseurs et, bien qu’ils n’aient pas toujours respecté cette règle à la lettre, ils ont privilégié l’abstention et le silence lorsqu’une opération de sauvetage semblait impossible.

    Cette attitude est considérée comme un « moindre mal » et fait partie de ce que les théoriciens des jeux militaires appellent le « jeu répété » : chaque action est évaluée en fonction de ses éventuelles conséquences à long terme, les avantages d’obtenir la libération d’un prisonnier étant mis en balance avec le risque que l’échange aboutisse à l’avenir à la capture d’autres soldats ou civils.

    Lorsqu’un Israélien est capturé, sa famille, ses amis et ses partisans descendent dans la rue pour faire campagne en faveur de sa libération. Le plus souvent, le gouvernement y consent et conclut un accord. L’armée israélienne déconseille généralement au gouvernement de conclure des accords d’échange, soulignant le risque pour la sécurité que représentent les captifs libérés, en particulier les commandants de haut rang, et la probabilité qu’ils encouragent les combattants palestiniens à prendre davantage d’otages. Yahya Sinwar, qui est aujourd’hui le chef du Hamas, a été libéré dans le cadre de l’#accord_Shalit. Une importante campagne civile contre ces échanges a été menée par le mouvement religieux de colons #Gush_Emunim, qui y voyait une manifestation de la fragilité de la société « laïque et libérale » d’Israël.

    En 1986, à la suite de l’#accord_Jibril, l’armée israélienne a publié la directive controversée Hannibal, un ordre opérationnel secret conçu pour être invoqué lors de la capture d’un soldat israélien par une force armée irrégulière. L’armée a nié cette interprétation, mais les soldats israéliens l’ont comprise comme une autorisation de tuer un camarade avant qu’il ne soit fait prisonnier. En 1999, #Shaul_Mofaz, alors chef de l’état-major général, a expliqué cette politique en ces termes : « Avec toute la douleur que cela implique, un soldat enlevé, contrairement à un soldat tué, est un problème national. »

    Bien que l’armée ait affirmé que le nom de la directive avait été choisi au hasard par un programme informatique, il est tout à fait approprié. Le général carthaginois Hannibal Barca s’est suicidé en 181 avant J.-C. pour ne pas tomber aux mains des Romains. Ceux-ci avaient fait preuve d’une détermination similaire trente ans plus tôt : lorsque Hannibal tenta d’obtenir une rançon pour les soldats qu’il avait capturés lors de sa victoire à Cannes, le Sénat, après un débat houleux, refusa et les prisonniers furent exécutés.

    Le 1er août 2014, lors de l’offensive sur Gaza connue sous le nom d’« #opération_Bordure_protectrice », des combattants palestiniens ont capturé un soldat de Tsahal près de Rafah, et la #directive_Hannibal est entrée en vigueur. L’armée de l’air a bombardé le système de tunnels où avait été emmené le soldat, tuant 135 civils palestiniens, dont des familles entières. L’armée a depuis annulé la directive. Toutefois, la plupart des bombardements actuels vise les #tunnels où se trouvent les postes de commandement du Hamas et les otages : le gouvernement semble ainsi, par ces bombardements aveugles, non seulement menacer les Gazaouis d’une #destruction sans précédent, mais aussi revenir au principe de préférer des captifs morts à un accord. #Bezalel_Smotrich, ministre israélien des finances, a appelé à frapper le Hamas « sans pitié, sans prendre sérieusement en considération la question des captifs ». #Gilad_Erdan, ambassadeur d’Israël auprès des Nations unies, a déclaré que les otages « ne nous empêcheraient pas de faire ce que nous devons faire ». Mais dans cette guerre, le sort des #civils de Gaza et des Israéliens capturés est étroitement lié, tout comme celui des deux peuples.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/041123/taux-de-change-retour-sur-la-politique-israelienne-des-otages
    #Israël #Palestine #Eyal_Weizman #à_lire

  • En #Andalousie, le joyau naturel de #Doñana menacé par la sécheresse et la culture intensive de la #fraise

    Zone naturelle classée, le parc national de Doñana voit disparaître ses lagunes et ses marais. Les centaines de milliers d’oiseaux migrateurs qui ont l’habitude d’y faire halte entre l’Europe du Nord et l’Afrique sont contraints de l’abandonner. En cause, la culture intensive de fruits rouges, gourmande en irrigation, sur fond de changement climatique.
    Juan Pedro Castellano avance à vive allure sur une immense plage vierge, où courent quelques bécasseaux. A bord de son véhicule tout-terrain, le directeur du parc national de Doñana, zone humide exceptionnelle à la pointe sud de l’Espagne, inscrite au Patrimoine mondiale de l’Unesco, sillonne des dunes mobiles et des pinèdes et longe les vastes marais argileux qui forment les 60 000 hectares protégés du parc. Il croise des vaches mostrenca aux longues cornes, des daims et des chevaux sauvages, avant de s’arrêter devant la lagune de Santa Olalla. Ou plutôt ce qu’il en reste. Jaillissant de l’aquifère, elle s’est complètement asséchée cet été. Et une terre grise, craquelée, a remplacé cet écrin de biodiversité d’une valeur incalculable. Cette lagune censée être « permanente » – la plus grande du parc – abrite d’ordinaire des milliers d’oiseaux migrateurs, dont l’arrivée devrait déjà avoir commencé. En cette mi-octobre, sous un soleil éclatant et une température inhabituelle de 33 °C, elle n’est fréquentée que par les cerfs.

    « Les lagunes ne représentent que 300 hectares, tente de se consoler ce géographe, à la tête du parc depuis quatorze ans, tout en s’extasiant devant des plants de bruyère atlantique qui côtoient des espèces subdésertiques de palmiers. Maigre réconfort, alors que les 30 000 hectares de marécages, qui dépendent de l’eau de pluie et qui sont d’ordinaire le point de rencontre des oiseaux migrateurs du nord de l’Europe et d’Afrique subsaharienne, sont eux aussi à sec. « Le changement climatique est une réalité, convient M. Castellano. Il va pleuvoir de moins en moins et nous devons adapter la gestion des ressources naturelles en conséquence. »

    Cela fait treize ans que Doñana n’a pas connu de pluies abondantes. Pis, le parc souffre depuis trois ans d’une sécheresse intense. « C’est la quatrième fois depuis qu’il existe des registres que la lagune d’Olalla s’assèche, après 1983, 1995 et 2022. Mais c’est la première fois qu’elle s’assèche deux étés consécutifs, ce qui induit une grave perte de biodiversité, dit, inquiet, dans son bureau de Séville, Eloy Revilla, le directeur de la station biologique de Doñana, centre de recherche scientifique consacré à la réserve. L’écosystème de Doñana est en mauvais état. Les lagunes temporaires ont disparu, les lagunes permanentes ne le sont plus, et de plus en plus d’espèces sont menacées. Nous sommes en train de perdre un joyau environnemental, que nous avons l’obligation légale de préserver. » Pour le scientifique, cette situation est « le fruit de près de trente ans de failles de l’administration, qui n’a pas su définir un usage rationnel du sol et qui a permis l’extraction sans contrôle de l’aquifère ».
    Des milliers de puits illégaux
    A une trentaine de kilomètres du cœur de Doñana, au volant de sa vieille fourgonnette Citroën C15, l’écologiste Juan Romero peste tout haut en longeant les champs de fraises, fraîchement plantées, qui s’étendent à perte de vue. « Ce champ est arrosé illégalement. Celui-ci aussi… Et regardez comme cet agriculteur inonde sa plantation, alors que, à quelques kilomètres, les lagunes de Doñana sont asséchées », se lamente le porte-parole local de l’association Ecologistas en Accion (« écologistes en action »). Ce professeur à la retraite a consacré une bonne partie de sa vie à la défense de Doñana. Il en connaît tous les recoins. Y compris les centaines de puits illégaux qui pompent, depuis des années, l’aquifère de Doñana, officiellement classé comme « surexploité », pour arroser les fruits rouges consommés dans toute l’Europe. « C’est bien simple : ici, à Lucena del Puerto, presque toutes les exploitations situées au milieu des pins devraient être démantelées… », ajoute M. Romero, en découvrant une canalisation sauvage, qui remplit un bassin destiné à l’irrigation de champs de myrtilles.

    Au bord d’un chemin, un panneau routier a été tagué en noir. « Plus de harcèlement ! », y ont inscrit des agriculteurs en colère. Depuis que la Cour de justice de l’Union européenne a condamné l’Espagne, en juin 2021, pour ne pas avoir protégé suffisamment Doñana, les inspecteurs de la Confédération hydrographique du Guadalquivir, rattachée au ministère de la transition écologique, ont multiplié les contrôles et scellé près d’un millier de puits illégaux autour de l’espace naturel protégé. La justice aussi semble prendre le vol d’eau plus au sérieux. En septembre, cinq frères ont été condamnés à trois ans et demi de prison et 1,9 million d’euros de remboursement pour avoir puisé illégalement 19 millions de mètres cubes d’eau dans l’aquifère de Doñana entre 2008 et 2013. Et fin octobre, un tribunal de Séville a cité à comparaître la Maison d’Albe, riche famille de la noblesse espagnole, après une plainte du parquet environnemental pour un vol d’eau au travers de huit puits illégaux destinés à la culture d’orangers.

    A rebours de cette prise de conscience, le Parti populaire (PP ; droite), au pouvoir dans la communauté autonome d’Andalousie depuis 2019, a présenté au printemps un projet de loi régional pour régulariser plus de 700 hectares de terrains irrigués illégalement dans la « couronne nord » de Doñana. « Une amnistie pour les fraudeurs », ont critiqué les écologistes.

    Ici, l’agriculture de la fraise s’est développée à partir des années 1970 de manière sauvage. Chacun creusait son puits, voyant dans la culture du fruit rouge une manne économique pour une région déprimée. En 2014, le gouvernement andalou se résout à ordonner la situation, et décrète légales toutes les terres mises en irrigation avant 2004 (plus de 9 400 hectares), et illégales les autres (près de 1 000 hectares). C’est pour réparer ce qu’il considère comme une « injustice » que le PP a présenté son projet de loi, peu avant les élections municipales de mai. Sans doute aussi pour grappiller des voix chez les électeurs de la province.

    « Tout le modèle agricole est à revoir »
    L’association d’agriculteurs Puerto de Doñana, qui regroupe de nombreuses exploitations écologiques, s’y oppose, en rappelant que cet été, beaucoup de petits producteurs n’ont déjà pas pu arroser leurs plantations, car leurs puits étaient à sec. « Nous avons renoncé à plus de 70 % de nos exploitations irriguées ces trente dernières années afin de conserver Doñana, misé sur la production bio et donné des garanties à nos acheteurs. Nous ne voulons pas que les efforts de tant d’années tombent à l’eau à cause de l’obsession de croître de quelques-uns », explique son porte-parole, Manuel Delgado.

    Après des mois de controverse, les critiques des organisations écologistes, l’opposition du gouvernement espagnol et les avertissements lancés par l’Union européenne et l’Unesco ont fait reculer le gouvernement andalou, début octobre. Il a annoncé un moratoire sur le projet de loi, le temps de négocier avec Madrid de nouvelles infrastructures et des investissements massifs pour pallier le manque d’eau. Le ministère de la transition écologique, conduit par la socialiste Teresa Ribera, a promis 350 millions d’euros supplémentaires pour préserver le parc, fermer des puits, y compris légaux, construire des logements pour les travailleurs saisonniers qui dorment dans des dizaines de bidonvilles, et diversifier l’économie.
    Cette somme s’ajoute aux 350 millions d’euros d’investissement déjà prévus, notamment pour tripler la capacité de transvasement des fleuves Tinto, Odiel et Piedras, qui ne sont pas, pour le moment, en situation de stress hydrique, afin de remplacer l’irrigation effectuée au moyen d’eaux souterraines par des eaux de surface. Des barrages et des mégabassines doivent aussi être élargis. Collée à Doñana, la station balnéaire de Matalascañas est une autre menace à endiguer. Presque déserte en hiver, elle accueille plus de 160 000 touristes en été, et les puits qui servent à approvisionner la ville en eau et à remplir les piscines privées sont accusés d’avoir provoqué la disparition de plusieurs lagunes temporaires. Ils devraient être déplacés, le temps de construire une canalisation qui acheminera l’eau de la ville de Moguer, plus au nord.

    Mais chez les écologistes, on craint que ces infrastructures ne créent un effet d’appel chez les agriculteurs, alors que plus de 11 % du produit intérieur brut de la province de Huelva dépend déjà du secteur de la fraise, dont la surface agricole a bondi de 30 % en dix ans. « Pour le moment, nous avons dit aux agriculteurs qu’ils ne peuvent plus croître, qu’ils doivent maintenir leur taille actuelle. Mais si les travaux d’infrastructures sont menés à bien, il sera possible de reprendre la croissance… », confirme Alvaro Burgos, délégué du gouvernement andalou chargé de l’agriculture dans la province de Huelva.

    « Ce n’est pas seulement le problème des puits illégaux, c’est tout le modèle agricole qui est à revoir », considère Carlos Davila, responsable de l’association SEO Birdlife, dans le village singulier El Rocio, porte d’entrée de Doñana, où les rues en terre et les édifices en bois évoquent un paysage de Far West. Selon les estimations de l’association, le nombre d’oiseaux migrateurs a déjà chuté de 500 000 à 200 000. Les populations de canards sauvages, de spatules blanches, d’ibis, de foulques à crête, de marmaronettes marbrées, de barges à queue noire ont plongé. Et avec le réchauffement climatique, un autre ennemi met en péril le parc : « Nous n’avons jamais connu une sécheresse si longue, 46 °C enregistrés cet été, la disparition de Santa Olalla deux années de suite…, s’inquiète M. Davila. Même s’il pleuvait à peu près normalement cet hiver, la Doñana que nous avons connue a disparu. »

    https://www.lemonde.fr/planete/article/2023/10/30/en-andalousie-le-joyau-naturel-de-donana-menace-par-la-secheresse-et-par-la-
    via @colporteur

    #agriculture #sécheresse #parc_national #Espagne #agriculture #culture_intensive #irrigation #eau #zones_humides #fruits_rouges #myrtilles

  • En Andalousie, le joyau naturel de Doñana menacé par la sécheresse et la culture intensive de la fraise

    REPORTAGE Zone naturelle classée, le parc national de Doñana voit disparaître ses lagunes et ses marais. Les centaines de milliers d’oiseaux migrateurs qui ont l’habitude d’y faire halte entre l’Europe du Nord et l’Afrique sont contraints de l’abandonner. En cause, la culture intensive de fruits rouges, gourmande en irrigation, sur fond de changement climatique.

    Juan Pedro Castellano avance à vive allure sur une immense plage vierge, où courent quelques bécasseaux. A bord de son véhicule tout-terrain, le directeur du parc national de Doñana, zone humide exceptionnelle à la pointe sud de l’Espagne, inscrite au Patrimoine mondiale de l’Unesco, sillonne des dunes mobiles et des pinèdes et longe les vastes marais argileux qui forment les 60 000 hectares protégés du parc. Il croise des vaches mostrenca aux longues cornes, des daims et des chevaux sauvages, avant de s’arrêter devant la lagune de Santa Olalla. Ou plutôt ce qu’il en reste. Jaillissant de l’aquifère, elle s’est complètement asséchée cet été. Et une terre grise, craquelée, a remplacé cet écrin de biodiversité d’une valeur incalculable. Cette lagune censée être « permanente » – la plus grande du parc – abrite d’ordinaire des milliers d’oiseaux migrateurs, dont l’arrivée devrait déjà avoir commencé. En cette mi-octobre, sous un soleil éclatant et une température inhabituelle de 33 °C, elle n’est fréquentée que par les cerfs.

    ... « C’est bien simple : ici, à Lucena del Puerto, presque toutes les exploitations situées au milieu des pins devraient être démantelées… »

    Depuis que la Cour de justice de l’Union européenne a condamné l’Espagne, en juin 2021, pour ne pas avoir protégé suffisamment #Doñana, les inspecteurs de la Confédération hydrographique du Guadalquivir, rattachée au ministère de la transition écologique, ont multiplié les contrôles et scellé près d’un millier de #puits_illégaux autour de l’espace naturel protégé. La justice aussi semble prendre le #vol_d’eau plus au sérieux. En septembre, cinq frères ont été condamnés à trois ans et demi de prison et 1,9 million d’euros de remboursement pour avoir puisé illégalement 19 millions de mètres cubes d’eau dans l’aquifère de Doñana entre 2008 et 2013. Et fin octobre, un tribunal de Séville a cité à comparaître la Maison d’Albe, riche famille de la noblesse espagnole, après une plainte du parquet environnemental pour un vol d’eau au travers de huit puits illégaux destinés à la culture d’orangers.

    A rebours de cette prise de conscience, le Parti populaire (PP ; droite), au pouvoir dans la communauté autonome d’Andalousie depuis 2019, a présenté au printemps un projet de loi régional pour régulariser plus de 700 hectares de terrains irrigués illégalement dans la « couronne nord » de Doñana. « Une amnistie pour les fraudeurs », ont critiqué les écologistes.

    ... L’association d’agriculteurs Puerto de Doñana, qui regroupe de nombreuses exploitations écologiques, s’y oppose, en rappelant que cet été, beaucoup de petits producteurs n’ont déjà pas pu arroser leurs plantations, car leurs puits étaient à sec. « Nous avons renoncé à plus de 70 % de nos exploitations irriguées ces trente dernières années afin de conserver Doñana, misé sur la production bio et donné des garanties à nos acheteurs. Nous ne voulons pas que les efforts de tant d’années tombent à l’eau à cause de l’obsession de croître de quelques-uns », explique son porte-parole, Manuel Delgado.


    Les installations et serres de culture de fruits rouges, aux alentours du parc national de Donaña (Espagne), le 10 octobre 2023. CESAR DEZFULI POUR « LE MONDE »

    https://www.lemonde.fr/planete/article/2023/10/30/en-andalousie-le-joyau-naturel-de-donana-menace-par-la-secheresse-et-par-la-
    https://archive.ph/1oTdH

    #eau #sécheresse #biodiversité #lagunes #marais #zones_humides #agriculture #tourisme #agriculture_écologique #modèle_agricole #irrigation #écologie

  • #Gaza : le #droit_international comme seule boussole

    Le 7 octobre, le #Hamas a lancé une attaque sans précédent sur le sud d’Israël, semant la terreur et perpétrant de nombreux #crimes_de_guerre contre des #civils israéliens. En réponse à cette attaque, Israël a lancé une #opération_militaire d’une violence inédite sur la #bande_de_Gaza, alliant déplacements forcés de population et frappes indiscriminées, également constitutifs de crimes de guerre. Si rien ne peut justifier les crimes de guerre, quel que soit le camp, cette séquence s’inscrit cependant dans un contexte qu’il est indispensable de prendre en compte pour comprendre ce qu’elle représente et les conséquences dévastatrices qu’elle peut avoir.

    La bande de Gaza est, avec la Cisjordanie, l’une des deux composantes du #Territoire_palestinien_occupé. Après la Guerre des Six Jours, elle a, comme la Cisjordanie, fait l’objet d’une colonisation par Israël, avant que ce dernier ne l’évacue unilatéralement en 2005. L’année suivante, le Hamas gagnait les élections législatives à Gaza. L’UE exclut tout contact avec le Hamas compliquant la formation d’un gouvernement palestinien. S’en suit une guerre intra palestinienne entre Fatah et Hamas dans la bande de Gaza, qui se termine en 2007 par la prise de contrôle du territoire par le Hamas. Depuis cette date, un blocus est exercé par Israël sur Gaza, imposant ainsi une punition collective à 2,3 millions de Palestiniens et de Palestiniennes, à laquelle s’ajoutent depuis 2009 des bombardements réguliers et indiscriminés, qu’ils ne peuvent fuir. En conséquence de ces sévères restrictions à la liberté de mouvement des personnes et des biens, 97% de l’eau courante à Gaza est impropre à la consommation, le taux de chômage est de 47%, et 80% de la population dépend de l’aide internationale (données Oxfam).

    Ce #blocus est l’un des aspects du régime d’#apartheid qu’Israël impose à l’ensemble du peuple palestinien, c’est-à-dire un régime institutionnalisé d’#oppression et de #domination systématiques, établi dans l’intention de maintenir la #domination d’un groupe racial sur un autre, l’intention de le maintenir et qui comprend l’existence d’actes inhumains commis comme partie intégrante de ce régime, tels que l’ont récemment qualifiés de nombreux rapports Amnesty, Human Rights Watch et des Rapporteurs spéciaux de l’ONU.

    En décembre dernier, un gouvernement d’#extrême_droite a pris le pouvoir en Israël, renforçant ce régime d’apartheid et intensifiant la colonisation israélienne en Cisjordanie et à Jérusalem-Est. Au cours de l’année 2023, avant le 7 octobre, plus de 200 Palestiniens et Palestiniennes avaient déjà été tués par l’#armée_israélienne ou les colons, surtout en Cisjordanie mais aussi à Gaza. La #violence des colons a augmenté, autorisée et alimentée par le gouvernement israélien, menant à de nombreuses attaques sur des villages palestiniens. Sous les jougs conjugués d’ordres d’#expulsion et de la violence exercée par les colons, des communautés palestiniennes entières de la #zone_C ont été déplacées de force. Au sein de la société israélienne, mais aussi parmi les responsables politiques israéliens, les appels à la haine et au meurtre des Arabes palestiniens sont de plus en plus fréquents.

    Face à cette exacerbation de la violence, la communauté internationale, et l’UE en particulier, n’a réussi qu’à condamner, par des formules creuses et répétitives les multiples violations du droit international commises par Israël, sans jamais prendre de #sanctions.

    Tout cela, c’était avant le 7 octobre et l’attaque meurtrière du Hamas, qui tue plus de 1000 #victimes_civiles israéliennes et prend en #otages entre 120 et 200 personnes. Dans plusieurs lieux, des #meurtres_collectifs ont lieu, sans aucun doute constitutifs de crimes de guerre. Ces faits choquent l’opinion publique internationale et entraînent de nombreux messages de soutien à Israël de la part des responsables politiques, entre autres européens. Certains, tel le Secrétaire général de l’OTAN, Jens Stoltenberg, prennent la peine d’appeler à une réponse « proportionnée ». D’autres, comme la Présidente de la Commission européenne, se contentent d’apporter leur soutien sans faille à Israël, sans même rappeler les obligations qui lui incombent au regard du droit international.

    Depuis le début de la réponse militaire israélienne, les officiels israéliens multiplient les déclarations déshumanisant les Palestiniens, punissant collectivement la population de Gaza pour les crimes commis par le Hamas :

    Lundi 9 octobre, #Yoav_Gallant, le Ministre israélien de la Défense a déclaré : « J’ai ordonné un siège complet de la bande de Gaza. Il n’y aura pas d’électricité, pas de nourriture, pas de carburant, tout est fermé. Nous combattons des animaux humains et nous agissons en conséquence ».

    Mardi 10 octobre, le chef de la Coordination de l’administration civile dans les territoires (COGAT), le général #Ghassan_Alian a annoncé opérer un #blocus_complet sur la bande de Gaza, coupant le territoire en #électricité et en #eau, ne lui promettant que des dommages, et déclarant à l’adresse du Hamas : « Vous avez voulu l’enfer, vous aurez l’enfer ! ».

    Jeudi 12 octobre, le ministre israélien de l’Energie #Israël_Katz a déclaré : « Aucun interrupteur électrique ne sera allumé, aucune pompe à eau ne sera mise en route et aucun camion de carburant n’entrera tant que les Israéliens enlevés ne seront pas rentrés chez eux (…). Et personne ne peut nous faire la morale ».

    Vendredi 13 octobre, le gouvernement israélien a ordonné une #évacuation de toute la population du nord de la Bande de Gaza, soit 1,1 million de Palestiniens, vers le sud de la Bande de Gaza. Il s’agit d’un #déplacement_forcé de la moitié de la population de Gaza, déjà coupée d’électricité, d’eau et de carburant. Les organisations humanitaires ont tout de suite dénoncé l’impossibilité que cela puisse se passer sans conséquences catastrophiques. Depuis vendredi, plusieurs organes et responsables de l’ONU, l’UNRWA, l’OMS, le chef de l’aide humanitaire de l’ONU sont sortis de leur réserve habituelle et tirent la sonnette d’alarme. MSF multiplie également les déclarations pour dénoncer l’insoutenabilité de la situation sanitaire. Les témoignages qui nous viennent de Gaza sont glaçants : rationnement en eau des enfants, un boulanger qui ne peut plus faire de pain faute d’électricité, les cadavres qui ne trouvent plus de place dans les morgues, ou qui pourrissent sous les décombres.

    Depuis le début de l’attaque militaire israélienne contre Gaza, quelques 2778 Palestiniens sont morts, 9 938 personnes sont blessées, dans un système de santé qui s’est totalement effondré
    (données du 16 octobre).

    Pour rappel, 70% de la population de Gaza sont des #réfugiés, c’est-à-dire que leurs familles ont été chassées de leurs maisons par les Israéliens lors de la #Nakba (mot arabe qui signifie la « catastrophe » et qui désigne, pour les Palestiniens, l’exil forcé de 700 000 d’entre eux, lors de la proclamation de l’État d’Israël en 1948). Ils attendent depuis de pouvoir exercer leur #droit_au_retour, consacré par la Résolution 194 de l’Assemblée générale des Nations Unies. Même si un #corridor_humanitaire était mis en place, nombreux sont celles et ceux qui refuseraient de partir, estimant que quitter la Palestine signifierait ne jamais y revenir. C’est en effet le sort subi par tous les populations palestiniennes déplacées depuis la Nakba de 1948.
    Ce qui se risque de se passer à Gaza est qualifié par de nombreuses voix palestiniennes, dont PNGO, le réseau des ONG palestiniennes mais aussi la Rapporteuse spéciale des Nations Unies Francesca Albanese, comme du #nettoyage_ethnique, comme une nouvelle Nakba. Par ailleurs, pour les principales organisations palestiniennes de défense des droits humains (Al Haq, Al Mezan, PCHR), il devient évident « qu’Israël impose délibérément au peuple palestinien des conditions de vie susceptibles d’entraîner sa destruction physique totale ou partielle ». Ces organisations « appellent les États tiers à intervenir de toute urgence pour protéger le peuple palestinien contre le #génocide ». Ce constat rencontre celui de la Fédération internationale des droits humains (FIDH) qui qualifie l’#ordre_d’évacuation des 1,1 million de Palestiniens du nord de la bande de Gaza de « tentative de déplacement forcé et illégal de civil⋅es pouvant refléter une intention génocidaire ». Cette qualification est également appuyée par un historien spécialisé dans l’étude de l’Holocauste et du génocide, Raz Segal. Selon lui, « l’assaut contre Gaza peut également être compris en d’autres termes : comme un cas d’école de génocide se déroulant sous nos yeux ».

    Pendant ce temps, la situation en Cisjordanie et à #Jérusalem-Est se détériore aussi. Comme le fait remarquer Yehuda Shaul, le fondateur de l’ONG Breaking the Silence, et directeur du think tank israélien Ofek, « les crimes de guerre du Hamas sont l’occasion pour la droite israélienne de faire avancer son programme messianique au-delà de la réponse de l’armée israélienne à Gaza. De la reconstruction des colonies à Gaza à l’intensification de la prise de contrôle du Haram al Sharif [l’Esplanade des mosquées]-Montagne du Temple, en passant par les pogroms en Cisjordanie ». En Cisjordanie, 55 Palestiniens ont été tués par les colons et par l’armée en une semaine.

    En Israël même, la situation de la population palestinienne et de celles et ceux qui défendent leurs #droits devient très difficile. Suite à l’attaque du Hamas et les appels à la #revanche partout dans la société israélienne, les Palestiniens d’Israël (18% de la population) craignent de sortir de chez eux. Les Israéliens et Israéliennes du « camp de la paix » vivent aussi des moments compliqués, d’une part parce que de nombreuses victimes du Hamas étaient des militants et militantes pour la paix, d’autre part parce que la défense de la population civile palestinienne de Gaza et la nécessité d’une réponse israélienne mesurée n’est même plus audible dans l’opinion publique actuelle en Israël.

    "En refusant systématiquement d’obliger Israël à respecter le droit international et en laissant les violations impunies, la communauté internationale porte une responsabilité écrasante dans la situation désespérée que nous connaissons aujourd’hui."

    Face au drame qui se déroule sous nos yeux, la boussole de la Belgique et de l’Union européenne doit plus que jamais rester le droit international et la protection de la vie, de la dignité et des droits humains. Pour l’UE et la Belgique, la priorité doit aujourd’hui être de mettre tout en œuvre pour obtenir un cessez-le-feu, la protection de toutes les populations civiles, et un accès à l’aide internationale pour la population gazaouie actuellement en urgence humanitaire absolue. Elles doivent également appeler à la libération de tous celles et ceux qui ont été illégalement privés de leur liberté, les otages retenus par le Hamas, comme les prisonniers politiques palestiniens arrêtés dans le cadre de la répression de la résistance à l’occupation. L’UE et la Belgique doivent en outre exiger d’Israël la levée du siège de la bande de Gaza, et cela dans une perspective de levée du blocus et d’une reconnexion du territoire avec le reste du territoire palestinien occupé. Elles doivent également s’attaquer aux causes structurelles du présent conflit en adoptant des mesures contraignantes contre Israël afin qu’il mette fin à l’occupation, à la colonisation et à l’apartheid contre le peuple palestinien, à commencer par la fin du commerce avec les colonies israéliennes. Enfin, la Belgique, pionnière historique de la lutte contre l’impunité en matière de crimes de guerre, doit apporter un soutien politique et financier à l’enquête en cours à la Cour pénale internationale sur la situation en Palestine et encourager le procureur de la Cour pénale à en faire une priorité afin que tous les criminels de guerre soient rapidement tenus responsables.

    https://www.cncd.be/gaza-le-droit-international-comme-seule-boussole
    #à_lire #Israël #Palestine #7_octobre_2023 #histoire

  • Des #pratiques_policières et préfectorales illégales et alarmantes en guise de réponse à la demande de places d’hébergement d’urgence.

    Briançon, le 2 octobre 2023 - La semaine dernière, la préfecture des Hautes-Alpes a annoncé l’arrivée, dès le jeudi 21 septembre, de 84 effectifs supplémentaires dédiés au renforcement des contrôles à la frontière franco-italienne. Depuis, des #interpellations se multiplient autour de la frontière, jusque dans la ville de #Briançon, et même au-delà, où la police traque les personnes exilées pour les chasser de l’espace public. Or, si la préfecture se targue de respecter la loi, il n’en est rien et ces pratiques policières et préfectorales sont illégales et dangereuses.

    Les pratiques en matière de contrôles des personnes exilées dans la ville de Briançon ont changé depuis jeudi dernier : chaque jour, plus d’une dizaine de personnes ont été retenues au poste de police, parfois une nuit entière, suite à des contrôles d’identité dans la ville même, fait plutôt rare jusqu’ici. Les exilé.e.s sont poursuivi.e.s au-delà même de Briançon, dans le train, les bus, et jusqu’à Paris, où vendredi matin (29 septembre) une armada de policiers les attendaient à la descente du train de nuit à la gare d’Austerlitz. La présence policière est également renforcée à Marseille, Gap ou Grenoble.

    Ces contrôles ciblent les personnes racisées, et sont suivies par des retenues au commissariat pouvant aller jusqu’à 24 heures, qui se soldent par des mesures d’éloignement : des OQTF (obligation de quitter le territoire français) sans délai, parfois suivies par des placements en CRA (centre de rétention) dans des villes éloignées, comme Toulouse.

    Dans la ville frontalière de Briançon, ces vagues d’interpellations dissuadent les personnes exilées de circuler, elles ne sont donc en sécurité que dans le seul lieu d’accueil actuellement ouvert, un bâtiment occupé en autogestion. La société publique locale Eau Service de la Haute Durance, dont le président n’est autre que le maire de Briançon, M. MURGIA, a coupé l’approvisionnement en eau courante de ce bâtiment le 17 août 2023. Aggravant la précarité des personnes accueillies, cette décision a de fortes répercussions pour la santé et le respect des droits fondamentaux des personnes. (Le lieu accueillant l’association Refuges solidaires a fermé fin août, ne pouvant assurer seul l’hébergement d’urgence à Briançon.)

    Des ordres ont été donné par le préfet pour augmenter la présence policière dans la ville de Briançon. L’augmentation des contrôles d’identité viserait à prévenir la recrudescence des « incivilités » liées au contexte de pression migratoire. Les forces de l’ordre répètent que les contrôles qu’ils opèrent dans la ville de Briançon sont des contrôles dits « Schengen »[1], possibles dans une bande de 20 km après la frontière, visant à rechercher et prévenir la criminalité transfrontalière.

    Or, le fait de franchir une frontière irrégulièrement, ou de se maintenir sur le territoire français irrégulièrement ne sont pas des infractions permettant de justifier un contrôle d’identité. En aucun cas, la police ne peut déduire que la personne est étrangère à cause d’un critère inhérent à la personne contrôlée (couleur de peau, d’yeux, de cheveux, vêtements, etc..). Ces contrôles sont restreints dans le temps : pas plus de douze heures consécutives. Or, ils sont permanents dans la zone frontalière briançonnaise. Dans les faits, ce sont bien des contrôles au faciès qui sont menés, car ce sont bien les personnes racisées qui sont la cible de ces contrôles, qui ne semblent justifiés par aucun motif précis. A moins que le simple fait de dormir dans la rue soit considéré cyniquement comme une infraction par l’État, ou une « incivilité » alors même que celui-ci se place dans l’illégalité en n’ouvrant pas de places d’hébergement d’urgence dans le département ? Ces contrôles au faciès font plutôt penser à une réelle volonté du préfet de supprimer la présence des personnes exilées de l’espace public.

    Par ailleurs, la CJUE (Cour de justice de l’Union européenne) a bien rappelé dans sa décision[2] du 21 septembre que la France met en place des pratiques illégales en termes de contrôles et d’enfermement aux frontières intérieures, et qu’elle est tenue de se conformer aux textes européens, ce qu’elle ne fait pas.

    Ces pratiques répondent à la même logique que celle dénoncée par nos associations depuis maintenant plusieurs années à la frontière : une volonté politique d’empêcher à tout prix les personnes exilées de circuler, en faisant fi des textes de loi qui encadrent à la fois les contrôles d’identité et les procédures de non-admissions sur le territoire. Aussi, la réponse de l’Etat est une fois de plus de faire croire qu’il est possible « d’étanchéifier » la frontière, en déployant pour cela des moyens dispendieux.

    Or, Médecins du Monde et Tous migrants ont mené une enquête sur une semaine à la fin du mois d’août, et les résultats de nos observations confirment ce que nous documentons depuis plusieurs années : ce dispositif de contrôle de la frontière met en danger les personnes. Il n’empêche absolument pas les personnes exilées d’entrer en France, mais accroît par contre leur vulnérabilité en rendant le passage plus difficile, plus dangereux.

    Les récits des personnes qui traversent la frontière sont édifiants : contrôles par surprise, courses-poursuites par les forces de l’ordre, qui provoquent des chutes, avec des fractures, des entorses ou encore des pertes de connaissance. Marchant en moyenne 10 heures depuis l’Italie pour atteindre Briançon, les personnes font état de leur extrême fatigue, de déshydratation, et du risque de se perdre en montagne. Certain.es ont passé plus de 48 heures en montagne, parfois sans boire ni manger. Cette énième traversée de frontières avec des tentatives de passage souvent multiples s’ajoute à un parcours migratoire extrêmement éprouvant et crée de plus des reviviscences traumatiques susceptibles ensuite de se traduire par des altérations de la santé mentale. Les récits recueillis ces dernières semaines et les observations de Médecins du Monde lors des permanences médicales confirment ces pratiques.

    La plupart des personnes qui traversent la frontière sont originaires des pays d’Afrique sub-saharienne, et plus récemment du Soudan, et relèvent du droit d’asile ou de la protection subsidiaire. Les refouler en Italie de manière systématique et collective ignore le droit d’asile européen. De même, prendre à leur encontre des mesures d’éloignement (OQTF) vers leurs pays d’origine, où elles risquent la mort ou la torture, est contraire au principe de non-refoulement (article 33 de la Convention de 1951 relative au statut des réfugiés).

    [1] Encadrés par le Code de procédure pénale, article 78-2 alinéa 5
    [2] Contrôle des frontières : le gouvernement contraint de sortir de l’illégalité - Alerte presse inter-associative- 21 septembre 2023. http://www.anafe.org/spip.php?article694

    communiqué de presse Tous Migrants (co-signée avec Médecins du Monde), reçu le 3 octobre 2023 via la newsletter de Tous Migrants

    #frontière_sud-alpine #frontières #asile #migrations #contrôles_frontaliers #Hautes-Alpes #traque #espace_public #contrôles_d'identité #ville #Paris #Marseille #Gap #Grenoble #gare #contrôles_au_faciès #OQTF #CRA #détention_administrative #squat #présence_policière #incivilités #zone_frontalière #SDF #hébergement #non-admission #vulnérabilisation #courses-poursuites #France #Italie #dangers #risques #montagne #refoulements #push-backs

    • Ritorno a #Oulx, sulla frontiera alpina. Aumentano i transiti, i respingimenti sono sistematici

      Sono già diecimila i passaggi monitorati quest’anno allo snodo Nord-occidentale, in forte aumento rispetto al 2022 quando furono in tutto 12mila. La stretta sorveglianza del confine da parte francese e il mancato accesso ai diritti sul territorio italiano, se non per iniziative volontarie, colpiscono duramente i migranti. Il reportage

      Per le strade di Briançon, primo Comune francese subito dopo il confine con l’Italia alla frontiera Nord-occidentale, non c’è quasi nessuno. È una notte fonda dei primi d’ottobre quando all’improvviso sbuca un gruppo di ragazzi che si dirige con passo svelto verso la stazione: cercano un luogo dove potersi riposare. Intorno è tutto chiuso e avrebbero bisogno almeno di bere un sorso d’acqua, ma la gioia di essere riusciti ad arrivare in Francia compensa la necessità di dormire e di mangiare.

      “Ce l’abbiamo fatta”, dice sorridendo uno di loro. Sono in cinque, tutti provenienti dal Niger e tra loro c’è anche un minorenne. “Abbiamo camminato per otto ore -racconta- ci siamo fermati solo per nasconderci dalla polizia in mezzo agli alberi. Oppure ci siamo sdraiati per terra quando sentivamo un rumore dal cielo”.

      A far paura in questi giorni non sono solo i gendarmi appostati con i binocoli ma anche i droni che il governo francese sta usando per bloccare quanti più transitanti possibile. Dotati di visori termici, sono in grado di stanare i ragazzi anche di notte ed è per questo che i “cacciati” tendono a salire sempre più in cima, oltre i duemila metri. In questo modo il loro tragitto, di per sé già complicato, diventa ancora più pericoloso, soprattutto con la neve e il ghiaccio. Il gruppo arrivato a Briançon saluta e si nasconde nel buio per trovare un posto dove riposare qualche ora. C’è da aspettare l’alba, quando con un treno o con un autobus si tenterà di proseguire il viaggio verso una delle principali città francesi.

      “C’è mio fratello che mi aspetta”, racconta un sedicenne mentre riempie la bottiglietta alla fontanella del centro di Claviere (TO), l’ultimo Comune italiano prima del confine. È pomeriggio e il sole è decisamente caldo per essere ottobre, ma lui indossa una giacca a vento e una sciarpa pronta a far da cappello se in nottata la temperatura dovesse scendere. Aspetta insieme a un gruppo di giovani che si faccia buio per salire in montagna. “Non ho paura della montagna. Ho paura di essere preso dalla polizia e di essere rimandato indietro -continua-. Ma tanto ci riprovo”. Un secondo ragazzo racconta di essere già stato respinto due volte: “Ma prima o poi ce la faccio. Sono stato picchiato tante volte lungo il viaggio, torturato e minacciato. Il buio e la montagna non potranno mai essere peggio”. Del freddo sì, qualcuno ha paura.

      La maggior parte delle persone che si apprestano ad attraversare le Alpi non ha idea di quanto le temperature possano scendere in montagna. In questi giorni di caldo decisamente anomalo, poi, non credono a chi li avverte che potrebbero soffrire il freddo e battere i denti. E così al rifugio “Fraternità Massi” di Oulx i volontari devono convincerli a prendere la felpa e a indossare i calzettoni prima di infilare gli scarponi da montagna.

      Questo luogo è diventato negli anni un punto di riferimento fondamentale per i migranti che vogliono lasciare l’Italia e raggiungere la Francia. Ma negli ultimi mesi il flusso di persone che ogni giorno arrivano è cresciuto fino a raggiungere livelli insostenibili. “All’anno scorso ne arrivavano tra le cinquanta e le cento al giorno. Ma i momenti di sovraffollamento erano poco frequenti -spiega una delle volontarie-. Arrivavano soprattutto dalla rotta balcanica: erano siriani, afghani, palestinesi, bengalesi. C’era anche qualche persona nordafricana. Oggi, invece, arrivano quasi esclusivamente migranti provenienti dai Paesi dell’Africa sub-sahariana sbarcati nelle scorse settimane a Lampedusa o in altre località del Sud”.

      In questi giorni al rifugio i volontari sono sotto pressione: arrivano fino a 250 persone a notte ma i posti a disposizione sono solo 80. “È chiaro che dover aiutare così tante persone ha messo a dura prova l’organizzazione -spiega don Luigi Chiampo, parroco di Bussoleno (TO) che gestisce la struttura-. Significa farli dormire per terra, faticare per offrire a tutti un piatto di pasta o per vestirli in maniera adeguata ad affrontare la montagna”. Il rifugio è un luogo sicuro, dove le persone in transito sanno di poter trovare le cure di cui hanno bisogno dal momento che è sempre presente il presidio di due associazioni che offrono assistenza medico-sanitaria: Rainbow for Africa e Medici per i diritti umani (Medu). Ma soprattutto sanno che possono cambiare le scarpe, spesso lacere e inadeguate. “La maggior parte di chi arriva qui lo fa con le infradito ai piedi -racconta Sofia, una delle volontarie- indossando magliette e pantaloncini. Non possono andare in montagna così”.

      Al mattino gli ospiti del rifugio si mettono in fila al guardaroba, una stanza al pian terreno dell’edificio dove si può trovare tutto il necessario per questa nuova tappa del viaggio: scarpe, pantaloni, maglie, giacconi, guanti, calzettoni, cappellini e zaini per uomini, donne e bambini. Tutto viene catalogato per taglia e tipologia.

      “Shoes, chaussures, scarpe. Non vanno bene quelle”, spiegano i volontari. Le persone si lasciano consigliare ma alcune, soprattutto i più giovani, sgranano gli occhi di fronte a felpe colorate e giacche morbide.

      E così, imbacuccati e attrezzati, aspettano l’autobus per Claviere. “Ho 18 anni -dice uno di loro- ma sono partito quando ne avevo 16. Sono due anni che cerco di salvarmi la vita e ora sono nelle mani di Dio”. La maggior parte dei migranti che in questi giorni stanno tentando di attraversare le Alpi è sbarcata nelle scorse settimane a Lampedusa e in poco tempo ha raggiunto il confine: “Non vogliamo rimanere in Italia, abbiamo tutti famiglia o amici che ci aspettano in Francia o in Belgio -spiega Hassan a nome dei suoi compagni di viaggio-. Abbiamo una casa e forse anche un lavoro ad aspettarci”.

      Tra i migranti al rifugio di Oulx ci sono anche molte donne con bambini piccoli. Per loro la traversata in montagna è ancora più difficile, ma non c’è alternativa. Ismael sta imparando a camminare proprio in questi giorni, aggrappandosi alle gambe delle sedie e appoggiandosi alle mani di tanti sconosciuti che gli sorridono. “Non ha paura di niente”, ammette la madre. Insieme a un piccolo gruppo, anche lei tenterà di raggiungere Briançon.

      Intanto è ora di lasciare il rifugio per andare alla stazione e salire sull’autobus. Biglietto alla mano le persone prendono posto e salutano i volontari, sperando davvero di non rivederli più. Se dovessero ripresentarsi a sera tarda o la mattina seguente vorrà dire che la polizia francese li avrà presi e respinti.

      A riportare i migranti al rifugio è un mezzo della Croce Rossa che fa la spola, anche più volte al giorno, tra Monginevro e Oulx. Seguiamo l’autobus per ritornare a Claviere: mentre un gruppo s’inerpica su per la montagna, un furgoncino torna giù con a bordo cinque persone bloccate la sera precedente. È un meccanismo perverso a regolare questo passaggio a Nord-Ovest, l’ennesimo che i migranti subiscono durante il loro viaggio. Mentre sulle montagne va in scena la caccia all’uomo e i bambini sono rimpallati come biglie, i governi europei giocano al braccio di ferro, senza pensare a canali legali che possano garantire sicurezza e rispetto dei diritti umani.

      https://www.youtube.com/watch?v=z_MO67A_-nQ&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Faltreconomia.it%2F&

      https://altreconomia.it/ritorno-sulla-frontiera-alpina-a-oulx-aumentano-i-transiti-i-respingime

    • La denuncia di MEDU: «Respinti anche se minorenni»

      È quel che sta accadendo al confine italo-francese

      Siamo al confine alpino tra Italia e Francia. Più precisamente a Oulx in Alta Val di Susa, al #Rifugio_Fraternità_Massi. Un edificio di solidarietà, assistenza e cura gestito in maniera coordinata da un pool di professionisti e volontari, in cui ognuno opera con compiti specifici assegnati in base all’esperienza, alle competenze alle finalità dell’organizzazione di appartenenza. Un “luogo sicuro” dove poter riposare per una notte, trovare abiti puliti, un pasto dignitoso e ricevere assistenza medica prima di riprendere il proprio viaggio verso la Francia.

      Qui MEDU (Medici per i diritti umani) da inizio del 2022 fornisce assistenza medica alle migliaia di persone migranti diretti in Francia presso l’ambulatorio allestito dall’associazione Rainbow for Africa (R4A) al Rifugio. L’associazione garantisce la presenza di un medico, di una coordinatrice e di un mediatore linguistico – culturale. In particolare, il medico si occupa sia di fornire assistenza sanitaria ai pazienti che di coordinare le attività sanitarie svolte dalle organizzazioni e dai medici volontari presenti presso il rifugio.

      Nell’ultimo web report pubblicato nel mese di maggio del 2023 le autrici descrivono Oulx come una delle ultime tappe di un lungo viaggio, che può durare dai 2 ai 6 anni e che può costare dai 2 agli 8 mila euro. «Un viaggio che collega l’Afghanistan, la Siria, l’Iran e molti paesi africani con i paesi del nord Europa e dell’Europa centrale, attraverso valichi alpini che superano i 1.800 metri di quota».

      Sono numerosi i minori non accompagnati che ogni giorno raggiungono il Rifugio Fraternità Massi.

      «Negli ultimi mesi, in concomitanza con l’aumento degli arrivi via mare», spiega l’organizzazione umanitaria, «il numero delle presenze è aumentato in modo significativo: a fronte di una capienza di 70 posti, si registrano anche 230 presenze in una sola notte presso il rifugio, tra cui donne e minori».

      Sono tantissime le testimonianze, raccolte da MEDU, di minori non accompagnati che sono stati respinti al controllo di frontiera perché al momento dell’ingresso in Italia sono stati registrati – per loro stessa dichiarazione o per errore – come maggiorenni. Nonostante il loro tentativo di dichiarare la vera età al confine, vengono comunque respinti in Italia, invece di accedere alla procedura di asilo in Francia.

      «Non riconoscere la minore età al confine vuol dire esporre i minori ai rischi derivanti dall’attraversamento della frontiera a piedi, di notte, lungo sentieri di montagna impervi e pericolosi, soprattutto nei mesi invernali. A questi, si aggiunge il rischio di consegnarli alle reti dell’illegalità e dello sfruttamento» denuncia MEDU.

      «Stiamo continuando a garantire ascolto e cure alle persone accolte presso il rifugio e a portare all’attenzione dell’opinione pubblica le loro storie» – conclude l’organizzazione – «che raccontano nella maggior parte dei casi di violazioni e abusi subìti lungo le rotte migratorie».

      https://www.meltingpot.org/2023/10/la-denuncia-di-medu-respinti-anche-se-minorenni
      #mineurs #MNA #val_de_suse

  • Oltre le sigle, la detenzione amministrativa si diffonde nelle procedure in frontiera e cancella il diritto di asilo ed i diritti di difesa

    1.Malgrado le pause indotte dal maltempo, continuano, e continueranno, gli arrivi dalla Tunisia e dalla Libia, e si avvicina il collasso del sistema di accoglienza già minato dai decreti sicurezza di Salvini e dal Decreto “Cutro” (legge n.50/2023). Il governo Meloni con un ennesimo decreto sicurezza, ma se ne attende un’altro per colpire i minori stranieri non accompagnati,” al fine di rendere più veloci i rimpatri”, cerca di raddoppiare i CPR e di creare di nuovi centri di detenzione amministrativa vicino ai luoghi di frontiera, meglio in località isolate, per le procedure accelerate destinate ai richiedenti asilo provenienti da paesi di origine “sicuri”. La legge 50 del 2023 (già definita impropriamente “Decreto Cutro”) prevede che il richiedente asilo, qualora sia proveniente da un Paese di origine sicuro, e sia entrato irregolarmente, possa essere trattenuto per 30 giorni, durante la procedura accelerata di esame della domanda di asilo presentata alla frontiera, al solo scopo di accertare il diritto ad entrare nel territorio dello Stato.

    Sul concetto di paese terzo “sicuro” non c’è ancora un accordo a livello europeo. Le conclusioni del Consiglio dei ministri dell’interno dell’Unione Europea riuniti a Lussembugo lo scorso 8 giugno sono state propagandate come una vittoria della linea tenuta dal governo Meloni proprio su questo punto, ma le previsioni della legge 50/2023, in materia di trattenimento ed espulsioni, non hanno ottenuto quella “copertura europea” che il governo italiano sperava. Per questo motivo sulle “scelte detentive” più recenti del governo Meloni con riferimento ai richiedenti asilo potrebbe intervenire prima la Commissione europea e poi la Corte di giustizia dell’Unione europea. Come sta già avvenendo per la previsione “manifesto”, di dubbia applicabilità, della garanzia finanziaria introdotta dalla legge 50 del 2023 e specificata dal Decreto legge 19 settembre 2023, n. 124, contenente Disposizioni urgenti in materia di politiche di coesione, per il rilancio dell’economia nelle aree del Mezzogiorno del Paese, nonche’ in materia di immigrazione. Una garanzia finanziaria che assieme ad altri requisiti, come la disponibilità di alloggio e documenti validi, potrebbe evitare il trattenimento amministrativo dei richiedenti asilo provenienti da paesi di origine sicuri. Secondo Amnesty International,“Si tratta di un provvedimento illegale. Non è pensabile che persone in fuga dal proprio paese possano disporre in Italia di un alloggio o di un conto in banca e quindi attivare una polizza fideiussoria. Subordinare la libertà delle persone richiedenti asilo a condizioni di fatto impraticabili configura una misura per porre coloro che arrivano in Italia automaticamente in detenzione. La detenzione automatica è arbitraria e vietata dal diritto internazionale”.

    Dunque, ciascun caso dovrà essere esaminato singolarmente, come adesso precisa la Commissione europea sull’ultimo “escamotage propagandistico” inventato dal Governo Meloni, la garanzia finanziaria che dovrebbero prestare (attraverso fideiussione) i richiedenti asilo provenienti da paesi di origine sicuri., Come se riuscissero ad avere immediatamente, subito dopo lo sbarco, la disponibilità finanziaria e i documenti di identità necessari per stipulare il contratto di fideiussione, Una norma manifesto, odiosa ma inapplicabile, dietro la quale si nascondono procedure accelerate che abbattono il diritto di asilo e rendono solo cartacee le garanzie di difesa, anche per il ricorso generalizzato alle videoconferenze, e per le difficoltà per i difensori, che vogliano davvero assolvere al loro ruolo, di ottenere tempestivamente la documentazione relativa al richiedente asilo che devono assistere in sede di convalida o per un ricorso contro la decisione di rigetto della domanda.

    2. Di fronte al fallimento delle politiche migratorie del governo Meloni, dopo l’annuncio, da parte dell’ennesimo Commissario all’emergenza, di un piano nazionale per la detenzione amministrativa, al fine di applicare “procedure accelerate in frontiera” in centri chiusi, dei richiedenti asilo, se provengono da paesi di origine definiti “sicuri”. si richiamano una serie di decreti ministeriali che hanno formato una apposita lista che non tiene conto della situazione attuale in gran parte dell’Africa, soprattutto nella fascia subsahariana, dopo lo scoppio della guerra civile in Sudan e il rovesciamento in Niger del governo sostenuto dai paesi occidentali. Non si hanno ancora notizie certe, invece, dei nuovi centri per i rimpatri (CPR) che si era annunciato sarebbero stati attivati in ogni regione italiana. Le resistenze delle amministrazioni locali, anche di destra, hanno evidentemente rallentato questo progetto dai costi enormi, per l’impianto e la gestione.

    I rimpatri con accompagnamento forzato nei primi sette mesi dell’anno sono stati soltanto 2.561 (+28,05%) rispetto ai 2.000 dello scorso anno. Nulla rispetto ad oltre 100.000 arrivi ed a oltre 70.000 richieste di asilo, conteggiati proprio il 15 agosto, quando il Viminale dà i suoi numeri, esibendo quando conviene le percentuali e lasciando nell’ombra i dati assoluti. Ed oggi i numeri sono ancora più elevati, si tratta non solo di numeri ma di persone, uomini, donne e bambini lasciati allo sbando dopo lo sbarco, che cercano soltanto di lasciare il nostro paese prima possibile. Per questo il primo CPR targato Piantedosi che si aprirà a breve potrebbe essere ubicato a Ventimiglia, vicino al confine tra Italia e Francia, mentre Svizzera ed Austria hanno già annunciato un inasprimento dei controlli di frontiera.

    La prima struttura detentiva entrata in attività lo scorso primo settembre, per dare applicazione, ancora chiamata “sperimentazione”, alle procedure accelerate in frontiera previste dal Decreto “Cutro”, è ubicata nell’area industriale tra i comuni confinanti di Pozzallo e Modica. dove da anni esiste un centro Hotspot, nella zona portuale, che opera spesso in modalità di “centro chiuso”, nel quale già da tempo è stata periodicamente limitata la libertà personale degli “ospiti”. Si tratta di una nuova struttura da 84 posti nella quale vengono rinchiusi per un mese coloro che provengono da paesi di origine definiti “sicuri”, prima del diniego sulla richiesta di protezione che si dà come scontato e del successivo tentativo di rimpatrio con accompagnamento forzato, sempre che i paesi di origine accettino la riammissione dei loro cittadini giunti irregolarmente in Italia. Le informazioni provenienti da fonti ufficiali non dicono molto, ma la natura detentiva della struttura e i suoi costi sono facilmente reperibili on line.

    In Sicilia si prevede anche l’apertura di “strutture di transito”, già appaltate, come quella che dovrebbe sorgere a Porto Empedocle, dove l’area di transito, che verrà ulteriormente potenziata, resta provvisoria, fino a quando non verrà realizzato l’hotspot a valle di contrada Caos a Porto Empedocle che sarà, come quello di Lampedusa, gestito dalla Croce Rossa. Altre “sezioni chiuse” per richiedenti asilo provenienti da paesi ritenuti “sicuri”, per cui si prevede un rimpatrio “veloce” potrebbero essere attivate nei centri Hotspot di Pozzallo e Lampedusa. Mentre i richiedenti asilo provenienti da paesi di origine “sicuri,” in caso di arrivi massicci e di indisponibilità di posti negli Hotspot, potrebbero finire anche nei centri di permanenza per i rimpatri, come i famigerati lager di Pian del Lago (Caltanissetta) e di Trapani (MIlo), da anni spazi di trattamenti disumani, di tentativi di fuga e di abusi sulle persone trattenute. Se non si tratta di annientamento fisico (Vernichtung), ma ci sono stati anche i morti, si può documentare in molti casi l’annientamento psichico degli “ospiti”, che dopo il diniego, in caso di mancato rimpatrio, potrebbero passare mesi su mesi rinchiusi in queste strutture, magari sotto psicofarmaci, come coloro che sono sottoposti al rimpatrio con accompagnamento forzato, tra i richiedenti asilo denegati che non abbiano fatto ricorso con effetto sospensivo o lo abbiano visto respingere.

    La normativa europea impone invece il rilascio delle persone trattenute nei centri di detenzione quando è evidente che non ci sono più prospettive di rimpatrio forzato nel paese di origine (Direttiva rimpatri 2008/115/CE, art.15.4), per la mancata collaborazione degli Stati di origine che non effettuano i riconoscimenti e non forniscono i documenti di viaggio.

    Altri “centri chiusi” potrebbero essere attivati a Messina (probabilmente nei locali del Centro di accoglienza ubicato all’interno della vecchia e fatiscente Caserma Gasparro) fantasiosamente denominato “CIPSI”, Centro di primo soccorso ed identificazione, ed a Catania, dove si sono recentemente sperimentate diverse strutture provvisorie, “tensostrutture”, nelle quali i potenziali richiedenti asilo, che diventano tali con la semplice manifestazione di volontà, anche prima della formalizzazione della domanda da parte delle autorità di polizia, sono stati trattenuti per giorni in condizioni di totale privazione della libertà personale, in assenza di convalida giurisdizionale.

    3. Il fallimento del sistema italiano dei centri di detenzione amministrativa è ormai documentato da anni, e sarà ancora più evidente con l’aumento dei termini di trattenimento fino a 18 mesi (12 per i richiedenti asilo).

    Con riguardo ai nuovi centri di detenzione per richiedenti asilo provenienti da paesi di origine “sicuri” non sembra eludibile una rigorosa verifica della legittimità del trattenimento in sede di convalida del giudice ordinario, e non del giudice di pace, come invece sembrerebbe prevedere la legge 50/2023 (ingiustamente definita ancora oggi “Decreto Cutro), trattandosi di richiedenti asilo che chiedono di fare valere un loro diritto fondamentale, e deve essere prevista una completa base legale con la indicazione precisa delle modalità di trattenimento -che ancora manca- conformi alla normativa europea (Direttiva procedure 2013/32/UE e Direttiva Accoglienza 2013/33/UE). Rimane a tale riguardo una grave violazione del principio di legalità in materia di misure detentive, che la Corte Costituzionale non ha ancora rilevato.

    In ogni caso il trattenimento amministrativo non può essere finalizzato esclusivamente al’esame della domanda di protezione, o per accertare il diritto all’ingresso nel territorio, come sembrerebbe affermare la legge 50/2023, perchè proprio nelle circostanze di limitazione della libertà personale che si riscontrano nei centri “chiusi” risulta più difficile avere contatti con organizzazioni che difendono i diritti umani e raccogliere prove per dimostrare la fondatezza della propria richiesta. Dal tenore della legge sembrerebbe che le strutture detentive riservate ai richiedenti asilo provenienti da paesi di origine ritenuti “sicuri” siano strutture extra-territoriali, come se le persone trattenute non avessero ancora fatto ingresso nel territorio nazionale, circostanza che legittimerebbe l’aggiramento dei principi costituzionali e delle Convenzioni internazionali. Si tratta invece di luoghi che non possono sottrarsi alla giurisdizione italiana, unionale e internazionale dove i diritti e le garanzie non possono essere riconosciuti solo sul piano formale per venire poi negati nelle prassi applicate dalle autorità di polizia. Dunque è il tempo delle denunce e dei ricorsi, mentre l’opinione pubblica sembra ancora rimanere ostaggio delle politiche della paura e dell’odio. Fondamentale l’accesso civico agli atti e la possibilità di ingresso di giornalisti ed operatori umanitari indipendenti, se occorre con gruppi di parlamentari, in tutti i centri in cui si pratica la detenzione amministrativa.

    4. Vanno comunque garantiti diritti di informazione ed accesso alle procedure ordinarie, e quindi nel sistema di centri aperti di accoglienza (CAS, SAI, CPSA) per tutti i richiedenti asilo che adducano a supporto della domanda gravi motivi di carattere personale, pure se provengono da paesi terzi ritenuti sicuri.

    L’ACNUR dopo una generale considerazione positiva delle procedure accelerate in frontiera, soprattuto nei casi in cui appare maggiormente probabile l’esito positivo della domanda di protezione, “Raccomanda, tuttavia, di incanalare in procedura di frontiera (con trattenimento) solo le domande di protezione internazionale che, in una fase iniziale di raccolta delle informazioni e registrazione, appaiano manifestamente infondate.
    In particolare, la domanda proposta dal richiedente proveniente da un Paese di origine sicuro non deve essere incanalata in tale iter quando lo stesso abbia invocato gravi motivi per ritenere che, nelle sue specifiche circostanze, il Paese non sia sicuro. Si sottolinea, a tal fine, la centralità di una fase iniziale di screening, volta a far emergere elementi utili alla categorizzazione delle domande (triaging) e alla conseguente individuazione della procedura più appropriata per ciascun caso”.

    I piani sui rimpatri “veloci” del governo Meloni non sono dunque applicabili su vasta scala, presentano caratteri fortemente discriminatori, ed avranno costi umani ed economici insostenibili. Se si spera negli accordi bilaterali e nel sostegno di Frontex, si dovrà comunque fare i conti con i ricorsi ai Tribunali in Italia ed in Europa, e con un ulteriore aggravamento delle crisi di legittimazione dei governi africani che accettano lo scambio della propria gente con una manciata di denaro.

    Una particolare attenzione dovrà rivolgersi alle persone vulnerabili per età, salute, genere e orientamento sessuale, ma anche per le ferite o per le torture subite durante il transito in Libia o in Tunisia. Una serie di condizioni che potrebbero di per sè legittimare il riconoscimento di uno status di protezione, a prescindere del paese di origine dal quale si è partiti.

    In ogni caso, dopo le decisioni di diniego da parte delle Commissioni territoriali, che potrebbero essere orientate da indirizzi politici, dovranno garantirsi tempi di esecuzione delle misure di allontanamento forzato che non cancellino la portata sostanziale del diritto al ricorso.

    Gli accordi bilaterali, come quelli con l’Egitto e la Tunisia, che prevedono procedure “semplificate”di rimpatrio, magari in aeroporto, senza la compiuta identificazione individuale,e senza un diritto effettivo di ricorso, vanno sospesi.

    Il provvedimento giudiziale che convalida la proroga del trattenimento deve contenere l’accertamento della sussistenza delle ragioni addotte a sostegno della richiesta (Cass. n. 5200/2023). Non si può continuare oltre con le decisioni di rigetto”fotocopia” o con le espulsioni ed i respingimenti con accompagnamento forzato adottati prima della convalida giurisdizionale. I termini di trattenimento amministrativo in assenza di una convalida giurisdizionale sono inderogabili. Come si rilevava al tempo dei centri di prima accoglienza e soccorso (CPSA) e dei Centri Hotspot, lo stesso vale oggi per i “centri di transito” e per i centri per richiedenti asilo provenienti da paesi di origine ritenuti “sicuri”, nelle more delle procedure accelerate in frontiera.

    Occorre ricordare che la Corte Europea dei diritti dell’Uomo, proprio con riferimento a cittadini tunisini, nel dicembre 2016, nel caso Khlaifia e altri c. Italia, e poi ancora quest’anno, nel caso J.A. c.Italia, ha condannato il nostro Paese per violazione, tra gli altri motivi, dell’articolo 5 della Convenzione per aver trattenuto per un periodo prolungato persone appena arrivate in Italia, senza una base legale e senza la possibilità di ricorso. Con riferimento alle nuove strutture detentive che il governo Meloni si accinge ad aprire, resta da verificare il rispetto dei principi affermati dalla Corte di Strasburgo e dei diritti fondamentali, a partire dal diritto di asilo costituzionale, sanciti dalla Costituzione italiana. Sarà anche l’occasione per verificare la legittimità costituzionale di molte disposizioni del decreto “Cutro” che, fin dalla entrata in vigore del provvedimento, hanno evidenziato sotto questo profilo gravi criticità, prima ancora che riuscissero ad avere concreta applicazione.

    https://www.a-dif.org/2023/09/26/oltre-le-sigle-la-detenzione-amministrativa-si-diffonde-nelle-procedure-in-fr

    #rétention #détention_administrative #frontières #migrations #asile #réfugiés #CPR #Italie #procédures_accélérées #pays_sûrs #pays_d'origine_sûrs #decret_Cutro #decreto_Cutro #garantie_financière #5000_EUR #5000_euros #decreto_Sud #Modica #Sicile #Porto_Empedocle #Messina #centres_fermés

    • Turning the Exception into the Rule

      Assessing Italy’s New Border Procedure

      Having promised its electorate a strong stance towards immigration, in January 2023 Italy’s new government adopted a reform that heavily curtailed immigrant rights to speed up return procedures. However, between September and October, several judgments issued by the Catania Tribunal declared it in violation of EU law (https://www.asgi.it/wp-content/uploads/2023/09/NON-CONVALIDA1.pdf). In particular, when requested to review the detention of asylum applicants, the judges found the new Italian asylum border procedure contrary to the Procedures Directive 2013/32 (https://eur-lex.europa.eu/legal-content/en/TXT/?uri=celex%3A32013L0032) and the Reception Conditions Directive 2013/33 (https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=celex%3A32013L0033).

      The judgments led to a backlash, with PM Meloni and other members of the government accusing them of being politically motivated. One minister even published a video on social media showing a judge of the Catania Tribunal taking part in a pro-migrant rights demonstration in 2018, thus accusing her of partiality.

      Such political attacks (https://www.associazionemagistrati.it/doc/4037/lanm-sul-caso-catania.htm) must always be condemned, for they pose a significant threat to judicial independence and thus Italian democracy. Yet, they are particularly unwarranted given that the Catania Tribunal’s judges were correct in finding the new Italian border procedures incompatible with EU law.

      Detention as the Rule for Asylum Seekers

      The 2023 reform (https://www.normattiva.it/atto/caricaDettaglioAtto?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2023-03-10&atto.codice) of Italy’s asylum system included the introduction of an accelerated border procedure which allows for the detention (https://www.questionegiustizia.it/articolo/la-bestia-tentacolare) of asylum seekers „exclusively to determine the applicant’s right to enter the territory“ (Art. 6 bis, Law Decree 142/2015).

      This new procedure is applied when an asylum application is made „at the border or in a transit zone“ by a person who either a) evaded or attempted to evade border controls, or b) hails from a safe country of origin, which were determined by a Ministerial Decree in 2019 (https://www.esteri.it/mae/resource/doc/2019/10/decreto_paesi_sicuri.pdf), later updated in 2023 (https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2023/03/25/23A01952/sg).

      Another Ministerial Decree (https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2019/09/07/19A05525/sg) identified the „border and transit zones“ where the border procedure can be used, without providing a clear definition of these concepts nor explaining the distinction between them. Instead, it lists 16 provinces where the procedure applies (Trieste, Gorizia, Cosenza, Matera, Taranto, Lecce, Brindisi, Caltanissetta, Ragusa, Syracuse, Catania, Messina, Trapani, Agrigento, Cagliari, and South Sardinia).

      Finally, the law specifies that asylum seekers are to be detained unless they submit a passport (or equivalent document) or provide a financial guarantee of € 4,938.00 (https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2023/09/21/23A05308/sg). This amount was allegedly calculated with reference to the cost of suitable accommodation, repatriation, and minimum means of subsistence. The sum can be provided through a bank guarantee or an insurance policy, but solely by the asylum seekers themselves, not by third parties.

      [voir aussi: https://seenthis.net/messages/1018093]

      Following a recent increase in migrant flows from Tunisia, the Italian authorities extensively relied on the new border procedure to detain several Tunisian citizens on the ground that they come from a “safe country of origin” (https://www.questionegiustizia.it/rivista/articolo/la-protezione-dei-cittadini-stranieri-provenienti-da-cd-paesi-sic). However, on September 29 (https://www.asgi.it/wp-content/uploads/2023/09/NON-CONVALIDA1.pdf) and October 8 (https://www.questionegiustizia.it/data/doc/3650/2023-tribunale-catania-8-10-2023-non-convalida-oscurato.pdf), the Catania Tribunal issued a series of similar rulings in which it annulled the detention orders because they were in conflict with EU law. In the following sections, we analyze and expand the three main arguments advanced by the Tribunal, showing that they were largely correct in their findings that the new Italian border procedure exceeds what is permissible under EU law.

      The ‘Border’ under EU Law

      The first argument made by the Catania Tribunal regards the correct initiation of a border procedure. According to the judge, the procedure was not applied „at the border“, as understood by EU law (Art. 43 Directive 2013/32). Indeed, the applicants arrived and made their asylum application in Lampedusa (province of Agrigento) but the detention was ordered several days later in Pozzallo (Ragusa province) when the applicants were no longer „at the border.“ Because the border procedure (involving detention) was utilized at a later stage and in a different place, it was not appropriately initiated.

      In support of the Catania Tribunal’s conclusion, we should recall that Article 43 the Procedures Directive requires a spatial and temporal link between the border crossing and the activation of the border procedure (https://eur-lex.europa.eu/legal-content/en/TXT/?uri=celex%3A32013L0032). Although the Directive does not define the terms „border“ or „transit zone“, it clearly distinguishes these areas from other „locations in the proximity of the border or transit zone“ (Article 43(3)), where applicants can be exceptionally accommodated but never detained. The distinction between the border and other places in its vicinity suggests that the procedure provided for in Art. 43 can only be applied in narrow and well-defined areas or in pre-identified transit zones (such as the Hungarian transit zones examined by the Court in FMS and Commission v Hungary).

      Other EU law instruments support this narrow interpretation of the “border” concept. Regulation 1931/2006 defines a „border area“ as a delimited space within 30 km from the Member State’s border. In the Affum case, the Court also called for a narrow interpretation of the spatial concept of „border.“ There, the Court clarified that the Return Directive allows Member States to apply a simplified return procedure at their external borders in order to „ensure that third-country nationals do not enter [their] territory“ (a purpose which resonates with that of Art. 8(3)(c) Reception Directive). However, such a procedure can only be applied if there is a „direct temporal and spatial link with the crossing of the border“, i.e. „at the time of the irregular crossing of the border or near that border after it has been crossed“ (par. 72).

      By contrast, under the Italian accelerated procedure, the border has blurred contours. The new procedure, relying on the “#fiction_of_non-entry” (https://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/STUD/2020/654201/EPRS_STU(2020)654201_EN.pdf), can be carried out not only „at“ the border and in transit zones or in areas territorially „close“ to the border, but in entire provinces in southern and northern Italy. This far exceeds the narrow definition of border or border area derived from EU law.

      The Regulation of Detention under EU Law

      The second argument of the Catania Tribunal turned on the lack of motivation for the detention orders. The applicants were detained solely because they were from Tunisia, did not submit a valid passport nor pay the bail. As such, the orders lacked any case-by-case assessment of the applicant’s individual circumstances, and they did not apply the proportionality and necessity principles, as prescribed by EU law under art. 8(2) Directive 2013/33 and art. 52 and 6 of the Charter.

      Indeed, even if a border procedure is correctly initiated, Italy’s new provisions on the detention of asylum seekers do not meet the requirements of Article 8(2) of the Reception Directive. According to the CJEU, this authorizes asylum seekers‘ detention “only where, following an assessment carried out on a case-by-case basis, that is necessary” and where other less coercive measures cannot be applied effectively. (ex multis, FMS, par. 258; VL, par. 102; M.A., par. 82).

      Italy’s norms contain no reference to the principles of necessity and proportionality nor to the need for a case-by-case assessment (Art. 6 bis D. Lgs. 142/2015). In so far as the Italian provisions allow for an automatic application of detention whenever the border procedure is activated, they are incompatible with Art. 8(2) of the Reception Directive. In light of the primacy and direct effect of EU law, Italian public authorities are required to give direct application to the principles of proportionality and necessity and to carry out an individual assessment, even if not directly foreseen by Italian law.
      The Possibility of Bail

      Finally, the Catania Tribunal argued that the financial guarantee to avoid detention is contrary to EU law. The Tribunal observed that the guarantee is not used as an alternative measure to detention, but rather as an ‚administrative requirement‘ that, if not complied with, leads to detention. According to the judge, this renders it incompatible with Articles 8 and 9 of the Reception Directive 2013/33 which “preclude[s] an applicant for international protection being placed in detention on the sole ground that he or she is unable to provide for his or her needs.”(at 256).

      As rightly noted by Savino, EU law does not prohibit the use of financial guarantees; to the contrary, Article 8(4) mentions it as a legitimate alternative to detention. However, both scholars and the European Asylum Agency maintain that the guarantee shall be proportionate to the means of the applicant in order to avoid discriminatory effects. The EUAA Guidelines on asylum seeker detention further specify that:

      “the amount should be tailored to individual circumstances, and therefore be reasonable given the particular situation of asylum seekers, and not so high as to lead to discrimination against persons with limited funds. Any failure to be able to do so resulting in detention (or its continuation), would suggest that the system is arbitrary.”

      It is doubtful whether the financial guarantee in its current legal design can be considered an “effective” alternative to detention (Art.8(4)). Its high amount (€4,938.00) and procedural requirements make it practically impossible for asylum applicants to rely upon it. In particular, they are required to deposit the sum upon arrival, through a bank guarantee or an insurance policy, which are concretely impossible for them to obtain. Moreover, the financial guarantee is the only alternative to detention provided by the new Italian law, while migrants detained under other circumstances can rely upon more alternative measures.

      Taken together, it means that the measure is designed in a discriminatory way and is neither effective nor proportionate.

      Concluding Thoughts

      Several aspects of the new law foresee a system in which the border procedure is systematically applied, rendering detention the rule, instead of the exception. This follows from the geographic expansion of the “borders areas and transit zones”, the automatic (indiscriminate) application of the safe country of origin concept, the lack of a proportionality assessment, and the practical impossibility of applying the only alternative measure foreseen.

      More and more Italian courts are annulling detention orders, on the grounds that the Italian border procedure is in conflict with EU law. While the Italian government considers this an unacceptable form of judicial activism, this blog has shown that the judges’ concerns are well-founded.

      Member States’ courts are “EU law judges”, they must give precedence to EU law and general principles and set aside any incompatible national law. The recent personal attacks against some of the judges show that the government struggles to come to terms with this thick form of judicial review which takes seriously European and human rights standards.

      https://verfassungsblog.de/turning-the-exception-into-the-rule
      #exception #justice #détention #rétention #détention_administrative #décret #procédure_accélérée #garantie_financière #5000_EUR #chantage #caution #decreto_Cutro #décret_Cutro #5000_euros #tribunal_de_Catane #procédure_frontière #directive_procédures #zone_de_transit #proximité #distance #zone_frontalière #directive_retour #frontière_extérieure #fiction_de_non-entrée

      –-

      La partie sur les frontières ajouté à cette métaliste autour de la Création de zones frontalières (au lieu de lignes de frontière) en vue de refoulements :
      https://seenthis.net/messages/795053

  • ‘You may have been poisoned’ : how an independent Russian journalist became a target
    https://www.theguardian.com/world/2023/sep/12/you-may-have-been-poisoned-how-an-independent-russian-journalist-became

    Article exemplaire : dès que vous vous intéressés aux affaires des grands ils vous feront sentir leur désapprobation. Ceci va de l’intimidation pure et simple par des avertissements explicites auprès de vos contacts et prend la forme de tentatives d’assassinat dans des cas de plus en plus courants. You have been warned.

    Les zones de combat changent de charactère et ne se limitent plus aux « théâtres de guerre » identifiés comme tels.
    cf. https://seenthis.net/messages/1016594

    Think of Julian who is rotting in a british high security jail. No difference at all. Kill the messenger.

    Elena Kostyuchenko - I didn’t want to write this for a long time. I feel disgusted, afraid, ashamed. Even now, I can’t write about everything I know because I have to protect the people who saved my life.

    On 24 February 2022, my country attacked Ukraine.

    The day of the invasion, I went to Ukraine on assignment from Novaya Gazeta, the independent Russian newspaper where I had been working for 17 years. I crossed the Polish-Ukrainian border on the night of 25 February. Over the course of four weeks, thanks to the incredible support of countless Ukrainians, I was able to file stories from the border, Odesa, Mykolaiv and Kherson. Kherson was under occupation. Getting in and out meant crossing the frontlines twice. In Kherson, Russian soldiers were kidnapping and torturing people. I found people who had survived being tortured. I found the detention centre where the kidnapped people were being held. I learned the names of 44 kidnapped people and the circumstances in which they were taken. I published my article and handed over what I had uncovered to the Ukrainian prosecutor general’s office.

    The next place I was aiming to report from was the southern Ukrainian city of Mariupol, where there was active combat and on many days there were no humanitarian corridors. The only occasionally passable road lay through Zaporizhzhia. It often came under fire, and as you approached Mariupol, the Russian checkpoints began. Nevertheless, people travelled this road every day in order to try to rescue their loved ones from the city as it was being destroyed. I decided to travel with them.

    On 28 March, I entered Zaporizhzhia. Waiting at a checkpoint, I started getting messages from friends: “Assholes.” “Hang in there.” “Let me know if I can help.” That’s how I found out that Novaya Gazeta had shut down. The paper had received its second warning that year from the state censorship agency, which meant it could lose its licence. I’d been expecting this from the moment of the incursion, but I didn’t know how painful it would be.

    I decided to go to Mariupol anyway. I’d publish my piece wherever I could.

    I met with volunteers and the people heading to Mariupol to rescue their relatives. I found someone willing to take me in their car despite my having a Russian passport. We arranged to leave on 31 March.

    I spent the day before our trip in a hotel, trying to gather my strength. A colleague from Novaya called me and asked if I was going to Mariupol. I was puzzled – only two people from the paper knew I was going to Mariupol: the editor-in-chief, Dmitry Muratov, and my editor Olga Bobrova. I said: “Yes, I am going tomorrow.” She said: “My sources have got in touch with me. They know that you’re going to Mariupol. They say that the Kadyrovites have orders to find you.” The Kadyrovites, a Chechen subdivision of the Russian national guard, were actively engaged in the fighting around Mariupol – they manned the checkpoints. My colleague said: “They’re not planning to hold you. They are going to kill you. It’s been approved.”

    It was like running into a wall. I went deaf; everything went white. I said: “I don’t believe you.” She said: “That’s what I told them, too – that I didn’t believe them. Then they played me a recording of you talking to someone about Mariupol, planning your trip. I recognised your voice.”

    She hung up; I sat down on the bed. I didn’t think anything, I just sat.

    Forty minutes later, my source from Ukrainian military reconnaissance called. He said: “We have information that an assassination of a female journalist from Novaya Gazeta is being organised in Ukraine. Your description has been sent to every Russian checkpoint.”

    An hour later, Muratov called me. He said: “You have to leave Ukraine this minute.”

    But I couldn’t make myself leave.

    The following morning, I woke up to messages from an editor at Novaya. The Russian prosecutor general’s office and the Russian media regulator, Roskomnadzor, had demanded they take my reporting from Ukraine down from their website or else the site would be blocked. Novaya complied. Somehow this was what crushed me. I started crying and couldn’t stop. Then rage came in place of the tears, and it filled my entire being.

    I tried to find another way into Mariupol, bypassing the Russian checkpoints. But there was active combat everywhere. The only road was through Zaporizhzhia, and they were waiting for me on that road. In the end the thing that stopped me was thinking what would happen to the person who agreed to take me in their car. If I got killed, they wouldn’t be spared.

    A Ukrainian soldier near Mykolaiv, Ukraine in March 2022, from where Kostyuchenko did some reporting at the time. Photograph: Scott Peterson/Getty Images

    On the night of 1 April, I left Ukraine.

    I left in a very bad state. I had lice, mumps and PTSD. My friends took me in; they passed me from hand to hand. My girlfriend Yana came from Russia and took care of me, made sure I was eating and sleeping. My plan was to get better, finish the book I was writing and go back to Russia. All of my work, my entire life, my mother and sister – they are all there. The worse the news from home got, the more I felt like I needed to be there.

    On the evening of 28 April, Muratov called me. He spoke in a very gentle voice. He said: “I know that you want to come home. But you cannot go back to Russia. They will kill you.”

    I hung up the phone and started screaming. I stood in the street and screamed.

    A month later, we were able to meet. Muratov said: “They’ll make it look like a hate crime. The people on the right hate lesbians.” By that stage I was working on my book. I wrote, and only thought about what I was writing. There wasn’t room for anything else in my head. Those were the best days.

    At the end of September, I got in touch with Muratov again. I asked him to find out if I could return to Russia. He called me back several days later. “No. No. No.”

    I found an apartment in Berlin and moved there. On 29 September, I began working for the website Meduza. We decided that my first reporting trip would be to Iran. I’d been there before, and I found people who would help me, got a visa, bought clothes. We decided that after Iran, I would go to Ukraine. Meduza asked me to submit the paperwork for a Ukrainian visa before I left.

    I couldn’t fill out an application or make an appointment at the Ukrainian embassy on their website – it wouldn’t let me. The Ukrainian ministry of foreign affairs hotline told me their website was being attacked by hackers, so it was impossible to deal with my request for now. I started looking for contacts within the embassy. I got someone to agree to see me in their consulate in Munich. I have to admit that I corresponded about my trip to Munich over Facebook Messenger. It’s not secure, and I knew that. But I wasn’t in Russia – I was in Germany. I didn’t even think about the basic tenets of my security, the protocols I’d been following for years.

    On the evening of 17 October, I booked a seat on an overnight train to Munich. On the train I took off my shoes, curled up on the seat and slept. People walked past me; they knocked into my feet. I kept sleeping.

    When I arrived in Munich, I went to meet my friend, tried to get some sleep, then went to the embassy. The staff questioned me, asking what I was planning to do in Ukraine. They took my documents, but I still wasn’t able to apply for a visa – there were problems with their internal system. They said I should come back another day.

    My friend picked me up at the embassy and we went to get lunch. We sat outside at a restaurant. While we were sitting there, two different groups of her acquaintances happened to run into us. They came up to our table – there was a man, and then two women. I thought: “What a small town Munich is. It really seems like everyone knows each other.” I went to the bathroom, still thinking about my visa.

    Then my friend took me to the train station. As we approached it, she said: “Listen, I have to tell you: you smell bad. Let me find you some deodorant.” I remember I was shocked by what she said – she’s a very tactful person and she would have never said anything if I hadn’t actually smelled terrible. When I got on the train, I found my seat and immediately went to the bathroom. I wet some paper towels and started wiping myself off with them. I was covered in sweat. The sweat smelled strong and strange, like rotten fruit.

    I sat down and started reading the manuscript of my book. After a while, I realised that I was just reading the same paragraph over and over. My head ached. I’d had Covid three weeks earlier. I thought: “Do I really have it again?” I called Yana. I said: “I feel unwell. I hope it’s not Covid – how will I go to Iran if it is?” I tried to get back to the book, but I was feeling worse. My headache got so bad I couldn’t look at things any more. I kept sweating. I went back to the bathroom and wiped myself off again.

    When I got out at the train station, I couldn’t figure out how to get home. I knew that I needed to transfer to the subway but I couldn’t figure out how. I considered going outside and calling a cab, but the very thought of having to find my location on the map in the app terrified me. I looked for the right entrance to the subway for a long time. When I finally got there, I burst into tears – I didn’t know what direction I was supposed to go in. Other passengers helped me.

    The walk home from the subway is five minutes. It took much longer. Every few steps, I had to put my bag down – it seemed unbearably heavy – and rest. On the stairs I got short of breath. I thought to myself: “This fucking Covid has really messed me up.” As soon as I got home, I went to sleep.

    I was woken up by a pain in my stomach. It was strange – very strong but not sharp, it came and went as though being turned on and off. I tried to sit up but I had to lie back down. I felt so dizzy – it was like the room was spinning. With every rotation, I grew more nauseous. I got to the bathroom, where I threw up.

    I kept corresponding with the Iranians. I cried. It was supposed to be my first trip for my new job, and now this. The pain in my stomach kept getting worse. It was painful to even touch the skin. I barely slept those first few nights – as soon as I drifted off, I would be woken up by the pain. My head kept spinning whenever I sat down or got up.

    On the third day, it became clear that I was not going anywhere, and that whatever I had wasn’t Covid.

    It isn’t easy to see a doctor in Berlin. I was only able to get an appointment on 28 October, 10 days after I became ill. It was a regular clinic in my neighbourhood. The doctors – there were two of them – both immediately said that I had long Covid: “It can go on for up to six months. If you don’t feel better six months from now, come back.” But they did an ultrasound: all clear. They tapped on my stomach. I got them to do some blood tests. I came out of the clinic feeling comforted – it was nothing, I’d get better soon.

    The blood tests came back bad. The levels of ALT and AST (alanine and aspartate aminotransferase) enzymes in my liver were five times above normal. They tested my urine. There was blood in it. The doctors stopped joking around. I was referred to a specialist. She said it was most likely viral hepatitis. “We’ll figure out which one it is and then treat it,” she said.

    The hepatitis tests came back negative.

    My symptoms kept changing. My stomach hurt less and I got less dizzy. But I was totally weak. My face started swelling, and then my fingers. I barely managed to take my rings off, and could not get them back on again. My fingers looked like sausages. Then my feet started swelling. The swelling kept getting worse – I lost sight of my chin, my face was no longer my face. When I looked in the mirror, it took me a moment to recognise myself. Sometimes my heart would start racing. Sometimes my palms and the bottoms of my feet would start to burn, turning red and shiny.

    Everything was exhausting. It was hard to go down the stairs. Sometimes Yana and I would go out for 15 minutes, half an hour, and I would get so tired that I’d have to go home. I stopped being able to sleep, but it was not about the pain. It was as though my brain had forgotten how to fall asleep. I’d lie there for hours trying not to wake up Yana, looking up at the ceiling and wondering what was wrong with me.

    My hepatic enzyme levels kept rising. There was still blood in my urine. I kept going to doctors. The doctors would come up with theories, test them, come up with new ones: autoimmune diseases, acute complicated pyelonephritis, systemic diseases.

    Meduza put me in touch with a doctor they trusted. The doctor decided to retest me for hepatitis. The tests came back negative. While I was heading home, he wrote to me: “Is it possible that you have been poisoned?” I replied: “No, I am not that dangerous.”

    I told Yana; we laughed. She said: “Oh yeah, the simplest explanation. She must have been poisoned – she is a Russian journalist.”

    On 12 December, I went back to my local doctor. I got a new round of tests, and the results had got worse: my ALT was seven times above normal. We sat in her office. She said nothing, going through her papers. Then she said: “Elena, there are two theories left. The first one is that the antidepressants you’re on may have suddenly started working aberrantly. But you recently changed medications, and your symptoms and test results haven’t changed. That’s why we have a second theory. Please try to stay calm. You may have been poisoned.”

    I laughed. The doctor stayed silent. I said: “That’s impossible.” She said: “We’ve ruled out all other options. I’m sorry. You need to go to the toxicology department at Charité [the university hospital].”

    I spent the next three days lying in bed and thinking. I don’t remember what I was thinking about. Yana says that the first day I said it was stupid and that the doctors had made a mistake – it was just that they couldn’t diagnose what what wrong with me and didn’t want to run any more tests. Then I stopped talking. Then I got in touch with Meduza and we started trying to figure out what to do next.

    In order to get blood tests done for poisoning, you have to go to the police. So I did. From the police station, they sent me straight to the hospital. The police officers turned up at the hospital to talk to me and the doctors.

    My first session was with the Berlin criminal police and lasted nine hours. They wanted to know everything: what I was working on, and planning to work on, who I had been in contact with in Ukraine, which colleagues I was in contact with now. I had to reconstruct 17 and 18 October minute by minute.

    My clothes and apartment were checked for radiation. My body, too. They took the clothes I’d travelled to Munich with. Then the police did a “safety check” of my apartment. An officer asked me: “Why are your blinds open? You could easily be shot from the balcony across the way.” The police told me I needed to follow new safety protocols. Like what? “Move house. Take different routes home. Don’t get cabs directly to your destination; get out a block away. Wear sunglasses.” “That’s it?” “Well, it will all help your chances.”

    The police officers were angry at me. They didn’t show it, but after the third round of questioning, we started talking. The senior detective had run the investigation into the killing of Zelimkhan Khangoshvili, a former Chechen field commander, who had been shot in central Berlin in 2019. The killer was quickly caught thanks to eyewitnesses and security camera footage. His passport said he was Vadim Sokolov, but journalists and police established that his real name was Vadim Krasikov and that he had ties to the FSB security service. He received a life sentence in Germany for murder “on the orders of the Russian government, being a part of the Russian law enforcement apparatus”. The judge called what happened “state terrorism”. In 2022, Russia filed two separate requests to include Krasikov on the list of prisoners up for exchange, but Germany refused.

    The same senior detective had in 2018 investigated the poisoning of Petr Verzilov, the publisher of Mediazona and a member of Pussy Riot. He had been taken to Charité from Moscow on a private plane, convulsing and delirious. Verzilov’s friends found that the Berlin hospital was under surveillance by the Russians. The police offered Verzilov protection and opened an investigation. “And we weren’t able to establish anything. Not even the substance used.”
    Elena Kostyuchenko, smiling slightly and wearing a buttoned silk blouse and three necklaces, sits crosslegged on a hospital bed next to a monitor, with a medical band on her head and holding up an oxygen monitor on her finger
    Kostyuchenko at the Charité hospital in December 2022 after her suspected poisoning. Photograph: Elena Kostyuchenko/Instagram

    “How come?”

    “Because it’s impossible to ask a lab: ‘Was this person poisoned?’ You can only ask if there was a specific substance present in their body. And there are thousands of substances. That’s why it’s such a popular means of assassination.

    “We can’t understand why it took you this long to come to us. You should have called the police right away, as soon as you felt sick on the train. We would have met you at the station.”

    “But I didn’t think I’d been poisoned. I’m still not sure.”

    “Why didn’t you think so?”

    “It seemed crazy to me. And I’m in Europe.”

    “So what?”

    “I felt like I was safe.”

    “That is what drives us crazy,” the detective said. “You come here and act like you’re on holiday. Like this is some paradise. It doesn’t even occur to you to keep yourself safe. We have political killings here. The Russian special services are active in Germany. Your carelessness, yours and your colleagues, knows no bounds.”

    I was not kept informed of the progress of the investigation.

    On 2 April, at a journalism conference, I was approached by Roman Dobrokhotov, editor-in-chief of the Insider, an independent Russia-focused news website. He took me aside. “Lena, I have a personal question. But first I need to tell you something. Christo Grozev from Bellingcat and I have been investigating a series of poisonings in Europe. All the known targets are female Russian journalists. I want to ask you: you haven’t written anything for a long time – is it because you’ve been sick?”

    And I told him what I am telling you now.

    On 2 May, I got a letter from the Berlin prosecutor general’s office telling me that the investigation into my attempted assassination had been closed. The police had not found “any indication” that there had been an attempt to kill me. “Blood test results do not conclusively indicate poisoning,” it said.

    The doctors speaking to the Insider and Bellingcat said that the most likely explanation for what had happened to me was that I’d been poisoned with a chloroorganic compound. I passed this information on to the police. On 21 July, the prosecutor’s office reopened the case.

    How am I now? The pain, nausea and swelling have gone. I still have no energy. I left Meduza – I am a long way away from being able to return to the field. Right now I can work three hours a day. This keeps increasing, but slowly. There are days when I can’t do anything. I lie there and try not to hate myself.

    While I was writing this, I strove to establish the chronology of events, and to remember all the important details. But which details are really important? Last November, a friend of mine came to Berlin. He is a publisher – not an activist, not a journalist, not a politician. He came over and he was horrified at the state I was in. He said: “Do you understand that you may have been poisoned? Have you talked to your doctors about that?” I said: “I haven’t and I am not going to – that’s stupid.” I said: “Don’t try to infect me with your paranoia.”

    I had lied to the police when I told them the idea of being poisoned “seemed crazy” to me – it didn’t. During my time at Novaya Gazeta, four of my colleagues were killed. I organised the funeral of journalist Mikhail Beketov. He’d been a friend. I knew that journalists got murdered. But I did not want to believe that they could kill me. I was protected from this thought by revulsion, shame and exhaustion. It disgusted me to think that there were people who wanted me dead. I was ashamed to talk about it. Even with loved ones, let alone the police. And I knew how exhausted I was, how little strength I had left, and that I wouldn’t be able to go on the run again.

    My book I Love Russia: Reporting from a Lost Country is coming out in October. It is about how Russia descended into fascism. It is coming out in several languages simultaneously. The police believe it might become a trigger – that the people who tried to kill me in Ukraine, and possibly in Germany, will try again.

    I want to live.

    That’s why I’m writing this.

    I also want my colleagues and friends, activists and political refugees currently living abroad to be careful – more careful than I have been. We are not safe, and we will not be safe, until there is regime change in Russia. The work we do could help to bring this regime down, and it is defending itself.

    If you are suddenly ill, please do not discount the possibility that you may have been poisoned. Tell your doctors. Fight for yourself. And if it’s already happened to you, please make contact with the investigative teams at the Insider or Bellingcat. They are looking for the people who are trying to kill us.

    #zone_de_combat

  • Au Maroc, « la #montagne a été trop longtemps marginalisée »

    La géographe marocaine #Fatima_Gebrati, spécialiste du Haut Atlas de Marrakech, souligne l’insuffisance de l’#aménagement_du_territoire dans les zones les plus violemment frappées par le #séisme. Une #marginalisation qui commence dès la période coloniale.

    Autour d’elle, le décor est apocalyptique. Lundi 11 septembre, la géographe marocaine Fatima Gebrati roule en direction de Talat N’Yacoub, une commune de la province d’#El-Haouz, pulvérisée par le séisme – même les bâtiments construits aux normes antisismiques. Elle y achemine de l’aide humanitaire aux victimes livrées à elles-mêmes.

    Elle est aussi l’autrice d’une thèse sur la mobilisation territoriale des acteurs du développement local dans le Haut Atlas de Marrakech, soutenue en 2004. Un travail qu’elle a poursuivi depuis, à l’université Cadi Ayyad. Dans un entretien à Mediapart, elle déplore les efforts insuffisants de l’État marocain pour aménager les territoires de montagne, particulièrement meurtris par le séisme.

    Mediapart : Quelles leçons tirez-vous du séisme survenu vendredi 8 septembre ?

    Fatima Gebrati : Il faut revoir l’aménagement du territoire au #Maroc principalement dans les #zones_de_montagne. L’État a fourni des efforts qui restent insuffisants. Ce séisme nous l’apprend encore de manière dramatique. J’espère qu’il va y avoir une prise de conscience et une vraie volonté au sein du gouvernement pour repenser les politiques publiques et l’aménagement du territoire.

    La montagne a été trop longtemps marginalisée en matière d’aménagements du territoire. Les raisons sont multiples et la première a à voir avec la #colonisation du Maroc par la #France. Bien avant l’indépendance, dès la colonisation, l’État a concentré ses efforts de développements dans les plaines. Comme la Tunisie ou l’Algérie, le Maroc a constitué un laboratoire d’#expérimentations. Des #barrages ont été créés pour alimenter la France, « le territoire mère », en matière agricole, industrielle, pas pour les beaux yeux des Marocains.

    Seul le « #Maroc_utile » et non « l’inutile » comptait pour la France, comme l’affirmait le maréchal #Lyautey [le grand artisan de la #colonisation_française – ndlr]. Ce Maroc « inutile », c’était la montagne, la #marge qui a une connotation politique. C’est dans les montagnes que la lutte contre la colonisation a été la plus farouche.

    Après l’indépendance, l’État a fait des efforts dans plusieurs domaines mais les sédiments hérités de la colonisation demeurent très lourds, jusqu’à aujourd’hui. Malgré les nombreux programmes dédiés, on n’a pas réussi à combler le vide et les failles qui existent sur ces territoires.

    Le plus grand déficit demeure l’aménagement du territoire. L’état des routes est catastrophique, il n’y a pas assez de routes, pas assez de connexions. Il faut renforcer le tissu routier, construire d’autres routes, désenclaver. Au niveau du bâti, les politiques ne sont pas à la hauteur. Des villages entiers se sont effondrés comme des châteaux de cartes.

    On ne s’est jamais posé la question au Maroc de savoir comment construire les maisons en montagne. Faut-il le faire en béton et autres matériaux modernes ou inventer un modèle qui préserve la spécificité des zones montagneuses et les protège des catastrophes naturelles ? C’est d’autant plus invraisemblable que les montagnes du Haut #Atlas de Marrakech sont un berceau de la civilisation marocaine à l’époque des Almoravides et des Almohades.

    Comment expliquez-vous que ce soit la société civile qui pallie depuis des années au Maroc, tout particulièrement dans les zones les plus marginalisées, les défaillances de l’État jusqu’à l’électrification ou l’aménagement des routes ?

    À la fin des années 1990, alors qu’émergeait la notion de développement durable, on a assisté à une certaine effervescence de la société civile, d’associations locales, et à une forte mobilisation d’ONG nationales et internationales. Elles ont commencé à intervenir dans le #Haut_Atlas. Dans certaines vallées, des développements touristiques ont vu le jour comme dans la vallée de Rheraya dans la province d’El-Haouz. Des microprojets locaux ont permis de ramener l’électricité avec un groupe électrogène, puis d’électrifier un douar [village – ndlr], comme Tachdirt, bien avant l’électrification menée par l’État.

    De nombreuses études ont été réalisées pour comprendre la réalité de la montagne et orienter l’État. Malheureusement, les universitaires marocains n’ont pas l’oreille du gouvernement. Nos travaux de recherche sont restés dans les tiroirs de nos universités. Deux programmes essentiels ont été investis par l’État à partir des années 1990 – l’électrification du monde rural et l’accès à l’eau potable, deux nécessités vitales –, puis dans un autre temps, la scolarisation. Des efforts colossaux ont été réalisés mais ils restent insuffisants.

    Ces régions rurales et montagneuses sont-elles marginalisées parce qu’elles sont #berbères ou plutôt #amazighes – « berbère » étant un terme colonial ?

    C’est très difficile de vous répondre. Je considère que la marginalisation de ces territoires est plus économique que politique. Après l’indépendance, le Maroc s’est retrouvé considérablement affaibli. L’État colonial a tout pompé, volé, les caisses étaient vides.

    Le Maroc s’est retrouvé sans ressources financières ou humaines puisque de nombreux hommes ont donné leur sang pour libérer le pays. Il fallait orienter l’#économie du Maroc. Le choix s’est porté sur l’#industrie et l’#agriculture. Ce fut un échec. Puis le Maroc a ciblé l’essor économique par le #tourisme. À la fin des années 60, les premières infrastructures ont été construites, des hôtels, des aéroports, des personnels ont été formés.

    Mais ces piliers restent fragiles, l’agriculture, par exemple, est soumise aux précipitations. Si une saison est sèche, le Maroc souffre. Quant au tourisme, on a vu la fragilité du secteur avec le tourisme quand, notamment, Marrakech est devenue une ville fantôme pendant la pandémie de Covid-19. Il faut créer d’autres pôles économiques aux alentours des pôles régionaux, créer de l’infrastructure de base, renforcer le tissu économique pour limiter le taux de chômage, insérer les jeunes. Le tourisme en fait partie mais il ne doit pas être tout.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/110923/au-maroc-la-montagne-ete-trop-longtemps-marginalisee

    • Séisme. Maroc : le silence gênant de Mohammed VI
      https://www.courrierinternational.com/article/seisme-maroc-le-silence-genant-de-mohammed-vi

      Depuis Paris, où il séjournait, Mohammed VI a tardé à s’exprimer après le terrible tremblement de terre qui a frappé son pays, s’étonne la presse internationale.

      Depuis la France, où il séjournait, le monarque marocain s’est exprimé le 9 septembre au soir, à travers une déclaration officielle dans laquelle il décrétait trois jours de deuil et ordonnait le déploiement d’un programme d’urgence pour venir en aide aux victimes.

      Mais jusqu’à la publication, détaille l’hebdomadaire espagnol, le royal silence a contraint toutes les autres autorités marocaines à adopter la même attitude. Ni le chef du gouvernement, Aziz Akhannouch, pourtant originaire de la région touchée, ni le ministre de l’Intérieur, Abdelouafi Laftit, ne se sont exprimés ni ne se sont rendus dans les endroits les plus durement touchés par le tremblement de terre. À l’échelon local, même absence de réaction et attentisme des autorités.
      Le seul membre de la famille royale à avoir dérogé à cette réserve du roi a été le prince Moulay Hicham, son cousin germain. Le “Prince rouge”, son surnom en raison de ses positions réformatrices sur la monarchie, a exprimé sa solidarité avec le peuple marocain depuis sa résidence de Boston.

  • 2 groups of ~250 people in total stranded on different islets of the #Evros river ! (22.08.2023)

    We are in contact with 2 groups of ~250 people in total, who are stranded on different islets of the #Evros river! One group shared a video of the fires raging nearby. They say “The fires are getting very close to us now. We need help as soon as possible!”

    https://twitter.com/alarm_phone/status/1693972420858609721
    #limbe #zone_frontalière #île #Evros #asile #migrations #réfugiés #frontières #fleuve_Evros #Turquie #Grèce #Thrace #îlots
    #nudité

    –-

    ajouté à la métaliste sur #métaliste sur des #réfugiés abandonnés sur des #îlots dans la région de l’#Evros, #frontière_terrestre entre la #Grèce et la #Turquie :
    https://seenthis.net/messages/953343

  • Group of 45 people stranded on an islet in the wider #Soufli - #Tychero area (22.07.2023)

    🆘 near #Lagyna, #Evros river, #Greece


    We are in contact with a group of 45 people stranded on an islet in the wider #Soufli - #Tychero area. They report being there 9 days already. @hellenicpolice
    are informed & claim to have searched for them but that they could not find them.

    #limbe #zone_frontalière #île #Evros #asile #migrations #réfugiés #frontières #fleuve_Evros #Turquie #Grèce #Thrace #îlots

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    ajouté à la métaliste sur #métaliste sur des #réfugiés abandonnés sur des #îlots dans la région de l’#Evros, #frontière_terrestre entre la #Grèce et la #Turquie :
    https://seenthis.net/messages/953343

    • Même groupe ?
      (16.07.2023)

      🆘 in the #Evros region! 25 people are stranded on an islet near the town of #Soufli. They reported to be there since 10 days & seem currently under attack by #Greek authorities. Stop the violence & evacuate them from the islet!

      https://twitter.com/alarm_phone/status/1680530020425424900

    • Evros: the brutal face of the European border regime

      A group has been stuck for over three weeks on a small islet of the Evros river. Their story includes countless distress-calls, physical attacks, sexual violence, non-assistance when immediate medical aid was needed, and the complete disregard for a European Court of Human Rights ruling, which granted the group interim measures and ordering the Greek state to provide them with assistance. It is another clear example of the brutal reality that people endure at the land border between Türkiye and Greece.

      On the 21st of July 2023, a group of people reached out to Alarm Phone. The 52 people – among them several children and elderly people with severe health conditions – told us how they were stuck on a small islet near the village of Lagyna on Greek territory in the middle of the Evros river, which borders Greece and Türkiye. When reaching out to Alarm Phone and calling for help, the people informed us they had already been stuck on the islet for eight days. At 14:19 CEST of the same day, Alarm Phone alerted Greek authorities, as well as Frontex, UNHCR and various NGOs via email about the people in distress, sharing their location and their request for immediate and urgent assistance.

      At this point, we did not know that this would be the start of an odyssey lasting over two weeks, with no end in sight, which would include countless emails and calls to authorities, public outcries via social media to mobilise for evacuation, an ignored decision of the European Court of Human rights and ongoing barbaric violence by Greek forces against the group.

      On the day after the alert, Greek authorities informed Alarm Phone about joint efforts, together with Frontex, to search for the group, “[…]we would like to inform you that after extensive searches by the Greek Authorities and Frontex join patrols in the location indicated by the coordinates area and also more widely, no human presence was found”. This would not be the last time that Greek authorities claimed to have been unable to find the group despite conducting “extensive searches” for them.

      Several days later, on July 26th, the people told us how they had heard car noises the previous day on the Greek side of the river, but that they were still waiting for urgently needed assistance. At the same time, their condition worsened with every day: they reported injuries and various health issues, as well, they told us how everyone’s mental health was rapidly deteriorating in light of the ongoing difficulties they were facing. The violent act of leaving people for days being stuck on an islet not only risks physical injuries, but is a mental torment in and of itself that traumatises people. Already by this point, the non-assistance from Greek authorities and Frontex was causing damage to the people calling for help – but the situation would continue to deteriorate over the coming days.

      On July 27th, 08:18 CEST, Greek authorities again claimed to have searched for the people: “[…]we would kindly like to inform you that after extensive searches by the Greek Authorities and Frontex patrol in the location indicated by the coordinates and also more widely, no human presence was found”. This is despite the Evros region being a highly militarized border area, where the EU has invested hundreds of millions of euros into fortifying the border. The technologies deployed in the area include sensors, thermal cameras and drones – but in spite of this, the Greek authorities and Frontex state they are unable to find a group with a clearly indicated location? How embarrassing. While it is clear that their statement is a blatant lie, it is remarkable that Greek authorities and Frontex have reached a point where such obvious untruths have become implicit to their operational activities. To have reached this point, these strategies have to be widely accepted within their ranks and as such demonstrate how the brutal means of deterrence used at the borders of Greece have become normalised, from overt and brutal violence to misinformation and non-assistance. This is particularly true in the Evros region, as demonstrated over the next days in the developments we witnessed for this case.

      A day later, on July 28th, the group told us again about activities on the Greek side of the river: the people had spotted a black car parked “on the Greek side” and a drone that was flying over them. Shortly after, they reported being attacked by police and what they described as “mercenaries”: “Police and mercenaries stormed us. They started to hit the world. And now we’re in the water”. They sent us several videos showing the cruel attack.

      https://www.youtube.com/watch?v=A6L5M3Gwiqs&source_ve_path=Mjg2NjY&feature=emb_logo

      We immediately informed the authorities about the attack. It is clear: in this highly militarised and controlled border zone, no such attack could have happened without some level of coordination from the authorities – the very same authorities who had been claiming for days that they could not locate the group. After the attack, the people told us how they were shocked and devastated. However, this attack did not signal the end of their suffering. The group told us that after the attack, they were forced back to the same islet as before by Turkish authorities.

      Together with the Rule39 Initiative, an application for Interim Measures at the European Court of Human Rights was handed in on August 1st. By this point, we had been in contact with the people for 11 days. Throughout this entire period, the authorities had been aware of the group and their calls for assistance. Despite this, the group’s calls for assistance remained ignored. Moreover, instead of receiving help, the people were violently attacked.

      https://twitter.com/alarm_phone/status/1684815225608949760

      During the morning of August 2nd, the response by the European Court of Human Rights arrived: the court had granted the Interim Measures and ordered Greece to provide food, water and medical assistance. We immediately informed authorities, including Frontex and UNHCR about the decision and reiterated the urgent need of assistance for the group.

      https://twitter.com/alarm_phone/status/1686756260085936129

      During the morning of the 3rd of August, Greek authorities sent another email, claiming once again to have searched for, but not found, the people. At the same time, the people shared videos with us showing themselves loudly screaming for help. In desperation, the group decided to cross the river themselves. This is extremely dangerous – every year dozens of people die in the Evros river, which has strong undercurrents that can drown people. Luckily, they managed to cross the river and arrived safely on the Greek riverbank, which they documented with several videos that they sent to Alarm Phone. They reported talking to two people wearing shirts with “police” written on it. This is when an incredibly violent chapter of their journey started.

      https://twitter.com/alarm_phone/status/1687059265427496961

      Following the news that the group were talking with “police”, Alarm Phone shift teams once again called various border guard and police stations, including the ones at Soufli, Alexandroupolis and Thrace. All our calls went unanswered. In the meantime, the people reported they were put into cars and told us that they feared they would be brought back to Türkiye. The position they shared showed them near Soufli:

      We continued to call the authorities, however, they either did not pick up, rejected responsibility – claiming it was outside of their jurisdiction, or refused to give any information.

      https://twitter.com/alarm_phone/status/1687135993235750912

      Shortly after midnight on August 4th, the people reached out to Alarm Phone again. They were pushed back to Türkiye and severely beaten. A woman from the group explained what had happened to them after they were taken in the car:

      She told us how, after half an hour in the car, the young men and even some women were severely beaten. The attackers stripped the women of all their clothes and forced the young men’s eyes open to look the undressed women. They then beat the men badly. The woman said the group was worried that two among the attacked men were beaten to death. The attackers even beat the elderly women and told them to return to their country. The group was, again, forced back onto the islet, and reported that there were now several people missing, among them the two men who had been heavily beaten.

      The people told us how they were left severely shaken and outraged, desperate to know what happened to their friends who went missing who they fear died. They reported that amongst their group are three year old babies who are understandably extremely psychologically distressed and traumatised by the violent assault of the Greek police. “Please please can we help them. Turkey and Greece have left them in the middle. Do we know where the people who went missing are?”.

      https://twitter.com/alarm_phone/status/1687373994909921281

      We want to know: what has happened to the missing? Who is responsible for the brutal attack and the sexual violence? And what was the role of Frontex in this whole story? How can orders of the European Court of Human Rights just be ignored? And why has help been repeated denied for people who are in urgent need of it?

      Not only have the attacks subjected people to overt violence, but the continuous non-assistance has led to many medical emergencies – this includes three elderly people with diabetes in need of medical assistance, an elderly person with circulatory problems in the leg, which were purple on both sides, a pregnant woman who suffered from contractions and was bleeding, and several children who were weak, mentally distressed and badly bitten by mosquitoes. It should also be noted that the group told us how they ran out of food and water days ago and are forced to drink water from the river, which carries with it a risk of poisoning.

      Unfortunately, this is not an isolated incident, but instead sees the recurrence of an all too familiar pattern. The incredible level of violence used – which can only be understood as systematized forms of torture and brutalisation– against people on the move is abhorrent. It is illustrative of the dehumanisation implicit to the racist European migration regime. Furthermore, it demonstrates an obvious dysfunctionality of European institutions, where decisions of the European Court of Human Rights are easily ignored by Greece, without consequence. Instead of being forced to take action, Greek authorities merely responded to both Alarm Phone and the ECHR that the people could not be located. And once again, we see how Frontex is involved in a situation which resulted in a brutal pushback.

      On August 6th, the people were still stuck on the islet. There were also still in very distressed condition – and one that continues to deteriorate. They expressed their shock and disbelief that an ECHR decision obviously does not count in Greece. They themselves have called 112 over 50 times and written emails to Frontex and Greek authorities – but instead of receiving much needed assistance, have been subject to repeated and vicious attacks.

      https://twitter.com/alarm_phone/status/1687425346285494273

      In the early hours of the morning on August 7th, the group reached out to us again to report another attack, telling us that “Mercenaries came upon us while we were asleep [on the islet], and we were sent back to Turkey”. They then told us how they were picked up by the Turkish army, who is forcing them back into Greece. The group was incredibly distressed, commenting that they have “become a football between Greek and Turkish army.” As the situation continues with no end in sight, and the people, who are in dire need of urgent medical assistance, are pushed back and forth across the river by Greek and Turkish forces, we again make it clear, these attacks must end and the people be given the help they so urgently need.

      We, along with the group currently stranded on the islet, are shocked and outraged – even though we witness such crimes and attacks against people on the move almost daily, and with increasing intensity. We will continue to fight against the normalisation of such violence and will never forgive the ones responsible for it. While Greece tries to cover up the mass murder of Pylos, for which the Hellenic Coast Guard is responsible, the real and merciless face of the Greek border regime remains clearly visible in the Evros region, as too does the complicity of the EU.

      https://alarmphone.org/en/2023/08/07/evros-the-brutal-face-of-the-european-border-regime/?post_type_release_type=post

  • 26.07.2023 :

    🆘 in the #Evros region. A group of 29 people is stuck on an islet of the #Evros river, close to the village of #Marasia. Despite their calls for urgent medical support, #Greek & #Turkish authorities refuse to help & claim the position is not on their respective territory.
    The people called #112 themselves, but no help arrived. What is #112 for? To contribute to border violence or to help people in distress? To authorities involved: Stop playing games, evacuate the people now - they reported several people in need of urgent medical assistance!

    https://twitter.com/alarm_phone/status/1684252700970450953

    #limbe #zone_frontalière #île #Evros #asile #migrations #réfugiés #frontières #fleuve_Evros #Turquie #Grèce #Thrace #îlots

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    ajouté à la métaliste sur #métaliste sur des #réfugiés abandonnés sur des #îlots dans la région de l’#Evros, #frontière_terrestre entre la #Grèce et la #Turquie :
    https://seenthis.net/messages/953343

  • A group of 9 people are stuck on an islet of the #Evros river near #Soufli in #Greece (03.07.2023)

    🆘 in the #Evros region! We are in contact with a group of 9 people who are stuck on an islet of the #Evros river near #Soufli in #Greece. They are running out of water & food & 1 child needs urgent medical assistance. We informed @hellenicpolice & asked for evacuation!

    #limbe #zone_frontalière #île #Evros #asile #migrations #réfugiés #frontières #fleuve_Evros #Turquie #Grèce #Thrace #îlots
    #nudité

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    ajouté à la métaliste sur #métaliste sur des #réfugiés abandonnés sur des #îlots dans la région de l’#Evros, #frontière_terrestre entre la #Grèce et la #Turquie :
    https://seenthis.net/messages/953343

  • 19.06.2023 : a group of 36 people stranded on an islet near #Kissari (Evros, Greece) :

    We have been contacted by a group of 36 people stranded on an islet near #Kissari. They are desperate and ask to be allowed to apply for asylum in Greece. We informed local authorities in #Greece about the need for urgent evacuation!


    https://twitter.com/alarm_phone/status/1670835917106425859
    #limbe #zone_frontalière #île #Evros #asile #migrations #réfugiés #frontières #fleuve_Evros #Turquie #Grèce #Thrace #îlots

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    ajouté à la métaliste sur #métaliste sur des #réfugiés abandonnés sur des #îlots dans la région de l’#Evros, #frontière_terrestre entre la #Grèce et la #Turquie :
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  • 63 people stranded on an islet on the #Evros river (19.06.2023)

    63 people stranded on an islet on the #Evros river, near #Marasia. Another group reached out to us & reported to be stuck since several days on a different islet. They are calling for urgent assistance. We have informed @hellenicpolice & call for an evacuation of the group.


    https://twitter.com/alarm_phone/status/1670841354908319747
    #limbe #zone_frontalière #île #Evros #asile #migrations #réfugiés #frontières #fleuve_Evros #Turquie #Grèce #Thrace #îlots

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    ajouté à la métaliste sur #métaliste sur des #réfugiés abandonnés sur des #îlots dans la région de l’#Evros, #frontière_terrestre entre la #Grèce et la #Turquie :
    https://seenthis.net/messages/953343