Vede finalmente gli scaffali il libro scomparso che documenta i crimini rimossi dell’Italia fascista e le atrocità commesse dai soldati italiani in Africa e in Europa.
Qualcuno l’ha avuto in mano, questo libro, prima che finisse (quasi) integralmente al macero. Qualcuno è riuscito a recuperarne una copia, e ora Le atrocità di Mussolini. I crimini di guerra rimossi dell’Italia fascista, fresco di stampa per le Edizioni Alegre, non solo è arrivato in magazzino, ma anche in libreria. Dopo oltre trent’anni. E a quarantaquattro anni da quando, il 28 marzo 1980, il suo autore, l’allora giovane ricercatore Michael Palumbo, annunciò al New York Times la scoperta dei documenti della Commissione delle Nazioni Unite sui Crimini di Guerra (Unwcc), che avrebbero scoperchiato un vaso di Pandora portando alla realizzazione del documentario Fascist Legacy di Ken Kirby (BBC, 1989), basato sulle ricerche di Palumbo, e alla stesura di questo saggio «fantasma» all’epoca ampiamente annunciato e atteso.
La rassegna stampa sul lavoro del ricercatore italo-americano e sulle sue implicazioni sul piano della conoscenza storica e della memoria pubblica in quegli anni tra la fine degli Ottanta e l’inizio dei Novanta fu notevole. Tre articoli in particolare anticiparono l’uscita del libro in quella primavera editoriale di trentadue anni fa: Italiani bonaccioni? No, assassini di James Walston (L’Indipendente, 17 marzo 1992: «Un libro che si preannuncia come una vera e propria bomba editoriale», scriveva Walston); Come trucidavamo di Giorgio Fabre (Panorama, 12 aprile 1992) e Quel libro non si stampi! di Simonetta Fiori, pezzo apparso sulle pagine culturali de la Repubblica del 17 aprile 1992, che esordisce riferendosi all’articolo di cinque giorni precedente:
Quel lunedì mattina, in casa editrice tirava una brutta aria. Il libro di Michael Palumbo sui crimini dei soldati italiani continuava a produrre grane. L’ultima – di quel lunedì – era l’intervista a Panorama di uno dei personaggi incriminati. […]
Chi ce lo ha fatto fare?, devono aver pensato alla Rizzoli. D’altra parte, che la materia fosse incandescente non era notizia di quel lunedì. Già tre anni prima, un programma sullo stesso argomento curato da Palumbo per la Bbc – Fascist Legacy, coautore Ken Kirby – aveva scatenato a Londra un pandemonio. Con la protesta risentita dell’ambasciatore italiano Boris Biancheri. Il documentario denunciava per la prima volta, senza reticenze, le atrocità commesse dai soldati italiani in Grecia, Jugoslavia e nelle colonie d’Africa. E la copertura che nel dopoguerra il potere democristiano avrebbe garantito ai criminali di guerra. Tanto per non sbagliare, la rete Uno della Rai, che s’era assicurata i diritti, si guardò bene dal mandarlo in onda.
Il documentario di Palumbo, giovane ricercatore di Brooklyn, incuriosì l’allora direttore editoriale della Rizzoli, Gian Andrea Piccioli, che sottoscrisse con lui un contratto. Dopo un anno il libro, ricco di rivelazioni sulle malversazioni degli italiani nel campo di Arbe, in Etiopia, in Cirenaica e in Grecia, era già pronto.
«Che fare del libro tanto atteso, che in un primo tempo doveva chiamarsi L’Olocausto mancato, poi più morbidamente Italiani, brava gente? e infine – titolo definitivo – L’Olocausto rimosso?», si chiedeva Fiori. A fronte alle minacce di querela di uno degli innumerevoli personaggi coinvolti nella galleria di atrocità compiute dagli italiani, «secondo una prima notizia, la Rizzoli avrebbe deciso di mandare al macero le ottomila copie già stampate, una tiratura giustificata dalle attese», chiosava.
«Caso alla Rizzoli: che fine ha fatto il lavoro di Palumbo sui criminali italiani?», recitava l’occhiello di quell’articolo de la Repubblica. Aveva fatto una brutta fine, allora. Ma ora eccolo qui, finalmente, con una prefazione di Eric Gobetti e una postfazione (Breve storia di un libro censurato e ritrovato) di Ivan Serra, metalmeccanico e animatore del sito diecifebbraio.info, che ha inseguito come un segugio questa pista fino a ritrovare una copia – una delle copie? – sopravvissuta alla distruzione.
«Abbiamo distrutto ogni cosa da cima a fondo senza risparmiare gli innocenti. Uccidiamo intere famiglie ogni notte, picchiandoli a morte o con le armi. Basta che facciano un movimento, noi spariamo senza pietà. Se muoiono, muoiono. Stanotte ci sono stati cinque morti: due donne, un bambino piccolo e due uomini», scriveva una camicia nera alla famiglia il 1° luglio 1942 dal Montenegro.
«Stanno arrivando gli italiani», è una frase testuale che rispetto allo scenario greco riporta l’autore riferendo delle scene di panico che seguono annunci come questo, nel genocidio in Cirenaica come in Etiopia, come nella Jugoslavia «a ferro e fuoco» – nella Slovenia della famigerata «Circolare 3C» del generale Mario Roatta che autorizzava a fucilare in maniera indiscriminata, in Croazia e in Montenegro – come in Grecia, lasciando non di rado attoniti anche gli alleati nazisti.
L’angolatura prospettica che permette a Palumbo questa ricognizione, oltre all’accesso alle ricerche allora già disponibili – in particolare quelle solidissime e pionieristiche di Angelo Del Boca e Giorgio Rochat – è proprio la documentazione della Unwcc, e il suo lavoro pachidermico cominciato nel 1978 quando ha potuto attingere massicciamente a documenti etiopici, jugoslavi, britannici, statunitensi, tedeschi, oltre che italiani, producendo il dossier necessario a realizzare Fascist Legacy e documentando, oltre che i crimini, la lucida e strategica opera di insabbiamento degli stessi, quando la lista della Unwcc arrivò «a comprendere 700 persone, molte delle quali occupavano un posto chiave nel governo italiano», e «gli alleati continuarono la loro tattica di indugio». «Fra i criminali di guerra ancora in servizio c’erano i generali [Alessandro] Pirzio Biroli, [Mario] Robotti, [Carlo] Tucci, [Silvio] Bonini, [Domenico] Chinnici e [Alessandro] Maccario, tutti colpevoli delle più gravi atrocità commesse in Jugoslavia», scriveva Palumbo un decennio prima che l’istituzione del Giorno del Ricordo contribuisse a ribaltare completamente nel senso comune il giudizio storico su quegli anni. Il libro avrebbe potuto persino precedere la celebre querelle tra Del Boca e Indro Montanelli, che nel 1996, dopo aver negato l’uso dei gas iprite in Africa orientale, a fronte delle prove schiaccianti prodotte dallo storico novarese, avrebbe infine ammesso di essersi sbagliato e – almeno di questo – si sarebbe pubblicamente scusato.
Centinaia di voci – da Pietro Badoglio e Rodolfo Graziani all’ultimo dei loro sottoposti, dai carnefici alle vittime, ai testimoni degli orrori africani ed europei – si avvicendano nelle quasi quattrocento pagine a stampa che ora chiunque può avere tra le mani. Il saggio di Palumbo è una cartografia d’epoca – in fondo è un pezzo da collezione di storia della ricerca storica – delle atrocità commesse dall’Italia fascista lungo tutto il ventennio, e in particolare all’estero e dal 1930 in Libia al termine del secondo conflitto mondiale, in un procedere per episodi dei quali gli studi più recenti avrebbero confermato la rilevanza storica: il massacro di Addis Abeba del febbraio 1937 («una visione da inferno dantesco» nelle parole del delegato della Croce Rossa Internazionale in Etiopia, Marcel Junod), finalmente ricostruito nel dettaglio da Ian L. Campbell in un libro edito nel 2018 dalla stessa Rizzoli; quello immediatamente successivo di Debre Libanos, oggetto di uno studio approfondito di Paolo Borruso edito da Laterza nel 2020; quello di Zeret dell’aprile del 1939, a cui Matteo Dominioni avrebbe dedicato uno studio nel 2006; quello di Domeniko/Domenikon del 16 febbraio 1943 in Grecia (definito ancora «l’eccidio dimenticato» dal Corriere della Sera tre anni fa), quando gli italiani massacrarono tutti gli uomini validi di un piccolo villaggio greco, in Tessaglia, ora portato alla luce da Vincenzo Sinapi (Domenikon 1943. Quando ad ammazzare sono gli italiani, Mursia 2021) e al quale Palumbo dedicava già diverse pagine, con tanto di interviste ai sopravvissuti.
Si ha l’impressione di assistere a un what if? della memoria pubblica italiana, trovando episodi ora noti tra gli studiosi e non solo già descritti nel dettaglio, e tutti insieme, in un libro di un terzo di secolo fa, prima ancora della «scoperta» a Roma dell’«armadio della vergogna» nel 1994. Già, perché il testo è stato pubblicato così come sarebbe dovuto uscire, in un’operazione di repêchage più unica che rara nel panorama della saggistica italiana. Con un valore conoscitivo e civile davvero con pochi precedenti.
Il libro edito oggi da Alegre è infatti un recupero integrale di quel testo stampato (prima edizione: aprile 1992) e «cancellato», con la sola correzione di alcuni refusi e imprecisioni, specie nei toponimi, opera della traduttrice Paola Tornaghi. Un esempio che può illuminare è appunto la lectio «Domenikos» che Palumbo aveva utilizzato al posto di «Domenikon» (dicitura in katharevousa) e «Domeniko» (come è chiamato oggi, in dimotiko), le uniche due occorrenze presenti nelle fonti: leggiamo questa precisazione in Camicie nere sull’Acropoli. L’occupazione italiana in Grecia (1941-1943), edito da Deriveapprodi nel 2013, in cui l’autore Marco Clementi raccontando questo evento «riscoperto in Italia» solo negli anni Duemila si stupiva di questa versione del toponimo rintracciata in altri studi, ignaro del fatto che verosimilmente provenisse dal libro di Palumbo. Qualche altra copia oltre a quella recuperata da Serra è dunque circolata tra gli studiosi?
Certo, la ricerca sul «nuovo ordine mediterraneo» (così avrebbe titolato il saggio di Davide Rodogno del 2003, edito da Bollati Boringhieri) in questi tre decenni è andata avanti, e il progetto imperiale fascista che in Europa come in Africa condusse a incalcolabili atrocità è stato studiato e divulgato con serietà e passione proprio da storici come Del Boca – che nel decennio seguente avrebbe intitolato il suo libro di maggior successo proprio Italiani, brava gente? Un mito duro a morire (Neri Pozza 2005), scomparso nel 2021 – e come Rochat, scomparso due settimane fa, che furono maestri per molti. E dalle successive generazioni ricordate anche nella prefazione di Gobetti: si pensi a Nicola Labanca, il già citato Dominioni e Valeria Deplano e Alessandro Pes per il colonialismo; a Paolo Fonzi per la Grecia, allo stesso Gobetti per la Jugoslavia, a Filippo Focardi per gli studi sulla memoria pubblica.
Ma la ricerca, e ancora di più la discussione pubblica, avrebbe potuto avanzare con maggiore rapidità e pregnanza se i risultati di questo lavoro «cancellato» di Palumbo fossero passati dai magazzini alle librerie, e non solo in qualche mano fortunata che ha potuto avere le poche copie scampate al macero; avrebbe forse potuto avere, a proposito di what if?, un impatto simile a quello che il controverso I volonterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l’Olocasusto di Daniel J. Goldhagen (1996) ebbe nel dibattito tedesco e globale sulla partecipazione delle persone «ordinarie» alla Shoah.
Dal momento che non esistono «caratteri nazionali» immutabili, gli italiani furono As Cruel as Anyone Else, come titola la traduzione inglese del pamphlet di Del Boca, fresca di stampa per i tipi della University of Chicago Press. Eppure avviandosi a concludere Le atrocità di Mussolini l’autore italo-americano lasciava spazio a un’immagine controfattuale che vale la pena riportare, dopo aver riflettuto a lungo anche sulle profonde radici nel nazionalismo e nelle «avventure» espansionistiche e coloniali che hanno preceduto il fascismo, utili da ricordare in questi giorni in cui la sbronza nazionalista e militarista del 4 novembre ci sovrasta:
È difficile valutare il numero totale delle vittime dei crimini di guerra fascisti, sicuramente centinaia di migliaia di persone morirono nei campi di concentramento italiani, nelle tremende incursioni e nelle carestie artificialmente create nei Balcani.
Si possono aggiungere poi i massacri compiuti dalle forze di [Rodolfo] Graziani durante la Repubblica di Salò, così come le migliaia di civili e prigionieri di guerra assassinati dalle legioni di Mussolini nella guerra civile spagnola e sul fronte russo durante la Seconda guerra mondiale. Benché non si possa più conoscere il numero reale delle vittime, è probabile che un milione di persone siano morte in conseguenza delle atrocità fasciste italiane […].
Se il regime di Mussolini fosse stato più efficiente, se la sua caduta non fosse coincisa col momento culminante della Seconda guerra mondiale, il tributo delle vittime sarebbe stato molto più elevato. Infatti, dato che i fascisti avevano progettato di spopolare grandi aree della Libia, dell’Etiopia, della Grecia e della Jugoslavia, la conclusione inevitabile è che, se il regime di Mussolini fosse sopravvissuto, parecchi milioni di persone sarebbero morte nelle zone destinate al nuovo Impero Romano.
«Stavo dicendo all’Italia che il mito dell’innocenza italiana era finito», scrive oggi, da Taipei, Michael Palumbo, ricordando l’effetto del documentario della Bbc e introducendo il suo libro che vede finalmente gli scaffali, sperando che ne sia in qualche modo una replica tardiva. Forse, allora, quando si ammaineranno i tricolori dopo l’ennesimo e imbarazzante tripudio di celebrazioni del diritto alla «Difesa» di questo paese, si potrà iniziare a fare i conti con le guerre d’aggressione che per vent’anni si sono mosse in ogni angolo del tanto agognato progetto imperiale. Trentadue anni dopo quel «Non si stampi!» (da leggersi: «Non si distribuisca!»), e ottant’anni dopo la Liberazione.