L’Onu fatica a punire i suoi dipendenti colpevoli di abusi sessuali
I militari colpevoli di “cattiva condotta” dovrebbero essere sottoposti a un filtro (il Misconduct tracking system) ed essere sistematicamente scartati nelle missioni future. “Sa quante persone vengono inviate sul campo? È semplicemente impossibile fare una verifica su base individuale”, si lascia tuttavia sfuggire Jack Christofides. Perciò si ritrova in missione “un certo numero di ex ribelli, che sono stati mescolati e reintegrati negli eserciti nazionali (come nel caso della Rdc) e che nel loro paese hanno commesso atrocità immonde”, deplora Thierry.
“È un fenomeno estremamente minoritario. È come guardare un elefante e interessarsi soltanto al suo dito mignolo”. Alla fine dell’intervista, leggermente esasperato dalle domande sulle violenze sessuali, Jack Christofides esclama: “Giudicateci sulla maniera in cui preveniamo gli abusi e li puniamo”. Lo terremo in considerazione. L’accanimento dell’Onu a difendere la propria immagine mette in secondo piano le vittime. Perdute in un dispositivo che favorisce l’impunità, non conoscono i loro diritti. Persino il Trust fund, lanciato a marzo del 2016 allo scopo di rafforzare l’aiuto di prima urgenza accordato ai sopravvissuti ad aggressioni sessuali commesse da personale Onu, sembra una chimera. “Non è un fondo di compensazione”, precisa Sylvain Roy. “Ma almeno avranno un po’ d’aiuto, un po’ di cibo, un riparo, cose del genere”.
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