L’Europa può finire a Dublino
L’ennesima estate di sbarchi offre in pasto all’opinione pubblica quello che, riprendendo una felice espressione dell’antropologo Nicholas De Genova, potremmo definire come la versione italiana di un permanente «spettacolo del confine». I numeri degli sbarchi di ogni giorno e, soprattutto, le proiezioni su quelli futuri si rincorrono a sostegno dell’azione diplomatica del governo italiano, che sembra essere tornato a fare la voce grossa in Europa. Sarebbe tuttavia utile mettere in prospettiva tali cifre, sottraendole al dibattito sensazionalistico. Quello cui assistiamo nel Mediterraneo centrale è forse ormai la «nuova normalità», come ha ammesso la stessa Commissione europea, nel senso che almeno dal 2014 siamo entrati in una stagione in cui la media annuale degli sbarchi si attesta intorno alla cifra di 170 mila e non ci sono ragioni di prevedere una diminuzione, a fronte dei persistenti fattori di instabilità politica che circondano il bacino del Mediterraneo. Per dare un’idea del salto di paradigma, basti dire che nel decennio precedente (2003-2013) la media degli sbarchi era di 23 mila, con punte di 38 e 61 mila sbarchi raggiunte nel 2008 e nel 2011, anni all’epoca considerati «critici».
Di fronte a questa «nuova normalità», molti argomentano, le regole che hanno governato le politiche migratorie e di asilo a livello europeo negli ultimi anni devono essere radicalmente ripensate e in particolare, si dice, deve essere rivisto il principio, sancito per la prima volta nel 1990 dall’allora Convenzione di Dublino, che sostanzialmente attribuisce al Paese di primo ingresso l’onere dell’accoglienza dei richiedenti asilo.
Il dibattito politico sul cd. «sistema Dublino» ultimamente è parso a tratti poco edificante, anche perché ha stimolato una divisione per certi versi artificiale tra Paesi frontalieri, che essendo più esposti all’arrivo di migranti irregolari ritengono di sopportare un onere eccessivo, e Paesi centrali, accusati di godere di una posizione di privilegio. Sebbene sia vero che alcuni hanno approfittato indebitamente del loro supposto vantaggio geopolitico (non è detto che i richiedenti asilo arrivino sempre attraversando irregolarmente le frontiere esterne della Ue), rifiutandosi di dare seguito al programma di ricollocamento dei richiedenti asilo approvato dalla Commissione nel 2015, non bisogna neanche dimenticare che il 58% del milione e duecentomila richiedenti asilo presenti alla fine del 2016 in Europa si trovava in Germania (722 mila), e che solo il 9,8% di questi era ospitato in Italia (121 mila) e il 4% in Grecia (49 mila) (cfr. i dati Eurostat a riguardo). Questi due Paesi hanno peraltro un sistema di accoglienza fortemente deficitario la cui spina dorsale, per restare al caso dell’Italia, è costituita da centri di accoglienza «straordinari» aperti in base alle esigenze e gestiti secondo standard ben al di sotto delle linee guida che ad esempio l’Unhcr e l’Easo hanno fissato a proposito di accoglienza di richiedenti asilo.
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