Le storie di Xhaka e Shaqiri stanno facendo il giro del mondo. Eppure, la storia dei due calciatori, uno nato a Basilea, l’altro a Gjilan, in Kosovo, entrambi figli di profughi, sta facendo sognare una nazione intera. L’eventuale connotazione “politica” del gesto dell’aquila può fare discutere. Ma ha comunque aperto dibattiti. Diciamolo in maniera chiara e onesta: in qualsiasi partita, e non solo, anche dove si prevedono comportamenti disciplinati da cerimoniali rigidi, assistiamo a gesti e parole ben più gravi, da condannare senza se e senza ma. Francamente, quello che colpisce di queste ore non è la discussione sul gesto, ma l’assenza di discussione sul significato.
Tecnicamente i due hanno segnato reti non casuali, ma volute e cercate con rabbia. Con quel sentimento che quando si manifesta in un gesto tecnico non necessita di parole o di analisi. È tale e così va interpretato. Quando al 52’ stai perdendo contro una squadra sulla carta più forte di te, non pensi che ti trovi a più di 20 metri dalla porta con davanti un’area affollata, se arrivi a scaricare un sinistro così violento ci metti dentro ben altro. Ci metti il cuore. Allo stesso modo, al 90’, non corri da quasi metà campo se non hai motivazioni che vanno ben oltre il gesto tecnico. In quei pochi secondi Shaqiri probabilmente stava rivivendo ferite profonde, che non si cancellano con il politically correct.
Il calcio, come lo sport in generale, è anche politica, nella misura in cui riesce a mettere insieme, in una competizione come i Mondiali, Paesi che nella quotidianità si combattono, ma che condividono le regole del gioco. E i precedenti non mancano. Come dimenticare la mano de Dios durante Inghilterra-Argentina, dopo la tragedia delle isole Falkland. Chi scende in campo non rappresenta solo la maglia che indossa, solo un popolo. Rappresenta anche se stesso e la sua storia. È per queste ragioni che l’impresa rossocrociata va oltre una partita di calcio. Intanto, perché è stata compiuta dalla nazionale più cosmopolita del mondiale. E poi, perché una nazione intera, anche chi a ogni piè sospinto brandisce il vessillo del “prima i nostri” e del “rispediamoli a casa loro”, ha gioito grazie a due calciatori figli di profughi. E poi cosa c’è di male nel sentirsi svizzeri e kosovari allo stesso tempo? C’è chi metterebbe in dubbio qualcuno che si sentisse svizzero e italiano, svizzero e francese, o americano?
Probabilmente, quello che è accaduto ci dice anche altro: l’identità di una persona non è statica, fissa e rigida, ma un divenire legato al vissuto. In altre parole, complessa e multipla e, per questa ragione, ancora più ricca e in grado di far sognare.