In Europa, l’accordo di pace tra Etiopia ed Eritrea è stato festeggiato come una svolta inaspettata: la prova che le autorità eritree avevano finalmente voltato pagina, un’occasione unica per riconciliarsi con il regime di Afewerkie. Fondi firmati EU sono stati già stanziati per realizzazione di grandi opere, ma l’aria che si respira ad Asmara è decisamente meno entusiasmante. Mentre il numero di persone in fuga dal servizio nazionale si è quadruplicato, i confini con l’Etiopia sono stati nuovamente chiusi e la sensazione di asfissia è tornata ad impadronirsi delle strade in stile modernista di Asmara. Dalla capitale Asmara alla regione di confine del Tigrai Nancy Porsia e la fotografa Cinzia Canneri ci raccontano un’altra Eritrea, quella che non crede alla «pace esterna».
Con lo sguardo incollato sulla stradina sterrata che conduce verso uno dei palazzoni non finiti di periferia, Genet schiva le attenzioni dei passanti. La sua tunica abbondante non riesce a far passare inosservati la parrucca dal capello lungo e mesciato e il trucco molto marcato. Genet, nome di fantasia per tutelarne l’incolumità, è una prostituta e vive poco lontano dal centro di Asmara e i suoi edifici in stile modernista firmati da architetti italiani di fine Ottocento e del Ventennio, che dal 2017 sono Patrimonio Unesco.
“Ci campo la famiglia” dice Genet, accennando un sorriso che malcela le sofferenze. In uno stanzone, suddiviso solo da tende, Genet vive con sua figlia, sua sorella e i figli, e suo fratello. Un televisore al centro della stanza e tutto intorno le pareti sono invase da poster colorati raffiguranti Gesù e i santi, come da tradizione ortodossa. In balcone un fornelletto da campeggio funge da cucina, mentre per il bagno tocca andare nell’androne dello stabile. Per questa sistemazione pagano circa 1000 Nakfa, più o meno 50 euro al mese. Una somma importante in un paese dove il salario medio è di 450 nakfa. Genet sta preparando con sua figlia la partenza. Direzione Etiopia dove il figlio più grande ha chiesto l’asilo politico già due anni prima, in fuga dal servizio nazionale.
In migliaia fuggono ogni mese da quello che viene definito “il regime più sanguinario” d’Africa. Una volta all’estero gli eritrei raccontano storie inenarrabili di arresti e torture perpetrati con la logica di un regime che punisce chi si rifiuta di rimanere a vita al servizio dello Stato.
Quando nel luglio del 2018 il Presidente Isaias Afewerki accettò l’offerta del neo primo ministro etiope di firmare l’accordo di pace bilaterale, gli eritrei rimasero increduli. Dal 1998 Eritrea ed Etiopia sono rimaste in guerra, o meglio in uno stato di “nessuna guerra, nessuna pace” da quando, nel 2000, l’Etiopia rifiutò le condizioni imposte da una commissione di frontiera istituita dal Tribunale dell’Aja in virtù dell’accordo di pace. Da allora in Eritrea è rimasto in vigore lo Stato di emergenza proclamato da Asmara due anni prima, e anche il limite di 18 mesi per il servizio nazionale previsto dalla costituzione del 1993, non è mai stato ripristinato.
Eppure in giro per le principali strade del Paese, il regime non s’incontra. Nella capitale Asmara non c’è ombra di presidi militari, se non figure esili in divisa che si muovono a passo lento e con lo sguardo disinteressato di chi ha appena smontato dal turno di lavoro. Mentre donne molto anziane, con indosso abbondanti grembiuli grigio topo, spazzano i bordi dei marciapiedi della “piccola Roma”, come la chiamano i locali con una malcelata punta d’orgoglio. Con i suoi fiori rigogliosi, le ville in stile liberty, il suo ordine e la sua pulizia maniacali, Asmara restituisce tuttavia un senso di imbarazzo e asfissia. Quelle donne, che a fatica riescono a tirarsi dietro il bidoncino della spazzatura a loro assegnato, fanno parte dell’esercito ‘non armato’ del servizio nazionale eritreo, così come chi insegna a scuola, mette timbri in aeroporto, o fa il minatore, l’ingegnere e l’architetto.
Su viale della Libertà, che taglia il centro storico da parte a parte, sono in tante le donne sedute agli angoli dei marciapiedi che con i loro figli mendicano. “L’accattonaggio è severamente vietato qui, ma da qualche tempo la gente ha preso coraggio e chiede l’elemosina. La gente qui ha fame” ci dice un insegnante incontrato in un caffè sempre piantonato da mendicanti.
“La pace è un buon inizio” esordisce Solomon, ancora stupito di parlare con degli europei. Solomon lavora in un ufficio governativo da sei anni ad Asmara, e negli orari extra ufficio guida il suo taxi in giro per la capitale: “Per arrotondare” spiega. Poi racconta “Mio cugino è andato via due anni fa, ora è in Germania. E’ passato per il Sudan, Libia, e poi ha preso la via del mare”. La sua voce è bassa. Solomon sa che in patria chi scappa è un disertore, e che parlare dei disertori è pericoloso. Sorride come per prendere la rincorsa, e tutto d’un fiato ci dice “Io vorrei presto sposarmi, ma con lo stipendio del servizio nazionale non riuscirò mai a costruirmi un futuro”. L’ha detto, si è sbilanciato, ha superato la cortina di silenzio imposta dalla paura di un arresto.
Eppure le sue parole non sanno di protesta. In Eritrea è vietato protestare. Ci si arrangia e quando non ce la si fa, s’impara a sopportare la fame. Chi scappa dal regime di Isaias Afewerki, l’ex guerrigliero che combatté per l’indipendenza dell’Eritrea e dal 1993 Presidente-dittatore, in patria è un traditore. E lo è anche per chi resta, almeno nelle conversazioni in pubblico.
In Eritrea è difficile sentirsi al sicuro dagli occhi e le orecchie indiscreti del sistema. La connessione dati sul cellulare non esiste, e per connettersi alla rete tocca comprare qualche giga in uno degli internet point dove la massa di corpi non lascia spazio alla privacy. “La rete di informatori è fittissima” ci dice un ex giornalista che nel 2009, in quella che nel paese è passata alla storia come la seconda tornata più importante di repressione politica per via di arresti eccellenti contro la stampa, lasciò Asmara. Da allora è in una sorta di ritiro nella sua capanna di zinco alla periferia di Massawa. La città sul Mar Rosso che a fine Ottocento fu anche la capitale della colonia italiana, ancora oggi si presenta come un teatro post-bellico. Sul viale principale alcuni ragazzi scattano selfie davanti ai quattro carri armati etiopi, che gli eritrei catturarono durante la guerra di Liberazione che si protrasse dal 1961 per trenta anni. Nel centro città gli edifici di epoca romana sono distrutti e abbandonati. Una legge ne impedisce l’occupazione. Tutto intorno i corvi fanno da padrone sulle bidonville dove la gente comune vive. Solo i camion che trasportano i metalli preziosi, e fanno la spola tra il porto e la capitale, restituiscono un senso di vitalità.
Nonostante la fine della guerra fredda con l’Etiopia, la politica di repressione del Presidente Afewerki a livello domestico è rimasta identica a sé stessa. Il servizio nazionale a tempo indefinito è ancora in vigore, e nessun prigioniero politico è stato rilasciato. Nessuna notizia si ha ancora dei politici e dei giornalisti arrestati nel corso di una retata nel 2001, né del Ministero delle Finanze, Berhane Abreh, arrestato nel settembre del 2018 dopo aver pubblicato un libro con cui esortava i giovani eritrei a manifestare per uno stato di diritto in patria.
“La pace esterna” la chiamano gli eritrei all’estero, commentando l’accordo di pace che Asmara ha firmato con Addis Abeba. E gli eritrei continuano a scappare dalla fame prima, e dalle torture nelle carceri poi. Non si contano le migliaia di eritrei in prigione. Una sorta di gioco a ‘guardia e ladri’ in cui uomini e donne poco più che adolescenti vengono chiamati a servire il paese, accettano, resistono anni patendo stenti e umiliazioni, poi scappano, vengono riacciuffati, restano per qualche anno in galera, vengono rimessi in libertà ma a condizione di tornare a servire il paese. Tornano a lavorare per lo Stato, anche nelle miniere lungo la costa dove società straniere rivendicano estraneità allo sfruttamento dei lavoratori rimandando ogni responsabilità al Governo di Asmara, loro partner ufficiale. Dopo qualche anno di servizio, gli stessi già precedentemente arrestati, fuggono per essere nuovamente riacciuffati. Ancora anni di prigione, torture e poi rimessi in libertà. A questo punto però hanno messo su famiglia, non ce la fanno a dare da mangiare ai propri figli con quanto garantisce lo Stato durante il servizio, e quindi decidono che è arrivato il momento di scappare. Una volta non pervenuti al servizio, sono le loro mogli o i loro figli ad essere cercati e imprigionati. Uno schema sempre identico a sé stesso. Secondo il rapporto 2019 di Human Rights Watch (HRW) sull’Eritrea, il servizio nazionale infinito è da considerarsi alla stregua di una forma di schiavitù, e rimane il motivo principale di fuga dal Paese.
Quando il regime di Afewerki ha aperto il confine con l’Etiopia nel settembre del 2018, il numero delle persone in fuga, alla ricerca di asilo nel paese confinante, si è quadruplicato, secondo il rapporto della Commissione Europea per la Protezione Civile Europea e le Operazioni di Sostegno Umanitario (ECHO).
Nei campi profughi a Nord dell’Etiopia, organizzazioni non governative e agenzie internazionali hanno dovuto tirare su decine di migliaia di baracche in alluminio nuove di zecca per far fronte al grande esodo. Questo perché al momento della firma dell’accordo di pace, il regime di Asmara non ha fatto alcun cenno alla revoca dello stato di emergenza o al ripristino dei 18 mesi per il servizio nazionale, né al rilascio dei prigionieri politici all’indomani della firma dell’accordo di pace con l’Etiopia.
“Da settimane Asmara ha chiuso di nuovo la frontiera di Humera e gli eritrei scappano a nuoto come prima” commenta già in aprile uno dei trafficanti ad Humera, città etiope al confine con l’Etiopia e il Sudan. Accovacciato sulla riva del fiume Tekeze che disegna il confine tra i tre paesi, osserva un uomo che da ore fa la spola tra la sponda eritrea, a Nord, e quella etiope. Un eritreo – ci spiega – è andato disperso mentre tentava di attraversare il fiume. E uno dei passatori ora cerca il suo corpo perché sua madre ha promesso una ricompensa per chi riuscirà a restituirglielo.
Lungo il fiume Takaze sono un paio le squadre di passatori, ognuna ha un capo che decide di volta in volta a chi tocca affrontare la traghettata. Con una mano impegnata nella presa sulla zattera fatta di taniche legate con dello spago, i passatori nuotano contro corrente da una sponda all’altra del fiume solo con un braccio.
Nei giorni in cui il valico di frontiera a Humera era aperto, centinaia di eritrei si sono accalcati lungo le sponde del fiume Tekeze. “Pagavano fino a 300 dollari per ognuno” dice uno dei passatori del Tekeze. “Dicevano di non voler stare nei campi qui in Etiopia, e puntavano al Sudan, poi Libia. Insomma avevano fretta di raggiungere l’Europa” ricorda l’uomo. “Comunque ora la frontiera qui è chiusa, e pure in Libia non si passa” spiega il passatore del Tekeze.
All’imbrunire un ragazzo sopraggiunge con una coppia tra le rocce in riva al fiume, scambia poche battute con il trafficante di turno e si dilegua. “E’ uno degli smuggler eritrei che lavorano in zona, e quei due che sono saliti sulla zattera sono eritrei in fuga. Vanno in Sudan” spiega a bassa voce uno dei Caronte del Tekeze mentre mastica del tumbako, droga locale molto popolare.
Nel campo Mai Aini, uno dei tanti che segnano il confine tra Eritrea e Etiopia, un uomo racconta le torture subite in prigione per aver defezionato dopo sette anni di servizio nazionale come militare al confine. “Sono rimasto sul fronte per sette anni, poi sono scappato. Mi hanno preso e buttato in prigione per cinque anni” dice Mikael mostrando i segni di tortura subiti durante la detenzione. Unghie strappate, frustate sulla schiena fanno parte della lunga lista di torture subite, ricorda mentre resta seduto sul gradino della sua casa nel campo, mentre sua moglie allatta la loro bimba di un mese, nata nella casetta di fango e paglia in cui vivono da alcuni mesi.
A fare da cordone intorno ai rifugiati resta la comunità locale etiope. Nel Tigrai la popolazione fa parte della stessa etnia degli eritrei, tutti tigrini appunto. All’indomani del grande plauso da parte della comunità internazionale nei confronti del primo ministro Abiy Ahmed Ali per lo storico accordo di pace, qui la solidarietà verso i fratelli eritrei passa per una più complessa lotta per il potere tra le varie etnie nella capitale di Addis Abeba. Abiy fa parte dell’etnia degli oromo mentre il suo predecessore, l’ex premier Hailé Mariàm Desalegn, è un tigrino. Quest’ultimo fu costretto a dimettersi in seguito allo scoppio di violente rivolte da parte degli oromo, etnia di maggioranza nel paese. Nel nord del Paese la scorsa estate si sono registrati omicidi eccellenti di uomini vicini al nuovo primo ministro. E quando lo scorso ottobre, il braccio destro di Abiy, Jawar Mohammed, ha denunciato di essere scampato ad un attentato, gli oromo sono scesi in strada a suo sostegno, e da lì a poco anche i tigrini hanno occupato le piazze in diverse città. La tensione è degenerata in scontri in cui sono morti 67 manifestanti.
“Come fa il primo ministro a stringere la mano ad un dittatore come Afewerki?” ci chiede un ragazzo molto giovane che da anni lavora come guida turistica a Shirè, una delle città più importanti del Tigrai. Tra i rifugiati eritrei serpeggia la paura che l’accordo di pace possa di fatto tradursi in una revisione del loro status di rifugiati in Etiopia.
Tuttavia negli ultimi mesi i numeri dei nuovi arrivi in Tigrai si sono significativamente ridotti. Da aprile tutti i confini restano chiusi. Neanche i camion merci passano più. E la sensazione di asfissia torna ad impadronirsi delle strade in stile modernista di Asmara, mentre l’Unione Europea decide che la firma dell’accordo di pace con l’Etiopia basti come prova da parte del Governo di Afewerki di aver cambiato pagina, e di aver finalmente operato la svolta progressista che ci si attendeva. Fondi firmati EU sono stati già stanziati per realizzazione di grandi opere in Eritrea. Evidente l’Unione Europea aspettava l’occasione per riconciliarsi con il dittatore, anche al costo dell’oblio delle centinaia di storie di uomini e donne che da vent’anni fuggono torture e inenarrabili sofferenze.