• Un inverno caldo : chiamata per la mobilitazione per l’Università pubblica – 9 gennaio 2020

    Segnaliamo ai lettori il seguente comunicato del gruppo “Ricercatori Determinati”, di cui anche ADI fa parte.

    Il 25 dicembre il ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca si è dimesso, in polemica con le scelte governative in materia di finanziamento dei suoi provvedimenti per la ricerca universitaria, a seguito dell’approvazione della Legge Finanziaria per il 2020. Per la prima volta, un titolare del MIUR rinuncia alla sua carica per il mancato ottenimento dei fondi richiesti per il rifinanziamento del comparto scolastico e universitario – una scelta che ha giustamente fatto fragore nell’opinione pubblica, e che ci consente di provare a fare il punto sullo stato del sistema dell’istruzione e della ricerca italiana. Per una volta, proviamo a farlo prendendo parola come personale di ricerca non strutturato, che non ha avuto voce in capitolo – come nessun’altra parte dei gradi più bassi della gerarchia accademica – in questa ennesima discussione sul rifinanziamento (pubblico) dell’Università (pubblica). A testimonianza di chi abbia titolarità sul discorso universitario e di quanta voglia ci sia di discuterne con i soggetti su cui si regge l’università, la crisi di governo è stata rapidamente riassorbita con la nomina di due nuovi ministri: Lucia Azzolina per l’istruzione, e Gaetano Manfredi all’Università e alla Ricerca. Crediamo che questo gioco non sia più accettabile e che non si possa rimandare il richiamo a una mobilitazione che coinvolga tutte le componenti universitarie inferiorizzate e messe regolarmente a tacere, come già si stanno attivando da anni altri settori lavorativi funestati dalle scelte politiche degli ultimi decenni.

    I dati della Legge di Bilancio 2020 sono effettivamente più che allarmanti. A partire dal 2008, l’investimento pubblico sull’Università ha perso 1,5 miliardi di euro. In questa situazione, i soldi stanziati con questa finanziaria suonano come una presa in giro: 5 milioni di euro per il rifinanziamento del Fondo di Finanziamento Ordinario per le università italiane; 31 milioni per il finanziamento delle borse di studio per gli studenti – soldi in grado di coprire un fabbisogno di circa il 10% della popolazione studentesca; 25 milioni per aprire una nuova agenzia (Agenzia Nazionale della Ricerca), chiamata a indirizzare, con modalità ancora per nulla chiare, le attività di ricerca nel nostro Paese. Ma a cosa servirebbe rifinanziare l’università? Su quale sistema attualmente esistente si innestano i provvedimenti previsti dalla finanziaria?

    Gli effetti delle politiche italiane per l’università avviate almeno a partire dal Bologna Process (1999), e proseguite con le successive riforme dell’Università compresa la Legge Gelmini del 2008, emergono chiaramente a partire dalla condizione del dottorato in Italia. Nell’immagine allegata sono mostrati i dati eloquenti dell’ultima Indagine ADI (Associazione Dottorandi e Dottori di Ricerca in Italia) relativi al numero di borse di dottorato in Italia.

    La situazione non migliora se si guarda alle proporzioni tra personale di ricerca strutturato e non strutturato (e quindi precario): si è verificata un’inversione storica tra la quantità di personale stabilizzato (nel quadro attuale, professori associati e ordinari) e di personale precario (assegni di ricerca, titolari di borse di studio, Rtd-A ed Rtd-B). Nel 2018 erano ben 68.428 le persone assunte a tempo determinato, contro solo le 47.561 a tempo indeterminato, il che vuol dire che l’Università italiana, in questo momento, si regge sul lavoro precario, non garantito in termini contrattuali, previdenziali e assistenziali. Né è possibile in questo momento invertire la tendenza: la totale mancanza di un sistema di reclutamento ordinario produce carriere discontinue, spesso intervallate da lunghi periodi di disoccupazione che sono solo in parte tutelati da ammortizzatori sociali come DIS-COLL. Si tratta di carriere soggette alla disponibilità o meno di risorse che vengono dai fondi di ricerca dei docenti strutturati (che quindi ne hanno il pieno controllo) o da finanziamenti europei per singoli progetti di ricerca. Questa carriera altalenante prosegue finché non vengono indetti concorsi per la stabilizzazione, irregolari e difficili da prevedere perché non esiste più un sistema concorsuale ordinario.

    La condizione contrattuale para-subordinata di chi lavora nella ricerca rende la posizione lavorativa del ricercatore molto più svantaggiata, sul piano assistenziale e previdenziale, rispetto a buona parte delle persone con un lavoro dipendente e subordinato (e basterebbe in questo senso pensare alle scarsissime tutele relative a maternità e malattia). Non avendo un vero “datore di lavoro” a cui rendere conto, salve le dinamiche baronali che determinano in linea di massima il finanziamento dei contratti e degli assegni per la sua posizione, le dinamiche del lavoro di ricerca appaiono invece piuttosto simili a quelle del lavoro autonomo, delle cooperative di servizi e dell’impiego di “finte partite IVA”, peraltro abbondanti nell’università dai servizi bibliotecari a quelli delle mense e del diritto allo studio universitario. Nel caso specifico del lavoro della ricerca, un’altra tara rende particolarmente difficili le condizioni del suo esercizio oltre alla para-subordinazione e al precariato: sono le modalità di valutazione della produzione scientifica da parte dell’ANVUR. Da queste ultime dipendono gli avanzamenti di carriera in senso più strettamente scientifico, e il criterio vigente è una valutazione tendenzialmente algoritmica dei prodotti scientifici, delle singole persone e dei dipartimenti. Questo meccanismo obbliga i ricercatori ad una “corsa alla pubblicazione”, con effetti disastrosi tanto sulla qualità dei contenuti quanto sul benessere personale. Nel privilegiare la quantità della ricerca sulla sua qualità, il sistema rivela tutta la sua inadeguatezza. La direzione dell’ANVUR è d’altronde in linea con i sistemi di valutazione internazionali, in ottemperanza all’integrazione sovranazionale dei sistemi di valutazione della ricerca che anni addietro venivano indicati come “aziendalizzazione” delle università. La differenza più evidente, anche senza voler mettere in discussione questo processo, è però che l’Italia investe complessivamente meno dell’1% del PIL sulla ricerca, rispetto alla media dell’1,5% dei paesi considerati dal rapporto Ocse “Education at Glance” del 2019.

    Come la qualità dell’insegnamento risente delle condizioni di lavoro del personale di ricerca non strutturato sul quale si regge l’università, anche il peggioramento della condizione studentesca ha ricadute pesanti sul reclutamento del personale di ricerca. Infatti non solo – in assenza di un adeguato finanziamento pubblico, il gettito delle tasse studentesche influisce sulla capacità o meno degli atenei di assumere, specialmente nei settori meno interessanti per il finanziamento privato. Va aggiunto che per di più solo l’11% degli studenti iscritti beneficia di una borsa di studio, rendendo l’università un posto sempre più inaccessibile anche a causa della spasmodica ricerca di risorse che viene fatta pesare sulle fasce più deboli della popolazione studentesca. Solo il 6% degli studenti fuorisede usufruisce di un posto alloggio e più di 25.000 studentesse e studenti (i dati riguardano solo alcune regioni) sono idonei non beneficiari di posto alloggio, con una carenza strutturale di residenze e posti letto che costringono tante e tanti a rivolgersi al mercato privato, al caro-affitti e alla speculazione immobiliare che sta erodendo troppe città.

    Dal punto di vista del lavoro di ricerca, il risultato è che sul totale degli assegnisti attualmente in servizio meno del 10% riuscirà, al termine di un lungo e frastagliato percorso, a divenire un professore di seconda fascia (professore associato), unica possibilità di stabilizzazione attualmente prevista per chi lavora nella ricerca. Detto in altri termini, oltre il 90% dell’attuale personale di ricerca verrà espulso dall’Università. Ci può forse stupire che negli ultimi anni il principale dibattito nazionale e internazionale relativo alla ricerca universitaria sia quello sul benessere psichico di chi lavora nella ricerca? La frammentazione delle relazioni sociali, frutto inevitabile della competizione; la mancanza, talvolta, di spazi fisici riconosciuti dove svolgere il proprio lavoro; l’obbligo all’internazionalizzazione (che si traduce in una lunga diaspora che conduce i ricercatori a cambiare non solo città ma Stato); l’assenza di un orizzonte di certezza lavorativo: sono solo alcuni dei fattori che maggiormente contribuiscono a generare una fragilità esistenziale, emotiva, psichica, ivi compresa la difficoltà a progettare la propria vita secondo i propri bisogni, aspirazioni e desideri e trovando continuamente in conflitto la propria realizzazione personale e collettiva con la propria realizzazione lavorativa. Lascia tutto e seguimi. In questo vediamo niente di più e niente di meno che lo stesso meccanismo che molti altri comparti del lavoro già in mobilitazione vivono quotidianamente: a loro va tutta la nostra solidarietà, che molt_ di noi esprimono già concretamente attraverso la mobilitazione attiva in loro vicinanza come in vicinanza delle altre lotte sociali e civili che in questo paese avvengono. Bisogna reagire immediatamente pretendendo il miglioramento delle condizioni di lavoro e di studio nel settore universitario almeno attraverso il rifinanziamento pubblico dell’università. Va pretesa una riforma immediata del reclutamento e del pre-ruolo, eliminando le forme di precariato e para-subordinazione. Il sistema attuale di valutazione della ricerca va radicalmente ripensato, a partire dalla soppressione dell’ANVUR. Occorre migliorare le condizioni di studio in Italia, aumentando il Fondo Integrativo Statale per il diritto allo studio di almeno 200 milioni di euro, senza che ciò abbia ricadute sulle altre componenti del mondo universitario e in particolare sul reclutamento del personale di ricerca.

    È anche sulla base di questo che chiamiamo tutte e tutti a mobilitarsi, il 9 gennaio 2020, per una giornata di lotta nella quale chiedere:
    – un rifinanziamento adeguato e strutturale del comparto università e ricerca, in misura tale da poter quantomeno ritornare, nei più brevi tempi possibili, ai livelli pre-crisi;
    – una riforma del reclutamento per Università ed Enti di ricerca, da effettuare con un concorso annuale ordinario, per invertire il trend che ha portato alla proliferazione sistematica della popolazione precarizzata e consentire, a ciascun lavoratore, una programmazione chiara della propria vita;
    – una riforma del pre-ruolo, eliminando i contratti para-subordinati in favore di forme lavorative e previdenziali dignitose e riducendo, se non eliminando, i lunghi periodi di disoccupazione che si moltiplicano fino a una ipotetica stabilizzazione;
    – la soppressione dell’ANVUR e un ripensamento radicale della valutazione della ricerca a partire da criteri qualitativi e non più quantitativi;
    – l’aumento per almeno 200 milioni del Fondo Integrativo Statale per il diritto allo studio, così da garantire borse di studio, alloggi e residenze.

    Riuniamoci in presidi e assemblee, pensiamo e costruiamo insieme l’alternativa con tutti i mezzi necessari: divisi siamo niente, uniti siamo tutto!

    Ricercatori Determinati – Pisa

    https://www.roars.it/online/un-inverno-caldo-chiamata-per-la-mobilitazione-per-luniversita-pubblica-9-genn
    #université #Italie #grève #résistance #universités #budget #finances #loi_finances

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    Ajouté à la métaliste sur les résistances dans le monde universitaire en Europe :
    https://seenthis.net/messages/824281

    • Disintossichiamoci-Sapere per il futuro

      Economics are the methods.The object is to change the soul”. Riferita alle politiche della conoscenza, istruzione e ricerca (ma non soltanto), questa formula di Margaret Thatcher ben riassume il processo che ha contraddistinto gli ultimi decenni.Il metodo economico, la penuria come condizione normale, al limite o al di sotto del limite della sopravvivenza, è visibile a tutti. Anche ben visibile, insieme a quello finanziario, è lo strangolamento burocratico. Meno visibile l’obiettivo. Il cambiamento degli animi è così profondo che non ci accorgiamonemmenopiù della distruzione compiutasi intorno e attraverso di noi: il paradosso della fine –nella “società della conoscenza” –di un mondo dedicato alle cose della conoscenza. Anche l’udito si è assuefatto a una programmatica devastazione linguistica, dove un impoverito gergo tecnico-gestionale e burocratico reitera espressioni dalla precisa valenza operativa, che però sembra essere difficile cogliere: miglioramento della qualità, eccellenza, competenza, trasparenza, prodotti della ricerca, erogazione della didattica... E autonomia, ovvero –per riprendere le parole di Thomas Piketty –l’impostura che ha avviato il processo di distruzione del modello europeo di università. Una distruzione che ha assunto come pretesto retorico alcuni mali –reali e no -della vecchia università, ma naturalmente senza porvi rimedio, perché non questo ma altro era il suo l’obbiettivo.A trenta anni appunto dall’introduzione dell’autonomia,a venti dal processo di Bologna,a dieci dalla “Legge Gelmini”, la letteratura critica su questa distruzione è sconfinata. Ricerca e insegnamento –è un fatto, eppure sembra un tabù esplicitarlo –da tempo non sono più liberi. Sottoposta a una insensata pressione che incalza a “produrre” ogni anno di più, a ogni giro (da noi VQR, ASN ecc) di più, la ricerca è in preda a una vera e propria bolla di titoli, che trasforma sempre più il già esiziale publish or perishin un rubbish or perish. Nello stesso tempo, è continua la pressione ad “erogare” una formazione interamente modellata sulle richieste del mondo produttivo. La modernizzazione che ha programmaticamente strappato l’università via da ogni “torre di avorio” –facendone“responsive”, “service university” –ha significato non altro che la via, la “terza via”, verso il mondo degli interessi privati. Svuotate del loro valore,istruzione e ricerca sono valutate, vale a dire “valorizzate” tramite il mercato e il quasi-mercato della valutazione, che, nella sua migliore veste istituzionale, non serve ad altro che «a favorire (...) l’effetto di controllo sociale e di sviluppo di positive logiche di mercato» (CRUI 2001).Proprio grazie all’imporsi di queste logiche di mercato, la libertà di ricerca e di insegnamento –sebbene tutelata dall’art. 33 della Costituzione –è ridotta oramaia libertà di impresa. Il modello al quale le è richiesto sottomettersi è un regime di produzione di conoscenze utili (utili anzitutto a incrementare il profitto privato), che comanda modi tempi e luoghi di questa produzione, secondo un management autoritario che arriva ad espropriare ricercatori e studiosi della loro stessa facoltà di giudizio, ora assoggettata a criteri privi di interna giustificazione contrabbandati per oggettivi. Si tratta di numeri e misure che di scientifico, lo sanno tutti, non hanno nulla e nulla garantiscono in termini valore e qualità della conoscenza. Predefinire percentuali di eccellenza e di inaccettabilità, dividere con mediane o prescrivere soglie, ordinare in classifiche, ripartire in rating le riviste, tutto questo, insieme alle più vessatorie pratiche di controllo sotto forma di certificazioni, accreditamenti, rendicontazioni, riesami, revisioni ecc., ha un’unica funzione: la messa in concorrenza forzata di individui gruppi o istituzioni all’interno dell’unica realtà cui oggi si attribuisce titolo per stabilire valori, ossia il mercato, in questo caso il mercato globale dell’istruzione e della ricerca, che è un’invenzione del tutto recente.

      Là dove infatti tradizionalmente i mercati non esistevano (istruzione e ricerca, ma anche sanità, sicurezza e così via), l’imperativo è stato quello di crearli o di simularne l’esistenza. La logica del mercato concorrenziale si è imposta come vero e proprio comando etico, opporsi al quale ha comportato, per i pochi che vi hanno provato, doversi difendere da accuse di inefficienza, irresponsabilità, spreco di danaro pubblico, difesa di privilegi corporativi e di casta. Tutt’altro che il trionfo del laissez faire: un “evaluative State” poliziesco ha operato affinché questa logica venisse interiorizzata nelle normali pratiche di studio e ricerca, operando una vera e propria deprofessionalizzazione, che ha trasformato studiosi impegnati nella loro ricerca in entrepreneurial researcher conformi ai diktat della corporate university. A gratificarli una precarietà economica ed esistenziale che va sotto il nome di eccellenza, la cornice oggi funzionale a un “darwinismo concorrenziale” esplicitamente teorizzato e, anche grazie alla copertura morale offerta dall’ideologia del merito, reso forzatamente normalità.Sono in molti ormai a ritenere che questo modello di gestione della conoscenza sia tossico e insostenibile a lungo termine. I dispositivi di misurazione delle performance e valutazione premiale convertono la ricerca scientifica (il chiedere per sapere) nella ricerca di vantaggi competitivi (il chiedere per ottenere), giungendo a mettere a rischio il senso e il ruolo del sapere per la società. Sempre più spesso oggi si scrive e si fa ricerca per raggiungereuna soglia di produttività piuttosto che per aggiungereuna conoscenza all’umanità: “mai prima nella storia dell’umanità tanti hanno scritto così tanto pur avendo così poco da dire a così pochi” (Alvesson et al., 2017). In questo modo la ricerca si condanna fatalmente all’irrilevanza, dissipando il riconoscimento sociale di cui finora ha goduto e generando una profonda crisi di fiducia. È giunto il momento di un cambiamento radicale,se si vuole scongiurare l’implosione del sistema della conoscenza nel suo complesso. La burocratizzazione della ricerca e la managerializzazione dell’istruzione superiore rischiano di diventare la Chernobyl del nostro modello di organizzazione sociale. Quel che serve oggi è quindi riaffermare i principi che stanno a tutela del diritto di tutta la società ad avere un sapere, uninsegnamento, una ricerca liberi –a tutela, cioè, del tessuto stesso di cui è fatta una democrazia –e per questo a tutela di chi si dedica alla conoscenza. Serve una scelta di campo, capace di rammagliare dal basso quello che resiste come forza critica,capacità di discriminare, distinguere quello che non si può tenere insieme: condivisione ed eccellenza, libertà di ricerca e neovalutazione, formazione di livello e rapida fornitura di forza lavoro a basso costo, accesso libero al sapere e monopoli del mercato.In questa direzione si delineano alcune tappe. La prima è una verifica dell’effettiva sussistenza e consistenza di questo campo. Un progetto non può avanzare se non si raggiunge una massa minima di persone disposte ad impegnarvisi. Se c’è un’adeguata adesione preliminare –diciamo in termini simbolici 100 persone per partire –organizziamo un incontro a breve per ragionare su politiche radicalmente alternative in fatto di valutazione, tempi e forme della produzione del sapere, reclutamento e organizzazione.In prospettiva, realizziamo a giugno un’iniziativa in concomitanza con la prossima conferenza ministeriale del processo di Bologna, che quest’anno si tiene a Roma, per avanzare con forza –in raccordo con altri movimenti europei di ricercatori e studiosi(già sussistono contatti in questo senso)–un ripensamento delle politiche della conoscenza.
      Valeria Pinto
      Davide Borrelli
      Maria Chiara Pievatolo
      Federico Bertoni

      https://www.roars.it/online/wp-content/uploads/2020/02/Sapere-per-il-futuro-documento-1-2.pdf