• Verso un Ente di Decolonizzazione

    Alla Quadriennale d’Arte 2020 a Roma la nuova installazione di Decolonizing Architecture Art Research con dossier fotografico di Luca Capuano.

    Nel 1940 il regime fascista istituì l’Ente di Colonizzazione del Latifondo Siciliano, seguendo il modello dell’Ente di Colonizzazione della Libia, e delle architetture coloniali in Eritrea e in Etiopia, e di quanto già sperimentato con i piani di bonifica integrale e di “colonizzazione interna” dell’Agro Pontino negli anni trenta. Utilizzando diverse forme di violenza e oppressione, forme genocidiarie nei confronti dei popoli colonizzati e ingegneria sociale e violenza di classe sul fronte italiano, il fascismo aveva individuato in questi “territori”, uno spazio geografico astratto, uniforme e omogeneo da “modernizzare” e “ripopolare”, in quanto considerato “vuoto”, “sottosviluppato” e “arretrato”. A tale scopo la Sicilia era diventata agli occhi del fascismo, l’ultimo fronte della modernizzazione, il cui mondo rurale, in contrapposizione alla città, era considerato un terreno “vergine” da occupare.

    Prima che il conflitto mondiale lo impedisse il fascismo inaugurò fino al 1943 otto borghi siciliani, mentre altri rimasero incompiuti. Seguendo i principi dell’estetica e di planimetrie moderniste, dell’architettura coloniale fascista, i borghi venivano costruiti attorno al vuoto della piazza, “centro civico” delle istituzioni dello Stato atte a “civilizzare” campagne considerate vuote e senza vita: la Casa del fascio, l’Ente della Colonizzazione, la Chiesa, le Poste, la Scuola sono soltanto alcune delle istituzioni designate a forgiare l’educazione culturale, politica e spirituale del “nuovo colono fascista”. I nuovi borghi di fondazione avrebbero cosi “connesso” tra di loro le varie parti del nuovo Impero italiano.

    Per celebrare questa unità fittizia, molti dei villaggi siciliani tra cui Borgo Bonsignore, Borgo Fazio e Borgo Giuliano presero il nome di martiri fascisti, camice nere, soldati e coloni morti in Etiopia durante la guerra coloniale di occupazione. Allo stesso tempo, il fascismo aveva continuato la “colonizzazione interna” come strumento e strategia di oppressione del dissenso interno. Se da un lato i borghi erano stati pensati come strumento e spazio di trasformazione agricola delle campagne siciliane in chiave estensiva, estrattiva e capitalista, i piani di migrazione forzate verso Sud servivano al regime ad impedire rivolte nelle campagne del Nord, spezzare i legami tra i lavoratori agricoli con i movimenti antifascisti, e trasformare i braccianti in piccoli proprietari terrieri.

    Oggi la maggior parte di questi borghi sono caduti in rovina. Il depopolamento e le migrazioni delle campagne siciliane nel dopoguerra, con il tempo hanno fatto si che gli edifici che ospitavano le istituzioni fasciste cadessero in abbandono, o in alcuni casi venissero trasformate dai residenti in abitazioni. Questi villaggi sono oggi la materializzazione di una sospensione, non la definitiva eliminazione di un percorso storico e politico. Nonostante la caduta del fascismo e la fine del colonialismo storico, la de-fascistizzazione e la decolonizzazione dell’Italia rimangono processi purtroppo incompiuti. Ad oggi il mancato processo di revisione critica ha fatto si che l’apparato culturale e politico del colonialismo e fascismo sia sopravvissuto: tra questi il razzismo istituzionale e un sentimento diffuso della presunta superiorità della civiltà europea, la conseguente deumanizzazione delle popolazioni proveniente dal mondo (post)coloniale, il sopravvivere di monumenti e strade che celebrano l’ideologia e la storia fascista e coloniale, e la carenza di un’educazione alla conoscenza critica del passato all’interno del sistema educativo italiano.

    In Italia, come dimostrato dai villaggi siciliani, questa impasse politica e culturale di lunga durata è molto visibile attraverso la normalizzazione o la noncuranza dell’architettura fascista. Come è stato dibattuto dalla critica e letteratura postcoloniale negli ultimi anni e contestato a gran voce nel 2020 sull’onda dei moti globali contro la presenza dei simboli che celebrano le violenze imperiali e coloniali negli spazi urbani dell’emisfero Nord, in Italia è molto comune trovare edifici coloniali/fascisti (oltre a monumenti, targhe, memoriali e toponomastica) che piuttosto che essere rimossi, smantellati o distrutti, sono stati lasciati intatti. Sin dalla conclusione della Seconda Guerra mondiale, l’architettura fascista (e progetti urbanistici) sono stati riutilizzati o sviluppati dai governi repubblicani per dare una casa alle nuove istituzioni liberal democratiche italiane. Le reliquie del fascismo e del colonialismo sono state progressivamente normalizzate all’interno dei paesaggi urbani, sfuggendo allo sguardo critico della cultura e della politica antifascista.

    Ad oggi, con il “ritorno” dei fascismi su scala globale e il crescente arrivo negli ultimi decenni dei migranti dall’ex mondo coloniale, la necessità di riaprire i processi di decolonizzazione e defascistizzazione si è resa più che mai urgente. E con essi, nuove domande sul “che fare” del “patrimonio” architettonico coloniale fascista. È possibile immaginare un ri-uso, senza correre il rischio di perpetuare eternamente questa stessa ideologia, e contro il pericolo dell’autoassoluzione e della nostalgia?

    Nel 2017 Asmara la capitale dell’Eritrea è stata nominata patrimonio dell’umanità dall’UNESCO. La nomina, intitolata “Asmara – Citta modernista d’Africa”, fa riferimento alla trasformazione architettonica e urbana coloniale fascista e modernista di Asmara avvenuta durante l’occupazione coloniale italiana. Non esente da critiche, l’iscrizione di Asmara pone una serie di elementi problematici: dal rischio di presentare la città coloniale costruita dagli italiani come il modello di patrimonio urbano del continente africano, al pericolo di rinforzare impulsi nostalgici o costituire uno strumento di propaganda per il regime eritreo, fino al rischio di cedere ai paradigmi di conservazione dei beni architettonici e culturali eurocentrici imposti dall’UNESCO.

    Nonostante queste controversie, la nomina di Asmara ha comunque posto per la prima volta una serie di domande fondamentali che riguardano e accomunano entrambi ex-colonizzati ed ex-colonizzatori: chi ha il diritto a preservare, riutilizzare e ri-narrare l’architettura coloniale fascista?

    L’installazione presentata per la Quadriennale d’arte 2020 – FUORI a Palazzo delle Esposizioni a Roma, sede della Prima mostra internazionale d’arte coloniale (1931) e di altre mostre di propaganda del regime, propone di ripensare i borghi costruiti dal fascismo in Sicilia a partire dalla nomina di Asmara come patrimonio dell’umanità. L’installazione è il primo intervento verso la creazione di un Ente di Decolonizzazione che sarà aperto a coloro che avvertono l’urgenza di mettere in discussione un’ampia eredità storica, culturale e politica intrisa di colonialismo e fascismo, ed iniziare dunque un percorso comune verso nuove pratiche di decolonizzazione e defascistizzazione[1].

    L’occasione della mostra vuole dunque contribuire ad ampliare il raggio critico, a partire dal cosiddetto “patrimonio” architettonico. L’architettura a differenza di monumenti e targhe, si erge su delle fondamenta, ponendo cosi questioni di fondazione e di profondità. In questo senso, l’architettura si occupa di un problema strutturale, dando una forma alle fondamenta coloniali e fasciste sui cui si costruisce l’Italia contemporanea, a testimonianza di una continuità storica e politica tra passato e presente. Ora che molti di questi edifici coloniali e fascisti sono in buona parte in rovina, si corre il rischio che cadendo a pezzi, si portino via la memoria, ma lasciando le fondamenta di una lunga storia di violenza, oppressioni e discriminazione, come ultimo atto dell’amnesia italiana.

    Verso un Ente di Decolonizzazione presentato a Roma, è il primo atto di un lungo percorso che intende coinvolgere coloro che sentono l’urgenza di mettere in discussione concetti e pratiche ereditate dal passato e di costruire oggi spazi critici in cui incontrarsi tra uguali. Il secondo atto si svolgerà la prossima estate in Sicilia, nell’ex-ente di colonizzazione di Borgo Rizza, nel comune di Carlentini, dove cittadini, politici, studiosi, artisti e studenti cercheranno di fare i conti con la difficile eredità´ del patrimonio dell’architettura fascista e coloniale.

    La formazione di un Ente della Decolonizzazione vuole così porre la questione della riappropriazione e ri-narrazione degli spazi e simboli del colonialismo e del fascismo all’interno di un ampio percorso decoloniale, e cosi contribuire a invertire la tendenza italiana al racconto auto-assolutorio di un colonialismo “meno peggio” degli altri. In un contesto internazionale in cui le rivendicazioni degli ex-colonizzati ad una vera riparazione e al risarcimento per i crimini del colonialismo e della schiavitù si fanno sempre più forti e trascinanti, l’Ente della Decolonizzazione intende partire da semplici domande che permettano di rivendicare il diritto a re-inquadrare la narrazione storica, cominciando dalla presenza dell’eredità architettonica coloniale e fascista: dato che i borghi sono stati costruiti per dare forma e corpo alla ideologia fascista, in che modo è possibile sovvertirne i principi fondanti, partendo da questi stessi luoghi come nuovo “centro” della lotta ai fascismi contemporanei? Come trasformare questi borghi in un antidoto al fascismo? Chi ha il diritto a ri-narrare e al ri-uso di questi villaggi che vennero costruiti per celebrare i martiri fascisti nelle guerre di occupazione in Africa? È possibile immaginare un ri-uso critico di questi luoghi, che si faccia alleato di un percorso di riparazione dei crimini del passato? È ipotizzabile un ri-uso inteso come riparazione? È forse possibile un percorso di riparazione che vada oltre la sfera dei trattati bilaterali tra governi e stati? In quali forme questa riparazione o risarcimento può prendere forma? Può l’eredità architettonica giocare un ruolo in tutto ciò?

    https://www.lavoroculturale.org/verso-un-ente-di-decolonizzazione/alessandro-petti

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