• La criminalizzazione dei presunti “scafisti”, capro espiatorio dei flussi “irregolari”

    Secondo quanto ricostruito da Arci Porco Rosso e Borderline Europe sono almeno 264 i “capitani” delle navi arrestati nel 2022. Persone che spesso hanno poco a che fare con le organizzazioni violente che i migranti si trovano ad affrontare durante il viaggio: le Ong denunciano processi sommari che non rispettano i diritti degli imputati.

    Nel 2022 sono state arrestate almeno 264 persone in seguito agli sbarchi sulle coste italiane con l’accusa di essere scafisti. Ma secondo Arci Porco Rosso e Borderline Europe, due Ong attive nella tutela delle persone migranti, queste persone “hanno poco o nulla a che fare con organizzazioni e gruppi violenti che le persone migranti si trovano ad affrontare durante il viaggio”. A inizio gennaio 2023 le organizzazioni hanno pubblicato dati aggiornati come prosieguo della ricerca “Dal mare al carcere” che nell’ottobre 2021 aveva “svelato” il ruolo spesso marginale di coloro che si ritrovano a guidare la barca diretta verso le coste europee, senza un ruolo attivo nell’organizzazione del viaggio. “Si sente forte la volontà politica di continuare a criminalizzare i cosiddetti scafisti come capro espiatorio dell’immigrazione irregolare -spiega Maria Giulia Fava, operatrice legale di Arci Porco Rosso-. Vengono confusi con le organizzazioni criminali quando, nella realtà, sono semplicemente migranti che si mettono al timone delle navi sotto minaccia o per non pagare il viaggio. Altri, invece, ricevono anche delle somme di denaro: al di là delle modalità, il punto è che per loro guidare quella barca è l’unico modo per raggiungere l’Europa”.

    Il dato sui 264 arresti è probabilmente una stima al ribasso perché si basa su quanto riportato da articoli della stampa locale. Nel 2021 le due organizzazioni spiegano che avevano ricostruito 171 fermi a fronte dei 225 poi rivendicati dalla Polizia di Stato nel report annuale. Seguendo questa proporzione si arriverebbe a circa 350 persone coinvolte nel 2022. Un dato che trova conferma anche rispetto alla “proporzione” con le circa 105mila persone sbarcate lo scorso anno: un fermo ogni 300, simile al dato del 2021 e a quello relativo al periodo 2014-2017. Molto diverse invece rispetto a quel periodo le nazionalità delle persone arrestate. Negli anni successivi all’apertura della rotta libica circa un quarto dei fermi proveniva dall’Africa occidentale, nel 2022 meno di dieci. Aumentano invece i “capitani” arrestati originari del Nord-Africa (118 fermi nel 2022 a fronte di 61 nel 2021) soprattutto dell’Egitto. Questo è dovuto anche all’aumento degli arrivi da parte di cittadini egiziani (18.285 contro gli 8.576 dell’anno precedente). Calano invece i fermi per i cittadini ucraini: nel 2022 solamente 9 a fronte dei 32 dell’anno precedente. Gli skipper ucraini storicamente “sono stati fondamentali per l’arrivo delle persone che partono dalla Turchia, in quanto marinai esperti che sanno condurre una barca a vela durante la settimana di viaggio che occorre per attraversare il mar Egeo e giungere fino alle coste italiane”. “Probabilmente lo scoppio del conflitto e l’obbligo per gli uomini di rimanere nel Paese ha causato la diminuzione della loro presenza sulle navi”, osserva Fava. Ma l’importanza della rotta orientale, confermata anche dati sugli sbarchi, si è comunque intensificata. Sono raddoppiati così gli arresti di cittadini turchi (52 contro 24 nel 2021) e russi (sette nel 2021, 14 nel 2022) ma anche di persone provenienti dal continente asiatico: bangladesi, siriani ma anche cittadini del Kazakistan o del Tagikistan.

    Arci Porco Rosso nel 2022 è entrata in contatto con 84 persone, di cui 54 sono in carcere. Quasi la metà di persone originarie da Algeria, Egitto, Libia, Marocco e Tunisia. Tra le persone seguite ci sono anche due donne detenute, una proveniente dalla Russia e l’altra dall’Ucraina. “Seguiamo sia chi è già uscito dal carcere e incontra grossi ostacoli nella regolarizzazione della sua posizione: le condanne per favoreggiamento dell’immigrazione ‘clandestina’ sono ostative per il rilascio del permesso di soggiorno”, spiega Fava. L’Ong segue poi anche coloro che sono ancora sotto processo garantendo un supporto sia nei rapporti con gli avvocati difensori, sia per cercare di far comprendere al meglio cosa sta succedendo e chi invece sta scontando la pena nelle strutture detentive. “Diventiamo un orecchio per i loro pensieri e una voce per le loro richieste, mano a mano che si avvicina il fine pena cerchiamo di capire come evitare che vengano poi tradotti direttamente nei Centri permanenti per il rimpatrio (Cpr) una volta usciti dal carcere”. Proprio con riferimento ai Cpr, nell’aggiornamento pubblicato a metà gennaio si racconta il caso di un “capitano” del Biafra, richiedente asilo, rimpatriato in Nigeria prima di poter essere ascoltato dal giudice. “Abbiamo notizia di molti capitani tunisini a cui è toccata la stessa sorte -si legge nel documento-. Purtroppo a volte neanche una sentenza di assoluzione evita il Cpr: è quello che è successo ad un cittadino libico, scagionato da ogni accusa, che dopo anni di integrazione in Italia si è visto arbitrariamente trattenuto perché ritenuto socialmente pericoloso per lo stesso reato per cui era stato assolto. Uno stigma che si traduce in una vera e propria persecuzione”.

    Una persecuzione che “nasce” da procedimenti penali in cui secondo Fava “non vengono applicate le tutele processuali previste dalla normativa”. Diverse sentenze hanno riconosciuto il cosiddetto “stato di necessità” ad alcuni imputati che erano stati accusati di aver guidato l’imbarcazione dalla Libia verso l’Italia: da un lato perché è noto il modus operandi delle organizzazioni libiche, dall’altro perché veniva dimostrato che la persona era stata costretta a prendere in mano il timone. “Il problema però sta proprio nel provare questo elemento -spiega l’operatrice legale-. Spesso i giudici si accontentano di dichiarazioni assunte in modo approssimativo dalla polizia a seguito dello sbarco. Vengono sentite 2/3 persone con domande che non approfondiscono il contesto e non così specifiche. Poi questi testimoni diventano irreperibili, non vengono chiamati a processo e l’unico modo per la difesa per dimostrare l’innocenza dell’imputato è rintracciare gli altri passeggeri presenti sull’imbarcazione. Non è facile”. Succede poi che molti difensori d’ufficio accedono ai riti abbreviati, per avere uno sconto sulla pena. Ma questo comporta il non poter arrivare a un’assoluzione portata dal chiarire quello che è successo.

    Le condanne agli “scafisti” sono però importanti a livello politico. Come raccontato nel nostro libro “Respinti“, la lotta ai trafficanti non è nient’altro che la “foglia di fico” dietro cui nascondere politiche che hanno come unico obiettivo bloccare le persone in movimento. Giulia Serio, analista presso l’Ufficio delle Nazioni Unite sulla droga e il crimine (Unodc), con specifico riferimento ai “capitani” delle navi accusati di favoreggiamento dell’immigrazione “clandestina” ha spiegato su Altreconomia come “sempre più studiosi sottolineano l’abuso della posizione di una vulnerabilità in cui la persona si è trovata nel momento in cui ha compiuto questo ‘reato’: salvare la sua vita, oltre che quella degli altri. E questa la rende potenzialmente una vittima di tratta ai fini dello sfruttamento in attività criminale”. Una via che i legali di Arci Porco Rosso stanno seguendo su un caso di 14 persone arrestate e poi assolte proprio per “stato di necessità”. “Vogliamo fare richiesta di protezione internazionale per loro e chiedere che vengano riconosciute proprio come vittime di tratta in quanto persone obbligate a compiere un’azione illecita”, conclude Fava.

    La presidente del Consiglio Giorgia Meloni a metà novembre 2022, riferendosi all’atteggiamento dell’Unione europea sul tema della “gestione” dei confini, è stata chiara: “Potrebbe scegliere di isolare l’Italia, io penso che sarebbe meglio isolare gli scafisti”. “Affermazioni odiose che alimentano la demonizzazione di chi non fa altro che condurre oltre la frontiera imbarcazioni di persone in fuga -sottolineano i curatori del report– cercando di imporre nuovamente la figura dello scafista al centro della conversazione, come capro espiatorio universale a cui si possa addossare la responsabilità della morte e della violenza che avviene alla frontiera marittima italiana”.

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