• Sulla differenziata dei rifiuti tessili l’Italia è ancora all’anno zero

    Dal primo gennaio 2022 è entrato in vigore l’obbligo di raccolta separata per i vecchi vestiti che vengono gettati. A oggi sono poche le esperienze sui territori: manca una regia a livello nazionale che permetta alla filiera di strutturarsi

    Nonostante l’attenzione maniacale degli abitanti di Capannori (LU) per ridurre la produzione di rifiuti e per differenziare il più possibile le singole frazioni, una quota significativa di vecchie magliette, jeans e giacche dismessi perché troppo stretti o fuori moda continuava a sfuggire alla raccolta. “Già da tempo avevamo i cassonetti dedicati, ma da un’analisi sui materiali presenti nei sacchi ‘grigi’ è emerso che i tessili rappresentavano ancora il 15% della frazione indifferenziata”, spiega ad Altreconomia l’assessore comunale all’Ambiente, Giordano Del Chiaro-. Così abbiamo deciso di togliere i cassonetti e a luglio 2022 abbiamo avviato la raccolta porta a porta”.

    Ai cittadini viene consegnato un apposito sacco trasparente -che viene ritirato ogni due mesi- dove possono mettere indumenti, scarpe, borse, coperte, cuscini, lenzuola e tovaglie senza preoccuparsi delle loro condizioni: è possibile, infatti, conferire anche capi danneggiati o usurati. “La sperimentazione è andata bene, anche per merito dei cittadini di Capannori che sono molto sensibili a questi temi -sottolinea l’assessore-. Nel 2023 il porta a porta è diventato strutturale per questa frazione e si inserisce all’interno di un progetto più ampio: attraverso il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) abbiamo ottenuto un finanziamento da cinque milioni di euro per l’attivazione di centro di selezione con una capacità di trattamento di 6.500 tonnellate l’anno”.

    Qui si svolgeranno le attività di selezione dei capi, separando quelli rovinati da quelli in buone condizioni, i maglioni di lana dai jeans, i vestiti invernali da quelli estivi e così via con l’obiettivo di incanalarli separatamente lungo la filiera più corretta: il riutilizzo (ad esempio la commercializzazione sul mercato second hand), il riciclo (il recupero della fibra per produrre nuovi capi o l’utilizzo del materiale tessile di scarto per realizzare imbottiture) o, in quota residua, per tutto quello che non è possibile utilizzare altrimenti, lo smaltimento.

    Quella di Capannori è una delle poche novità che si sono registrate nel settore da quando, il primo gennaio 2022, è entrato in vigore l’obbligo di raccolta differenziata dei rifiuti tessili in base a quanto previsto dal decreto legislativo 116/2020 con cui l’Italia ha anticipato di tre anni l’attuazione di uno dei decreti contenuti nel “Pacchetto di direttive sull’economia circolare” adottato dall’Unione europea nel 2018. “Non si sta facendo nulla per organizzare la raccolta differenziata a livello nazionale, che però dovrà tassativamente entrare in vigore nel 2025 in base a quanto previsto dalle normative europee -commenta Rossano Ercolini, presidente della Rete Zero Waste Europe-. Da un punto di vista operativo sono stati due anni persi, anche se alcune realtà hanno iniziato a porsi il problema e a sperimentare modelli”.

    “L’assenza di una norma di riferimento pone tutti in una situazione di attesa che non aiuta le aziende e ovviamente neanche l’ambiente” – Giancarlo Dezio

    A fronte dell’obbligo di avvio della raccolta differenziata non sono stati approvati i provvedimenti necessari a strutturare la filiera. Aziende e consorzi sono quindi ancora in fase di attesa: “Abbiamo sollecitato i ministeri interessati a redigere un testo attorno al quale potersi confrontare per rendere a tutti gli effetti operativa la gestione dei prodotti tessili -spiega ad Altreconomia Giancarlo Dezio, direttore generale di Ecotessili, consorzio nato nel 2021 per iniziativa di Federdistribuzione-. L’assenza di una norma di riferimento pone tutti in una situazione di attesa che non aiuta le aziende e ovviamente neanche l’ambiente”. Oltre a Ecotessili, in questi anni hanno preso vita anche altre realtà, tra cui Re.Crea, coordinato dalla Camera nazionale della moda, Cobat Tessile e Retex.Green, lanciato dal Sistema moda Italia (Smi) ed Erion.

    A questo si aggiunge il fatto che solo a inizio luglio 2023 la Commissione europea ha pubblicato la sua proposta per la revisione della Direttiva quadro sui rifiuti (tra cui i tessili) che comprende anche la creazione di sistemi di Responsabilità estesa del produttore (Erp) obbligatori e armonizzati tra tutti i Paesi dell’Unione: sul modello di quanto avviene, ad esempio, per i rifiuti elettrici ed elettronici, i marchi di moda e i produttori tessili saranno tenuti a pagare un contributo per ogni capo immesso sul mercato, che andrà poi a coprire i costi di raccolta, selezione, riutilizzo e riciclo. Una proposta accolta con favore dalla Federazione europea di organizzazioni ambientaliste (European environmental bureau) che invita la Commissione a fissare obiettivi ambiziosi: “L’Ue si è impegnata a fermare la fast fashion. Ora è giunto il momento di una politica veramente trasformativa, che stabilisca contributi adeguati -ha dichiarato Emily Macintosh, senior policy officer della federazione per il settore tessile-. Non possiamo regalare ai brand un lasciapassare per continuare a produrre in eccesso capi di bassa qualità progettati per una breve durata di vita e aspettarci di riciclare quantità sempre maggiori di rifiuti tessili”. I tempi per l’approvazione della direttiva però si prospettano lunghi, anche alla luce delle prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo del giugno 2024.

    Tra chi guarda con attenzione a quello che succede a Bruxelles ci sono anche le tante realtà del mondo della cooperazione sociale cui, da anni, molti Comuni italiani o municipalizzate affidano la raccolta di questa frazione. “Quaranta realtà che aderiscono a Confcooperative Federsolidarietà raccolgono circa 50mila tonnellate di rifiuti tessili, quasi un terzo del totale a livello nazionale. Sono presenti in 11 Regioni e attraverso questa attività creano occupazione per oltre cinquemila lavoratori, di cui 1.500 persone con disabilità o soggetti svantaggiati -spiega ad Altreconomia il presidente Stefano Granata-. Abbiamo preso consapevolezza della nostra forza e delle competenze accumulate in questi anni sui tanti territori in cui siamo presenti: abbiamo una rete capillare e diffusa, ma quello che ci manca è dare una risposta più strutturata alle fasi successive della filiera.

    Sono 50mila le tonnellate di rifiuti tessili che raccolgono le quaranta realtà aderenti a Confcooperative Federsolidarietà, circa un terzo del totale a livello nazionale. Sono presenti in 11 Regioni e attraverso questa attività creano occupazione per oltre cinquemila lavoratori, di cui 1.500 persone con disabilità o soggetti svantaggiati

    Per questo vogliamo crescere ancora, anche per creare più posti di lavoro, e nel corso del 2024 daremo vita a un’associazione per riunire tutte le nostre realtà attive nel settore”. Tra quelle che hanno iniziato a tracciare un percorso virtuoso lungo i passaggi successivi alla raccolta c’è Vestisolidale, una delle nove cooperative della rete Riuse attiva in circa 400 Comuni delle province di Milano, Varese, Monza e Brianza, Bergamo e Brescia che nel corso del 2022 ha raccolto e avviato al recupero circa 13mila tonnellate di rifiuti tessili. “A oggi il sistema è stato incentrato sulla presenza di cassonetti dedicati all’abbigliamento in buone condizioni, mentre tutto il resto spesso finiva nell’indifferenziata -spiega Matteo Lovatti, presidente di Vestisolidale-. In un anno noi mediamente raccogliamo 4,5 chili per abitante, ma le stime parlano di un immesso al consumo di 20 chili all’anno per persona. La sfida è riuscire a intercettare quella differenza”.

    Ma la raccolta non è tutto. Già da alcuni anni, infatti, Vestisolidale gestisce negozi per la vendita diretta di capi second hand e nel 2024 metterà in funzione anche uno stabilimento con sede a Rho, Comune alle porte di Milano, per la selezione e la preparazione del materiale tessile per le successive fasi di lavorazione: “L’impianto è stato autorizzato per trattare 20mila tonnellate di materiale all’anno e a regime contiamo di assumere una trentina di dipendenti”, aggiunge Lovatti. L’occhio esperto dei selezionatori permette di andare a dividere quei capi che possono essere re-immessi in commercio da quelli che invece devono essere destinati al riciclo e, più nel dettaglio, di separare le singole fibre che possono così essere trasformate in “materia prima-seconda” per la produzione di nuovi capi in cotone, lana o cachemire rigenerato.

    “Focalizzarsi sulla gestione dei rifiuti e non su come e quanto si produce significa ignorare il vero problema. La circolarità rischia di essere una scappatoia” – Dario Casalini

    “In Italia è presente una rete molto forte di realtà che hanno una grande esperienza e professionalità in merito al riutilizzo della frazione tessile -sottolinea Raffaele Guzzon, presidente del consorzio Erion, che riunisce realtà come Amazon, Artsana e Save the Duck-. Ma quello su cui vogliamo puntare è garantire la corretta gestione delle frazioni non riutilizzabili e che non possono essere re-immesse sul mercato del second hand: guardiamo ad esempio alle aziende che si stanno specializzando nel riutilizzo degli scarti tessili per produrre imbottiture o materiali fonoassorbenti”.

    Chi invece prova a fare un passo indietro e osservare la questione della gestione dei rifiuti tessili nel suo complesso è Dario Casalini, già docente di Diritto pubblico, oggi amministratore delegato del marchio di maglieria Oscalito 1936 e fondatore della rete Slow Fiber, una realtà che vuole essere un’alternativa al fenomeno dilagante del fast fashion. “Preoccuparsi solo dell’ultima fase di vita dei capi d’abbigliamento è come curare un mal di testa senza intervenire sulle cause -spiega-. Focalizzarsi sulla gestione dei rifiuti tessili e non su come e quanto si produce significa ignorare il vero problema. Tutta l’attenzione che, anche a livello europeo, si sta mettendo sulla circolarità è positiva, ma c’è il rischio che possa essere una scappatoia per consentire al sistema della moda di continuare a operare come sta facendo ora”.

    https://altreconomia.it/sulla-differenziata-dei-rifiuti-tessili-litalia-e-ancora-allanno-zero
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  • I processi farsa che in Marocco trasformano i migranti in trafficanti

    Quasi 70 persone in transito sono state accusate di reati legati all’immigrazione irregolare in seguito al “massacro di Melilla” del 24 giugno 2022. Una strategia, con il benestare dell’Ue, per scoraggiare le partenze e gli arrivi nel Paese.

    Ange Dajbo si trova a oltre quattromila chilometri da casa sua ma a meno di dieci minuti di strada in auto dalla destinazione finale del suo viaggio. Nonostante non sia mai stata così vicina all’enclave spagnola di Melilla (assieme a Ceuta le uniche frontiere terrestri dell’Unione europea con l’Africa) la donna ivoriana di 31 anni è più lontana che mai dalla Spagna. Non ci sono soltanto decine di chilometri di filo spinato, rilevatori di movimento, droni, e numerose squadre della polizia marocchina e spagnola a separarla dall’Europa. A fine settembre scorso, Ange Dajbo e suo marito Alphonse, genitori di un bambino di un anno, sono stati processati dal giudice di Nador, città nel Nord del Paese, entrambi accusati di reati legati all’immigrazione irregolare.

    Le autorità marocchine accusano i Dajbo di essere la catena di trasmissione tra la comunità subsahariana e una rete di trafficanti, sulla base di una deposizione alla polizia giudiziaria che la famiglia racconta essergli stata estorta con la violenza. “Ero venuto in Marocco per emigrare irregolarmente -si legge nel documento- ma poi ho iniziato questo business e con i 500 dirham (46 euro, ndr) a persona che guadagnavo mantenevo me e mia moglie”. Questo impianto accusatorio è valso ad Alphonse Dajbo la condanna a un anno di carcere, una pena che potrebbe salire in appello. Sua moglie è stata assolta. “Noi non parliamo neanche arabo -ricorda Ange Dajbo- non capivamo di cosa ci accusavano e non sappiamo cosa ci hanno fatto firmare”.

    Il 18 ottobre 2022, pochi giorni dopo la nascita di suo figlio, 470 migranti tentano in massa l’attraversamento della frontiera di Melilla. Una settimana dopo la polizia marocchina, di notte, sfonda la porta del loro appartamento e li arresta. “Abbiamo vissuto mesi nascosti in una foresta. Quando ho scoperto di essere incinta abbiamo trovato una camera in affitto per accudire il bambino, mentre mio marito faceva qualche lavoretto come carrozziere o garzone al mercato”, racconta la donna mentre discute la strategia difensiva con l’avvocato Mbarek Bouirig, che si è fatto carico probono della difesa della famiglia.

    Città del Nord del Marocco come Nador, Tangeri e Fnidaq sono diventate magneti per i candidati all’emigrazione. A migliaia si nascondono nelle foreste in periferia nel timore di essere arrestati, processati o deportati verso il Sud del Regno dove c’è richiesta di manodopera agricola a basso costo.

    L’avvocato, che assiste altri dieci migranti coinvolti in processi simili a Nador, ritiene che l’impianto accusatorio dei pubblici ministeri “risenta dell’influenza della politica migratoria dello Stato”. In altre parole, secondo Bouirig, il processo alla famiglia Dajbo è soltanto uno dei tasselli della strategia del governo, volta scoraggiare i migranti subsahariani non solo dal tentare il passaggio, ma anche dal sostare nelle città frontaliere in attesa della notte giusta per partire in gommone per la Spagna o tentare di oltrepassare il confine terrestre con Melilla. Nel 2023 circa 15mila migranti sono arrivati in Spagna dal Nord del Marocco e altri 35mila si sono diretti alle Canarie partendo dal Sud del Regno: numeri che si avvicinano a quelli degli arrivi in Grecia (43mila) e non erano così cospicui dal 2018, su una rotta che ha fatto più di 950 vittime secondo l’Ong Caminando Fronteras.

    Il 24 giugno 2022, Ange e Alphonse Dajbo si trovavano a Casablanca quando circa duemila migranti, principalmente sudanesi, attaccarono in massa la barriera dell’enclave in quello che è passato alle cronache come “il massacro di Melilla”. La reazione violenta della Guardia Civil spagnola e della Gendarmerie marocchina ha causato la morte di almeno 37 persone, mentre 77 risultano tutt’oggi scomparse.

    Nonostante entrambi i Paesi abbiano aperto dei fascicoli per indagare sulle responsabilità delle autorità, i soli colpevoli a essere individuati dai giudici marocchini sono stati 33 migranti, di cui 18 hanno visto triplicare la pena in appello arrivando a condanne anche di tre anni in carcere. Altri 32 sono tutt’ora in giudizio con l’accusa di appartenere a reti criminali. “A partire da quella data abbiamo riscontrato un aumento dei procedimenti giudiziari a carico dei migranti subsahariani”, spiega Omar Naji, responsabile dell’Association marocaine des droits de l’homme (Amdh).

    Da allora analizza l’attività dei tribunali della regione per la controversa pratica di perseguire le persone in transito come trafficanti, una strategia apparentemente progettata per scoraggiare ulteriori flussi migratori. Benché non sia disponibile nessun dato statistico sui procedimenti aperti nei confronti dei migranti subsahariani, Omar Naji è convinto che i numeri di quella che definisce “repressione giudiziaria delle migrazioni” siano in costante aumento.

    Sono 1.221 i morti registrati nel 2022 lungo la rotta, sia di terra sia di mare, tra il Marocco e l’Unione europea a fronte di 30mila arrivi. Nel 2015 erano decedute 67 persone su 17mila che erano riuscite a raggiungere il territorio europeo. È il tragico costo della “gestione dei flussi” dell’Ue

    “Un processo non lascia cicatrici sul corpo -osserva nel suo ufficio a Nador- ma allarma l’intera comunità con la minaccia della privazione della libertà, una delle poche gioie della vita che resta ai migranti”. Il Marocco è considerato un partner strategico per il controllo dell’immigrazione e la sua collaborazione con l’Ue illustra ciò che potrebbe accadere anche in Tunisia, da dove sono già partiti più di 95mila migranti nel 2023. Anche se i numeri dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) non distinguono tra i morti via mare lungo la rotta delle Isole Canarie e quelli lungo la frontiera terrestre con Ceuta e Melilla, secondo l’Amdh i dati restano indicativi del fatto che ci sia una correlazione tra l’aumento dei fondi europei e l’aumento delle persone che muoiono.

    “Addobbato con la retorica del voler salvare vite umane e del combattere le reti criminali, il denaro europeo ha reso il passaggio più remunerativo per i trafficanti e più rischioso per i migranti”, spiega Omar Naji, che sottolinea anche come il Marocco renda più o meno porose le sue frontiere per rinforzare la propria posizione nello scacchiere diplomatico. A fronte di 234 milioni di euro stanziati dal 2015, di cui quasi quattro quinti spesi per la gestione dei confini, e di ulteriori 500 milioni fino al 2027, il numero dei migranti che hanno perso la vita nel tragitto dal Marocco all’Europa è salito vertiginosamente: da 67 morti su circa 17mila arrivi nel 2015, a 1.221 su 30mila nel 2022.

    L’Europa riconosce il Marocco come un “Paese sicuro”, ma poche persone più di Aboubacar Wann Diallo sanno che la realtà è più ombreggiata delle categorie del diritto. Esce dalla prigione di Nador dopo aver visitato uno dei sopravvissuti alla strage del 24 giugno, oggi in galera. “Come sta?”, crepita una voce all’altro capo del telefono, in Sudan. “Abdallah è triste, ma sta bene. Vi manda un abbraccio”, risponde Aboubacar alla madre del condannato.

    Dopo esser fuggito dalle persecuzioni politiche nel suo Paese, il guineano laureato in giurisprudenza è arrivato in Marocco nel 2013 dove oggi lavora per un’associazione locale: accompagna i migranti di passaggio nella regione, ma soprattutto trascorre le sue giornate tra l’obitorio, il tribunale e il carcere, occupato nel reperire informazioni sui migranti arrestati e nel riconoscimento dei morti in mare o alla frontiera terrestre. “Cerco di restare professionale -spiega-. Ma vacillo quando ascolto la voce in pena della madre di un fratello condannato ingiustamente o deceduto”.

    Racconta che i pubblici ministeri richiedono condanne dure per i migranti, a volte senza conoscere il dossier: “Sembra che ci sia una volontà politica di mandare un messaggio alla comunità nera: se attraversate, andate in prigione”. Aboubacar è diventato una figura rispettata in città e ha saputo costruire stretti legami con le autorità politiche, giudiziarie e di pubblica sicurezza di Nador, superando le discriminazioni quotidiane contro i neri subsahariani. Ma non tutti hanno la stessa fortuna.

    A Oujda, città frontaliera con l’Algeria a circa due ore di macchina da Nador, due famiglie di quattro persone della Costa d’Avorio vivono in un appartamento di trenta metri quadrati in un quartiere periferico. Ritenendo la rotta marocchina troppo rischiosa, stanno preparando le valige per attraversare l’Algeria e raggiungere l’Europa dalla Tunisia. “Preferiamo attraversare il deserto piuttosto che essere obbligati a vivere nascosti per paura di finire in galera”, afferma Karen Jospeh, trentacinquenne camerunense. Come loro, secondo un volontario locale di Alarm Phone, circa 200 persone al giorno stanno facendo la stessa scelta.

    https://altreconomia.it/i-processi-farsa-che-in-marocco-trasformano-i-migranti-in-trafficanti

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  • Il saccheggio ambientale e culturale del Treno Maya in Messico

    Una rete ferroviaria di oltre 1.500 chilometri permetterà ai turisti di viaggiare tra le città coloniali della Penisola dello Yucatán, i siti archeologici e le spiagge caraibiche. Un’opera inquinante che rischia di cancellare tradizioni millenarie.

    Lo speleologo Hoppenheimer camminava lungo il tracciato del Treno Maya quando si è accorto che, a un passo dai piloni che ne sosterranno il viadotto, c’era una caverna sotterranea. I colleghi l’hanno presto battezzata con il suo soprannome, motivato dalla somiglianza con l’attore del film. La caverna “Oppenheimer”, che si trova nello Stato del Quintana Roo, fra le città di Playa del Carmen e Tulum, è una delle migliaia di “porte” di accesso all’intricato sistema di canali che si trova sotto la penisola dello Yucatán: una rete sotterranea lunga 1.800 chilometri che costituisce una delle falde acquifere più grandi del mondo e, per la cultura maya, rappresenta l’inframundo, il luogo dove camminano i morti.

    Si tratta di un sistema che ha una composizione geologica carsica e per questo è soggetto a crolli e collassi. “In alcuni punti il tetto della caverna Oppenheimer ha ceduto a causa delle vibrazioni dei lavori di costruzione del Treno Maya, che ha impattato più di centoventi cenotes (grotte con acqua dolce, ndr) e caverne -spiega Guillermo D. Christy, membro del collettivo Cenotes Urbanos-. È un progetto improvvisato, i lavori sono iniziati senza lo studio di impatto ambientale e non ne è stato neanche fatto uno di meccanica del suolo che dimostri la capacità del terreno di reggere un’opera così imponente”.

    È sopra questo fragile sistema di canali sotterranei che si sta costruendo il Treno Maya: una rete ferroviaria di più di 1.500 chilometri che permetterà ai turisti di viaggiare tra le città coloniali della penisola dello Yucatán, tra le sue lagune e i cenotes, di visitare i siti archeologici maya e le spiagge caraibiche. Si tratta del megaprogetto “preferito” dal presidente messicano Andrés Manuel López Obrador, il quale ha assicurato che verrà interamente inaugurato entro la fine di febbraio 2024 e ha promesso di portare il Sud-Est del Messico fuori dalla povertà grazie alla crescita del turismo. Per questo, buona parte della popolazione è a favore dell’opera, anche se le voci critiche si fanno sentire.

    Il governo non ne parla molto ma, in realtà, il Treno Maya non è solo un treno turistico. Sui suoi binari correranno anche vagoni merci che nella città di Palenque, in Chiapas, si connetteranno a un’altra grande opera promossa dall’amministrazione di López Obrador: il Treno Transistmico, che unirà i due oceani (Atlantico e Pacifico) nel punto più stretto del Messico e si presenterà come un’alternativa al Canale di Panama. “Sono treni neoliberali al servizio dell’agricoltura industriale e funzionale al saccheggio delle risorse naturali presenti nei nostri territori maya ancestrali”, dice Sara López González del Consejo regional indígena y popular de xpujil (Crip).

    “Nemmeno un albero verrà abbattuto per costruire il Treno Maya”, ha dichiarato il presidente López Obrador prima dell’inizio dei lavori. In verità, ne sono stati abbattuti circa dieci milioni, soprattutto per costruire il tracciato delle tratte cinque e sei, che corrono parallele alla costa del Mar dei Caraibi e alla strada che collega Cancún a Chetumal. Secondo il biologo Omar Irám Martínez Castillo dell’associazione locale U’yoolche, nello spazio tra la strada e il tracciato della tratta sei, che è protetto da un recinto, si è formata una “terra di nessuno” in cui sono rimaste intrappolate delle scimmie. “La frammentazione dell’habitat mi preoccupa più della deforestazione -spiega il biologo- il treno divide in due la selva yucateca e per gli animali che ci vivono, stiamo parlando di giaguari, tapiri, scimmie e molte altre specie, sarà complicato avere una comunicazione che permetta di evitare l’endogamia e favorire la diversità genetica”.

    Un’altra preoccupazione delle organizzazioni che difendono il territorio, alcune delle quali sono indigene, è che molti cenotes sono stati riempiti di cemento per permettere ai binari del treno di passarci sopra. Questo crea un problema ecologico a tutto il sistema di canali sotterranei, che sono interconnessi e rappresentano l’unica fonte di acqua potabile per milioni di persone. Inoltre, questo sistema drena nel Mar dei Caraibi e inquinerà quindi anche le sue acque, con effetti devastanti per la barriera corallina, i pesci e tutto l’ecosistema connesso. “Il mare caraibico cristallino che si vede nelle foto esposte nelle agenzie di viaggi dipende da un equilibrio che ha radici nella selva yucateca, nelle caverne e nei fiumi sotterranei”, dice Miriam Moreno del collettivo SOS Cenotes e della Red de resistencias sur sureste en defensa de la vida y los territorios Utsil Kuxtal. In altre parole, l’industria del turismo di questa regione dipende in buona parte dalla salute dell’ecosistema.

    Secondo Ángel Sulub Santos del Centro comunitario u kúuchil k ch’i’ibalo’on, il Treno Maya è il secondo megaprogetto che è stato impiantato nella penisola dello Yucatán. Il primo è stato la città di Cancún, fondata nel 1974 a servizio del turismo di massa, concetto intorno al quale è stata creata l’identità culturale della regione dove, anche nelle scuole, viene presentato come fattore di sviluppo economico e sociale. Prima del 1974 Cancún, che oggi ha quasi un milione di abitanti e spiagge costellate da grattacieli di lusso, era un villaggio di pescatori. In tutto il Quintana Roo la crescita della popolazione negli ultimi decenni è stata velocissima: solo tra il 2010 e il 2020, i suoi abitanti sono aumentati di più del 40%.

    Il popolo indigeno maya ha lavorato al servizio di questa espansione, di cui i principali beneficiari sono le grandi corporazioni turistiche che hanno visto nella costa caraibica messicana la gallina dalle uova d’oro. I maya hanno abbandonato l’agricoltura, la pesca e il loro stile di vita millenario per essere impiegati come camerieri, facchini o nel settore delle pulizie. Intanto, la loro cultura viene “venduta” sotto forma di souvenirs o di balli tradizionali messi in scena nei ristoranti per turisti.

    Secondo l’artista maya Marcelo Jiménez Santos, il turismo ha “saccheggiato culturalmente” il suo popolo. “Parlano di Treno Maya e Riviera Maya, ma la comunità maya è invitata a partecipare a questi progetti solo come manodopera a basso costo. Vengono promossi i popoli precolombiani e le loro vestigia come dei prodotti turistici in vendita, ma il popolo maya che tuttora vive nella Penisola dello Yucatán non viene minimamente considerato”, dice Jiménez Santos. “Tuttavia, non credo che la nostra cultura maya sparirà; ha capacità di reazione, come è stato dimostrato in 500 anni di tentativi di sterminio”.

    L’esercito messicano ha costruito buona parte del tracciato ferroviario. I militari hanno anche il compito di amministrare il treno e di incassare i suoi introiti, di gestire sei hotel di lusso che sono stati costruiti nei pressi delle stazioni e alcuni aeroporti. La Penisola dello Yucatán è stata quindi militarizzata, con grande preoccupazione di parte dei suoi abitanti, visto che le statistiche mostrano che la presenza dei soldati porta un aumento delle denunce di violazione ai diritti umani. “I militari ora pattugliano con le armi in vista anche Bacalar, malgrado non esistano particolari problemi di sicurezza -racconta Aldair T’uut’, membro dell’Asamblea de defensores del territorio maya múuch’ xíinbal-. Godono di totale impunità, non solo quando violano i diritti umani, ma anche quando distruggono l’ambiente: stanno tagliando le mangrovie, deforestando la selva e cementificando cenotes, ma non riceveranno nessuna sanzione per questo”.

    Come in altre cittadine della regione, a Bacalar una delle maggiori preoccupazioni riguarda l’assenza di impianti di depurazione e di un adeguato sistema di trattamento dei rifiuti. L’espansione turistica, che nei dieci anni prima della pandemia è stata del 800%, ha già cambiato il tono delle acque della sua laguna, che è sempre più verde e marrone. Da villaggetto, Bacalar è diventato paese e la riviera della laguna è stata quasi totalmente privatizzata. Ai suoi abitanti, che lavorano in gran parte nel settore turistico, sono rimasti solo un paio di moli da cui nel fine settimana si possono tuffare.

    https://altreconomia.it/il-saccheggio-ambientale-e-culturale-del-treno-maya-in-messico

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  • « On a désappris aux gens à faire durer les choses »

    Prendre soin des choses relève d’une activité souvent peu visible : la maintenance. Au nom de la croissance, cette pratique a été refoulée, racontent les sociologues Denis Pontille et Jérôme Denis.

    Réparer, recoudre, huiler, nettoyer, mettre à jour, aiguiser, inspecter… Toutes ces actions consistent à tenter de faire durer les objets avec lesquels nous vivons, de notre pull préféré aux aiguillages d’une ligne TGV. Toutes font partie d’un « art de la maintenance », remis sur le devant de la scène par les sociologues Jérôme Denis et David Pontille, rattachés au Centre de sociologie de l’innovation, dans leur ouvrage Le soin des choses, politique de la maintenance (éd. La Découverte). Ils nous invitent à repenser la relation au monde matériel qui nous entoure.

    Reporterre — Vous écrivez que « faire durer les choses est une opération presque subversive ». Pourquoi ?

    Jérôme Denis — Dans les configurations particulières que sont les pays riches et les zones riches de ces pays, une certaine forme de capitalisme s’est constituée autour d’une durée de vie restreinte des choses et d’une hyperconsommation. Face à cela, la maintenance, faire durer des choses, est une opération qui n’est pas révolutionnaire, mais qui met un grain de sable dans la machine.

    C’est différent de la réparation. Pourquoi ?

    David Pontille — La réparation est incluse dans la maintenance. Mais la réparation met en scène des héros et des héroïnes, des gens qui viennent « sauver » la situation, ou le monde, de la rupture, de la casse,de la panne, du désastre. Ils remettent la situation en ordre. Au contraire, la maintenance, ce sont des gestes pratiqués en continu, et c’est potentiellement tout le monde. Il n’y a pas de figures spécifiques qui viennent créer l’événement.

    À quel moment la maintenance a-t-elle été reléguée en arrière-plan ?

    Jérôme Denis — A un moment, dans les pays riches, s’est construit une lutte très explicite contre certaines pratiques de maintenance et de réparation ordinaire, quotidienne. Elles étaient populaires, domestiques ou à l’usine, en grande partie faites par les femmes. De l’économie, au sens « être économe ». Au tournant du XXᵉ siècle, un modèle économique s’est constitué contre ces pratiques. Il ne fallait pas que les gens fassent durer ce qu’ils consommaient. Il fallait qu’ils désapprennent, presque, à faire durer les choses. C’est allé jusqu’à des formes de stigmatisation publique. Des campagnes de communication aux États-Unis prétendaient qu’il était antinationaliste de faire des économies de bouts de chandelle, qu’il fallait absolument acheter parce que c’est un acte héroïque et patriotique.

    « Les personnes qui pratiquent la maintenance doivent produire leur invisibilité, comme les femmes de ménage dans les bureaux »

    Cela va avec l’invention du jetable. On n’est plus responsables, on n’a plus le fardeau de s’occuper de ce que l’on achète, d’y prêter attention. Après, il faut être très précis et ne pas oublier qu’aujourd’hui, dans n’importe quel quartier populaire, campagne, et dans pas mal de maisonnées, on trouve des traces de gens qui savent faire et font quand même, notamment parce qu’ils ne peuvent pas faire autrement. Et on ne parle pas évidemment des pays du Sud.

    Pourquoi la maintenance a-t-elle été — au moins dans certains domaines — invisibilisée ?

    David Pontille — Au cœur de l’acte de maintenance, il y a l’idée de faire durer. Cela va à l’inverse des grands récits sur l’innovation, où il faut faire de la disruption, du nouveau, du créatif. Il y a aujourd’hui une survalorisation de l’acte créateur par rapport à l’acte reproducteur, de faire durer, de simplement poursuivre ce qui est déjà là. Cela va jusque dans la comptabilité, où c’est l’investissement qui est valorisé, qui crée la valeur, alors que les frais de fonctionnement sont considérés comme moins importants.

    Quelles conséquences sociales cela a-t-il sur ceux dont la maintenance est le métier ?

    Jérôme Denis — Une grande partie des activités de maintenance sont mal reconnues. Les personnes qui la pratiquent doivent produire leur invisibilité, comme les femmes de ménage dans les bureaux. Il y a des conséquences sur la reconnaissance de leur expertise, ce qui pose tout simplement des questions de rémunération. Comme on ne sait pas ce que rapporte la maintenance — c’est ce que disait Denis sur la comptabilité — on a du mal à la payer correctement.

    « Il faut prendre en compte le fait que si cette machine fonctionne bien, c’est grâce à des personnes qui l’entretiennent »

    La deuxième conséquence est que, comme à peu près n’importe quel travail productif, physique, la maintenance use. Il y a des troubles musculo-squelettiques, des expositions à des produits dangereux. Il faut prendre en compte le fait que si cette machine fonctionne bien dans cette usine, si cette infrastructure tient, c’est grâce à des personnes qui l’entretiennent. Et se demander quel est le coût financier et humain des travailleurs et travailleuses impliqués dans la maintenance.

    Quels sont les enjeux communs aux travailleuses du soin aux personnes et aux travailleurs de la maintenance ?

    Jérôme Denis — C’est le rapprochement que fait Mierle Laderman Ukeles [artiste américaine née en 1939, connue pour ses œuvres mettant en scène les tâches de maintenance et de nettoyage], qui est en couverture du livre. Cette artiste conceptuelle fait une connexion entre ce qu’elle fait à la maison et le travail des éboueurs de New York. Dans son Manifeste pour l’art de la maintenance, le care [soin] est un mot très important.

    « Le soin des choses et des personnes remet en cause le mythe de l’autonomie »

    Que ce soit pour le soin des personnes ou des choses, la fragilité est le point de départ, la condition commune. Les gens qui prennent soin des personnes sont des gens qui considèrent qu’il n’y a pas un état sain, puis des écarts à cet état sain. Tout le monde a des formes de vulnérabilité. Cela retourne l’idée du normal, de l’ordre : les mainteneurs et les mainteneuses prennent également la fragilité comme point de départ.

    L’autre point commun est la part d’invisibilité de ces personnes. Les deux activités — soin des choses et des personnes — remettent aussi en cause le mythe de l’autonomie, cette figure très libérale de l’individu qui fait ses choix en toute responsabilité, seul. Les théories féministes du soin redéfinissent l’autonomie et assument l’interdépendance, le fait qu’on a toujours besoin, à un moment donné dans notre vie, d’être pris en charge par d’autres.

    Et le dernier point commun, c’est l’ambivalence de ces activités et les jeux de pouvoir qui s’y jouent. Prendre soin, c’est potentiellement imposer des manières de faire. Qui prend soin de qui ? Jusqu’où ? Qui peut se permettre de ne jamais prendre soin et d’être insouciant ?

    Prendre soin des choses et des personnes peut-il nous apprendre à prendre soin de la nature ?

    Jérôme Denis — Oui, parce que les humains habitent le monde avec des choses. Dans le livre, on utilise les termes de « tact » et de « diplomatie matérielle », car quand on prend soin des choses, il y a cette idée de négociation. Jusqu’où peut-on se permettre d’aller pour faire durer, préserver, conserver, restaurer, entretenir ? C’est une question éminemment politique, mais aussi très philosophique. Et centrale dans la préservation environnementale.

    « Il faut se débarrasser du mythe de l’équilibre, de l’idée que les choses vont revenir à un état stable »

    Pour y répondre, on peut s’inspirer des formes de maintenance que l’on appelle modestes, qui assument qu’il faut faire, qu’il ne faut pas disparaître, mais qu’il ne faut pas être trop brutal. La conservation patrimoniale des monuments historiques est un excellent exemple. Alors que le modèle de Viollet-le-Duc était très immodeste, qu’il assumait des grandes transformations pour revenir à l’état « original » d’un monument, la profession s’est organisée depuis quelques années à l’échelle internationale autour du principe « d’intervention minimale » qui assume qu’il y a bien des interventions nécessaires pour la conservation, mais qui insiste aussi sur la nécessité de rester parcimonieux. Cela produit un rapport à l’environnement qui ressemble plus à ce que propose Aldo Leopold [1887-1948, considéré comme l’un des pères de la protection de l’environnement aux États-Unis], c’est-à-dire à une sorte de partenariat. Les humains sont à l’intérieur des écosystèmes, en essayant d’être le moins nuisibles possible, au nom d’une communauté de vie sur Terre.

    Et puis, on peut avoir tendance à imaginer que la maintenance ou le soin sont un statu quo. Certaines formes de maintenance essayent de fabriquer une immobilité. Ce que l’on montre, c’est que pour y arriver, il faut accepter les transformations. C’est typique de la signalétique du métro, que nous avons étudiée. C’est un dispositif destiné à être toujours présent, toujours en bon état. Pour assurer cela, il faut accepter d’en remplacer régulièrement des composants. Il y a là aussi une connexion avec la question de conservation environnementale. Il faut se débarrasser du mythe de l’équilibre, de l’idée que les choses vont revenir à un état stable, une fixité.

    https://reporterre.net/On-a-desappris-aux-gens-a-faire-durer-les-choses
    #objets #réparation #maintenance #capitalisme #consumérisme #hyperconsommation #économie #jetable #innovation #faire_durer #création #production #reproduction #investissement #fragilité #tact #diplomatie_matérielle #négociation

    • Le soin des choses. Politiques de la maintenance

      Qu’ont en commun une chaudière, une voiture, un panneau de signalétique, un smartphone, une cathédrale, une œuvre d’art, un satellite, un lave-linge, un pont, une horloge, un serveur informatique, le corps d’un illustre homme d’État, un tracteur ? Presque rien, si ce n’est qu’aucune de ces choses, petite ou grande, précieuse ou banale, ne perdure sans une forme d’entretien. Tout objet s’use, se dégrade, finit par se casser, voire par disparaître. Pour autant, mesure-t-on bien l’importance de la maintenance ? Contrepoint de l’obsession contemporaine pour l’innovation, moins spectaculaire que l’acte singulier de la réparation, cet art délicat de faire durer les choses n’est que très rarement porté à notre attention.
      Ce livre est une invitation à décentrer le regard en mettant au premier plan la maintenance et celles et ceux qui l’accomplissent. En suivant le fil de différentes histoires, ses auteurs décrivent les subtilités du « soin des choses » pour en souligner les enjeux éthiques et la portée politique. Parce que s’y cultive une attention sensible à la fragilité et que s’y invente au jour le jour une diplomatie matérielle qui résiste au rythme effréné de l’obsolescence programmée et de la surconsommation, la maintenance dessine les contours d’un monde à l’écart des prétentions de la toute-puissance des humains et de l’autonomie technologique. Un monde où se déploient des formes d’attachement aux choses bien moins triviales que l’on pourrait l’imaginer.

      https://www.editionsladecouverte.fr/le_soin_des_choses-9782348064838
      #livre

  • « L’algorithme de la #CAF conduit à un surcontrôle des populations les plus précaires » | Alternatives Economiques
    https://www.alternatives-economiques.fr/lalgorithme-de-caf-conduit-a-un-surcontrole-populations-plus-pr/00109069

    Fin novembre et début décembre, l’association La Quadrature du Net et le journal Le Monde ont chacun fait paraître une enquête sur l’utilisation du data mining (l’exploration de données) par les caisses d’allocations familiales (CAF), pour détecter les indus et les fraudes. Les deux enquêtes montrent que ce système, qui permet de scanner des milliers de données de 32 millions de personnes (les allocataires et leurs proches) et sur la base duquel sont déclenchés les contrôles, cible les plus pauvres, notamment les mères isolées.

    L’algorithme utilisé attribue un score de risque aux allocataires allant de 0 à 1. Plus on est proche de 1, plus on est exposé à la probabilité d’un contrôle. Parmi les critères pénalisants, le fait d’avoir changé de loyer plus de quatre fois en un an et demi, d’avoir un enfant à charge de 19 ans ou plus, ou encore de déclarer chaque trimestre ses ressources pour percevoir l’allocation adulte handicapé (AAH).

    • on sait _qui_ à pondu ledit algorithme, sur ordre de qui, et selon les specification de qui ? ou c’est secret défense ? (voire, secret défonce)

    • #Notation des allocataires : fébrile, la CAF s’enferme dans l’#opacité

      Alors que la contestation monte (voir ici, ici, ici ou ici) concernant son algorithme de notation des allocataires à des fins de #contrôle_social, la CAF choisit de se réfugier dans l’opacité tout en adaptant, maladroitement, sa politique de communication. Suite à son refus de communiquer le code source de son algorithme, nous avons saisi la Commission d’Accès aux Documents Administratifs (CADA).

      Comme nous l’expliquions ici, la CAF utilise depuis 2012 un algorithme de #profilage attribuant à chaque allocataire une note ou « #score_de_risque ». Construite à partir des centaines de données dont la CAF dispose sur chaque allocataire, cette note est ensuite utilisée pour sélectionner celles et ceux qui seront contrôlé·es.

      Cet algorithme symbolise l’étendue des #dérives de l’utilisation des outils numériques au service de politiques de contrôle social portées par des logiques policières de suspicion généralisée, de #tri et d’#évaluation continue de chacun de nos faits et gestes.

      Ici, comme c’est généralement le cas par ailleurs, ce tri cible les plus précaires. Les rares informations disponibles à ce sujet laissent apparaître que parmi les critères dégradant la note d’un·e allocataire, et augmentant ses chances d’être contrôlé·e, on trouve pêle-mêle : le fait de disposer de faibles revenus, d’habiter dans un quartier défavorisé, d’être une mère célibataire ou encore d’être né·e hors de France.

      Pour en avoir le coeur net, nous avons donc demandé à la CAF de nous communiquer le #code source de son algorithme1. Et sa réponse est affligeante2.

      Sortir de la précarité pour “tromper l’algorithme”

      Si la CAF a bien accepté de nous communiquer le code de l’algorithme… ce n’est qu’après avoir masqué la quasi-totalité des noms des variables comme on peut le voir sur l’illustration de cet article, qui est une photo de ce que la CAF nous a répondu.

      En d’autres termes, le fichier fourni nous permet simplement d’apprendre combien de #critères sont utilisés pour le calcul de la note des allocataires. Rien de plus. Ce qui n’empêche pas la CAF de préciser dans son courrier qu’elle espère que sa communication nous « permettra de comprendre le modèle »3.

      Les responsables de la CAF ont toutefois tenu à justifier le caviardage du fichier. Ces dernier·es précisent que le #code_source a été « expurgé des mentions qui, si elles étaient communiquées, pourraient donner des indications aux fraudeurs pour tromper l’algorithme »4. Et pour être tout à fait honnête, nous n’étions pas préparé·es à cette réponse.

      La CAF croit-elle vraiment que les critères liés à la #précarité (situation professionnelle instable, faibles revenus, logement situé dans un quartier défavorisé…) pourraient être modifiés par la seule volonté de l’allocataire ? Qu’afin d’augmenter leur note et de « flouer » l’algorithme, des millions d’allocataires pourraient décider, d’un coup, de sortir de la pauvreté ?

      Ce raisonnement frise l’#absurdité. A vrai dire, il est méprisant et insultant pour celles et ceux vivant des situations difficiles.

      Pire, le secrétaire général de la CAF entretient publiquement la confusion entre #fraudes et #erreurs de déclarations involontaires, prenant ainsi le risque de stigmatiser les personnes ciblées par l’algorithme, et ce, dans le seul but de justifier l’opacité de son institution.

      En réponse à un journaliste de Radio France5 l’interrogeant sur la réponse de la CAF à notre demande, il l’expliquait en disant qu’« il y a un certain nombre de données dont on pense que, si elles sont connues, peuvent nourrir des stratégies de contournement de personnes dont le but c’est de frauder le système ». Et d’ajouter : « Il faut que l’on ait un coup d’avance ».

      Faut-il donc lui rappeler que l’algorithme de la CAF n’est pas entraîné à détecter les fraudes mais les erreurs de déclaration, par définition involontaires6. Et que sa réponse pourrait donc être reformulée ainsi : « Nous ne communiquerons pas le code de l’algorithme de peur que les allocataires arrêtent de faire des erreurs ».

      De notre point de vue, cette réponse révèle l’ampleur de l’embarras des responsables de la CAF vis-à-vis de leur algorithme. Ils et elles ont peut-être en tête le scandale entourant un algorithme, en tout point similaire, de notation des allocataires ayant été utilisé aux Pays-Bas et dont les suites ont amené à la démission du gouvernement7 ?

      #Déni_de_justice

      Pire, cette opacité est aussi appliquée, à l’échelle individuelle, aux allocataires ayant été séléctionné·es par l’algorithme pour être controlé·es et qui chercheraient à obtenir des informations sur la raison de ce contrôle. Et ce, alors même que la loi prévoit que tout individu ayant fait l’objet d’une décision prise sur le fondement d’un traitement algorithmique (ici le fait d’être contrôlé) a le droit de connaître les données utilisées ainsi que les #paramètres de cet algorithme8. Ce qui signifie que les personnes ayant fait l’objet d’un contrôle9 sont censées avoir un droit d’accès plus étendu qu’une association comme la Quadrature.

      Nous avons pu consulter la réponse à la demande d’informations réalisée par une personne ayant été contrôlée sur la base de sa note. Le courrier, signé par le délégué à la protection des données de la CNAF, se contente de renvoyer l’allocataire à la page “Internet et Libertés” de la CAF.

      Sur cette page sont présents deux documents relatifs à l’algorithme de notation : un communiqué de la CAF et l’avis de la CNIL associé10. Aucun ne fournit d’informations sur les paramètres utilisés par l’algorithme, ni sur leur impact sur le score de risque.

      Cette réponse est un déni de justice pour celles et ceux ayant fait l’objet d’un contrôle déclenché algorithmiquement, l’opacité entretenue par la CAF les empếchant de contester juridiquement le bien-fondé du contrôle dont ielles ont fait l’objet.
      La discrimination : un savoir-faire à protéger

      Nous avions aussi demandé la liste des variables utilisées pour l’entraînement du modèle, c’est à dire sa phase de création. Cette question est importante car elle permet de comprendre l’étendue des données utilisées par l’algorithme. Et donc le degré d’intrusion dans la vie privée des allocataires que la construction d’un tel modèle nécessite.

      En effet, en mettant régulièrement en avant dans sa communication que son algorithme n’utilise « que » quelques dizaines de variables11, la CAF fait mine d’ignorer qu’elles sont le fruit d’une sélection qui nécessite l’analyse d’un nombre bien plus grand de variables au préalable12.

      Et la justification apportée par les responsables de la CAF est, là aussi, déconcertante. Ces dernier·es avancent que la communication de ces variables n’est pas possible car elles constituent un « savoir-faire »13. La CAF souhaiterait-elle monétiser son algorithme et le revendre à d’autres administrations ? Penserait-elle pouvoir équiper les équipes de contrôleurs.ses des institutions sociales du monde entier de son algorithme assimilant les plus précaires à de potentiel·le·s fraudeurs ou fraudeuses ?

      A défaut de réponse, nous nous en remettons à ce que, techniquement, tout·e data-scientist ferait pour entraîner un modèle le plus « précis » possible. Il suffirait de partir de l’intégralité des variables à sa disposition et, par itérations successives, décider lesquelles garder pour le modèle final. Dans cette hypothèse, ce serait alors la quasi-totalité des variables détenues par la CAF sur chaque allocataire qui serait utilisée pour l’entraînement de son modèle.

      Ceci serait cohérent avec un document publié en 2013 dans lequel un statisticien de la CAF que « les statisticiens chargés de la modélisation disposaient d’environ un millier d’informations par allocataire contrôlé » et que « la base d’apprentissage contient toutes les données habituelles des fichiers statistiques »14.
      Vingt ans de développement… et aucun compte-rendu de réunions

      Quant à notre demande relative aux documents internes (notes, comptes-rendus, échanges…) concernant le développement de l’algorithme, la CAF nous a tout simplement répondu qu’en presque 20 ans de travail aucune réunion technique n’a fait l’objet de compte-rendu…15

      Pour être tout à fait honnête, c’est une première dans l’histoire de nos demandes CADA.
      Le retour de l’alibi technique

      A ceci s’ajoute, depuis le début de l’année, la mise en place de ce qui apparaît comme une véritable communication de crise par l’institution autour de son algorithme. En juin 2022, la CAF a notamment publié un communiqué intitulé « Contrôle et datamining » dans lequel elle tente de répondre aux critiques soulevées par son algorithme16.

      A sa lecture, on prend toute la mesure du rôle d’alibi technique à une politique de contrôle discriminatoire que joue l’algorithme, ce que nous dénoncions déjà ici.

      L’algorithme y est décrit comme étant un objet purement scientifique dont le caractère politique est nié. Il est ainsi expliqué que la note des allocataires est le fruit d’une « démarche scientifique d’étude statistique […] menée par des experts » se fondant sur des critères « scientifiquement pondérés » ayant été sélectionnés « sur seuls critères statistiques ». Le secrétaire général de la CAF ajoute17 de son côté que cet outil serait un « miroir des situations statistiques » servant à identifier des « environnements de risques ».

      Ce faisant, les responsables de la CAF cherchent à nier leur responsabilité (politique) dans la conduite, et la validation, d’une politique de contrôle discriminatoire. Nul part n’apparaît que que si les erreurs se concentrent sur les plus précaires, c’est tout simplement parce qu’au fil des ans se sont multipliées les règles et contraintes encadrant l’accès aux minima sociaux, et ce, dans le seul but de restreindre leur accessibilité18.

      On mesure enfin l’impact des logiques gestionnaires appliquées aux institutions sociales. Logiques réduisant des millions de vies et d’histoires, à de simples notions statistiques, déshumanisantes, froides et vides de sens.
      Communication mensongère

      La deuxième partie du document est consacrée à un « Vrai/Faux » portant sur l’algorithme où transpire la malhonnêteté intellectuelle.

      A l’affirmation « Les scores de risques les plus élevés concernent toujours les plus pauvres », la CAF répond Faux car « les scores de risques sont calculés pour tous les allocataires ». Ce qui n’a tout simplement aucun sens…

      A la question « Les contrôleurs sont payés aux résultats », la CAF répond que ce serait faux, bien qu’elle admette que l’Etat lui fixe bien un objectif à atteindre en termes de détection de fraude. Ici encore, l’institution joue avec les mots. S’il est vrai que les contrôleurs.ses n’ont pas de « prime sur leurs résultats », ils et elles touchent un intéressement, tout comme l’ensemble du personnel de la CAF, dont le montant dépend bien de l’atteinte de ces objectifs de contrôle19.

      A la question « Plus de 1000 données concernant les allocataires sont utilisées dans le modèle de datamining des CAF », la CAF répond que seules une quarantaine seraient utilisées. Elle détourne ainsi la question puisque – comme expliqué ci-dessus – elle omet de dire que ces quarante variables sont sélectionnées après une phase d’entraînement du modèle qui nécessite l’utilisation, et le traitement, de plus de mille variables par allocataire20.

      Enfin, aux questions « Les contrôleurs de la Caf ont accès à toutes les infos qu’ils souhaitent à l’insu des allocataires », et « Les allocations sont suspendues pendant le contrôle », la CAF répond que non car « aucune demande n’est faite à d’autres administrations, sans en avoir averti auparavant l’allocataire, aucune procédure vis-à-vis d’un tiers n’est engagée à l’insu de celui-ci. » Et ajoute que, lors d’un contrôle, « les allocations ne sont pas suspendues ».

      Sur ces deux derniers points, nous vous invitons à lire les témoignages collectés par le Défenseur des Droits, les collectifs « Stop Contrôles », « Changer de Cap » et différentes associations de lutte contre la précarité21 qui alertent depuis des années sur les suspensions abusives d’allocations pendant les contrôles et les pratiques invasives (consultation des comptes bancaires, relevés d’électricité, analyse de l’adresse IP etc…) des contrôleurs·ses de la CAF à l’insu des allocataires.
      Fraude à enjeux et lutte contre le non-recours : des contre-feux médiatiques

      A ceci s’ajoute diverses annonces de la CAF participant à nourrir une stratégie de diversion médiatique autour de son algorithme de notation.

      Dans son dernier rapport annuel sur la « lutte contre la fraude », nulle référence n’est faite à l’algorithme alors que celui-ci était mis à l’honneur, en première page, l’année précédente. La CAF précisant au passage qu’il était loué par la Cour des Comptes et l’Assemblée Nationale.

      A sa place, la CAF a préféré cette année mettre en avant son équipe de contrôleur.ses dédiée à la « lutte contre la fraude à enjeux »22, c’est à dire des fraudes organisées (usurpation d’identités, faux documents, fraude au RIB) à grande échelle. Soit 30 agentes et agents qui d’après les dires de la CAF sont, ni plus ni moins, chargé·es de « protéger le système de sécurité sociale français des risques de pillage » et qui font rentrer la CAF dans « une nouvelle dimension de la lutte contre la fraude »23.

      A titre de comparaison, nous tenons à rappeler que ce sont pas moins de 700 contrôleuses et contrôleurs qui, guidé·es par son algorithme discriminatoire, sont chargé·es de traquer les moindre erreurs de déclaration faites par les plus précaires.

      Deuxième angle d’attaque : la mise en avant de l’utilisation d’algorithmes de profilage à des fins de lutte contre le non-recours24. Comme si l’application des techniques de profilage à des fins « positives » pouvait justifier leur application à des fins répressives. Sur ce sujet, la CAF omet pourtant de dire le plus important : depuis maintenant plus de 10 ans, elle a systématiquement favorisé l’application de ces techniques à des fins de contrôle plutôt que de lutte contre le non-recours.

      Ses équipes de « data-scientist » regrettaient dès 2013 que les techniques de profilage des allocataires soient uniquement utilisées à des fins de contrôle et non de lutte contre le non recours25. Cette réalité est rappelée dans un rapport de l’Assemblée Nationale daté de 2016 qui précise que « l’extension explicite de l’usage du data mining à d’autres fins, notamment celle de lutte contre le non-recours, était envisageable dès l’origine, mais cette possibilité a été écartée, au moins dans les premières années d’utilisation de cet outil »26. Il aura fallu attendre 2017 pour que la CAF commence à mener des expérimentations, et il semblerait qu’aujourd’hui le profilage contre le non-recours est limité à la prime d’activité et l’allocation de soutien familial27.

      Le sociologue Vincent Dubois ajoute que cette situation « interroge sur la réalité des slogans institutionnels “tous les droits rien que les droits” qui en fait est beaucoup plus tournée vers l’identification des indus, frauduleux ou non, que vers les cas de non-recours qui sont en fait beaucoup plus nombreux »28.

      En tout état de cause, l’histoire politique de l’utilisation par la CAF des techniques de profilage à des fins de lutte contre le non-recours ne semble pas très glorieuse.

      Ce dernier point interroge aussi sur le fantasme entretenu autour de l’automatisation de l’état social pour répondre aux problèmes sociaux. A l’heure où le gouvernement lance l’expérimentation d’un « RSA sous conditions », la mise en avant de solutions techniques pour lutter contre le non-recours dépolitise la question de l’accès aux droits. Tout en taisant les problèmes que génèrent, pour des millions de personnes, la dématérialisation des services publics.

      Enfin, la CAF a annoncé en grande pompe la nomination d’une médiatrice nationale chargée, entre autres, des questions de données personnelles à la CNAF29 en juin 2022. Parmi ses missions : « la protection des données et de la sécurité des usagers dans le cadre des systèmes d’information. » Et le communiqué accompagnant sa nomination ajoute qu’elle « sera également la référente nationale déontologie ». Nous serions plus que ravi·es d’entendre son avis sur l’algorithme de notation de la CAF.
      Lutter au-delà de la transparence

      La transparence que nous exigeons auprès de la CAF ne doit pas masquer le fond du problème. En un sens, ce que nous savons déjà de l’algorithme de cette institution, sans même avoir eu accès à son code, nous suffit à nous y opposer.

      La transparence n’est donc pas une fin en soi : c’est un moyen que nous souhaitons mobiliser pour mettre en lumière, et critiquer, un discours politique cherchant à légitimer la volonté de contrôle d’un appareil étatique via l’entretien d’un discours de suspicion généralisée et la stigmatisation de certaines catégories de la population.

      Volonté de contrôle qui, hélas, profite aujourd’hui de la puissance des outils numériques et de l’exploitation de nos données personnelles afin de toujours plus nous évaluer et, ainsi, nous trier.

      A l’heure où un nombre toujours plus grand d’institutions, sociales et policières, mettent en place de telles solutions de surveillance algorithmique, nous continuerons de les documenter et de faire ce que nous pouvons, à notre niveau, pour les contrer.

      Au côté des collectifs Stop Contrôles, Changer de Cap et de toutes les associations et collectifs de lutte contre la précarité qui font face, depuis des années, aux dérives du tout numérique et au développement sans limite des politiques de contrôle social, nous espérons que vous serez nombreux.ses à nous rejoindre.

      Enfin, nous ne doutons pas que ce sentiment d’injustice est partagé par la plupart des employé·es de la CAF. C’est pourquoi nous tenons à encourager celles et ceux qui, révolté·es par ces pratiques, pourraient nous aider à les documenter. Vous pouvez nous contacter par mail, téléphone, en venant nous rendre visite ou déposer de manière anonyme des documents sur notre SecureDrop. A l’heure où les responsables de la CAF font le choix de l’opacité, nous avons plus que jamais besoin de vous.

      https://www.laquadrature.net/2022/12/23/notation-des-allocataires-febrile-la-caf-senferme-dans-lopacite
      déjà sur seenthis (via @colporteur) :
      https://seenthis.net/messages/984668

      #algorithme #discrimination #mères_isolées #risque

    • C’est la réponse qui a toujours été faite aux syndicats qui réclament depuis des années les barèmes et algo pour pouvoir contester dans le cadre des TRÈS nombreuses erreurs de calcul.

      « gna gna gna, vous allez tricher ! ».

      Marrant comme on accuse toujours l’autre de ses propres turpitudes.

      Oui, des fois, les gens pourraient refuser une miette de boulot de merde qui va faire sauter tous leurs droits de manière disproportionnée et les foutre encore plus dans la merde. Oui, des fois, les gens pourraient s’organiser pour ne pas se retrouver dans une trappe à contrôle ou une situation encore plus dégradée.

      Oui, t’imagine ? Les gens pourraient juste faire valoir leurs droits si souvent déniés sans même avoir à avancer un début de justification.

      Et ils pourraient se rendre compte que ce n’est pas l’algo, mais bien un agent malintentionné qui a niqué leur dossier.

    • y aurait pas moyen de « retourner » (comme une chaussette) leur truc de la caf ? Genre, une expérience de science participative :-) on pourrait : 1./ demander que le "score" soit communiqué à chaque administré (e.g. via CNIL), 2./ collecter score et infos perso sur la base du volontariat, éventuellement en anonymisant les données, et 3./ faire un modèle « externe » avec ces données, le publier, et enfin 4./ s’en servir pour identifier les cas de non-recours (et au moins les compter)

  • Plus exposés mais aussi plus fragiles, les jeunes enfants des ménages modestes sont les plus affectés par la #pollution_de_l’air

    La Direction de la recherche, des études, de l’évaluation et des statistiques (DREES) publie une étude sur les inégalités de santé chez les jeunes enfants en lien avec la pollution de l’air. Au-delà des différences d’exposition, qui sont en défaveur à la fois des jeunes enfants des ménages les plus aisés et des ménages les plus modestes, il existe de fortes disparités de vulnérabilité vis-à-vis de la pollution de l’air. 10 % des enfants concentrent l’essentiel des effets observables lors d’une augmentation de l’exposition à la pollution de l’air avant leur premier anniversaire, via le recours aux soins en lien avec certaines pathologies respiratoires. Plus souvent dans un moins bon état de santé à la naissance, ils ne sont pas répartis de façon égale sur l’échelle de niveaux de vie des parents : parmi ces enfants les plus affectés, le dixième le plus modeste est 1,6 fois plus représenté que le dixième le plus aisé.

    L’exposition à la pollution de l’air est plus élevée chez les enfants les plus aisés et les plus modestes

    En France métropolitaine, ce sont les jeunes enfants vivant dans les ménages les plus aisés et dans les ménages les plus modestes qui sont les plus exposés à la pollution de l’air due aux particules fines de moins de 2,5 micromètres. D’une part, la pollution atmosphérique se concentre dans les villes, où les plus aisés résident plus souvent. D’autre part, les moins aisés vivent plus souvent, au sein des aires d’attraction des villes, dans les communes les plus polluées : au sein de ces espaces, ce sont les enfants des ménages les plus modestes qui sont les plus exposés du fait de leur localisation (graphique).

    Les enfants modestes, plus fragiles à la naissance et plus souvent hospitalisés en urgence pour asthme et bronchiolite

    Alors que les enfants nés prématurément représentent 9,1 % des naissances parmi les 10 % les plus modestes de la cohorte étudiée, ils représentent 6,1 % des enfants parmi les 10 % les plus aisés. Ainsi, les enfants les plus modestes ont un risque 1,5 fois plus élevé de naître prématurément que les plus aisés. En outre, parmi les enfants nés à terme, les plus modestes nécessitent en moyenne plus de soins lors de leur séjour de naissance. Avant leur troisième anniversaire, 1,4% des enfants sont admis à l’hôpital en urgence pour asthme sur la période étudiée (2008-2017). Cela représente environ 11 000 enfants nés chaque année qui sont touchés avant leur trois ans. En ce qui concerne les enfants les plus modestes, ils sont 1,9 % à être admis à l’hôpital en urgence pour asthme avant leur troisième anniversaire, contre 1,2 % des plus aisés, soit un risque multiplié par 1,6. Concernant les hospitalisations en urgence pour bronchiolite avant le deuxième anniversaire, qui concernent 3,6 % des enfants soit de l’ordre de 28 000 enfants nés chaque année, les différences sont encore plus marquées, avec un risque doublé pour les plus modestes par rapport aux plus aisés (graphique). En revanche, les délivrances de médicaments contre l’asthme en pharmacie de ville, qui concernent un peu plus d’un quart des enfants, sont bien moins fréquentes chez les plus modestes que pour les dixièmes de niveaux de vie intermédiaires à élevés. En l’absence de mesure directe de l’état de santé respiratoire, la consommation des médicaments contre l’asthme peut être interprétée à la fois comme le marqueur d’une pathologie respiratoire, aiguë ou chronique, mais également comme un indicateur de la qualité de sa prise en charge, puisqu’il existe des différences d’accès, de recours et d’observance des traitements.

    Des recours aux soins respiratoires plus fréquents chez les enfants surexposés à la pollution dans leur première année de vie

    La simple comparaison d’enfants plus exposés à la pollution de l’air que les autres de par leur lieu de vie sur des données observationnelles ne permet d’établir qu’une coïncidence entre cette exposition en moyenne sur l’année et le fait d’être traité pour soins respiratoires. Afin de pouvoir donner une interprétation causale aux estimations de l’effet d’une surexposition à la pollution atmosphérique, deux groupes de jeunes enfants sont ici comparés, un groupe « surexposé » et l’autre « sous-exposé » (l’appartenance à chaque groupe n’étant pas déterminé de façon univoque par le lieu de vie). L’assignation des enfants au groupe « fortement exposé » repose sur leur exposition dans leur première année de vie à un nombre plus important de jours avec une inversion thermique qu’habituellement dans leur commune de résidence, phénomène météorologique ayant pour conséquence l’accumulation des polluants atmosphériques, notamment, mais pas seulement, les PM2,5 et donc par une sur-exposition à la pollution de l’air de ces enfants « fortement exposés » (voir précaution méthodologique).

    Sur la période 2008-2017, environ 28 000 enfants de chaque génération sont hospitalisés pour bronchiolite avant leurs deux ans et 11 000 pour asthme avant leurs trois ans. Si l’on pouvait diminuer l’exposition moyenne annuelle aux principaux polluants atmosphérique d’environ 1 % sur la première année de vie, ce qui revient à préserver les enfants de moins de un an d’une quinzaine de jours d’augmentation ponctuelle importante de leur exposition à ces polluants, alors de l’ordre de 2 000 cas hospitalisés de bronchiolites, 1 800 cas hospitalisés d’asthmes et 6 100 prises en charge d’enfants avec des délivrances de médicaments anti-asthmatiques seraient évités.
    Les enfants les plus affectés par un surcroît de pollution de l’air font plus souvent partie des plus modestes

    La vulnérabilité à la pollution de l’air est vraisemblablement variable d’un enfant à l’autre, ce qu’occultent ces comparaisons globales. Concernant les hospitalisations en urgence pour bronchiolite et la délivrance de médicaments contre l’asthme, les effets importants, détectables statistiquement, seraient concentrés dans un groupe représentant 10 % des enfants, le groupe des enfants les plus affectés par la pollution de l’air. Que ce soit en termes d’hospitalisations en urgence pour bronchiolite ou de délivrance de médicaments anti-asthmatiques, les enfants les 10 % les plus affectés présentent plus souvent un état de santé défavorable à la naissance et font également plus souvent partie des plus modestes. Pour ce qui est des hospitalisations pour bronchiolite, ces disparités sont particulièrement marquées : les enfants les plus affectés par un surcroît de pollution de l’air dans leur première année sont avant tout des enfants dont l’état de santé à la naissance est moins favorable : 18,7 % sont nés prématurément, contre 5,9 % parmi les 50 % les moins affectés. Ces enfants appartiennent aussi 1,9 fois plus souvent au dixième de niveau de vie le plus modeste, qui représente 17,4 % des enfants les plus affectés.

    https://drees.solidarites-sante.gouv.fr/publications-communique-de-presse/etudes-et-resultats/plus-exposes-mais-aussi-plus-fragiles-les

    #pollution #pauvreté #air #France #enfants #enfance #inégalités #statistiques #chiffres #santé #inégalités_de_santé #vulnérabilité #pathologies_respiratoires #asthme #bronchiolite #hospitalisation

    • Pollution de l’air : la double peine pour les enfants de familles pauvres

      Un rapport de la Direction de la recherche, des études, de l’évaluation et des statistiques publié jeudi 4 janvier alerte sur les effets de la pollution de l’air sur les enfants. Ceux des familles les plus modestes sont les premières victimes des particules fines.

      LeLe titre de la publication est éloquent. « Plus exposés à la pollution de l’air, les jeunes enfants des ménages modestes, plus fragiles, sont les plus affectés », annonce la dernière étude de la Direction de la recherche, des études, de l’évaluation et des statistiques (Drees) parue le 4 janvier. Le département des études du ministère de la santé met en évidence de « fortes disparités de vulnérabilité » vis-à-vis de la pollution de l’air.

      L’étude se concentre sur les particules fines de moins de 2,5 micromètres de diamètre, dites PM2,5. Celles-ci peuvent être émises directement dans l’air par l’industrie, les transports routiers ou par des sources naturelles comme les feux de forêt. 40 000 décès prématurés par an leur sont imputables, a établi Santé publique France. Sans compter les très nombreuses personnes atteintes de pathologies liées à ces contaminations de l’air.

      En cas de hausse de la pollution, 10 % des enfants concentrent l’essentiel des effets sanitaires observables « avant leur premier anniversaire », notamment par des consultations médicales, en lien avec certaines pathologies respiratoires. Parmi eux, les enfants issus des milieux les plus modestes sont davantage représentés.

      La Drees précise que les jeunes enfants des ménages les plus modestes et ceux des ménages les plus aisés résident dans les grandes aires urbaines en France métropolitaine, précisément là où l’air est le plus pollué. Les plus modestes vivent souvent dans les communes les plus polluées. « 10 % des enfants les plus modestes ont, l’année de leur naissance, une exposition moyenne aux particules fines supérieure de 0,5 microgramme par mètre cube à celle des 10 % d’enfants les plus aisés. »

      Cette étude et ses conclusions précises s’inscrivent dans le sillage d’autres publications et confirment l’ampleur du problème. En 2021, un rapport conjoint du Réseau Action Climat (RAC) et de l’Unicef était consacré au sujet. On pouvait y lire que « les inégalités environnementales entre les enfants commencent dès la conception en période in utero, se cumulent et persistent à la naissance puis pendant l’enfance ».

      Séverine Deguen est chercheuse indépendante sur la question des inégalités environnementales et l’une des autrices du rapport du RAC et de l’Unicef. Elle se réjouit aujourd’hui que ce sujet fasse l’objet d’études spécifiques de la part du ministère de la santé et aimerait que la pollution de l’air soit considérée comme un vrai problème de santé publique.

      La chercheuse n’est pas surprise des conclusions de l’étude et rappelle que les enfants de milieux modestes subissent ce qu’elle nomme « une double peine ». Ils doivent affronter la pauvreté de leurs familles et toutes ses conséquences de privations matérielles, et de surcroît subir des problèmes de santé résultants de leur exposition accrue à la pollution de l’air.

      Et eux n’ont pas d’échappatoire, contrairement aux foyers les plus riches. « Les personnes aisées ont des conditions de vie qui font que leur travail ne les expose pas davantage à des nuisances environnementales. Et elles peuvent y échapper, par exemple partir davantage en vacances », développe-t-elle.

      Les inégalités s’observent en réalité dès la naissance. Les nourrissons dont les parents sont pauvres commencent leur vie en moins bonne santé, sans lien direct avec la pollution, que ceux des milieux favorisés. Ces enfants ont aussi par exemple plus de chance de naître prématurément, ce qui les fragilise davantage face à ces maladies.
      Hospitalisations plus nombreuses

      Ce qui est confirmé par les chiffres des hospitalisations consécutives à des problèmes respiratoires. Chaque année, 11 000 enfants de moins de 3 ans sont hospitalisés pour de l’asthme. Ceux issus des foyers les plus pauvres sont 1,9 % à être admis à l’hôpital en urgence pour cette pathologie respiratoire avant leur troisième anniversaire, contre 1,2 % des plus aisés, « soit un risque multiplié par 1,6 », précise la Drees.

      28 000 enfants de moins de 2 ans sont hospitalisés pour bronchiolite. Là, le risque d’être hospitalisé en urgence avant le deuxième anniversaire est « doublé pour les plus modestes par rapport aux plus aisés ».

      Les enfants de foyers modestes sont aussi vulnérables à la pollution de l’air du fait de certains logements, ajoute la chercheuse. La précarité énergétique subie par certaines familles les conduit à vivre avec de l’humidité ou des moisissures sur les murs et une moindre qualité de l’air intérieur.

      « Souvent, les enfants souffrent davantage d’asthme, de bronchites et d’allergies, souligne Séverine Deguen. En général, ces problèmes restent circonscrits au lieu de vie mais vont venir complètement exploser à la moindre exposition supplémentaire à la pollution de l’air. »

      Réduire la précarité énergétique en rénovant les logements concernés reste un levier efficace et concret, défend encore la chercheuse, pour aplanir ces inégalités de santé et environnementales. Pour la Drees, la réduction de 1 % de l’exposition des enfants à la pollution de l’air pourrait éviter jusqu’à 2 000 cas de bronchiolites et 1 800 cas d’asthme nécessitant une hospitalisation.

      https://www.mediapart.fr/journal/france/050124/pollution-de-l-air-la-double-peine-pour-les-enfants-de-familles-pauvres

    • Les enfants pauvres, premiers à souffrir de la pollution de l’air

      Le ministère de la Santé a publié jeudi 4 janvier une étude révélant les inégalités environnementales qui frappent les enfants les plus modestes en France. Ces derniers sont les plus affectés par la pollution de l’air et cumulent l’ensemble des facteurs de risque : leurs lieux de vie sont plus exposés et situés à proximité des sources de pollutions, leur accès au soin est également dégradé.

      En conséquence, ils sont les premiers à souffrir de la détérioration de la qualité de l’air. Les enfants surexposés ont plus de risques d’être hospitalisés en urgence pour bronchiolite et pour asthme, rappelle l’étude. Plus fragiles à la naissance, les enfants issus de famille modestes sont également les plus enclins à subir des complications respiratoires.
      1 200 enfants morts prématurés en Europe

      Selon les données de l’étude, 10 % des enfants concentrent l’essentiel des effets sanitaires détectables lors d’une hausse de la pollution, et la majorité d’entre eux vivent dans les milieux les plus pauvres. « Ces enfants ne sont pas répartis de façon égale sur l’échelle de niveaux de vie des parents : parmi ces enfants les plus affectés, le dixième le plus modeste est 1,6 fois plus représenté que le dixième le plus aisé », soulignent les auteurs du rapport.

      Au total, 11 000 enfants nés chaque année sont touchés avant leurs 3 ans par de l’asthme et 28 000 enfants sont affectés par une bronchiolite avant le deuxième anniversaire. Les enfants les plus modestes ont 1,6 fois plus de risques d’être touchés par de l’asthme que les plus aisés et 2 fois plus de risques pour la bronchiolite.

      En revanche, les délivrances de médicaments contre l’asthme en pharmacie de ville, qui concernent un peu plus d’un quart des enfants, sont bien moins fréquentes chez les plus modestes que pour les dixièmes de niveaux de vie intermédiaires à élevés.

      En Europe, la pollution de l’air tue chaque année au moins 1 200 enfants et adolescents prématurément.

      https://reporterre.net/Les-enfants-les-plus-pauvres-sont-les-plus-touches-par-la-pollution-de-l

  • UK Migrant GPS Tracking Challenges

    PI filed witness evidence in two cases brought by migrants against their GPS tracking by the UK immigration authorities.

    Privacy International provided witness evidence in two cases (ADL & others v SSHD, and Nelson v SSHD) in support of the Claimants’ claim for judicial review.
    What these cases are about
    ADL & others v Secretary of State for the Home Department

    This case is the first in the UK to get permission before the Administrative Court for judicial review of the Home Office’s GPS tagging of migrants. The Claimants are challenging the decisions of the Secretary of State for the Home Department ("Home Office") to subject them to Electronic Monitoring immigration bail conditions.

    The monitoring is carried out through Global Positioning System ("GPS") ankle trackers. These GPS tracking conditions are highly intrusive surveillance measures. They enable the Home Office to track anyone without immigration status in real time and on a 24/7 basis. The Home Office also states in its Immigration Bail guidance that it will retain the location data generated by the devices for a period of 6 years after they are removed, and may use historical trail data to assess people’s claims to a right to be in the UK on the basis of their right to private and family life.

    The claim challenges the imposition of GPS tracking and the retention of location data on the basis that it fails to comply with Article 8 of the European Convention on Human Rights.
    Nelson v Secretary of State for the Home Department

    This case was brought by Mark Nelson, a car mechanic and father of five. The claim will be heard in the Upper Tribunal. The Claimant is also challenging the imposition of GPS tagging as a disproportionate and unlawful breach of his right to a private and family life under Article 8 of the ECHR. He is further claiming that the government has no lawful authority to require people to wear broken tag (the Claimant’s tag has been malfunctioning for months), amounting to an undemocratic and arbitrary exercise of power.
    What PI argued in its evidence

    PI’s witness evidence in the ADL case demonstrated the particularly invasive nature of GPS technology and the intrusive ways it has been rolled out by the Home Office. It also explained how tracking an individual at all times can reveal highly sensitive data about them including information relating to their sexuality, political opinion, and even their ethnic origin. The evidence highlighted the frequency with which inaccuracies can arise in the location data collected by the devices with reference to research carried out by PI’s technologists. It also underlined the significant consequences inaccurate location data could have for an individual’s immigration proceedings. In these ways, PI’s witness evidence built on the ongoing complaints before the Information Commissioner’s Office and the Forensic Science Regulator, which challenge both the quality of the devices used by the Home Office and their compliance with data protection laws.

    PI’s witness evidence in the Nelson case similarly explained the the GPS tags’ functioning and data collection relying on the research conducted by PI’s technologists, and exposed data reliability concerns. It also questioned the Home Office’s explanation of the malfunctioning of the Claimant’s tag.
    Case updates

    On 28 March 2023 the ADL & others claim was granted permission to proceed to a final hearing by the Administrative Court.

    The Nelson case is listed to be heard on 10 and 13 November 2023 in the Upper Tribunal.

    https://privacyinternational.org/legal-action/uk-migrant-gps-tracking-challenges
    #tracking #GPS #géolocalisation #surveillance #migrations #réfugiés #Angleterre #UK #justice

  • La #censure_littéraire s’accentue aux États-Unis

    Quelque 3362 références de livres ont été interdites et retirées des établissements publics. Du jamais-vu en vingt ans.

    (#paywall, mais quelques titres ici :
    figurent « Tricks », d’Ellen Hopkins, ..., « L’œil le plus bleu », de la Prix Nobel Toni Morrison,..., le roman dystopique « 1984 », de George Orwell, « Les cerfs-volants de Kaboul », de Khaled Hosseini, ou encore « Ne tirez pas sur l’oiseau moqueur », de Harper Lee.
    https://tooting.ch/@Swiss_Pepita/111682913813083498)

    https://www.tdg.ch/phenomene-inquietant-la-censure-litteraire-s-accentue-aux-etats-unis-22109189427

    #censure #livres #USA #Etats-Unis #littérature #interdiction

    • Spineless Shelves. Two years of book banning

      A July 2021 to June 2023 Cumulative Data Summary

      The last two years have shown an undeniable and unprecedented attack on free expression in public education.

      As 2023 comes to a close, the following data summary examines the insidious trend of book banning in public schools over the last two academic years, drawing from data collected in PEN America’s Index of School Book Bans.
      Key Takeaways

      - The past two school years have demonstrated a mounting crisis of book bans. From July 2021 to June 2023, PEN America’s Index of School Book Bans recorded 5,894 instances of book bans across 41 states and 247 public school districts.
      - “Copycat bans” have emerged as a key component of the book ban movement, with a portion of titles removed seemingly because another district removed it elsewhere.
      - Relatedly, some authors have faced a “Scarlet Letter” effect, where several works from an author’s collection were subsequently targeted after at least one of their works was banned.
      - There has been a sustained focus on banning books written for young adults, especially when those books are about “difficult topics” – like violence and racism – or include historically marginalized identities – mainly, people of color and LGBTQ+ individuals.
      - Florida and Texas have continued to lead the country in number of bans, but the crisis has spread to 41 states.
      - A significant increase in the number of books “banned from classrooms and libraries” indicates that not only have there been more bans, but the bans themselves have been more comprehensive and potentially more permanent.


      https://pen.org/spineless-shelves

      via @freakonometrics

  • Le Pain de silence

    « “Sans doute n’as-tu jamais été un enfant ” dit ma mère sans remuer les lèvres, sans prononcer une syllabe ni un mot, avec ces yeux tristes, en veilleuse que je lui ai toujours vus, comme si elle avait en permanence tiré le rideau sur sa vie, comme si elle avait pu bien sûr être là face à moi, avec son corps et sans pouvoir exprimer ce qui l’habitait, nulle syllabe, aucun mot, depuis tant de temps, un temps qui me dépassait, me submergeait… »

    https://www.editionszoe.ch/auteur/adrien-pasquali
    #livre #Adrien_Pasquali #silence #migrations #Suisse #migrants_italiens #émigration_italienne

    • #Adrien_Pasquali, constructeur d’une maison de mots, a été vaincu par le silence

      L’écrivain suisse d’origine italienne Adrien Pasquali s’est donné la mort mardi à Paris. Il a récemment publié son dernier livre, « Le Pain de silence », aux Editions Zoé à Genève. Romancier, traducteur et brillant universitaire, Pasquali était chargé de cours en littérature romande aux Universités de Lausanne et de Genève. Hommage

      A 40 ans, Adrien Pasquali a choisi de mettre fin à ses jours. La nouvelle est brutale, la stupeur, l’émotion, la consternation sont vives chez tous ses amis et collègues. Le Pain de silence, son dernier roman, vient de paraître (Samedi Culturel du 13 mars) : force nous est aujourd’hui de déchiffrer dans ce récit haletant le testament d’un écrivain pris dans un étau implacable. Le silence, qu’il attaque, qu’il conjure, qu’il apprivoise, a été le plus fort, et il n’aura plus été possible à l’écrivain de différer le point final.

      Romancier, traducteur et brillant universitaire, Adrien Pasquali, né en 1958 à Bagnes, appartenait aux immigrés de la « seconde génération », celle qu’on dit parfois maudite, déracinée, sans lieu ni langue. Après le Collège de St-Maurice, Pasquali fait ses études à l’Université de Fribourg. Sa thèse de doctorat, dirigée par Jean Roudaut, porte sur Adam et Eve de Ramuz. Lecteur de français aux Universités de Saint-Gall, puis de Zurich, Pasquali vivait à Paris depuis plusieurs années, près de ses deux fils, qui comptaient pour lui plus que tout. Depuis 1997, il était chargé de cours en littérature romande aux Universités de Lausanne et Genève. Pasquali était associé au projet d’édition des romans de Ramuz en Pléiade.

      Si la déchirure de l’émigration est omniprésente dans l’univers de Pasquali, ce n’est pas sur le mode de la dénonciation ou de l’analyse : elle aura été une toute-puissante incitation à se construire, dans le langage, une maison de mots. La littérature aura été pour lui une façon d’opposer les formes et la fiction au non-être, une façon de rendre éloquent un silence originel. L’impressionnante bibliographie d’Adrien Pasquali témoigne du rempart qu’il a tenté de construire. A relire l’œuvre à la lumière du dernier livre, et du regard douloureusement lucide qu’il porte sur l’incompatibilité, vécue dans l’enfance, d’une langue et d’un monde irréel parce que non transmis, on est frappé par la constance des thèmes et la cohérence obstinée de l’interrogation pathétique reprise de livre en livre, selon des stratégies, un raffinement et un savoir-faire toujours renouvelés.

      En automne 1982, Ecriture publie le premier texte de Pasquali, lauréat du concours « Qui je lis ? » lancé par la revue. Ce texte, avec une sincérité sans équivoque, fait entendre la voix du futur écrivain : il y rend hommage à ses parents, originaires de la région de Gênes, venus en Valais pour y travailler : « Ils n’emportaient que leur statut, leur condition, une image de laggiù et l’amour qui est le leur ». Cette tendresse ne sera jamais démentie. Le premier récit, Eloge du migrant, est d’ailleurs dédié à ses parents. Le thème de la filiation et des origines hante toute l’œuvre, sans acrimonie. La référence à l’Italie est constante, terre de migration, terre d’enfance et de paysages lumineux. En rapport sans doute avec cette quête des origines, la passion de Pasquali pour la critique génétique.

      Dans son texte de 1982, l’écrivain évoque sa passion pour la littérature romande, dans laquelle il va trouver une forme d’identité. Lisant Corinna Bille, Crisinel, Haldas ou, surtout, Ramuz : « Je découvrais le pays de cet autre qui me forçait bien obligeamment à découvrir le mien ». Dans un récit, L’Histoire dérobée, la narration progressera de pastiche en pastiche, imitant successivement le style de sept « grands intercesseurs » romands. Ce premier texte de 1982 conjure aussi « le miracle de l’inachèvement » : de textes fragmentaires et discontinus aux romans en compositions cycliques, d’énigmes en quêtes irrésolues, et jusqu’à la longue phrase éperdue du dernier récit, ou dans les essais qu’il a consacrés à l’inachèvement, on constate chez Pasquali la hantise de la clôture et du point final.

      Le « silence éloquent »

      La plupart des romans contiennent une réflexion sur leur propre statut, sur leur propre dispositif narratif. Après les audaces expérimentales des premiers livres, les deux derniers récits, La Matta et Le Pain de silence, atteignent une transparence et une force d’évocation poétique à la fois plus puissantes et plus souveraines. Autoréflexion et narration s’harmonisent ici grâce à une langue maîtresse de tous ses enjeux.

      La traduction a été une autre manière, pour Pasquali, de pratiquer un « silence éloquent » : il a été le traducteur d’Alice Ceresa et de Giovanni Orelli, de Mario Lavaggetto et tout récemment, d’Aurelio Buletti (Ed. Empreintes, 1998). A l’impossible inscription dans un seul moule linguistique aura fait place, ici, une invitation à habiter dans la diversité des langues.

      Les sections de français des Universités de Lausanne et Genève rendront hommage à l’œuvre d’Adrien Pasquali lors d’une manifestation dans le courant du mois de mai.

      https://www.letemps.ch/culture/adrien-pasquali-constructeur-dune-maison-mots-vaincu-silence

  • Terre : aux racines du capitalisme

    L’élément terre, dans son acception économique peut s’entendre de deux manières : la terre à exploiter, dont on peut tirer des ressources et du profit, et la Terre à préserver et à “sauver” d’un #capitalisme_prédateur qui l’épuise. L’idée de parler de capital Terre reprend deux notions incluses dans le terme Terre, à savoir comprendre la Terre à la fois comme notre planète et à la fois comme une ressource foncière. On ressent bien l’ambivalence dans l’expression capital Terre : la Terre est à la fois notre espace de vie, un espace commun et un bien précieux à préserver, mais elle est aussi une ressource dans laquelle puiser des richesses et dont on peut retirer des profits.
    Du 12ème au 19ème siècle : comment la croissance se fonde-t-elle sur le travail de la terre ?

    Selon Alessandro Stanziani, l’histoire économique de la terre comme capital commence au 12ème siècle, il précise "selon Fernand Braudel et Werner Sombart le capitalisme commence au 12ème siècle. Le capitalisme selon Braudel est identifié par le monopole, plutôt que la concurrence, et par la finance. Je complète cette définition avec la notion que les ressources sont uniquement à exploiter et non pas à préserver pour le futur et surtout que le travail doit être soumis à des contraintes sévères au long de plusieurs siècles. De ce point de vue-là, je n’associe pas, comme Marx, le travail et le capitalisme au travail salarié et au prolétaires, au contraire, j’associe les formes multiples du capitalisme aux formes différentes du travail contraint. D’où la possibilité d’inclure les régimes qui commencent au 12ème siècle sous le nom de capitalisme". Par ailleurs, du 12e au 19e, la hausse de la production agricole correspond à une augmentation des surfaces cultivées, en effet les déforestations n’ont cessé d’être présentes du néolithique au haut Moyen-Âge et elles s’accélèrent fortement entre le 8e et le 13e siècle. Cependant, même au 12ème siècle des contestations contre le déboisement et l’exploitation de la terre à des fins productives agraires existaient déjà, Alessandro Stanziani ajoute "les résistances sont importantes, plusieurs acteurs se rendent compte de la nécessité de préserver les forêts afin d’avoir de bonnes récoltes à côté, mais aussi pour des intérêts économiques, politiques et sociaux. Cette résistance est celle d’un capitalisme que j’appelle foncier, agraire et quasi industriel, qui va du 12ème au 19ème siècle".
    De 1870 à 1970 : vers un modèle productiviste et une surexploitation de l’élément terre

    Pendant ces décennies, l’exploitation des ressources de la terre et le système capitaliste connaissent des changements majeurs, marqués par une intensification remarquable. Alessandro Stanziani précise "dans l’agriculture et dans le pays du Nord, la mécanisation est très lente, mais on constate un changement significatif avec les semences. Après la crise de 29, aux Etats-Unis, on s’intéresse aux semences hybrides. Il y a des investissements massifs, on donne des semences hybrides aux fermiers américains et ensuite, on vend ces mêmes semences à l’Europe avec l’aide du plan Marshal et on impose aux agriculteurs européens d’avoir recours aux semences hybrides. L’avantage des semences hybrides, ce sont des rendements faramineux, ça commence par le maïs, la plante des plaines américaines, et de fait on arrive à nourrir de plus en plus de population à l’échelle mondiale. L’inconvénient c’est que les semences hybrides ont une durée de vie très courte, de un ou deux ans, pour qu’elles soient rentables il faut beaucoup de fertilisants chimiques. Les producteurs de semences produisent aussi le fertilisants chimiques, ils sont gagnants des deux côtés. Par ailleurs, ces producteurs ont le monopole et l’exclusivité de ce marché. Enfin, les rendements des hybrides commencent à décroître après 20 ans".
    De 1970 à 2050 : spéculer sur le capital Terre : la terre face à la libéralisation des marchés

    Les bouleversements majeurs ont lieu pendant les années 1970 : la fin du système de Bretton Woods, les chocs pétroliers, le déclin du keynésianisme et de l’État social en Occident et le début des réformes en Chine.
    Par ailleurs, la spéculation sur les produits agricoles s’élargit aux terres elles-mêmes : il ne s’agit pas seulement d’échanger des produits virtuels dont la plupart ne verront jamais le jour, mais de contrôler ces flux hypothétiques à l’échelle mondiale. Selon Alessandro Stanziani "avec le néolibéralisme des années 80 et surtout dans les années 1990, on assiste à la libéralisation totale des Bourses de marchandises, avec les spéculations sur les matières premières et sur le blé, et on arrive jusqu’aux crises de 2008/2010 et jusqu’au crise de nos jours sur la vie chère. C’est-à-dire que c’est une pénurie qui est provoquée, non pas par de mauvaises récoltes, mais surtout par les spéculations".

    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/entendez-vous-l-eco/terre-aux-racines-du-capitalisme-8719942

    #capitalisme #terre #agriculture #histoire #économie_capitaliste #terres #Alessandro_Stanziani #capital_terre #spéculation #exploitation #foncier #ressource_foncière #à_écouter #ressources_pédagogiques #croissance #déforestation #forêts #déboisement #mécanisation #semences #semences_hybrides #plan_Marshal #maïs #rendements #industrie_agro-alimentaire #fertilisants #néolibéralisme #blé #matières_premières #pénurie #podcast #audio

    • Capital Terre. Une histoire longue du monde d’après (XIIe-XXIe siècle)

      Et si le cœur du problème de la faim dans le monde n’était pas la hausse de la population mais plutôt les modalités de la production agricole et surtout de la distribution au profit des plus riches ? Dans cet essai engagé pour des sociétés plus solidaires et plus justes, qui retrace l’histoire longue du capitalisme, Alessandro Stanziani propose de renouer avec le contrat social cher à J.-J. Rousseau et de faire de la démocratie, de l’égalité sociale et de l’environnement les trois piliers du monde d’après. Défenseur d’une politique publique conciliant croissance économique et démographique, droits du travail, lutte contre les inégalités et protection de la planète, il plaide pour la fin des spéculations sur les denrées alimentaires, de l’accaparement des terres et de la propriété industrielle, en particulier sur les semences, véritable « patrimoine de l’humanité », et prône une refonte plus égalitaire de la fiscalité et des finances publiques.
      Une pensée économique globale, qui se préoccupe autant de l’avenir de l’Asie et de l’Afrique que de celui de l’Europe, par un brillant historien reconnu à l’international et fort de décennies de recherches sur le terrain dans le monde entier.

      https://www.payot-rivages.fr/payot/livre/capital-terre-9782228929257
      #livre

  • Quando l’arte di strada rigenera. Dentro le “Trame” di #Grosseto

    Contro la desertificazione del centro storico della città maremmana, il collettivo #Clan ha immaginato nel 2020 il #festival_Trame, con l’obiettivo di ridare colore alle serrande chiuse. Chiamando a dipingerle artisti da tutta Italia.

    “Serrande chiuse per arte aperta” è il modo più immediato per descrivere Trame, il festival di arte urbana che dal 2020 sta contribuendo alla rigenerazione del centro storico di Grosseto, la “Kansas City” di Luciano Bianciardi, una città di circa 80mila abitanti persa in mezzo alla Maremma, in una delle zone meno antropizzate d’Italia. Quattro edizioni dell’evento hanno permesso di trasformare 50 serrande, grazie ad artisti arrivati da tutta Italia tramite residenze finalizzate alla rigenerazione territoriale.

    Trame è un’iniziativa del Collettivo libero anti noia (Clan) e nasce dall’osservazione di un contesto comune a molti altri centri urbani. “Il Collettivo è nato nel 2012 da un gruppo di amici per promuovere e diffondere la cultura in tutte le sue forme, dall’attività artistica alla promozione del territorio. Abbiamo una sede in centro dal 2018, grazie al progetto ‘Pop up lab’, promosso dal Comune di Grosseto e dalla Regione Toscana per contrastare la desertificazione dei centri storici. Quando ci siamo insediati in questa ‘viettina tremenda’ ci siamo resi conto che la maggior parte delle saracinesche erano abbassate, ormai le persone vivono altrove, i servizi sono rarefatti”, sottolinea Giada Breschi, tra i fondatori di Clan.

    “A Grosseto il centro è la nuova periferia, che le persone non frequentano anche perché -continua- non ha senso passeggiare di fronte alle serrande chiuse”. A meno che queste non diventino delle vere opere d’arte, come hanno immaginato i soci di Clan, due dei quali, Giada e Mara, lavorano per l’associazione culturale. “La prima edizione di Trame, nel 2020, l’anno della pandemia da Coivd-19, è stata senz’altro la più difficile, anche perché dovevamo ‘confrontarci’ con la diffidenza dei proprietari degli immobili -ricorda Breschi-. Edizione dopo edizione, però, tutti si sono resi conto che le opere sono realizzate da professionisti e in tanti hanno iniziato a proporci le loro serrande. Inizialmente abbiamo fatto degli appelli ma anche proposto un questionario online, per capire quali tipologie di azioni risultavano più gradite ai cittadini come esempi di riqualificazione. Abbiamo poi attaccato cartelli su tutti i garage del centro storico: ‘Vuoi trasformare la tua serranda in un’opera d’arte?’. Con tutti i proprietari stringiamo un accordo”.

    Gli artisti invece arrivano a Grosseto grazie a una call nazionale. Ogni edizione di Trame ha avuto un tema. Quella del 2023, ad esempio, è stata “Facciamo tempesta”, dove la tempesta e ciò che scuote e scardina lo status quo, tanto più importante in provincia, “dove ci si sente tagliati fuori dai centri dove le cose accadono e le uniche burrasche che sembrano colpirci sono quelle che il cambiamento, invece che alimentarlo, lo affogano”, spiega il documento elaborato da Clan.

    Sono 50 le serrande di Grosseto “trasformate” dalle quattro edizioni del festival

    Nel 2023 sono stati selezionati otto artisti, sulla base dei progetti inviati. Grazie al contributo della Fondazione CR Firenze, che sostiene il progetto, vengono ospitati a Grosseto per tre giorni e ricevono un rimborso per le spese di viaggio, vitto e alloggio oltre a quelle per dipingere. “Arrivano qui sapendo di trovare le serrande pronte, perché la pulizia e anche il ripristino del fondo lo facciamo noi”, spiega Breschi.

    In questi anni hanno lavorato nella città toscana alcuni nomi importanti della street art italiana, come Luogo Comune, Exit/Enter e Ginevra Giovannoni, in arte Rame 13. “Ogni intervento dialoga con il palazzo, con le vie, questo è un elemento a cui teniamo molto e su cui concentriamo la nostra attività a livello curatoriale”, sottolinea Breschi. Per completare l’azione di rigenerazione territoriale, i soci di Clan accompagnano le persone attraverso il museo a cielo aperto organizzando il “Trame street tour”.

    “Ogni intervento dialoga con il palazzo, con le vie, questo è un elemento a cui teniamo molto e su cui concentriamo la nostra attività a livello curatoriale” – Giada Breschi

    “Anche se tramite il nostro sito chiunque può scoprire in autonomia tutte le serrande -racconta Breschi- a noi piace di più raccontare le storie degli artisti ed è bello farlo attraverso i più giovani, a partire dai laboratori di mediazione artistica che teniamo nelle scuole. Tornando a casa con questa ‘scoperta’, i bambini poi portano i genitori a fare il giro delle serrande: le mappe le costruiamo insieme a loro. Lavoriamo dalle materne alle superiori, con laboratori ovviamente differenziati. Alle secondarie di secondo grado dopo il tour si chiede agli insegnanti di far vedere i documentari che pubblichiamo per ogni edizione, chiedendo loro poi di collegare l’arte contemporanea locale al super-contemporaneo delle serrande. A quelli delle medie chiediamo invece di realizzare una loro idea di street art”.

    In inverno i laboratori si tengono al Molino Hub, un centro di promozione culturale e artistica ricavato all’interno delle Mura medicee della città: un altro dei progetti del Collettivo libero anti noia che il 2 dicembre 2023 ha ospitato l’atto finale di Trame 2023, con la presentazione del docu-film realizzato durante la quarta edizione del festival di arte urbana e della nuova street art map, per camminare nel centro storico di Grosseto con altri occhi.

    https://altreconomia.it/quando-larte-di-strada-rigenera-dentro-le-trame-di-grosseto
    #Italie #street-art #art_de_rue #graffitis #festival #régénération_urbaine #villes #urban_matter #centre-ville #désertification #art

    • The visualization presents monthly global temperature anomalies. This visualization is updated roughly two weeks after the end of each month.

      Temperature anomalies are deviations from a long term global avergage. In this case the period 1951-1980 is used to define the baseline for the anomaly. These temperatures are based on the GISS Surface Temperature Analysis (GISTEMP v4), an estimate of global surface temperature change. The data file used to create this visualization is publically accessible here.

      The term ’climate spiral’ describes an animated radial plot of global temperatures. Climate scientist Ed Hawkins from the National Centre for Atmospheric Science, University of Reading popularized this style of visualization in 2016.

      The Goddard Institute of Space Studies (GISS) is a NASA laboratory managed by the Earth Sciences Division of the agency’s Goddard Space Flight Center in Greenbelt, Maryland. The laboratory is affiliated with Columbia University’s Earth Institute and School of Engineering and Applied Science in New York.

  • « Depuis six décennies, l’#aménagement touristique de la #montagne est engagé dans une fuite en avant »

    L’attribution des #Jeux_olympiques d’hiver de 2030 à la #France risque de retarder encore l’engagement des communes touristiques de montagne dans la #transition_écologique, estime, dans une tribune au « Monde », le géographe #Rémy_Knafou.

    La France a eu des politiques touristiques pour la montagne ; elle n’en a plus depuis longtemps. Et la récente décision d’attribuer à la candidature française les Jeux olympiques d’hiver de 2030 ne va pas faciliter la transition juste que le réchauffement climatique, plus important qu’en plaine, appelle pourtant.

    Le #plan_neige des années 1960, sous la présidence du général de Gaulle, était une réponse à l’#exode_rural qui vidait la montagne de ses forces vives et au projet de retenir en France la clientèle des skieurs français qui fréquentait les pays alpins voisins. Il en résulta la création ex nihilo en haute altitude de nombreuses stations de sports d’hiver et l’aménagement de vastes #domaines_skiables, désormais parmi les plus étendus de la planète.

    Avalanches et glissements de terrain meurtriers couplés à une mévente immobilière incitèrent l’Etat à un infléchissement, qui s’exprima dans le #discours_de_Vallouise, prononcé par le président #Valéry_Giscard_d’Estaing, le 23 août 1977 : « Trop de #résidences_secondaires s’éparpillent au gré des ventes de #terres_agricoles. Trop de #stations_de_ski furent implantées sans tenir compte suffisamment des populations locales et des contraintes de l’#environnement. L’effort de l’Etat portera dorénavant sur un tourisme intégré à d’autres activités, accessible au plus grand nombre, respectueux des sites et des #paysages. »

    Des clientèles étrangères en majorité fortunées

    En 1985, l’Etat s’est doté d’une loi « montagne », qui entendait à la fois développer et protéger – ce que, de facto, la France faisait déjà depuis une vingtaine d’années avec la création, en 1963, du #parc_national_de_la_Vanoise : tout était interdit dans sa zone centrale quand (presque) tout était permis dans sa zone périphérique, où se développaient quelques-unes des plus importantes stations françaises de #sports_d’hiver.

    Mais force est de constater que cette loi « montagne », complétée en 2016 par la loi « montagne II », n’a pu ralentir la progression de l’#immobilier en altitude, de l’équipement en #remontées_mécaniques et en #neige_artificielle, tandis que, parallèlement, les espoirs de #démocratisation du ski disparaissaient d’un marché porté par la venue croissante de clientèles étrangères en large majorité fortunées.

    Ainsi, depuis six décennies, l’aménagement touristique de la montagne est engagé dans une #fuite_en_avant – que j’avais déjà analysée dans ma thèse, publiée en 1978, « Les stations intégrées de sports d’hiver des Alpes françaises » (Masson) –, la croissance immobilière appelant constamment l’extension des domaines skiables et ceux-ci nécessitant à leur tour la construction de nouveaux programmes résidentiels. C’est ainsi que la seule #Tarentaise en est arrivée à totaliser en altitude 427 500 lits touristiques, soit plus que de la population cumulée des deux agglomérations d’Annecy et de Chambéry !

    Un cercle vicieux défendu par les #lobbys du ski

    La montagne hivernale a produit une machine infernale, sorte de course-poursuite sans fin entre les lits et les remontées mécaniques. La nécessité, toujours pour alimenter le chiffre d’affaires des remontées mécaniques, de remplacer les lits « froids » – les passoires thermiques représentent près de la moitié du parc ! – construits dans les années 1960-1990 et progressivement sortis du marché nourrit aujourd’hui cette dynamique.

    L’actuelle croissance immobilière va donc à l’encontre de ce qu’il faudrait faire : elle poursuit l’#artificialisation_des_sols, attire une clientèle étrangère qui va accroître l’empreinte carbone des stations et repose sur une progression de l’#enneigement_artificiel – c’est en effet une attente des acquéreurs de logements à plus de 15 000 euros le mètre carré, qui souhaitent sécuriser la pratique du ski, quels que soient les aléas d’un enneigement sur le repli.

    On voit comment le système touristique de la montagne hivernale a enfanté un cercle vicieux défendu par les puissants lobbys du ski – dont la dernière victoire en date est la promesse de l’organisation des Jeux olympiques d’hiver en 2030.

    A la recherche d’un équilibre de développement

    La France a été préférée à la Suède et à la Suisse parce que le #Comité_international_olympique (#CIO) aurait prudemment opté pour le pays qui n’avait pas le projet de soumettre à référendum ou à votation sa candidature – on le sait, le CIO ne trouve plus de candidatures que dans les pays dictatoriaux ou dans les démocraties qui ne demandent pas leur avis aux populations afin d’éviter le refus des citoyens contribuables.

    Au lieu de célébrer cette victoire trop facile, les pouvoirs publics s’honoreraient à engager la montagne touristique dans une transition juste, d’autant que les conditions semblent malgré tout favorables. En effet, face au réchauffement climatique, la montagne a et aura un avenir touristique, avec ou sans neige, car on y trouvera, en été en particulier, des températures plus supportables qu’ailleurs.

    Les communes et stations qui continueront à vivre du ski devraient le faire à plusieurs conditions. Il leur faudrait tout d’abord considérer le niveau actuel de développement comme un état d’équilibre qui permet de bien vivre sans poursuivre la construction de nouveaux #logements, l’effort étant tourné vers la #rénovation de l’existant. De plus, elles ne devraient plus se lancer dans des projets d’aménagement accentuant la pression sur un milieu naturel déjà très exploité, et qui pourraient compromettre leur réorientation économique, celle-ci étant inévitable à moyen ou à long terme.

    Prendre l’avis de toutes les populations

    Lorsque de tels projets (nouvelles urbanisations, retenues d’eau pour les canons à neige, etc.) sont néanmoins retenus, les communes devraient réfléchir à la manière de prendre en compte non seulement les avis de ceux qui habitent ces lieux touristiques à l’année, mais aussi les avis de ceux qui font vivre ces lieux en les fréquentant : une petite minorité ne devrait plus décider seule du sort de ces lieux.

    Enfin, les communes devraient alimenter un #fonds_de_prévoyance – car les temps difficiles finiront par arriver, même pour les communes de haute altitude –, afin que la collectivité nationale ne soit pas amenée, in fine, à financer une reconversion qu’elles auront refusé de préparer. C’est à ce prix que l’attribution des Jeux olympiques d’hiver à la France, si elle est confirmée, ne se transformera pas en victoire à la Pyrrhus.

    https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/12/30/depuis-six-decennies-l-amenagement-touristique-de-la-montagne-est-engage-dan
    #tourisme #aménagement_du_territoire #ski #loi_montagne #Vanoise #loi_montagne_II #lits_froids

  • Au niveau européen, un pacte migratoire « dangereux » et « déconnecté de la réalité »

    Sara Prestianni, du réseau EuroMed Droits, et Tania Racho, chercheuse spécialiste du droit européen et de l’asile, alertent, dans un entretien à deux voix, sur les #risques de l’accord trouvé au niveau européen et qui sera voté au printemps prochain.

    Après trois années de discussions, un accord a été trouvé par les États membres sur le #pacte_européen_sur_la_migration_et_l’asile la semaine dernière. En France, cet événement n’a trouvé que peu d’écho, émoussé par la loi immigration votée au même moment et dont les effets sur les étrangers pourraient être dramatiques.

    Pourtant, le pacte migratoire européen comporte lui aussi son lot de mesures dangereuses pour les migrant·es, entre renforcement des contrôles aux frontières, tri express des demandeurs d’asile, expulsions facilitées des « indésirables » et sous-traitance de la gestion des frontières à des pays tiers. Sara Prestianni, responsable du plaidoyer au sein du réseau EuroMed Droits, estime que des violations de #droits_humains seront inévitables et invite à la création de voies légales qui permettraient de protéger les demandeurs d’asile.

    La chercheuse Tania Racho, spécialiste du droit européen et de l’asile et membre du réseau Désinfox-Migrations, répond qu’à aucun moment les institutions européennes « ne prennent en compte les personnes exilées », préférant répondre à des « objectifs de gestion des migrations ». Dans un entretien croisé, elles alertent sur les risques d’une approche purement « sécuritaire », qui renforcera la vulnérabilité des concernés et les mettra « à l’écart ».

    Mediapart : Le pacte migratoire avait été annoncé par la Commission européenne en septembre 2020. Il aura fait l’objet de longues tergiversations et de blocages. Était-ce si difficile de se mettre d’accord à 27 ?

    Tania Racho : Dans l’état d’esprit de l’Union européenne (UE), il fallait impérativement démontrer qu’il y a une gestion des migrations aux #frontières_extérieures pour rassurer les États membres. Mais il a été difficile d’aboutir à un accord. Au départ, il y avait des mesures pour des voies sécurisées d’accès à l’Union avec plus de titres économiques : ils ont disparu au bénéfice d’une crispation autour des personnes en situation irrégulière.

    Sara Prestianni : La complexité pour aboutir à un accord n’est pas due à la réalité des migrations mais à l’#instrumentalisation du dossier par beaucoup d’États. On l’a bien vu durant ces trois années de négociations autour du pacte : bien que les chiffres ne le justifiaient pas, le sujet a été fortement instrumentalisé. Le résultat, qui à nos yeux est très négatif, est le reflet de ces stratégies : cette réforme ne donne pas de réponse au phénomène en soi, mais répond aux luttes intestines des différents États.

    La répartition des demandeurs d’asile sur le sol européen a beaucoup clivé lors des débats. Pourquoi ?

    Sara Prestianni : D’abord, parce qu’il y a la fameuse réforme du #règlement_Dublin [qui impose aux exilés de demander l’asile dans le pays par lequel ils sont entrés dans l’UE - ndlr]. Ursula von der Leyen [présidente de la Commission – ndlr] avait promis de « #dépasser_Dublin ». Il est aujourd’hui renforcé. Ensuite, il y a la question de la #solidarité. La #redistribution va finalement se faire à la carte, alors que le Parlement avait tenté de revenir là-dessus. On laisse le choix du paiement, du support des murs et des barbelés aux frontières internes, et du financement de la dimension externe. On est bien loin du concept même de solidarité.

    Tania Racho : L’idée de Dublin est à mettre à la poubelle. Pour les Ukrainiens, ce règlement n’a pas été appliqué et la répartition s’est faite naturellement. La logique de Dublin, c’est qu’une personne qui trouve refuge dans un État membre ne peut pas circuler dans l’UE (sans autorisation en tout cas). Et si elle n’obtient pas l’asile, elle n’est pas censée pouvoir le demander ailleurs. Mais dans les faits, quelqu’un qui voit sa demande d’asile rejetée dans un pays peut déposer une demande en France, et même obtenir une protection, parce que les considérations ne sont pas les mêmes selon les pays. On s’interroge donc sur l’utilité de faire subir des transferts, d’enfermer les gens et de les priver de leurs droits, de faire peser le coût de ces transferts sur les États… Financièrement, ce n’est pas intéressant pour les États, et ça n’a pas de sens pour les demandeurs d’asile.

    D’ailleurs, faut-il les répartir ou leur laisser le libre #choix dans leur installation ?

    Tania Racho : Cela n’a jamais été évoqué sous cet angle. Cela a du sens de pouvoir les laisser choisir, parce que quand il y a un pays de destination, des attaches, une communauté, l’#intégration se fait mieux. Du point de vue des États, c’est avant tout une question d’#efficacité. Mais là encore on ne la voit pas. La Cour européenne des droits de l’homme a constaté, de manière régulière, que l’Italie ou la Grèce étaient des États défaillants concernant les demandeurs d’asile, et c’est vers ces pays qu’on persiste à vouloir renvoyer les personnes dublinées.

    Sara Prestianni : Le règlement de Dublin ne fonctionne pas, il est très coûteux et produit une #errance continue. On a à nouveau un #échec total sur ce sujet, puisqu’on reproduit Dublin avec la responsabilité des pays de première entrée, qui dans certaines situations va se prolonger à vingt mois. Même les #liens_familiaux (un frère, une sœur), qui devaient permettre d’échapper à ce règlement, sont finalement tombés dans les négociations.

    En quoi consiste le pacte pour lequel un accord a été trouvé la semaine dernière ?

    Sara Prestianni : Il comporte plusieurs documents législatifs, c’est donc une #réforme importante. On peut évoquer l’approche renforcée des #hotspots aux #frontières, qui a pourtant déjà démontré toutes ses limites, l’#enfermement à ciel ouvert, l’ouverture de #centres_de_détention, la #procédure_d’asile_accélérée, le concept de #pays-tiers_sûr que nous rejetons (la Tunisie étant l’exemple cruel des conséquences que cela peut avoir), la solidarité à la carte ou encore la directive sur l’« instrumentalisation » des migrants et le concept de #force_majeure en cas d’« #arrivées_massives », qui permet de déroger au respect des droits. L’ensemble de cette logique, qui vise à l’utilisation massive de la #détention, à l’#expulsion et au #tri des êtres humains, va engendrer des violations de droits, l’#exclusion et la #mise_à_l’écart des personnes.

    Tania Racho : On met en place des #centres_de_tri des gens aux frontières. C’est d’une #violence sans nom, et cette violence est passée sous silence. La justification du tri se fait par ailleurs sur la nationalité, en fonction du taux de protection moyen de l’UE, ce qui est absurde car le taux moyen de protection varie d’un pays à l’autre sur ce critère. Cela porte aussi une idée fausse selon laquelle seule la nationalité prévaudrait pour obtenir l’asile, alors qu’il y a un paquet de motifs, comme l’orientation sexuelle, le mariage forcé ou les mutilations génitales féminines. Difficile de livrer son récit sur de tels aspects après un parcours migratoire long de plusieurs mois dans le cadre d’une #procédure_accélérée.

    Comment peut-on opérer un #tri_aux_frontières tout en garantissant le respect des droits des personnes, du droit international et de la Convention de Genève relative aux réfugiés ?

    Tania Racho : Aucune idée. La Commission européenne parle d’arrivées mixtes et veut pouvoir distinguer réfugiés et migrants économiques. Les premiers pourraient être accueillis dignement, les seconds devraient être expulsés. Le rush dans le traitement des demandes n’aidera pas à clarifier la situation des personnes.

    Sara Prestianni : Ils veulent accélérer les procédures, quitte à les appliquer en détention, avec l’argument de dire « Plus jamais Moria » [un camp de migrants en Grèce incendié – ndlr]. Mais, ce qui est reproduit ici, c’est du pur Moria. En septembre, quand Lampedusa a connu 12 000 arrivées en quelques jours, ce pacte a été vendu comme la solution. Or tel qu’il est proposé aujourd’hui, il ne présente aucune garantie quant au respect du droit européen et de la Convention de Genève.

    Quels sont les dangers de l’#externalisation, qui consiste à sous-traiter la gestion des frontières ?

    Sara Prestianni : Alors que se négociait le pacte, on a observé une accélération des accords signés avec la #Tunisie, l’#Égypte ou le #Maroc. Il y a donc un lien très fort avec l’externalisation, même si le concept n’apparaît pas toujours dans le pacte. Là où il est très présent, c’est dans la notion de pays tiers sûr, qui facilite l’expulsion vers des pays où les migrants pourraient avoir des liens.

    On a tout de même l’impression que ceux qui ont façonné ce pacte ne sont pas très proches du terrain. Prenons l’exemple des Ivoiriens qui, à la suite des discours de haine en Tunisie, ont fui pour l’Europe. Les États membres seront en mesure de les y renvoyer car ils auront a priori un lien avec ce pays, alors même qu’ils risquent d’y subir des violences. L’Italie négocie avec l’#Albanie, le Royaume-Uni tente coûte que coûte de maintenir son accord avec le #Rwanda… Le risque, c’est que l’externalisation soit un jour intégrée à la procédure l’asile.

    Tania Racho : J’ai appris récemment que le pacte avait été rédigé par des communicants, pas par des juristes. Cela explique combien il est déconnecté de la réalité. Sur l’externalisation, le #non-refoulement est prévu par le traité sur le fonctionnement de l’UE, noir sur blanc. La Commission peut poursuivre l’Italie, qui refoule des personnes en mer ou signe ce type d’accord, mais elle ne le fait pas.

    Quel a été le rôle de l’Italie dans les discussions ?

    Sara Prestianni : L’Italie a joué un rôle central, menaçant de faire blocage pour l’accord, et en faisant passer d’autres dossiers importants à ses yeux. Cette question permet de souligner combien le pacte n’est pas une solution aux enjeux migratoires, mais le fruit d’un #rapport_de_force entre les États membres. L’#Italie a su instrumentaliser le pacte, en faisant du #chantage.

    Le pacte n’est pas dans son intérêt, ni dans celui des pays de premier accueil, qui vont devoir multiplier les enfermements et continuer à composer avec le règlement Dublin. Mais d’une certaine manière, elle l’a accepté avec la condition que la Commission et le Conseil la suivent, ou en tout cas gardent le silence, sur l’accord formulé avec la Tunisie, et plus récemment avec l’Albanie, alors même que ce dernier viole le droit européen.

    Tania Racho : Tout cela va aussi avoir un #coût – les centres de tri, leur construction, leur fonctionnement –, y compris pour l’Italie. Il y a dans ce pays une forme de #double_discours, où on veut d’un côté dérouter des bateaux avec une centaine de personnes à bord, et de l’autre délivrer près de 450 000 visas pour des travailleurs d’ici à 2025. Il y a une forme illogique à mettre autant d’énergie et d’argent à combattre autant les migrations irrégulières tout en distribuant des visas parce qu’il y a besoin de #travailleurs_étrangers.

    Le texte avait été présenté, au départ, comme une réponse à la « crise migratoire » de 2015 et devait permettre aux États membres d’être prêts en cas de situation similaire à l’avenir. Pensez-vous qu’il tient cet objectif ?

    Tania Racho : Pas du tout. Et puisqu’on parle des Syriens, rappelons que le nombre de personnes accueillies est ridicule (un million depuis 2011 à l’échelle de l’UE), surtout lorsqu’on le compare aux Ukrainiens (10 millions accueillis à ce jour). Il est assez étonnant que la comparaison ne soit pas audible pour certains. Le pacte ne résoudra rien, si ce n’est dans le narratif de la Commission européenne, qui pense pouvoir faire face à des arrivées mixtes.

    On a les bons et mauvais exilés, on ne prend pas du tout en compte les personnes exilées, on s’arrête à des objectifs de #gestion alors que d’autres solutions existent, comme la délivrance de #visas_humanitaires. Elles sont totalement ignorées. On s’enfonce dans des situations dramatiques qui ne feront qu’augmenter le tarif des passeurs et le nombre de morts en mer.

    Sara Prestianni : Si une telle situation se présente de nouveau, le règlement « crise » sera appliqué et permettra aux États membres de tout passer en procédure accélérée. On sera donc dans un cas de figure bien pire, car les entraves à l’accès aux droits seront institutionnalisées. C’est en cela que le pacte est dangereux. Il légitime toute une série de violations, déjà commises par la Grèce ou l’Italie, et normalise des pratiques illégales. Il occulte les mesures harmonisées d’asile, d’accueil et d’intégration. Et au lieu de pousser les États à négocier avec les pays de la rive sud, non pas pour renvoyer des migrants ou financer des barbelés mais pour ouvrir des voies légales et sûres, il mise sur une logique sécuritaire et excluante.

    Cela résonne fortement avec la loi immigration votée en France, supposée concilier « #humanité » et « #fermeté » (le pacte européen, lui, prétend concilier « #responsabilité » et « #solidarité »), et qui mise finalement tout sur le répressif. Un accord a été trouvé sur les deux textes au même moment, peut-on lier les deux ?

    Tania Racho : Dans les deux cas, la seule satisfaction a été d’avoir un accord, dans la précipitation et dans une forme assez particulière, entre la commission mixte paritaire en France et le trilogue au niveau européen. Ce qui est intéressant, c’est que l’adoption du pacte va probablement nécessiter des adaptations françaises. On peut lier les deux sur le fond : l’idée est de devoir gérer les personnes, dans le cas français avec un accent particulier sur la #criminalisation_des_étrangers, qu’on retrouve aussi dans le pacte, où de nombreux outils visent à lutter contre le terrorisme et l’immigration irrégulière. Il y a donc une même direction, une même teinte criminalisant la migration et allant dans le sens d’une fermeture.

    Sara Prestianni : Les États membres ont présenté l’adoption du pacte comme une grande victoire, alors que dans le détail ce n’est pas tout à fait évident. Paradoxalement, il y a eu une forme d’unanimité pour dire que c’était la solution. La loi immigration en France a créé plus de clivages au sein de la classe politique. Le pacte pas tellement, parce qu’après tant d’années à la recherche d’un accord sur le sujet, le simple fait d’avoir trouvé un deal a été perçu comme une victoire, y compris par des groupes plus progressistes. Mais plus de cinquante ONG, toutes présentes sur le terrain depuis des années, sont unanimes pour en dénoncer le fond.

    Le vote du pacte aura lieu au printemps 2024, dans le contexte des élections européennes. Risque-t-il de déteindre sur les débats sur l’immigration ?

    Tania Racho : Il y aura sans doute des débats sur les migrations durant les élections. Tout risque d’être mélangé, entre la loi immigration en France, le pacte européen, et le fait de dire qu’il faut débattre des migrations parce que c’est un sujet important. En réalité, on n’en débat jamais correctement. Et à chaque élection européenne, on voit que le fonctionnement de l’UE n’est pas compris.

    Sara Prestianni : Le pacte sera voté avant les élections, mais il ne sera pas un sujet du débat. Il y aura en revanche une instrumentalisation des migrations et de l’asile, comme un outil de #propagande, loin de la réalité du terrain. Notre bataille, au sein de la société civile, est de continuer notre travail de veille et de dénoncer les violations des #droits_fondamentaux que cette réforme, comme d’autres par le passé, va engendrer.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/281223/au-niveau-europeen-un-pacte-migratoire-dangereux-et-deconnecte-de-la-reali
    #pacte #Europe #pacte_migratoire #asile #migrations #réfugiés

  • #Israël serait déjà en contact avec plusieurs pays pour y expulser les Gazaouis

    Le Premier ministre israélien, Benyamin Nétanyahou, a affirmé, le 25 décembre, œuvrer en faveur d’un #plan de “#migration_volontaire” des Gazaouis, tandis qu’un député de son parti a révélé que l’État hébreu était en contact avec des pays d’#Amérique_latine et d’#Afrique à cet effet.

    Un éventuel #plan d’expulsion des Palestiniens de Gaza semble se préciser chaque jour un peu plus, rapporte la presse internationale. Outre les #bombardements, qui ont redoublé d’intensité et ont déplacé, depuis octobre, 85 % de la population vers le sud, jusqu’à la frontière avec l’Égypte, les déclarations des responsables israéliens sur le sujet sont de plus en plus explicites. Ainsi, lors d’une réunion à huis clos le 25 décembre avec son parti à la Knesset [Parlement israélien], le Premier ministre, Benyamin Nétanyahou, a pour la première fois évoqué ouvertement un plan de "migration volontaire".

    "Notre problème, ce sont les pays qui sont prêts à les accueillir, et nous y travaillons", aurait-il déclaré, cité par plusieurs médias, dont The Palestinian Chronicle.

    Le jour même, un député membre du Likoud, Danny Danon, a été encore plus loin, révélant, lors d’un entretien avec la radio locale Kan Reshet Bet, qu’Israël était déjà en contact avec plusieurs pays afin d’explorer les diverses possibilités d’#accueil des Gazaouis.

    "J’ai reçu des demandes de divers pays [...] prêts à accueillir des réfugiés [...], ce sont des pays d’Amérique du Sud et d’Afrique", a-t-il indiqué, relayé par Ha’Aretz. Il a ajouté que certains pays ont réclamé, en contrepartie, une "#compensation_financière" tandis que d’autres "ont demandé autre chose".

    "Cela arrive dans chaque guerre"

    Sans préciser les noms des pays avec lesquels l’État hébreu est en contact, le député du Likoud s’est contenté d’évoquer le cas du Canada, dont le ministre de l’Immigration a annoncé, le 21 décembre, la volonté de son pays d’accueillir les familles élargies des Gazaouis ayant la citoyenneté canadienne, rapporte le site Jewish Press.

    "Nous resterons en contact d’abord avec les pays de la région [Moyen-Orient] et avec les pays du monde [...]. Même si chaque pays reçoit dix mille ou vingt mille Gazaouis, cela est significatif", a souligné Danny Danon, selon lequel il s’agirait d’une "migration volontaire de Palestiniens qui souhaitent partir".

    "Cela arrive dans chaque guerre, regardez ce qui se passe en Syrie : un million et demi [de personnes] sont allées en Jordanie, trois millions en Turquie et quelques millions en Europe", a-t-il poursuivi, critiquant les réticences des deux principaux pays frontaliers - la Jordanie et l’Égypte -, qui ont fermement exprimé leur rejet d’un plan d’#exode des Palestiniens.

    "Occasion historique"

    Ces déclarations contrastent largement avec le démenti d’Eylon Levy, porte-parole du gouvernement israélien, qui, le 10 décembre, avait souligné devant des journalistes étrangers qu’Israël n’avait aucune intention de déplacer la population palestinienne hors de la bande de Gaza, qualifiant les affirmations à ce sujet d’"accusations scandaleuses et fausses".

    Elles attisent surtout les craintes, parmi les Palestiniens, d’une seconde "Nakba" ou d’une "#épuration_ethnique" - comme le dénoncent plusieurs voix en Israël et dans le monde arabe - et font écho à un document de travail du ministère du Renseignement israélien, révélé par la presse en octobre dernier, qui esquissait déjà au début du conflit plusieurs scénarios pour l’après-guerre, dont l’un prévoit d’installer les Gazaouis dans le #Sinaï égyptien.

    En novembre dernier, dans une tribune publiée dans le journal américain The Wall Street Journal, Danny Danon et Ram Ben-Barak, ancien haut responsable du Mossad, ont élargi le spectre géographique, appelant aussi l’Europe à contribuer aux efforts d’accueil des Gazaouis qui "cherchent" à émigrer.

    Dans la foulée, le ministre des Finances israélien, Bezalel Smotrich (extrême droite), avait souligné l’importance de l’enjeu politique. L’État d’Israël est "incompatible" avec l’existence d’une enclave palestinienne indépendante qui repose "sur la haine d’Israël et aspire à sa destruction", avait-il martelé, selon le site Middle East Eye.

    "Pour les démagogues d’extrême droite, et notamment le ministre des Finances, Bezalel Smotrich, et le ministre de la Sécurité nationale, Itamar Ben Gvir, cette guerre est une occasion historique pour réaliser leur liste de voeux : la destruction d’une grande partie de Gaza, l’élimination de l’appareil politique et militaire du Hamas, et, si possible, l’expulsion de dizaines ou de centaines de milliers de Palestiniens vers le Sinaï égyptien", dénonçait déjà, quatre jours après le début de la guerre, Amjad Iraqi, journaliste pour le site israélo-palestinien +972 Magazine.

    https://www.courrierinternational.com/article/revue-de-presse-israel-serait-deja-en-contact-avec-plusieurs-
    #expulsion #nettoyage_ethnique #géographie_du_vide #Palestine #Gaza #Egypte

    • Plan d’« #émigration » des Palestiniens : Israël avance dans son projet de #nettoyage_ethnique à Gaza

      Cette semaine, le Times of Israel révélait qu’Israël était en pourparlers avec des pays tels que le Congo pour qu’ils accueillent des Palestiniens de Gaza dans le cadre d’un prétendu « plan d’#émigration_volontaire » L’État sioniste, qui négocie depuis le début de sa contre-offensive avec ses voisins pour accueillir les Palestiniens qu’il force à l’exil en ravageant la bande de Gaza et en faisant plus de 22.000 morts, voudrait pouvoir déporter des civils gazaouis dans des pays comme le Congo ou l’Arabie Saoudite, à condition dans ce dernier cas que les Palestiniens soient disposés à travailler en tant qu’ouvriers dans le bâtiment.

      Benjamin Netanyahu a effet assumé, au cours d’une réunion du Likoud, être à la recherche de pays acceptant de recevoir les réfugiés gazaouis. « Notre problème est de trouver des pays qui sont désireux d’intégrer des gazaouis et nous travaillons là-dessus » a-t-il expliqué rapporte le Times of Israel. Le ministre des renseignements israéliens, Gila Gamliel a depuis fait une déclaration dans le même sens mardi dernier à la presse israélienne : « l’émigration volontaire est le meilleur programme, le programme le plus réaliste, pour le lendemain de la fin de la guerre ».

      Contrairement à ce que l’euphémisme utilisé laisse penser, il ne s’agit bien entendu pas d’une « émigration volontaire » dans la mesure où quitter Gaza est une question de vie ou de mort pour les plus de 2 millions d’habitants de l’enclave. Gamliel a ensuite clarifié le projet des autorités israélienne à l’issue de la guerre : « Il n’y aura pas de travail et 60% des terres agricoles deviendront des zones-tampon par nécessité sécuritaire ».

      Ce discours signe un alignement total avec les perspectives défendues ces derniers jours par les ministres d’extrême-droite Smotrich et Ben Gvir. Le premier expliquait ainsi le 31 décembre : « pour avoir la sécurité, nous devons contrôler le territoire et, pour cela, nous avons besoin d’une présence civile sur place ». Et d’ajouter : « S’il y avait 100 000 ou 200 000 Arabes à Gaza contre 2 millions aujourd’hui, le discours ne serait pas le même. » Alors que le projet d’annexion de la bande de Gaza de la part de responsables israéliens se fait de plus en plus clair, l’État d’Israël assume sa volonté d’aller au bout du nettoyage ethnique de la zone, par la guerre et par le déplacement forcé des gazaouis.
      Face à la réaction hypocrite du camp impérialiste, poursuivre la lutte pour la Palestine

      Les gouvernements occidentaux, alliés d’Israël, se sont fendus de communiqués dénonçant les premières déclarations des ministres d’extrême-droite. Du côté des Etats-Unis, le département d’État a qualifié mardi leurs propos « d’irresponsables ». L’État français a de son côté expliqué condamner « les propos des ministres israéliens des Finances, M. Bezalel Smotrich, et de la Sécurité nationale, M. Itamar Ben Gvir, appelant à « l’émigration » de la population gazaouie ainsi qu’au rétablissement de colonies à Gaza et à son occupation terrestre. »

      Des réactions totalement hypocrites de la part de gouvernements occidentaux qui, tout en appelant à la « modération » de la politique génocidaire d’Israël, n’ont jamais remis en question leur soutien à l’État sioniste Israël, auquel ils continuent à vendre du matériel militaire et dont ils soutiennent clairement l’offensive en cours. Une conséquence logique de leur appui historique à l’existence de cette enclave coloniale au service des intérêts impérialistes au Moyen-Orient. Une hypocrisie particulièrement visible à l’heure où Netanyahou s’aligne, une fois de plus, sur l’aile droite de son gouvernement.

      Dès la fondation de l’État d’Israël, avec la Nakba, et au fur et à mesure de l’extension de l’occupation des territoires palestiniens, le déplacement forcé des populations palestiniennes a été une constante dans la région. Aujourd’hui, près de 5 millions de réfugiés palestiniens vivent déjà dans des camps de réfugiés au Moyen-Orient. Le déplacement forcé de populations s’inscrit dans les pratiques génocidaires d’Israël, qui n’ont jamais remises en cause le soutien des gouvernements occidentaux à l’État d’Israël.

      Dans ce cadre, et face à la complicité objective des régimes arabes avec Israël, il y a urgence à poursuivre la construction d’un mouvement international de solidarité avec la Palestine. Un mouvement qui, pour peser, devra chercher à élargir le mouvement et à porter la lutte sur le terrain de la lutte de classes, pour pousser des sections syndicales dans des secteurs stratégiques à empêcher les livraisons de matériel militaire ou porter un coup aux profits de multinationales qui profitent de la colonisation de la Palestine.

      https://www.revolutionpermanente.fr/Plan-d-emigration-des-Palestiniens-Israel-avance-dans-son-proje

  • #Violences et fabrique de la #subalternité_foncière à #Sihanoukville, Cambodge

    Depuis le milieu des années 2010, la ville de Sihanoukville au Cambodge, principal #port du pays et petit centre de villégiature, fait l’objet d’un #développement_urbain éclair porté par la construction de nouvelles infrastructures de transport et de zones logistiques, de casinos (plus de 150 nouveaux casinos depuis 2015) et la mise en place de #mégaprojets_immobiliers à vocation touristique qui nourrissent une #spéculation_foncière galopante. Ces transformations territoriales sont notamment le fruit d’une coopération technique, politique et économique entre le Cambodge et la #Chine au nom de la #Belt_and_Road_Initiative, la nouvelle politique étrangère globale chinoise lancée en 2013 par #Xi_Jinping. Pour le gouvernement cambodgien, Sihanoukville et sa région doivent devenir, au cours de la prochaine décennie, la seconde plateforme économique, logistique et industrielle du pays après Phnom Penh, la capitale (Royal Government of Cambodia, 2015). Ce développement urbain très rapide a entraîné une évolution concomitante des logiques d’échange et de valorisation des #ressources_foncières. Comme le relève régulièrement la presse internationale, il nourrit d’importants #conflits_fonciers, souvent violents, dont pâtissent en premier lieu les habitants les plus pauvres.

    Cette recherche veut comprendre la place et le rôle de la violence dans le déploiement des mécanismes d’#exclusion_foncière à Sihanoukville. Pour reprendre les mots de Fernand Braudel (2013 [1963]), alors que ces #conflits_fonciers semblent surgir de manière « précipitée », notre recherche montre qu’ils s’inscrivent aussi dans les « pas lents » des relations foncières et de la fabrique du territoire urbain. Dans ce contexte, le jaillissement des tensions foncières convoque des temporalités et des échelles variées dont la prise en compte permet de mieux penser le rôle de la violence dans la production de l’espace.

    Les processus d’exclusion foncière au Cambodge s’inscrivent dans une trajectoire historique particulière. Le #génocide et l’#urbicide [1] #khmers_rouges entre 1975 et 1979, l’abolition de la #propriété_privée entre 1975 et 1989 et la #libéralisation très rapide de l’économie du pays à partir des années 1990 ont posé les jalons de rapports fonciers particulièrement conflictuels, tant dans les espaces ruraux qu’urbains (Blot, 2013 ; Fauveaud, 2015 ; Loughlin et Milne, 2021). Ainsi, l’#appropriation, l’#accaparement et la #valorisation des ressources foncières au Cambodge, et en Asie du Sud-Est en général, s’accompagnent d’une importante « #violence_foncière » tant physique (évictions et répression) que sociale (précarisation des plus pauvres, exclusion sociale), politique (criminalisation et dépossession des droits juridiques) et économique (dépossession des biens fonciers et précarisation).

    Cet article souhaite ainsi proposer une lecture transversale de la violence associée aux enjeux fonciers. Si la notion de violence traverse la littérature académique portant sur les logiques d’exclusion foncière en Asie du Sud-Est (Hall, Hirsch et Li, 2011 ; Harms, 2016) ou dans le Sud global plus généralement (Peluso et Lund, 2011 ; Zoomers, 2010), peu de recherches la placent au cœur de leurs analyses, malgré quelques exceptions (sur le Cambodge, voir notamment Springer, 2015). Par ailleurs, la violence est souvent étudiée en fonction d’ancrages théoriques fragmentés. Ceux-ci restent très divisés entre : 1) des travaux centrés sur le rôle de l’État et des systèmes de régulation (notamment économiques) dans le déploiement de la violence foncière (Hall, 2011 ; Springer, 2013) ; 2) des analyses politico-économiques des formes de dépossession liées aux modes de privatisation du foncier, à la propriété et à l’accumulation du capital, parfois resituées dans une lecture historique des sociétés coloniales et postcoloniales (voir par exemple Rhoads, 2018) ; 3) des approches considérant la violence comme stratégie ou outil mobilisés dans la réalisation de l’accaparement foncier et la répression des mouvements sociaux (voir par exemple Leitner and Sheppard, 2018) ; 4) des analyses plus ontologiques explorant les processus corporels, émotionnels et identitaires (comme le genre) qui découlent des violences foncières ou conditionnent les mobilisations sociales (voir par exemple Brickell, 2014 ; Schoenberger et Beban, 2018).

    Malgré la diversité de ces approches, la notion de violence reste principalement attachée au processus de #dépossession_foncière, tout en étant analysée à une échelle temporelle courte, centrée sur le moment de l’#éviction proprement dit. Dans cet article et à la suite de Marina Kolovou Kouri et al. (2021), nous défendons au contraire une approche multidimensionnelle des violences foncières analysées à des échelles temporelles et spatiales variées. Une telle transversalité semble indispensable pour mieux saisir les différentes forces qui participent de la construction des violences et de l’exclusion foncières. En effet, si les conflits fonciers sont traversés par diverses formes de violences, celles-ci ne découlent pas automatiquement d’eux et sont également déterminées par le contexte social, économique et politique qui leur sert de moule. Ces violences restent ainsi attachées aux différents #rapports_de_domination qui organisent les #rapports_sociaux en général (Bourdieu, 2018 [1972]), tout en représentant une forme d’#oppression à part entière participant des #inégalités et #injustices sociales sur le temps long (Young, 2011).

    Nous voyons, dans cet article, comment des formes de violence variées structurent les rapports de pouvoir qui se jouent dans l’appropriation et la valorisation des ressources foncières, ainsi que dans la régulation des rapports fonciers. Nous montrons que ces violences servent non seulement d’instrument d’oppression envers certains groupes de populations considérés comme « indésirables », mais aussi qu’elles les maintiennent dans ce que nous nommons une « subalternité foncière ». En prenant appui sur Chakravorty Spivak Gayatri (2005) et Ananya Roy (2011), nous définissons cette dernière comme la mise en place, sur le temps long et par la violence, d’une oppression systémique des citadins les plus pauvres par leur #invisibilisation, leur #criminalisation et l’#informalisation constante de leurs modes d’occupations de l’espace. La #subalternité foncière représente en ce sens une forme d’oppression dont la violence est l’un des dispositifs centraux.

    Cet article s’appuie sur des recherches ethnographiques menées à Phnom Penh et à Sihanoukville, entre 2019 et 2021. Elles comprennent un important travail d’observation, la collecte et l’analyse de documents officiels, de rapports techniques, d’articles de presse et de discours politiques, ainsi que la réalisation de près de soixante-dix entretiens semi-directifs (effectués en khmer principalement, parfois en mandarin, et retranscrits en anglais) auprès d’habitants de Sihanoukville, de représentants territoriaux locaux, d’experts et de membres de groupes criminels. Dans ce texte, le codage des entretiens suit la dénomination suivante : « OF » désigne les employés publics, « EX » des experts ayant une connaissance privilégiée du sujet, « RE » les résidents des zones d’habitat précaire et « F » les acteurs de la criminalité ; le numéro qui suit la lettre est aléatoire et sert à distinguer les personnes ayant répondu à l’enquête ; vient ensuite l’année de réalisation de l’entretien. De nombreux entretiens avec les habitants ont été conduits en groupe.

    https://www.jssj.org/article/violences-et-fabrique-de-la-subalternite-fonciere

    #foncier #Cambodge #Chine #violence

  • ‘Our country has lost its moral compass’ : #Arundhati_Roy

    From Arundhati Roy’s acceptance speech at the P. Govinda Pillai award function held in Thiruvananthapuram on December 13.

    Thank you for bestowing this honour on me in the name of P. Govinda Pillai, one of Kerala’s most outstanding scholars of Marxist theory. And thank you for asking N. Ram to be the person who graces this occasion. I know he won this prize last year, but he also in many ways shares the honour of this one with me. In 1998 he, as the editor of Frontline—along with Vinod Mehta, the editor of Outlook—published my first political essay, “The End of Imagination”, about India’s nuclear tests. For years after that he published my work, and the fact that there was an editor like him—precise, incisive, but fearless—gave me the confidence to become the writer that I am.

    I am not going to speak about the demise of the free press in India. All of us gathered here know all about that. Nor am I going to speak of what has happened to all the institutions that are meant to act as checks and balances in the functioning of our democracy. I have been doing that for 20 years and I am sure all of you gathered here are familiar with my views.

    Coming from north India to Kerala, or to almost any of the southern States, I feel by turns reassured and anxious about the fact that the dread that many of us up north live with every day seems far away when I am here. It is not as far away as we imagine. If the current regime returns to power next year, in 2026 the exercise of delimitation is likely to disempower all of South India by reducing the number of MPs we send to Parliament. Delimitation is not the only threat we face. Federalism, the lifeblood of our diverse country is under the hammer too. As the central government gives itself sweeping powers, we are witnessing the sorry sight of proudly elected chief ministers of opposition-ruled States having to literally beg for their States’ share of public funds. The latest blow to federalism is the recent Supreme Court judgment upholding the striking down of Section 370 which gave the State of Jammu and Kashmir semi-autonomous status. It isn’t the only State in India to have special status. It is a serious error to imagine that this judgment concerns Kashmir alone. It affects the fundamental structure of our polity.

    But today I want to speak of something more urgent. Our country has lost its moral compass. The most heinous crimes, the most horrible declarations calling for genocide and ethnic cleansing are greeted with applause and political reward. While wealth is concentrated in fewer and fewer hands, throwing crumbs to the poor manages to garner support to the very powers that are further impoverishing them.

    The most bewildering conundrum of our times is that all over the world people seem to be voting to disempower themselves. They do this based on the information they receive. What that information is and who controls it—that is the modern world’s poisoned chalice. Who controls the technology controls the world. But eventually, I believe that people cannot and will not be controlled. I believe that a new generation will rise in revolt. There will be a revolution. Sorry, let me rephrase that. There will be revolutions. Plural.

    I said we, as a country, have lost our moral compass. Across the world millions of people—Jewish, Muslim, Christian, Hindu, Communist, Atheist, Agnostic—are marching, calling for an immediate ceasefire in Gaza. But the streets of our country, which once was a true friend of colonised people, a true friend of Palestine, which once would have seen millions marching, too, are silent today. Most of our writers and public intellectuals, all but a few, are also silent. What a terrible shame. And what a sad display of a lack of foresight. As we watch the structures of our democracy being systematically dismantled, and our land of incredible diversity being shoe-horned into a spurious, narrow idea of one-size-fits-all nationalism, at least those who call themselves intellectuals should know that our country too, could explode.

    If we say nothing about Israel’s brazen slaughter of Palestinians, even as it is livestreamed into the most private recesses of our personal lives, we are complicit in it. Something in our moral selves will be altered forever. Are we going to simply stand by and watch while homes, hospitals, refugee camps, schools, universities, archives are bombed, a million people displaced, and dead children pulled out from under the rubble? The borders of Gaza are sealed. People have nowhere to go. They have no shelter, no food, no water. The United Nations says more than half the population is starving. And still they are being bombed relentlessly. Are we going to once again watch a whole people being dehumanised to the point where their annihilation does not matter?

    The project of dehumanising Palestinians did not begin with #Benyamin_Netanyahu and his crew—it began decades ago.

    In 2002, on the first anniversary of September 11 2001, I delivered a lecture called “Come September” in the United States in which I spoke about other anniversaries of September 11—the 1973 CIA-backed coup against President Salvador Allende in Chile on that auspicious date, and then the speech on September 11, 1990, of George W. Bush, Sr., then US President, to a joint session of Congress, announcing his government’s decision to go to war against Iraq. And then I spoke about Palestine. I will read this section out and you will see that if I hadn’t told you it was written 21 years ago, you’d think it was about today.

    —> September 11th has a tragic resonance in the Middle East, too. On the 11th of September 1922, ignoring Arab outrage, the British government proclaimed a mandate in Palestine, a follow-up to the 1917 Balfour Declaration which imperial Britain issued, with its army massed outside the gates of Gaza. The Balfour Declaration promised European Zionists a national home for Jewish people. (At the time, the Empire on which the Sun Never Set was free to snatch and bequeath national homelands like a school bully distributes marbles.) How carelessly imperial power vivisected ancient civilisations. Palestine and Kashmir are imperial Britain’s festering, blood-drenched gifts to the modern world. Both are fault lines in the raging international conflicts of today.
    –-> In 1937, Winston Churchill said of the Palestinians, I quote, “I do not agree that the dog in a manger has the final right to the manger even though he may have lain there for a very long time. I do not admit that right. I do not admit for instance, that a great wrong has been done to the Red Indians of America or the black people of Australia. I do not admit that a wrong has been done to these people by the fact that a stronger race, a higher-grade race, a more worldly wise race to put it that way, has come in and taken their place.” That set the trend for the Israeli State’s attitude towards the Palestinians. In 1969, Israeli Prime Minister Golda Meir said, “Palestinians do not exist.” Her successor, Prime Minister Levi Eschol said, “What are Palestinians? When I came here (to Palestine), there were 250,000 non-Jews, mainly Arabs and Bedouins. It was a desert, more than underdeveloped. Nothing.” Prime Minister Menachem Begin called Palestinians “two-legged beasts”. Prime Minister Yitzhak Shamir called them “grasshoppers” who could be crushed. This is the language of Heads of State, not the words of ordinary people.

    Thus began that terrible myth about the Land without a People for a People without a Land.

    –-> In 1947, the U.N. formally partitioned Palestine and allotted 55 per cent of Palestine’s land to the Zionists. Within a year, they had captured 76 per cent. On the 14th of May 1948 the State of Israel was declared. Minutes after the declaration, the United States recognized Israel. The West Bank was annexed by Jordan. The Gaza Strip came under Egyptian military control, and Palestine formally ceased to exist except in the minds and hearts of the hundreds of thousands of Palestinian people who became refugees. In 1967, Israel occupied the West Bank and the Gaza Strip. Over the decades there have been uprisings, wars, intifadas. Tens of thousands have lost their lives. Accords and treaties have been signed. Cease-fires declared and violated. But the bloodshed doesn’t end. Palestine still remains illegally occupied. Its people live in inhuman conditions, in virtual Bantustans, where they are subjected to collective punishments, 24-hour curfews, where they are humiliated and brutalized on a daily basis. They never know when their homes will be demolished, when their children will be shot, when their precious trees will be cut, when their roads will be closed, when they will be allowed to walk down to the market to buy food and medicine. And when they will not. They live with no semblance of dignity. With not much hope in sight. They have no control over their lands, their security, their movement, their communication, their water supply. So when accords are signed, and words like “autonomy” and even “statehood” bandied about, it’s always worth asking: What sort of autonomy? What sort of State? What sort of rights will its citizens have? Young Palestinians who cannot control their anger turn themselves into human bombs and haunt Israel’s streets and public places, blowing themselves up, killing ordinary people, injecting terror into daily life, and eventually hardening both societies’ suspicion and mutual hatred of each other. Each bombing invites merciless reprisal and even more hardship on Palestinian people. But then suicide bombing is an act of individual despair, not a revolutionary tactic. Although Palestinian attacks strike terror into Israeli citizens, they provide the perfect cover for the Israeli government’s daily incursions into Palestinian territory, the perfect excuse for old-fashioned, nineteenth-century colonialism, dressed up as a new-fashioned, 21st century “war”. Israel’s staunchest political and military ally is and always has been the US.
    –-> The US government has blocked, along with Israel, almost every UN resolution that sought a peaceful, equitable solution to the conflict. It has supported almost every war that Israel has fought. When Israel attacks Palestine, it is American missiles that smash through Palestinian homes. And every year Israel receives several billion dollars from the United States—taxpayers’ money.

    Today every bomb that is dropped by Israel on the civilian population, every tank, and every bullet has the United States’ name on it. None of this would happen if the US wasn’t backing it wholeheartedly. All of us saw what happened at the meeting of the UN Security Council on December 8 when 13 member states voted for a ceasefire and the US voted against it. The disturbing video of the US Deputy Ambassador, a Black American, raising his hand to veto the resolution is burned into our brains. Some bitter commentators on the social media have called it Intersectional Imperialism.

    Reading through the bureaucratese, what the US seemed to be saying is: Finish the Job. But Do it Kindly.

    —> What lessons should we draw from this tragic conflict? Is it really impossible for Jewish people who suffered so cruelly themselves—more cruelly perhaps than any other people in history—to understand the vulnerability and the yearning of those whom they have displaced? Does extreme suffering always kindle cruelty? What hope does this leave the human race with? What will happen to the Palestinian people in the event of a victory? When a nation without a state eventually proclaims a state, what kind of state will it be? What horrors will be perpetrated under its flag? Is it a separate state that we should be fighting for or, the rights to a life of liberty and dignity for everyone regardless of their ethnicity or religion? Palestine was once a secular bulwark in the Middle East. But now the weak, undemocratic, by all accounts corrupt but avowedly nonsectarian PLO, is losing ground to Hamas, which espouses an overtly sectarian ideology and fights in the name of Islam. To quote from their manifesto: “we will be its soldiers and the firewood of its fire, which will burn the enemies”. The world is called upon to condemn suicide bombers. But can we ignore the long road they have journeyed on before they have arrived at this destination? September 11, 1922 to September 11, 2002—80 years is a long time to have been waging war. Is there some advice the world can give the people of Palestine? Should they just take Golda Meir’s suggestion and make a real effort not to exist?”

    The idea of the erasure, the annihilation, of Palestinians is being clearly articulated by Israeli political and military officials. A US lawyer who has brought a case against the Biden administration for its “failure to prevent genocide”—which is a crime, too—spoke of how rare it is for genocidal intent to be so clearly and publicly articulated. Once they have achieved that goal, perhaps the plan is to have museums showcasing Palestinian culture and handicrafts, restaurants serving ethnic Palestinian food, maybe a Sound and Light show of how lively Old Gaza used to be—in the new Gaza Harbour at the head of the Ben Gurion canal project, which is supposedly being planned to rival the Suez Canal. Allegedly contracts for offshore drilling are already being signed.

    Twenty-one years ago, when I delivered “Come September” in New Mexico, there was a kind of omertà in the US around Palestine. Those who spoke about it paid a huge price for doing so. Today the young are on the streets, led from the front by Jews as well as Palestinians, raging about what their government, the US government, is doing. Universities, including the most elite campuses, are on the boil. Capitalism is moving fast to shut them down. Donors are threatening to withhold funds, thereby deciding what American students may or may not say, and how they may or may not think. A shot to the heart of the foundational principles of a so-called liberal education. Gone is any pretense of post-colonialism, multiculturalism, international law, the Geneva Conventions, the Universal Declaration of Human Rights. Gone is any pretence of Free Speech or public morality. A “war” that lawyers and scholars of international law say meets all the legal criterion of a genocide is taking place in which the perpetrators have cast themselves as victims, the colonisers who run an apartheid state have cast themselves as the oppressed. In the US, to question this is to be charged with anti-Semitism, even if those questioning it are Jewish themselves. It’s mind-bending. Even Israel—where dissident Israeli citizens like Gideon Levy are the most knowledgeable and incisive critics of Israeli actions—does not police speech in the way the US does (although that is rapidly changing, too). In the US, to speak of Intifada—uprising, resistance—in this case against genocide, against your own erasure—is considered to be a call for the genocide of Jews. The only moral thing Palestinian civilians can do apparently is to die. The only legal thing the rest of us can do is to watch them die. And be silent. If not, we risk our scholarships, grants, lecture fees and livelihoods.

    Post 9/11, the US War on Terror gave cover to regimes across the world to dismantle civil rights and to construct an elaborate, invasive surveillance apparatus in which our governments know everything about us and we know nothing about them. Similarly, under the umbrella of the US’ new McCarthyism, monstrous things will grow and flourish in countries all over the world. In our country, of course, it began years ago. But unless we speak out, it will gather momentum and sweep us all away. Yesterday’s news is that Jawaharlal Nehru University in Delhi, once among India’s top universities, has issued new rules of conduct for students. A fine of Rs.20,000 for any student who stages a dharna or hunger strike. And Rs 10,000 for “anti-national slogans”. There is no list yet about what those slogans are—but we can be reasonably sure that calling for the genocide and ethnic cleansing of Muslims will not be on it. So, the battle in Palestine is ours, too.

    What remains to be said must be said—repeated—clearly.

    The Israeli occupation of the West Bank and the siege of Gaza are crimes against humanity. The United States and other countries that bankroll the occupation are parties to the crime. The horror we are witnessing right now, the unconscionable slaughter of civilians by Hamas as well as by Israel, are a consequence of the siege and occupation.

    No amount of commentary about the cruelty, no amount of condemnation of the excesses committed by either side—and no amount of false equivalence about the scale of these atrocities—will lead to a solution.

    It is the occupation that is breeding this monstrosity. It is doing violence to both perpetrators and victims. The victims are dead. The perpetrators will have to live with what they have done. So will their children. For generations.

    The solution cannot be a militaristic one. It can only be a political one in which both Israelis and Palestinians live together or side by side in dignity, with equal rights. The world must intervene. The occupation must end. Palestinians must have a viable homeland. And Palestinian refugees must have the right to return.

    If not, then the moral architecture of Western liberalism will cease to exist. It was always hypocritical, we know. But even this provided some sort of shelter. That shelter is disappearing before our eyes.

    So please—for the sake of Palestine and Israel, for the sake of the living and in the name of the dead, for the sake of the hostages being held by Hamas and the Palestinians in Israel’s prisons—for the sake of all of humanity—stop this slaughter.

    Thank you once more for choosing me for this honour. Thank you too for the Rs 3 lakhs which comes with this prize. It will not remain with me. It will go towards helping activists and journalists who continue to stand up at huge cost to themselves.

    https://frontline.thehindu.com/the-nation/india-has-lost-its-moral-compass-arundhati-roy-on-israel-palestian-gaza-war/article67639421.ece

    #Gaza #à_lire #Palestine #Israel #boussole_morale #déshumanisation #11_septembre_1922 #responsabilité #occupation #Cisjordanie #USA #Etats-Unis #effacement #anéantissement #génocide #crime_contre_l'humanité #abattage

  • #Loi_immigration : après l’arrestation de livreurs en situation irrégulière, la colère d’#Éric_Piolle et d’élus de gauche

    Le maire de Grenoble et des représentants EELV et PS critiquent l’#opération_de_police de ce mercredi en Isère, et au passage la loi immigration.

    Le gouvernement voudrait passer à autre chose, la gauche s’y refuse. La loi immigration est revenue à toute vitesse dans les débats en cette fin décembre, conséquence de l’#arrestation d’une dizaine de #livreurs de repas en situation irrégulière mercredi 27 en #Isère, une information rapportée par Le Dauphiné Libéré. Le maire de #Grenoble, Éric Piolle, suivi par d’autres élus de gauche, a dénoncé « une #indignité » pendant que la CGT parlait de « #rafle ».

    L’édile écologiste a directement interpellé le ministre de l’Intérieur #Gérald_Darmanin, déplorant que « ces personnes seraient donc suffisamment ’régulières’ pour attendre dans le froid de vous livrer vos repas, mais pas pour vivre dignement avec nous ».

    « Voici le vrai visage de ce gouvernement »

    Éric Piolle veut ainsi relancer les discussions autour de la #régularisation des #travailleurs_sans_papiers dans les secteurs en tension. Une mesure ardemment défendue par la gauche pendant les débats sur la loi immigration, mais qui a finalement été écartée de la version du texte adoptée par le Parlement.

    https://twitter.com/EricPiolle/status/1740413156227182760

    Dans le sillage du maire, le secrétaire général du PS, #Olivier_Faure, s’est également exprimé les réseaux sociaux : « Si tous les étrangers en situation régulière ou irrégulière se mettaient en grève une journée, chacun se rendrait compte qu’ils sont dans tous les métiers de la seconde ligne, livreurs, auxiliaires de vie, caristes, assistantes maternelles… loués pendant la crise Covid et puis… ».

    Autre élue EELV, la présidente du groupe écologiste à l’Assemblée #Cyrielle_Chatelain a elle aussi dénoncé l’opération de police, et entre les lignes la loi immigration adoptée définitivement le 19 décembre dernier. « Voici le vrai visage de ce gouvernement : être méchant avec tous les étrangers, même s’ils travaillent, même s’ils s’intègrent », a-t-elle fustigé, là encore sur X (anciennement Twitter).

    Et pour cause : l’opération baptisée « #Uber_Eats », menée simultanément dans plusieurs localités iséroises (Grenoble, #Voiron, #Vienne…), a conduit à l’#interpellation de nombreux livreurs. Des ressortissants algériens, burkinabés, guinéens ou tunisiens qui ont été placés en #garde_à_vue à Lyon et Grenoble après la saisie de leur vélo, et qui ont été libérés après s’être vu notifier des #obligations_de_quitter_le_territoire_français (#OQTF) et des #interdictions_de_retour_sur_le_territoire (#IRTF), comme l’a expliqué #Mohamed_Fofana, responsable CGT des livreurs du département lors d’un point presse organisé ce vendredi.

    Piolle invité à « aimer les policiers »

    « Nous dénonçons cette opération de police (...) dans une période de fêtes où les associations de défense des migrants et beaucoup d’avocats sont en congé et les recours compliqués », a insisté ce responsable. « Nous sommes des travailleurs, pas des délinquants », a-t-il ajouté, rappelant que beaucoup de livreurs travaillent dans des conditions précaires et pour des « rémunérations scandaleusement basses ». « La place Victor Hugo (à Grenoble) a été complètement fermée par des camions de police. C’était une #nasse. Cela s’appelle une rafle quand cela vise une catégorie particulière de personnes », s’est indigné de son côté un responsable de l’Union locale de la CGT, Alain Lavi.

    Le procureur de la République de Grenoble, #Éric_Vaillant, a répondu à Éric Piolle et aux critiques ayant ciblé l’opération : « Ces #contrôles ont été opérés à ma demande. Ils ont aussi permis de constater que les livreurs en situation irrégulière étaient gravement exploités par ceux qui leur sous-louaient leur #licence. Des enquêtes sont engagées », a-t-il indiqué. La préfecture de l’Isère a pour sa part souligné être garante « de l’application des lois de la République ».

    Le ministre de l’Intérieur Gérald #Darmanin, interrogé à ce propos alors qu’il présentait le dispositif de sécurité pour la Saint-Sylvestre, s’est pour sa part contenté de lancer à Éric Piolle : « J’invite le maire de Grenoble à aimer les policiers et à soutenir la loi de la République ».

    https://twitter.com/BFMTV/status/1740687346364739605

    Quelques heures plus heures, l’élu EELV a répondu au ministre dans un tweet, en énumérant « les cinq actes » de la « #tragédie_macroniste : « laisser les #plateformes créer des situations d’#esclavage, voter la loi immigration avec le RN, imposer la politique du chiffre à la police, arrêter des personnes sans défense, inviter à aimer la police ».

    https://twitter.com/EricPiolle/status/1740738174350143880

    https://www.huffingtonpost.fr/politique/article/loi-immigration-apres-l-arrestation-de-livreurs-en-situation-irreguli
    #Eric_Piolle #résistance #migrations #sans-papiers #Eric_Vaillant

  • #Edward_Said sur #Palestine et #Israël :

    "Israel was constructed on the ruins of another society. And by the mass dispossession of another people who remain unacknowledged as just sort of obscure natives in the background. ’Back to the desert. Let them go to one of the other Arab countries’. That’s their position. The Oslo Accord, say specifically that Israel bears no responsability for the costs of occupation. This after 20 years, 26 years of military occupation, no responsability. As an Israeli journalist said: ’We took over the country in 1948 from the British, the British left us the port of Haifa, a road system, an electrical system, a large number of municipal buildings and lots of prisons, and we could build Israel. Without that there would be no state today. If we had taken Palestine in 1948, the way we left Gaza for Palestinians, there would be no Israel. We destroyed the economy, we deported most of the capable people, we forced the people to live in hovels and refugee camps over a period’. I mean anybody who’s been to Gaza, it’s one of the most criminal places on Earth because of Israeli policy of occupation, and they bear no responsability for it. I mean, that’s simply unacceptable, even for the Jewish people who have suffered so much. It’s unacceptable. You cannot continue to victimize somebody else just because you yourself were a victim once. There has to be a limit.

    https://twitter.com/IrrumAli/status/1740852446224691580
    #Edward_Saïd #responsabilité #à_lire #à_écouter

  • The Planning of Palestine: Urban Planning under and as Occupation with #Dana_Erekat and #Eyal_Weizman

    This episode is about planning in Palestine, and especially Gaza. As you all know, this is a podcast about Latin American Cities. However, right now it seems difficult to talk or think about anything other than the genocide unfolding in Palestine. Many of those of us who think critically about Latin American cities find so many connections between our histories and struggles and the settler-colonial project of Israel and its occupation of Palestine. This is particularly true when we reflect on the role of planning and architecture in cementing the occupation, dispossession and violence upon Palestinian people, and particularly Gazans. This is the focus of today’s episode.

    To discuss this, it is truly my privilege to host cohost, Mekarem Eljamal and our two guests, Dana Erekat and Eyal Weizman.

    Dana is a Palestinian architect and planner, with a BA in architecture from UC Berkeley and an Masters in City Planing from MIT. The list of positions she has held is as impressive at it is long. Among these, she has worked with the UNDP, with the World Bank, the Kenyon Institute, and more. From 2013-2012, she was Head of Aid Management and Coordination Directorate/ Special Advisor to the Minister at the Palestinian Ministry of Planning and Administrative Development, during which she led the technical committee for the 2014 Gaza Reconstruction plan. She is currently the CEO of the data analytic company Whyise.

    Eyal Weizman is Professor of Spatial and Visual Cultures and founding director of the Centre for Research Architecture at Goldsmiths, University of London. He is perhaps most known as the founder and director of Forensic Architecture, a multidisciplinary research group based at Goldsmiths, University of London that uses architectural techniques and technologies to investigate cases of state violence and violations of human rights around the world.

    Mekarem Eljamal is a Doctoral Student in Urban Planning at Columbia GSAPP. Her current research looks into the political economy of “mixed cities” within Israel, with particular attention to how the discursive invocations and conceptualizations of the “mixed city” sit vis-à-vis the material realities of the city. Eljamal’s work draws heavily on settler colonial scholarship as she explores the ways in which the deployment of the mixed city classification intersects with questions of multiculturalism, right to the city, and citizenship.

    https://open.spotify.com/episode/5ADzbTjRf0prYjmUB5HnxO
    #urban_matter #Palestine #Israël #Gaza #villes #aménagement_territorial #urbanisme #architecture_forensique #dépossession #violence #occupation #à_écouter #à_lire #audio

  • #Gramsci, défenseur des subalternes dans « un monde grand et terrible »

    Avec « L’Œuvre-vie d’Antonio Gramsci », Romain Descendre et Jean-Claude Zancarini nous plongent dans les combats et le laboratoire intellectuel d’une figure majeure de la tradition marxiste. Victime du fascisme et opposant au tournant stalinien du communisme, il a développé une pensée encore stimulante.

    « Gramsci« Gramsci, ça vous dit quelque chose ? Il était né en Sardaigne, dans une famille pauvre. À deux ans, une tuberculose osseuse le frappa à la moelle épinière, si bien qu’il ne mesura jamais plus d’un mètre et demi. Vous comprenez ? Un mètre et demi. Et pourtant, c’était un géant ! » Voilà comment, dans Discours à la nation (Les Éditions Noir sur Blanc, 2014), le dramaturge Ascanio Celestini présente le membre fondateur du Parti communiste italien (PCI), martyr du régime fasciste de Mussolini, aujourd’hui considéré comme un monument de la pensée marxiste.

    La même admiration pour « un des plus grands [philosophes] de son siècle » se ressent à la lecture du livre de Romain Descendre et Jean-Claude Zancarini, consacré à L’Œuvre-vie d’Antonio Gramsci (Éditions La Découverte). S’il existe déjà des biographies du révolutionnaire sarde (notamment celle de Jean-Yves Frétigné) ou des introductions de qualité à son œuvre (aux Éditions sociales ou à La Découverte), les deux spécialistes en études italiennes proposent, avec cet ouvrage de plus 500 pages, une enquête lumineuse et inégalée.

    Ils suivent pas à pas l’élaboration de la pensée gramscienne, liée aux événements de sa vie personnelle et militante, elle-même affectée par les soubresauts d’une époque que Gramsci a décrite comme un « monde grand et terrible ».

    Les deux auteurs embrassent ainsi tous les textes produits depuis ses premières années de militantisme socialiste dans les années 1910, jusqu’aux Cahiers de prison rédigés dans les années 1930, en passant par son implication dans le mouvement turinois des conseils d’usine en 1919-1920, puis son engagement comme responsable et chef du PCI dans les années 1920.

    « Sa vie, son action et sa pensée, écrivent Descendre et Zancarini, l’ont conduit à produire un corpus de textes ayant une double caractéristique rare : il conserve aujourd’hui encore une grande pertinence théorique et politique, en même temps qu’il hisse son auteur au rang des plus grands “classiques” européens. »

    Si c’est le cas, c’est parce que Gramsci a suivi une évolution intellectuelle singulière. Nourri de la lecture de philosophes italiens de son temps, il est imprégné d’une culture très idéaliste lorsqu’il découvre le marxisme. Tout en dépassant ses premières conceptions, il a développé une pensée subtile sur l’ordre politique et les moyens de le subvertir, en intégrant l’importance des conditions socio-économiques, mais en accordant toujours un rôle crucial aux idées et à la culture.
    La culture et l’organisation, clés de l’émancipation

    Certes, « Gramsci n’a jamais écrit ni pensé qu’il suffisait de gagner la bataille des idées pour gagner la bataille politique ». Pour autant, les deux auteurs repèrent chez lui une réflexion constante « sur les mots (idées ou images) qui permettent de mettre en mouvement une volonté collective et sur l’articulation entre pensée et action, entre interprétation et transformation du monde ».

    L’émancipation des groupes subalternes est le moteur de Gramsci, au sens où « possibilité [devrait être] donnée à tous de réaliser intégralement sa propre personnalité ». La chose est cependant impossible dans une société capitaliste, sans parler des autres dominations qui se combinent à l’exploitation du prolétariat ouvrier et paysan.

    Pour changer cet état de fait, la prise du pouvoir est nécessaire. Elle requiert des tâches d’organisation auxquelles Gramsci consacrera une bonne partie de sa vie, mais présuppose aussi un minimum de conscience, par les subalternes eux-mêmes, de leur condition, des tâches à accomplir pour la dépasser et de l’idéal de société à poursuivre. C’est pourquoi Gramsci insiste régulièrement dans son œuvre sur l’importance de s’approprier la culture classique existante, afin de la dépasser dans un but révolutionnaire.

    Citant un texte de 1917, Descendre et Zancarini pointent que selon Gramsci, « l’ignorance est le privilège de la bourgeoisie. […] Inversement, l’éducation et la culture sont un devoir pour les prolétaires, car la “civilisation socialiste”, qui vise la fin de toutes les formes de privilèges catégoriels, exige “que tous les citoyens sachent contrôler ce que décident et font tour à tour leurs mandataires” ». Avant que ce contrôle s’exerce à l’échelle de la société, Gramsci pensait nécessaire qu’il se déploie dans le parti révolutionnaire lui-même.

    À la même époque, des auteurs comme Roberto Michels délivrent des diagnostics sans concession sur les tendances oligarchiques qui finissent par affecter les partis de masse, y compris ouvriers. Or Gramsci est attaché à la forme-parti, qu’il juge indispensable pour affronter de manière « réaliste » la domination sociale et politique de la bourgeoisie. Contre tout fatalisme, il veut donc croire en la possibilité d’une dialectique démocratique, propre à éviter les « phénomènes d’idolâtrie, […] qui font rentrer par la fenêtre l’autoritarisme que nous avons chassé par la porte ».
    Un opposant au « tournant sectaire » de Staline

    Certes, Gramsci a été le dirigeant d’un parti de l’Internationale communiste dans lequel on ne plaisantait pas avec la discipline une fois l’orientation tranchée. Mais son attachement à la libre discussion n’était pas feint, et lui-même n’a pas hésité à interpeller de manière critique le parti frère russe, dans une missive d’octobre 1926 fort mal reçue par les intéressés, à l’époque où la majorité dirigée par Staline attendait un alignement sans discussion.

    L’épisode peut se lire comme un prélude à son rejet du « tournant sectaire » imprimé par Staline au mouvement communiste en 1928 – rejet qui l’a placé en porte-à-faux avec ses propres camarades, qui eux s’y sont ralliés. Gramsci était alors incarcéré, et doutait que tout soit fait, à l’extérieur, pour faciliter sa libération. Le constat de son « isolement », affirment Descendre et Zancarini, a en tout cas été « un élément déclencheur de sa réflexion » dans les Cahiers de prison.

    Les deux auteurs restituent bien les conditions compliquées dans lesquelles Gramsci a travaillé, en devant lutter contre la maladie, négocier l’accès aux lectures multiples qui le nourrissaient, et déjouer la surveillance de ses écrits. La ligne qu’il développait était originale, en ce qu’elle s’opposait tout autant au stalinisme qu’au trotskisme, sans se replier sur un réformisme social-démocrate. Mais « cette opposition de l’intérieur [ne devait] surtout pas être comprise ni récupérée par les autorités fascistes. D’où le caractère partiellement crypté – et donc ardu – de l’écriture de Gramsci. »

    Appuyés sur une nouvelle édition en cours des Cahiers de prison, Descendre et Zancarini décryptent comment le penseur sarde a élaboré un réseau de notions telles que « l’hégémonie politique », « la révolution passive », ou encore la « guerre de position » distinguée de la « guerre de mouvement ».

    En raison de la puissance de sa réflexion, ces notions peuvent encore nous aider à penser notre situation politique. Mais les deux spécialistes préviennent : « Le travail théorique de Gramsci ne produit jamais de catégories abstraites, encore moins un système à visée universelle : toute son élaboration critique et conceptuelle […] est en prise sur la réalité internationale autant qu’italienne. »

    Un exemple permet de bien le comprendre. Fin 1930, Gramsci défend auprès des autres détenus communistes une proposition hétérodoxe. Face au régime de Mussolini, estime-t-il, le PCI devrait travailler avec les autres forces antifascistes derrière le mot d’ordre de Constituante républicaine. Puisque « l’inutilité de la Couronne est désormais comprise par tous les travailleurs, même par les paysans les plus arriérés de Basilicate ou de Sardaigne », il s’agit d’un point de départ intéressant pour politiser des masses, avant d’aller plus loin.

    Au-delà du cas italien, il ne croit pas que la crise du capitalisme fournisse les conditions suffisantes à une offensive du prolétariat, du moins à court terme. Le refus du déterminisme économique est renforcé par le constat, préalable aux Cahiers de prison, des différences qui existent entre les pays d’Europe de l’Ouest et la Russie de 1917. Dans les premiers, la société civile et la société politique apparaissent beaucoup plus denses, et les élites dirigeantes sont mieux parvenues à reproduire le consentement des populations.

    C’est ce qui convainc Gramsci que la priorité est à la « guerre de position », c’est-à-dire une période longue d’apprentissages, d’accumulation de force, et d’élaboration d’une « contre-hégémonie ». Il ne croit certes pas à une transition pacifique vers le socialisme. Mais même après la dimension « militaire » de la prise du pouvoir, il estime qu’il restera beaucoup à faire pour qu’émerge un État nouveau, permettant à la société de s’autogouverner. Une « perspective anti-autoritaire et anti-bureaucratique » en contradiction avec l’évolution de l’État soviétique, que Gramsci cible en mettant en garde contre « le fanatisme aveugle et unilatéral de “parti” » et les risques d’une « statolâtrie » prolongée.

    Dans leur conclusion, Descendre et Zancarini rappellent que Gramsci s’était lui-même défini, dans une phrase terrible, comme « un combattant qui n’a pas eu de chance dans la lutte immédiate ». Si ses efforts n’ont toujours pas suffi à ce que triomphe une hégémonie des subalternes, ils lui auront néanmoins assuré une postérité impressionnante dans le champ de la pensée critique, bien au-delà de l’Italie et même de l’Occident.

    Pour les deux auteurs, Gramsci appartient à une génération « broyée dans les affrontements de cette époque, entre fascisme et communisme et au sein même du communisme ». Il se distingue cependant par « la force de [sa] résistance morale et intellectuelle ».

    C’est ce que traduit, à sa façon, le texte théâtral d’Ascanio Celestini par lequel nous avons commencé, et qui se poursuit ainsi : « Je suis en train de parler de Gramsci, le type qui fonda le Parti communiste italien et qui fit un seul discours au Parlement vu qu’ensuite les fascistes l’arrêtèrent et le jetèrent en prison où il passa dix années pendant lesquelles il transforma la pensée socialiste. Il sortit de prison cinq jours avant de mourir et pourtant, près d’un siècle plus tard, il nous rappelle que nous devons nous opposer au pessimisme de la raison en ayant recours à l’optimisme de la volonté. »

    https://www.mediapart.fr/journal/culture-et-idees/101223/gramsci-defenseur-des-subalternes-dans-un-monde-grand-et-terrible
    #Antonio_Gramsci #marxisme #culture #émancipation #organisation #exploitation #capitalisme #dominations #privilèges #civilisation_socialiste #éducation #ignorance #dialectique_démocratique #autoritarisme #idolâtrie #tournant_sectaire #Staline #hégémonie_politique #révolution_passive #guerre_de_position #guerre_de_mouvement #contre-hégémonie #socialisme #statolâtrie

    • L’Oeuvre-vie d’Antonio Gramsci

      Antonio Gramsci (1891-1937) reste l’un des penseurs majeurs du marxisme, et l’un des plus convoqués. L’Œuvre-vie aborde les différentes phases de son action et de sa pensée – des années de formation à Turin jusqu’à sa mort à Rome, en passant par ses activités de militant communiste et ses années d’incarcération – en restituant leurs liens avec les grands événements de son temps : la révolution russe, les prises de position de l’Internationale communiste, la montée au pouvoir du fascisme en Italie, la situation européenne et mondiale de l’entre-deux-guerres. Grâce aux apports de la recherche italienne la plus actuelle, cette démarche historique s’ancre dans une lecture précise des textes – pour partie inédits en France –, qui permet de saisir le sens profond de ses écrits et toute l’originalité de son approche.
      Analysant en détail la correspondance, les articles militants, puis les Cahiers de prison du révolutionnaire, cette biographie intellectuelle rend ainsi compte du processus d’élaboration de sa réflexion politique et philosophique, en soulignant les leitmotive et en restituant « le rythme de la pensée en développement ».
      Au fil de l’écriture des Cahiers, Gramsci comprend que la « philosophie de la praxis » a besoin d’outils conceptuels nouveaux, et les invente : « hégémonie », « guerre de position », « révolution passive », « subalternes », etc. Autant de concepts qui demeurent utiles pour penser notre propre « monde grand et terrible ».

      https://www.editionsladecouverte.fr/l_oeuvre_vie_d_antonio_gramsci-9782348044809
      #livre

  • #Inde : dans les champs du #Pendjab, la colère s’enracine

    Depuis leur soulèvement en 2021, les paysans du sous-continent sont revenus aux champs. Mais dans le grenier à #blé du pays, la révolte gronde toujours et la sortie de la #monoculture_intensive est devenue une priorité des #syndicats_agricoles.

    « Nous sommes rassemblés parce que la situation des agriculteurs est dans l’impasse. Dans le Pendjab, les paysans sont prisonniers de la monoculture du blé et du #riz, qui épuise les #nappes_phréatiques », explique Kanwar Daleep, président du grand syndicat agricole #Kisan_Marzoor. À ses côtés, ils sont une centaine à bloquer la ligne de train qui relie la grande ville d’Amritsar, dans le Pendjab, à New Delhi, la capitale du pays. Au milieu d’immenses champs de blé, beaucoup sont des paysans sikhs, reconnaissables à leur barbe et à leur turban.

    C’est d’ici qu’est parti le plus grand mouvement de contestation de l’Inde contemporaine. Pour s’opposer à la #libéralisation du secteur agricole, des paysans du Pendjab en colère puis des fermiers de toute l’Inde ont encerclé New Delhi pacifiquement mais implacablement en décembre 2020 et en 2021, bravant froids hivernaux, coronavirus et police. En novembre 2021, le premier ministre Narendra Modi a finalement suspendu sa #réforme, dont une des conséquences redoutées aurait été la liquidation des tarifs minimums d’achat garantis par l’État sur certaines récoltes.

    « Depuis cette #révolte historique, les agriculteurs ont compris que le peuple avait le pouvoir, juge #Sangeet_Toor, écrivaine et militante de la condition paysanne, basée à Chandigarh, la capitale du Pendjab. L’occupation est finie, mais les syndicats réclament un nouveau #modèle_agricole. Ils se sont emparés de sujets tels que la #liberté_d’expression et la #démocratie. »

    Pour Kanwar Daleep, le combat entamé en 2020 n’est pas terminé. « Nos demandes n’ont pas été satisfaites. Nous demandons à ce que les #prix_minimums soient pérennisés mais aussi étendus à d’autres cultures que le blé et le riz, pour nous aider à régénérer les sols. »

    C’est sur les terres du Pendjab, très plates et fertiles, arrosées par deux fleuves, que le gouvernement a lancé dans les années 1960 un vaste programme de #plantation de semences modifiées à grand renfort de #fertilisants et de #pesticides. Grâce à cette « #révolution_verte », la production de #céréales a rapidement explosé – l’Inde est aujourd’hui un pays exportateur. Mais ce modèle est à bout de souffle. Le père de la révolution verte en Inde, #Monkombu_Sambasivan_Swaminathan, mort en septembre, alertait lui-même sur les dérives de ce #productivisme_agricole forcené.

    « La saison du blé se finit, je vais planter du riz », raconte Purun Singh, qui cultive 15 hectares près de la frontière du Pakistan. « Pour chaque hectare, il me faut acheter 420 euros de fertilisants et pesticides. J’obtiens 3 000 kilos dont je tire environ 750 euros. Mais il y a beaucoup d’autres dépenses : l’entretien des machines, la location des terrains, l’école pour les enfants… On arrive à se nourrir mais notre compte est vide. » Des récoltes aléatoires vendues à des prix qui stagnent… face à un coût de la vie et des intrants de plus en plus élevé et à un climat imprévisible. Voilà l’équation dont beaucoup de paysans du Pendjab sont prisonniers.

    Cet équilibre financier précaire est rompu au moindre aléa, comme les terribles inondations dues au dérèglement des moussons cet été dans le sud du Pendjab. Pour financer les #graines hybrides et les #produits_chimiques de la saison suivante, les plus petits fermiers en viennent à emprunter, ce qui peut conduire au pire. « Il y a cinq ans, j’ai dû vendre un hectare pour rembourser mon prêt, raconte l’agriculteur Balour Singh. La situation et les récoltes ne se sont pas améliorées. On a dû hypothéquer nos terrains et je crains qu’ils ne soient bientôt saisis. Beaucoup de fermiers sont surendettés comme moi. » Conséquence avérée, le Pendjab détient aujourd’hui le record de #suicides de paysans du pays.

    Champs toxiques

    En roulant à travers les étendues vertes du grenier de l’Inde, on voit parfois d’épaisses fumées s’élever dans les airs. C’est le #brûlage_des_chaumes, pratiqué par les paysans lorsqu’ils passent de la culture du blé à celle du riz, comme en ce mois d’octobre. Cette technique, étroitement associée à la monoculture, est responsable d’une très importante #pollution_de_l’air, qui contamine jusqu’à la capitale, New Delhi. Depuis la route, on aperçoit aussi des fermiers arroser leurs champs de pesticides toxiques sans aucune protection. Là encore, une des conséquences de la révolution verte, qui place le Pendjab en tête des États indiens en nombre de #cancers.

    « Le paradigme que nous suivons depuis les années 1960 est placé sous le signe de la #sécurité_alimentaire de l’Inde. Où faire pousser ? Que faire pousser ? Quelles graines acheter ? Avec quels intrants les arroser ? Tout cela est décidé par le marché, qui en tire les bénéfices », juge Umendra Dutt. Depuis le village de Jaito, cet ancien journaliste a lancé en 2005 la #Kheti_Virasat_Mission, une des plus grandes ONG du Pendjab, qui a aujourd’hui formé des milliers de paysans à l’#agriculture_biologique. « Tout miser sur le blé a été une tragédie, poursuit-il. D’une agriculture centrée sur les semences, il faut passer à une agriculture centrée sur les sols et introduire de nouvelles espèces, comme le #millet. »

    « J’ai décidé de passer à l’agriculture biologique en 2015, parce qu’autour de moi de nombreux fermiers ont développé des maladies, notamment le cancer, à force de baigner dans les produits chimiques », témoigne Amar Singh, formé par la Kheti Virasat Mission. J’ai converti deux des quatre hectares de mon exploitation. Ici, auparavant, c’était du blé. Aujourd’hui j’y plante du curcuma, du sésame, du millet, de la canne à sucre, sans pesticides et avec beaucoup moins d’eau. Cela demande plus de travail car on ne peut pas utiliser les grosses machines. Je gagne un peu en vendant à des particuliers. Mais la #transition serait plus rapide avec l’aide du gouvernement. »

    La petite parcelle bio d’Amar Singh est installée au milieu d’hectares de blé nourris aux produits chimiques. On se demande si sa production sera vraiment « sans pesticides ». Si de plus en plus de paysans sont conscients de la nécessité de cultiver différemment, la plupart peinent à le faire. « On ne peut pas parler d’une tendance de fond, confirme Rajinder Singh, porte-parole du syndicat #Kirti_Kazan_Union, qui veut porter le combat sur le plan politique. Lorsqu’un agriculteur passe au bio, sa production baisse pour quelques années. Or ils sont déjà très endettés… Pour changer de modèle, il faut donc subventionner cette transition. »

    Kanwar Daleep, du Kisan Marzoor, l’affirme : les blocages continueront, jusqu’à obtenir des garanties pour l’avenir des fermiers. Selon lui, son syndicat discute activement avec ceux de l’État voisin du Haryana pour faire front commun dans la lutte. Mais à l’approche des élections générales en Inde en mai 2024, la reprise d’un mouvement de masse est plus une menace brandie qu’une réalité. Faute de vision des pouvoirs publics, les paysans du Pendjab choisissent pour l’instant l’expectative. « Les manifestations peuvent exploser à nouveau, si le gouvernement tente à nouveau d’imposer des réformes néfastes au monde paysan », juge Sangeet Toor.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/281223/inde-dans-les-champs-du-pendjab-la-colere-s-enracine
    #agriculture #monoculture #résistance

  • #Décès de #Dick_Marty, personnalité et politicien d’exception

    L’ancien député radical et procureur général du Tessin Dick Marty est mort jeudi, à l’âge de 78 ans. Celui qui fut aussi rapporteur au Conseil de l’Europe et membre de la Commission des droits de l’homme de l’OSCE avait acquis une notoriété internationale.

    La mort de M. Marty, qui a consacré une bonne partie de sa carrière à combattre les systèmes mafieux et à défendre les libertés, a été confirmée par le PLR Suisse à Keystone-ATS.

    Né en 1945 à Lugano, Dick Marty a été procureur du Tessin de 1975 à 1989 puis conseiller d’Etat, avant de siéger durant seize ans au Conseil des Etats, de 1995 à 2011. C’est durant cette période qu’il a été délégué à l’Assemblée parlementaire du Conseil de l’Europe à Strasbourg, dès 1998.

    Il s’y est fait connaître comme enquêteur spécial sur les très contestés transports de prisonniers de la CIA et les prisons secrètes américaines en Europe.

    Menaces de mort et haute surveillance

    Cette ancienne grande figure de la politique et de la justice suisses a longtemps vécu sous surveillance policière maximale, dès fin 2020. La Confédération avait été alertée que les services de renseignement serbes auraient cherché à assassiner M. Marty.

    « Les services serbes ont demandé à la pègre de me liquider, tout simplement pour faire retomber la faute sur les Kosovars », a-t-il confié au printemps 2022.

    Car le nom de Dick Marty a aussi étroitement été associé au Kosovo. En 2010, en tant que rapporteur spécial du Conseil de l’Europe à Strasbourg, le Tessinois avait dénoncé un trafic d’organes conduit dès 1999 par l’Armée de libération du Kosovo.

    Ses dénonciations pour crimes de guerre des milices kosovares contre la Serbie ont débouché sur l’inculpation en 2020, devant le Tribunal spécial de La Haye sur le Kosovo, de l’ancien président kosovar Hashim Thaci.

    Au plan national, Dick Marty s’est aussi fait connaître par sa présidence de feu l’Assemblée interjurassienne de 2011 à 2017, dans le cadre du conflit jurassien. Il a également été président de Suisse Tourisme pendant près de dix ans (1996-2007) et a présidé pendant trois ans le Conseil de l’Université de Neuchâtel, dès 2010.

    Parallèlement à son parcours politique et de défenseur des grandes causes, comme le combat contre la torture mais aussi contre le dopage dans le cyclisme, Dick Marty a exercé à temps partiel comme conseiller en droit et en économie.

    Homme de grande envergure

    Dans un hommage fort, le PLR tessinois regrette le décès d’une personnalité « de la plus haute envergure ». Dick Marty, écrit le parti, « laisse un vide incombable dans le paysage politique et social tessinois ». Au-delà, l’homme « était parvenu au fil des années à gagner le respect et la considération au niveau national et international ».

    Lors de ses enquêtes au Conseil de l’Europe, M. Marty s’est profilé comme un ardent défenseur des droits de l’homme, rappelle le PLR tessinois. Il a pris des risques, « qu’il a toujours affrontés avec courage et en suivant ses principes et son devoir institutionnel ».

    Pas toujours parfaitement dans la ligne de son parti, M. Marty est toujours resté fidèle à ses valeurs, avec la défense de l’individu et des libertés au coeur de son action, ajoute le parti. Qui conclut en mettant en exergue son charisme et sa profondeur de pensée, avec « sa voix qui inspirait le respect ».

    « Crise démocratique »

    Dans une interview parue début décembre dans La Liberté et Le Courrier, Dick Marty, souvent fin observateur, avait estimé que « la démocratie en Suisse traversait sa crise la plus importante depuis le siècle dernier. On assiste à un déplacement du pouvoir vers l’exécutif, au détriment du législatif et du judiciaire », déplorait-il.

    M. Marty a cité l’exemple des contrats à hauteur de milliards de francs pour des vaccins anti-Covid. « Aucune information sur le sujet n’a été rendue publique. Or, un des principes cardinaux de la démocratie est justement la transparence », a-t-il constaté, critiquant par ailleurs « le recours du Conseil fédéral au droit d’exception ».

    https://www.swissinfo.ch/fre/d%C3%A9c%C3%A8s-de-dick-marty--personnalit%C3%A9-et-politicien-d-exception/49090542

    J’ai signalé sur seenthis certaines infos/citations le concernant, une figure à qui je suis très attachée :
    https://seenthis.net/tag/dick_marty

    • Ungebetene Besucher

      Er kämpfte gegen Mafiosi, Geld­wäscherinnen und Kriegs­verbrecher. Seinen Ruhe­stand verbringt er unter Polizei­schutz. Wie Dick Marty seine Freiheit verlor.

      Gegen Ende des Jahres 2020 verloren zwei Männer ihre Freiheit. Einer war ein mutmasslicher Kriegs­verbrecher. Der andere hatte die Verbrechen untersucht. Der eine landete im Gefängnis. Der andere im Polizeischutz.

      Der eine hiess Hashim Thaçi, ein Kriegs­held, gefeierter Widerstands­kämpfer und der erste Premier­minister Kosovos. Er musste am 5. November 2020 als kosovarischer Präsident zurück­treten, wurde noch gleichentags verhaftet und nach Den Haag gebracht, um dort vor einem Kriegsverbrecher­tribunal angeklagt zu werden, er habe zum Ende des Kosovo­krieges Hunderte Menschen gefangen nehmen, foltern und töten lassen.

      Der andere hiess Dick Marty, ein ehemaliger Schweizer Ständerat aus Lugano. Er hätte die Verhaftung Thaçis mit sanfter Zufriedenheit aufnehmen können. Schliesslich hatte er 10 Jahre zuvor den Grundstein für die Anklage Thaçis gelegt, als er als Sonder­berichterstatter für den Europarat mutmassliche Kriegs­verbrechen der kosovarischen Befreiungs­armee UÇK in Kosovo und im Norden Albaniens untersuchte und schwere Vorwürfe gegen Thaçi und andere Führungs­personen der UÇK erhob.

      Aber Marty kümmerte die Verhaftung im November 2020 so wenig wie der Prozess­beginn vergangenen Frühling. Er war längst auf seiner nächsten Mission, in seinem letzten grossen politischen Kampf: die Abstimmung über die Konzern­verantwortungs­initiative. Danach wollte er seine politische Karriere abschliessen, sich aus der Öffentlichkeit zurück­ziehen.

      Marty verlor die Abstimmung. Aber er gewann den Ruhe­stand, den er schon so lange ersehnt hatte.

      Er dauerte nur 18 Tage.

      Dann, am Freitag­nachmittag des 18. Dezember 2020, tönte aus Martys Handy die Marsch­musik des «chant des partisans», sein Klingelton. Marty nahm den Anruf an. Am anderen Ende sprach der Kommandant der Tessiner Kantons­polizei und warnte: Es gebe eine ernste und unmittelbare Gefahr für Martys Leben. Er werde sofort unter Personen­schutz gestellt.

      Marty hörte zu, dann stellte er eine Frage. Sie bestand aus nur einem Wort: Balkan?

      Der Kommandant bejahte. Und damit änderte sich Martys Leben so radikal, wie er es sich in seinen absurdesten Gedanken nicht ausgemalt hätte. 16 Monate lang lebte Marty unter schwerem Schutz­regime der Polizei. Nie musste ein Politiker so lange so stark geschützt werden.

      Die Gefahr?

      «Ich vermutete damals UÇK-Nostalgiker», sagt Marty heute. Er lag falsch.
      1. Der grösste Drogenfund der Schweiz

      Dick Marty – schon der Name verspricht ein Abenteuer. Und tatsächlich könnte Marty, ehemaliger Staats­anwalt, ehemaliger Ständerat und ehemaliger Sonder­berichterstatter für den Europarat, eine Figur sein aus einem Kriminal­roman von Raymond Chandler – nur besonnener, vornehmer und sehr viel weniger verrucht. Eine Schweizer Version von Philip Marlowe, ein etwas aus der Zeit gefallener, fast altmodischer, aber grundehrlicher Mann auf der Suche nach dem, was Chandler die «verborgene Wahrheit» nannte und sein Held Marlowe simpel «Gerechtigkeit».

      Dick Marty wird im Januar 79 Jahre alt, aber als ich ihn an diesem sonnig-kalten Wintertag in Lugano treffe, kommt er um die Ecke geschossen, als wäre er auf der Durchreise: auf zum nächsten Termin, auf zum nächsten Rätsel.

      Er trägt feste Schuhe, Chinos, Hemd, Pullover, Schal, einen Fischer­hut und eine rote Goretex-Jacke – vielleicht ist das Zufall, vielleicht aber kleidet man sich so, wenn man ein Leben lang Mafiosi, Geld­wäscherinnen und Kriegs­verbrecher jagt, der CIA und der Uno auf die Füsse tritt, von Staats­chefs als Witz­figur und Nazi beschimpft wird und zwischen­durch einfach mal mit seinen Hunden durch die Tessiner Wälder streifen will: Man sucht sich ein Kleidungs­stück aus für jede Eventualität.

      Was Marty nie zu Hause lässt, ist seine Brille. Sie hilft ihm zu sehen, was andere übersehen.

      Als Marty 1945 zur Welt kam, war er fast blind. Der Arzt prophezeite der Mutter, dass ihr Kind nie sehen würde. Er täuschte sich. Aber Marty verbrachte viel Zeit in einer Augenklinik, allein, ohne Freunde und ohne die zwei älteren Geschwister.

      Vielleicht lernte Marty damals, allein zu sein, aber nicht einsam.

      In der Schule war Marty dann das einzige reformierte Kind in einer katholischen Klasse. Wenn der Priester unterrichtete, schickte er Marty und ein jüdisches Kind aus dem Zimmer.

      Darunter gelitten habe er nicht, sagt Marty. Aussen­seiter zu sein, habe ihn sogar stärker gemacht.

      Jedenfalls machte es ihm als Erwachsenem nichts aus, einen Weg ganz allein zu gehen.

      Seine Mutter wünschte ihm einen Beruf im Freien, Gärtner vielleicht, das würde die Augen schonen. Dick Marty aber interessierte sich für Psychologie, Politik, das Recht. Als er 11 Jahre alt war, verfolgte er aufmerksam, wie sich die Ungarn in Budapest gegen die Kommunisten erhoben und wie Algerien für die Unabhängigkeit von Frankreich kämpfte. Er schwänzte die Schule, um den Reden von Charles de Gaulle zu lauschen. Am Esstisch forderte er seine Eltern heraus, indem er für eine Algérie française einstand, nur um bald zu lernen, dass man eine Meinung ändern kann. Und soll.

      Als junger Staats­anwalt glaubte Marty in den 1970er-Jahren an die herrschende Doktrin: Jede Droge war gleich, jede Droge war gefährlich. Demnach mussten Drogen und alle, die damit zu tun hatten, bekämpft werden.

      «Ich glaubte anfangs, die Repression würde die Jugendlichen aus der Sucht retten», sagt Marty. «Aber das ist totaler Quatsch. Man straft nur Jugendliche, die schon Opfer sind. Doch gegen die grossen Profiteure unternimmt man nichts.»

      Dick Marty änderte das.

      An einem Wochen­ende im Februar 1987 hielt die Polizei bei Bellinzona einen kleinen Lastwagen an, öffnete den doppelten Boden des Fahrzeugs und fand darin 100 Kilogramm Heroin. Staats­anwalt Marty schlug mit seinem Coup gleich zwei Rekorde: Ihm gelang der bis dahin grösste Drogen­fund der Schweizer Kriminal­geschichte. Und er fing gleich­zeitig an, den grössten Geldwäscherei­fall der Schweizer Geschichte aufzudecken.

      Denn Marty fand im Lastwagen nicht nur einen Berg Heroin, sondern auch ein kleines Adress­buch mit Dutzenden Namen, die ihn einmal um die Welt führten.

      Ein Jahr später liess er einen internationalen Drogen- und Geldwäscherei­ring hochgehen, der kofferweise Bargeld in verschiedenen Währungen auf Konten der Schweizerischen Kredit­anstalt in Zürich geschaufelt hatte – 1,5 Milliarden Franken in nur zwei Jahren oder rund 2 Millionen jeden Tag.

      In diese «Libanon-Connection» verwickelt war auch der Geschäfts­mann Hans W. Kopp, der Ehemann von Elisabeth Kopp, der ersten Frau in der Schweizer Regierung, die, just eine Woche bevor Martys Ermittlungs­ergebnisse im Oktober 1988 publik wurden, ihren Mann anrief, ihn warnte und in der Folge wegen des Anrufs zurück­treten musste.

      Jetzt kannten ihn alle, den Mann mit dem Namen wie ein Privat­detektiv aus Los Angeles: Dick Marty, Chef der Tessiner Staats­anwaltschaft.

      Folgt man den Drogen, erwischt man Drogen­süchtige und Drogen­dealerinnen. Folgt man dem Geld, weiss man nie, wo zur Hölle es einen hinführt.

      Bei Marty klingelte das Telefon. Fulvio Pelli, Chef der Tessiner FDP. Er suchte einen glaubwürdigen Mann für die Tessiner Regierung. Also zog Marty ins nächste Abenteuer: die Politik.
      2. Mit Begleitung und im gepanzerten Wagen

      Wenn Marty durch die Gassen der Luganeser Altstadt geht, dann wundert man sich, dass er sich nicht öfter umsieht. Marty aber scheint es nicht zu kümmern, ob da jemand lauert, der nach seinem Leben trachtet oder es schützt.

      Er sagt, mit der Polizei habe er nur noch selten zu tun. Er bewege sich heute völlig frei. Zumindest fast.

      Kürzlich hatte Marty einen grossen Auftritt im Kunst- und Kultur­zentrum LAC Lugano. Er sprach vor mehr als 200 Personen über sein Leben und sein neustes Buch, das er im November veröffentlichte: «Verità irriverenti», «unverschämte Wahrheiten». Prompt standen sie wieder da: kräftige Gestalten mit Knopf im Ohr, wachem Blick und schnellen Schuhen an den Füssen.

      Martys Buch ist ein schmaler Band, in dem er von den ungebetenen Besuchern erzählt, die kurz vor Weihnachten 2020 in sein Haus einzogen.

      Zuerst war es das Kommando Spezial­kräfte der Armee, das Marty schützte. Der Bundesrat musste den Einsatz per Eilentscheid bewilligen. Die Elite­soldaten zogen im Keller von Martys Haus ein, überall lagen Gewehre, Granaten, Gasmasken. Eine Zeit lang trug Marty ständig eine kugel­sichere Weste, auch ein Kleidungs­stück für jede Eventualität. Das Haus verliess er nur in Begleitung und in gepanzertem Wagen.

      Später wurden Spezial­einheiten von verschiedenen Kantons­polizeien aufgeboten. Erst nach fast fünf Monaten zogen sie aus seinem Haus aus, aber sie folgten ihm weiter auf Schritt und Tritt, auch wenn Marty mit seinen Hunden im Wald spazieren ging.

      16 Monate ging das so. So lange hielt das Bundesamt für Polizei Fedpol die Lage für sehr gefährlich.

      «Stufe 4», sagt Marty. «Das ist die zweit­höchste Stufe.» Stufe 5 bedeutet: untertauchen. Die Polizei sagte Marty, nie zuvor sei in der Schweiz ein so grosses Sicherheits­dispositiv für so lange Zeit aufrecht­erhalten worden.

      Publik wurden das beispiellose Sicherheits­aufgebot und sein Hintergrund erst nach knapp eineinhalb Jahren. Einer Journalistin des Westschweizer Fernsehens RTS waren die Personen­schützerinnen bei einem Auftritt Martys aufgefallen. Nach langem Zögern erklärte sich Marty im Frühling 2022 bereit, öffentlich über seinen Fall zu sprechen.

      Er war enttäuscht, wie wenig Bundes­anwaltschaft und Fedpol bei den Ermittlungen voran­gekommen waren. Er übte öffentlich Kritik. Statt die Hinter­männer der Mord­pläne zu überführen, hielt man Marty quasi in Halb­gefangenschaft. Dabei hatte man recht schnell eindeutige Hinweise darauf, wer Marty umbringen wollte.
      3. Das gelbe Haus

      Dick Marty sass 16 Jahre für die FDP im Ständerat, 13 Jahre lang war er zudem im Europarat und wurde dort just zum Präsidenten der Menschen­rechts­kommission gewählt, als Ende 2005 in der «Washington Post» erstmals Hinweise publik wurden, dass die USA in ihrem Krieg gegen Terror in Europa Geheim­gefängnisse unterhielten, wohin sie angebliche und mutmassliche Terror­verdächtige verschleppten, wo sie sie folterten und verhörten. Der Europarat beschloss, die Vorwürfe zu untersuchen.

      Man suchte jemanden, der als unbestechlich galt, neutral, glaubwürdig. Ein Schweizer, der Erfahrung als Ermittler hatte. Sie fanden Dick Marty. Und zählten darauf, dass er nichts heraus­finden würde.

      Anfangs stiess Marty auf verschlossene Türen. Die europäischen Behörden weigerten sich, Auskunft zu geben. Aber mit öffentlichem Druck, einigem Glück und einem sehr tüchtigen Mitarbeiter gelang es Marty, an wichtige Flug­daten zu kommen. So konnte er nach­vollziehen, dass Flugzeuge aus Kabul in Osteuropa zwischen­landeten, wo die Gefangenen ausgeladen und verhört wurden. Marty fand zudem Informanten, auch innerhalb des Geheim­dienstes CIA.

      2006 und 2007 veröffentlichte Marty zwei vernichtende Berichte, in denen nicht nur die Existenz von CIA-Geheim­gefängnissen und Geheim­flügen durch Europa bestätigt wurde. Vielmehr belegte er, dass die USA nicht im Geheimen operierten, sondern im Wissen und mit Unterstützung zahlreicher europäischer Regierungen. Drei Monate später gab US-Präsident George W. Bush erstmals öffentlich die Existenz solcher Geheim­gefängnisse zu. Dick Marty ist überzeugt, dass sein Bericht ein Auslöser dafür war.

      «Wissen Sie», sagt Marty und verweist auf ein Zitat, das irrtümlich immer wieder Arthur Schopenhauer zugeschrieben wird: «Die Wahrheit geht immer durch drei Stadien. Zuerst wird sie lächerlich gemacht. Dann wird sie bekämpft. Und zum Schluss wird sie selbst­verständlich.»

      Marty nennt das die «Dynamik der Wahrheit».

      Das Ringen um die Wahrheit war Marty in der Politik immer wichtig: als er die CIA-Methoden aufdeckte, als er sich für die Konzern­verantwortungs­initiative einsetzte und natürlich, als er im Kosovo mutmassliche Kriegs­verbrechen untersuchte.

      Die Wahrheit, sagt Marty, sei gegenüber der Lüge immer im Nachteil. Denn die Lüge sei einfacher, bequemer und darum häufig beliebter als die Wahrheit.

      Aber ohne Wahrheit gibt es keine Gerechtigkeit. Und das ist letztlich das, was Marty immer angetrieben hat. «Wenn ich nicht nach der Wahrheit suche, kann ich nicht in den Spiegel schauen. Das ist vielleicht altmodisch oder naiv. Aber so ist mein Gewissen.»

      2008 veröffentlichte Carla Del Ponte, die ehemalige Chef­anklägerin des Kriegsverbrecher­tribunals in Den Haag, ihre Memoiren. Darin schrieb sie unter anderem über Hinweise, dass die Befreiungs­armee UÇK nach Ende des Kosovo­krieges mehrere hundert Personen habe verschwinden lassen.

      Für grosse Aufregung sorgte Del Pontes Verdacht, was mit einem Teil der Verschwundenen geschehen sein soll: Journalistinnen hatten Del Ponte von einem «gelben Haus» im nördlichen Albanien berichtet, wo junge und gesunde Gefangene hingebracht worden seien, um ihnen Organe zu entnehmen und diese dann ins Ausland zu verkaufen.

      Das klang wie ein Schauer­märchen. Die Geschichte ging einmal um die Welt.

      Der Europarat wollte den Vorwürfen nachgehen. Wieder suchte man jemanden für einen Job, den niemand wollte. Wieder rief man Dick Marty. Er sagte, es werde eine «mission impossible».

      Sonderbericht­erstatter Marty ermittelte während zwei Jahren in Serbien, in Kosovo, in Albanien. Er las vertrauliche Dossiers, liess sich Beweise zeigen, hörte Zeugen an. Er sagt: «Es war sehr schwierig, Zeugen zu finden. Denn die internationalen Gerichte waren nie in der Lage, Zeugen zu schützen.»

      Marty kam trotzdem voran. Denn er hatte bei seinen Recherchen zwei Vorteile.

      Erstens: Er hatte sich bei der Enthüllung der CIA-Geheim­gefängnisse den Ruf erarbeitet, hartnäckig zu sein und glaubwürdig.

      Zweitens: Er war kein Ermittler, sondern Bericht­erstatter. Die Zeuginnen würden nicht vor Gericht aussagen müssen.

      2011 legte er einen umfangreichen Bericht vor. Demnach entführte die UÇK nach Ende des Krieges Serben, Roma und (dissidente) kosovarische Albanerinnen, unterwarf sie unmenschlicher und erniedrigender Behandlung und tötete sie anschliessend.

      Marty schien auch Del Pontes Schilderungen über die Vorgänge im «gelben Haus» zu bestätigen. Im Bericht schrieb Marty von «zahlreichen Hinweisen» auf illegalen Handel mit Organen. Und auch heute sagt er im Gespräch: «Ich habe Zeugen getroffen, die mir sagten, sie hätten persönlich am Organ­handel teilgenommen. Sie müssten jeden Tag damit leben, aber sie würden niemals vor einem Gericht aussagen. Sie wollten ihre Familie nicht in Gefahr bringen.»

      Marty schrieb in den Bericht, Anfang der Nuller­jahre hätten «konkrete Beweise» existiert, aber die internationalen Behörden hätten darauf verzichtet, die Umstände zu untersuchen, oder es nur oberflächlich getan. Der Bericht war nicht nur ein Angriff auf die UÇK, sondern vor allem auch eine Kritik an den internationalen Organisationen und an den USA, dass sie bewusst weggesehen hätten. Denn politisch war es nicht opportun, dass es unter den Albanern nicht nur Opfer gab, sondern auch Täter.

      Die Reaktionen auf den Bericht folgten sofort.

      Bernard Kouchner, der Leiter der Uno-Mission im Kosovo, lachte Marty vor laufender Kamera aus. Hashim Thaçi verglich Marty in einem Interview mit Joseph Goebbels. Edi Rama verlangte vom Europarat, den Bericht zu entfernen, Marty sei von Putin gezahlt worden.

      Marty kümmert das bis heute kaum. Er erinnert stattdessen an die «Dynamik der Wahrheit» und sagt: Im Sommer 2014 hätten die Ermittlungen eines US-Staats­anwalts seinen Bericht über weite Strecken bestätigt. Sie stützten auch Martys Erkenntnisse über die Entnahme von und den Handel mit Organen, diese Praxis habe statt­gefunden, wenn auch «in sehr beschränktem Umfang».

      Und doch: Als im Frühling 2023 der Prozess gegen Hashim Thaçi und weitere Anführer der UÇK vor dem Kosovo-Tribunal in Den Haag begann, war in der Anklage­schrift von Organ­handel nicht mehr die Rede. Es gab zu wenig Beweise für eine Anklage.

      Ärgert ihn das?

      «Nein», sagt Marty gelassen. «Die Anklage lautet auf Verbrechen gegen die Menschlichkeit.» Er will sagen: Es ist alles noch viel schlimmer.

      Der Organhandel habe ohnehin nur einen kleinen Teil der Kriegs­verbrechen ausgemacht, die damals verübt wurden. Aber die Geschichte vom «gelben Haus» habe die Journalistinnen masslos fasziniert und deshalb viel, zu viel, Platz eingenommen in der Bericht­erstattung.
      4. Der Spion, der aus dem Balkan kam

      Die Geschichte verfolgt Marty bis heute. Ein Jahrzehnt nach der Veröffentlichung seines Berichts holt sie ihn im Dezember 2020 ein, als das Telefon klingelt und plötzlich Gefahr droht vom Balkan.

      UÇK-Nostalgiker, dachte Marty damals. Genaue Angaben, wer hinter den Mord­plänen steckte, bekam er nicht. Erst nach einigen Monaten unter strengster Überwachung sickerten Informationen zu Marty durch.

      Ein Informant, der in den Neunziger­jahren im jugoslawischen Geheimdienst ausgebildet worden war und später als Doppel­agent für verschiedene Polizeien Europas arbeitete, hatte mitbekommen, dass ein Anschlag auf Marty geplant war. Die Waffen sollen da bereits in die Schweiz geschmuggelt worden sein. Als der Informant davon Wind bekam, benachrichtigte er das Fedpol. Marty erhielt Schutz. Aber gemäss den Angaben des Informanten waren die mutmasslichen Täter keine Kosovaren, wie Marty zuerst vermutete, sondern serbische Kriminelle mit engen Verbindungen zu Polizei und Geheimdienst.

      Das Westschweizer Fernsehen RTS hat den Informanten ausfindig gemacht und ihn unter grösster Geheim­haltung getroffen. Er sagt, er sei wegen Fehlern der Schweizer Sicherheits­behörden aufgeflogen und habe unter­tauchen müssen.

      Marty vermutet, die mutmasslichen Attentäterinnen seien dem Informanten auf die Schliche gekommen, als die Schweiz über Interpol Belgrad nach den Verdächtigen suchte. Der Informant wurde in der Folge bedroht und floh in die Schweiz, wo ihm laut RTS eine neue Identität verschafft wurde.

      Das Bundesamt für Polizei Fedpol stritt diese Darstellung von RTS später öffentlich ab. Man habe lediglich eine allgemeine Erkenntnis­anfrage nach Belgrad gestellt.

      In den anderen wesentlichen Punkten aber bestätigten Fedpol, Bundes­anwaltschaft und auch der Bundesrat die Recherchen von RTS. Der Fall sei nicht nur strafrechtlich relevant, sondern habe vor allem auch eine politische Komponente. Man stehe im Austausch mit den serbischen Behörden.

      Die Bundes­anwaltschaft hält gegenüber der Republik fest, dass das Verfahren nach wie vor laufe, sie macht darüber hinaus im Moment keine Angaben.

      Die serbischen Behörden wiesen die Vorwürfe von sich, in ein Mord­komplott gegen Marty verwickelt zu sein.
      5. Der letzte Liberale

      Wenn Marty kann, dann verlässt er mit seinem Hund Leim das Haus und streift durch die Wälder in den Hügeln über Lugano. Auf den stunden­langen Spazier­gängen grübelt er über den Zustand der Welt, der Demokratie und der Schweiz. Manchmal, erzählt er, verliere er sich so sehr in seinen Gedanken, dass er sie mit den Bäumen teile.

      «Das Alter», sagt Marty und lächelt.

      Kaum ein Schweizer Politiker hat international so viel Bekanntheit erlangt wie er. In der Schweiz fällt Martys Name heute vor allem dann, wenn man sich auf die Suche macht nach den letzten Liberalen in der freisinnigen Partei.

      Aber über seine alte Partei mag Marty nicht gross reden. Dabei führte er seinen letzten innen­politischen Kampf ausgerechnet gegen die freisinnige Justiz­ministerin Karin Keller-Sutter. In seinem Buch wirft er ihr vor, sie habe die Konzern­verantwortungs­initiative «mit viel Eifer und grosser Nonchalance gegenüber der Wahrheit» bekämpft (die Geschäfts­prüferinnen des Bundes gaben ihm kürzlich recht). Und wer Marty ein wenig kennt, merkt, dass das eine der schlimmsten Beleidigungen überhaupt ist.

      Für Linke ist Marty eine Art Sehnsuchts­figur, für Rechte eher ein Dissident. Wahr ist vermutlich beides: Marty hat die politischen Verhältnisse sehr häufig kritisiert, ohne Rücksicht darauf, ob das vorteilhaft oder willkommen war.

      Manchen gilt Marty deswegen als Nest­beschmutzer, aber er sagt: «Ungerechtigkeit, Korruption und schlechte Regierungs­führung anzuprangern, ist nicht nur die Pflicht eines Bürgers, sondern ein Akt tiefer Verbundenheit mit dem eigenen Land. Die Schweiz zu kritisieren, ist also ein Akt der Liebe.»

      «Dennoch, warum gehen Sie so weit?», frage ich.

      «Weil ich nicht gleichgültig geworden bin. Antonio Gramsci sagte: ‹Ich hasse die Gleichgültigen.› So geht es mir auch. Aber ich weiss schon, ich kann nicht alle Probleme der Welt lösen. Ich bin nur ein piccolo granello di sabbia – ein kleines Sandkorn.»

      «Sie haben sich damit in Ihrem politischen Leben nicht viele Freunde gemacht …»

      «Wissen Sie, die Wahrheit ist fast immer unangenehm. Ich habe immer nur mit zwei, drei Leuten gearbeitet, denen ich traute. Ich sagte: Wir müssen die Wahrheit suchen, ganz egal, was dann wird.»

      «War es das wert?»

      «Für die Allgemeinheit wahrscheinlich nicht so sehr. Aber für mich? Ich habe ein ruhiges Gewissen und kann jeden Tag in den Spiegel schauen. Und ich denke: Geheim­gefängnisse wird es in Europa wahrscheinlich für eine Zeit nicht mehr geben.»

      «Und was», frage ich mit Blick auf die eineinhalb Jahre, die Marty unter schwerstem Polizei­schutz verbrachte, «bleibt von dieser Episode?»

      «Viel verlorene Zeit.»
      6. Auf der Suche nach der verborgenen Wahrheit

      Heute wird Dick Marty nicht mehr auf Schritt und Tritt von Polizistinnen begleitet. Er kann tun und lassen, was er will, und wenn er Journalisten zum Tee trifft, zieht er in aller Regel keinen Schatten hinter sich her.

      Aber Marty ist wenig unterwegs in diesen Tagen. «Ich führe meinen letzten Kampf», sagt Marty. «Jetzt habe ich es mit einem viel gefährlicheren Feind zu tun. Und gegen den nützt auch die beste Polizei der Welt nichts.»

      Die Einschränkungen, die fehlende Freiheit, das Leben unter dem Radar – das alles hat Marty gut weggesteckt. Nur zwei Dinge lassen ihn nicht los.

      Das Erste ist der Preis, den seine Familie zahlte.

      «Ich habe eine Enkelin im Teenager­alter, die sehr häufig bei uns ist. Für sie war es eine sehr grosse Belastung, in ein Haus zu kommen, in dem überall Waffen, Masken und fremde Leute rumstanden», sagt Marty. «Ich kann vieles vergeben, aber das? Das kann ich nicht verzeihen.»

      Das Zweite hat direkt mit dem Ersten zu tun. Marty versteht nicht, warum die Schweizer Sicherheits­behörden trotz guter Informations­lage erst sehr spät gegen die mutmasslichen Attentäter ermittelten und bis heute kein Ergebnis vorlegen konnten.

      Ist das Dilettantismus? Falsche Vorsicht? Oder steckt Kalkül dahinter? Nahm die Schweiz die monatelange Gefangenschaft eines ehemaligen Magistraten in seinem eigenen Haus in Kauf, weil sie Serbien aus diplomatischen Gründen schonen wollte? Wollten die Schweizer Sicherheits­behörden einen befreundeten Geheim­dienst mit engen Verbindungen in die kriminelle Unterwelt nicht verärgern? Oder die ohnehin fragilen serbisch-kosovarischen Beziehungen nicht für einen ausgeschiedenen Parlamentarier auf die Probe stellen? Wer sind die Verantwortlichen in diesem hoch­politischen Rechtsfall, und wer fällte die Entscheidungen? Und warum wollen die zuständigen Bundesräte wie etwa Aussen­minister Ignazio Cassis so wenig über die Affäre gewusst haben?

      Die Fragen führen womöglich mitten in einen komplexen politischen Skandal. Nur gibt es offenbar niemanden, der ein ernsthaftes Interesse daran hat, die Fragen zu beantworten. Dafür bräuchte es jemanden mit einem feinen Gespür für Gerechtigkeit, jemanden, der mit vielen Wassern gewaschen ist, aber immer noch ehrlich, einen Mann auf der Suche nach der verborgenen Wahrheit, einen wie Dick Marty.

      https://www.republik.ch/2023/12/20/dick-marty-und-die-ungebetenen-besucher

  • #Climat des exoplanètes: d’habitables à infernales, un rien suffit

    Une équipe de l’UNIGE, du PRN PlanetS et du CNRS est parvenue à simuler de manière complète l’emballement de l’effet de serre, qui peut rendre une planète totalement inhabitable.

    La Terre est une magnifique planète bleue et verte, couverte d’océans et de vie, alors que Vénus est une boule jaune stérile totalement inhospitalière. Pourtant, la différence entre les deux ne tient qu’à quelques degrés seulement. Une équipe d’astronomes de l’Université de Genève (UNIGE) et membres du Pôle de Recherche National (PRN) PlanetS, avec le soutien des laboratoires du CNRS de Paris et Bordeaux, a réalisé une première mondiale en parvenant à simuler la totalité du processus d’#emballement de l’effet de serre, qui peut transformer le climat d’une planète idyllique et parfaitement habitable en un environnement plus qu’inhospitalier. Les scientifiques ont par ailleurs démontré que dès les premiers signes du processus, les structures de l’#atmosphère et de la #couverture_nuageuse sont modifiées en profondeur, conduisant à un #emballement de l’effet de serre quasi-inéluctable et extrêmement compliqué à inverser. Sur Terre, une élévation de seulement quelques dizaines de degrés Celsius de la température moyenne globale, provoquée par une légère augmentation de la luminosité du Soleil, serait suffisante pour provoquer cet emballement et rendre notre planète inhabitable. Ces résultats sont à découvrir dans Astronomy & Astrophysics.

    L’idée d’un #emballement_de_l’effet_de_serre n’est pas nouvelle. Dans ce #scénario, une planète peut évoluer d’un état tempéré semblable à la Terre à un véritable enfer, avec une surface à plus de 1000°C. En cause ? La #vapeur-d’eau, gaz à effet de serre naturel. Celle-ci empêche le rayonnement solaire absorbé par la Terre d’être réémis vers le vide spatial, sous forme de rayonnement thermique. La vapeur d’eau piège donc la chaleur, un peu à la manière d’une couverture de survie. Un soupçon d’effet de serre est utile – sans lui, la Terre aurait une température moyenne négative, ressemblant alors à une boule couverte de glace et hostile à la vie.

    À l’opposé, un effet de serre trop important augmente l’évaporation des océans et donc la quantité de vapeur d’eau dans l’atmosphère. « Il existe un seuil critique pour cette quantité de vapeur d’eau au-delà duquel la planète ne peut plus refroidir. À partir de là, tout s’emballe, jusqu’à ce que les océans finissent par s’évaporer totalement et que la température atteigne plusieurs centaines de degrés », explique Guillaume Chaverot, ancien chercheur post-doctorant au Département d’astronomie de l’UNIGE, et auteur principal de l’étude.

    Première mondiale

    « Jusqu’à présent, les autres études clés en climatologie se sont concentrées sur l’étude soit de l’état tempéré avant l’emballement, soit de l’état inhabitable à l’issue de l’emballement », révèle Martin Turbet, chercheur dans les laboratoires CNRS de Paris et Bordeaux, et co-auteur de l’étude. « C’est la première fois qu’une équipe étudie la transition en elle-même avec un modèle 3D de climat global, et s’intéresse à la façon dont le climat et l’atmosphère évoluent durant ce processus ».

    L’un des points clés de l’étude décrit la mise en place d’un motif nuageux bien particulier, participant à l’effet d’emballement et rendant le phénomène inexorable. « Dès le début de la transition, on peut voir que des nuages très denses se développent dans la haute atmosphère. Cette dernière ne présente d’ailleurs plus l’inversion de température typique de l’atmosphère terrestre et séparant ses deux couches principales : la troposphère et la stratosphère. La structure de l’atmosphère est modifiée en profondeur », indique Guillaume Chaverot.

    Des conséquences pour la recherche de vie ailleurs

    Cette découverte est un élément central pour l’étude du climat sur d’autres planètes, en particulier sur les exoplanètes – des planètes orbitant autour d’autres étoiles que le Soleil. « En étudiant le climat d’autres planètes, l’une de nos principales motivations est de déterminer le potentiel de celles-ci d’abriter la vie », détaille la professeure Émeline Bolmont, directrice du Centre pour la Vie dans l’Univers (CVU) de l’UNIGE et co-auteure de l’étude.

    Le CVU mène des projets de recherche interdisciplinaires de pointe sur l’origine de la vie sur Terre et sur la recherche de la vie dans notre système solaire et les systèmes exoplanétaires. « Grâce à de précédentes études, nous soupçonnions déjà un tel seuil de vapeur d’eau critique, mais la formation du motif de nuages est une vraie surprise ! », s’enthousiasme Émeline Bolmont. « Nous avons étudié en parallèle comment ce motif pourrait créer une ‘‘empreinte’’ spécifique détectable lors de l’observation des atmosphères exoplanétaires. La prochaine génération d’instruments devrait être à même de la détecter », précise Martin Turbet. L’équipe ne compte d’ailleurs pas s’arrêter là, Guillaume Chaverot ayant en effet reçu une bourse de recherche pour poursuivre cette étude à l’Institut de Planétologie et d’Astrophysique de Grenoble (IPAG). Cette nouvelle étape du projet de recherche se concentrera sur le cas spécifique de la Terre.

    Une planète Terre à l’équilibre fragile

    Avec ces nouveaux modèles climatiques, les scientifiques ont calculé qu’un accroissement infime de la luminosité du Soleil - conduisant à une augmentation de seulement quelques dizaines de degrés de la température moyenne terrestre - pourrait être suffisant pour enclencher ce processus irréversible sur Terre et rendre celle-ci aussi inhospitalière que Vénus. L’un des enjeux climatiques actuels est de réussir à limiter le réchauffement moyen sur Terre, résultant des émissions de gaz à effet de serre, à seulement 1.5 degrés d’ici 2050. L’une des questions de la bourse de recherche de Guillaume Chaverot est de déterminer si les gaz à effet de serre peuvent démarrer ce processus d’emballement comme le ferait un accroissement de la luminosité du Soleil. Si oui, la question suivante sera de déterminer si les températures de déclenchement sont les mêmes pour les deux processus.

    La Terre n’est donc pas si loin de ce scénario apocalyptique. « Dans l’hypothèse où ce processus d’emballement s’enclencherait, une évaporation de seulement 10 mètres de la surface des océans résulterait en une augmentation de la pression atmosphérique au sol d’1 bar. En quelques centaines d’années, nous atteindrions une température de plus de 500°C au sol. Plus tard, nous atteindrions même jusqu’à 273 bars de pression et plus de 1500°C, lorsque la totalité des océans finirait par être évaporée », conclut Guillaume Chaverot.

    Les exoplanètes à Genève : 25 ans d’expertise couronnés par un prix Nobel

    La première exoplanète a été découverte en 1995 par deux chercheurs de l’Université de Genève, Michel Mayor et Didier Queloz, lauréats du prix Nobel de physique 2019. Cette découverte a permis au Département d’astronomie de l’Université de Genève de se situer à la pointe de la recherche dans le domaine avec notamment la construction et l’installation de HARPS sur le télescope de 3,6m de l’ESO à La Silla en 2003.

    Ce spectrographe est resté pendant deux décennies le plus performant du monde pour déterminer la masse des exoplanètes. HARPS a cependant été surpassé en 2018 par ESPRESSO, un autre spectrographe construit à Genève et installé sur le Very Large Telescope (VLT) à Paranal, au Chili.

    La Suisse s’est aussi engagée dans les observations depuis l’espace des exoplanètes avec la mission CHEOPS, résultat de deux expertises nationales, d’une part le savoir-faire spatial de l’Université de Berne avec la collaboration de son homologue genevoise, et d’autre part l’expérience au sol de l’Université de Genève secondée par sa consœur de la capitale helvétique. Deux compétences scientifiques et techniques qui ont également permis de créer le Pôle de recherche national (PRN) PlanetS.

    Le Centre pour la Vie dans l’Univers : un pôle d’excellence interdisciplinaire

    Le Centre pour la Vie dans l’Univers (CVU) est un centre interdisciplinaire de l’Université de Genève (UNIGE) créé en 2021, à la suite de l’obtention en 2019 du prix Nobel de physique par les professeurs Michel Mayor et Didier Queloz. Grâce aux progrès réalisés au cours de la dernière décennie, à la fois dans les domaines de l’exploration du système solaire, des exoplanètes et de la structure organique de la vie, la question de l’émergence de la vie sur d’autres planètes peut désormais être abordée de manière tangible, et non plus spéculative.

    À la convergence de l’astronomie, de la chimie, de la physique, de la biologie et des sciences de la Terre et du climat, le CVU a pour objectif de comprendre les origines et la répartition de la vie dans l’Univers. Initié par le Département d’astronomie, le CVU réunit des chercheuses et chercheurs de nombreux instituts et départements de l’UNIGE, ainsi que de multiples universités partenaires à l’international.

    https://www.unige.ch/medias/2023/climat-des-exoplanetes-dhabitable-infernale-un-rien-suffit
    #habitabilité #inhabitabilité #changement_climatique #effet_de_serre