A Lesbo i profughi sono prigionieri di un accordo ingiusto
A fine aprile, 3.500 persone sono rinchiuse nel campo da quasi un mese, come José. “È strano stare in carcere senza aver commesso un reato”, mi dice mentre parliamo. È sera e il profumo della liquirizia misto a quello del timo si alza dai campi e addolcisce l’aria. José è dietro le sbarre e io, come tanti, sono venuta a trovare i reclusi. C’è una strada che sale sulla collina tra gli ulivi e costeggia la recinzione fino alle spalle della prigione, lì si piazzano i camion degli ambulanti che vendono panini, sigarette e sim per i cellulari. Generatori accesi quasi ventiquattr’ore su ventiquattro, puzza di gasolio e patatine fritte come alle sagre di paese.
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