• Abirsabir. La sfida al regime delle frontiere

    Nagi Cheikh Ahmed, giornalista mauritano emigrato in Italia dal 2016, e Gustavo Alfredo García Figueroa, sociologo venezuelano emigrato in Italia dal 2018, in quanto soggetti migranti e razzializzati, hanno viaggiato lungo la frontiera alpina tra l’Italia e la Francia per condurre una ricerca collaborativa tra l’Università degli Studi di Padova e Radio Melting Pot chiamata “nuovi immaginari politici e solidarietà antirazzista” (1).

    La ricerca evidenzia sia i processi di razzializzazione delle persone in transito su questo confine, e sia le esperienze di solidarietà che nascono tra i soggetti razzializzati e con le altre persone con background migratorio che operano sulla frontiera. Lo scopo è quello di rendere visibile il loro protagonismo che contrasta la violenza strutturale delle frontiere e delle politiche migratorie dell’UE con pratiche di solidarietà, resistenza e sfida in questo spazio complesso, poroso, senz’altro ostile con le persone del sud globale.

    Un podcast in cui gli autori parlano della politica migratoria dell’Unione europea basata sul razzismo strutturale, l’esternalizzazione dei confini e il loro controllo, ma allo stesso tempo andando oltre a tutto ciò; in cui si raccontano le esperienze di solidarietà e resistenza di giovani nordafricani che provano, anche al prezzo di mettere a rischio la vita, a sfidare l’esistenza dei confini.

    (1) La collaborazione di ricerca nasce all’interno del progetto di interesse nazionale PRIN-MOBS che indaga la produzione di nuovi immaginari politici attraverso le pratiche della solidarietà antirazzista con i migranti. La Responsabile Scientifica dell’unità locale è la prof.ssa Annalisa Frisina, Associata di Sociologia presso il Dip. FISPPA dell’Università di Padova

    https://www.meltingpot.org/2023/06/abirsabir-la-sfida-al-regime-delle-frontiere/#

    #Abirsabir (à partir de la min 2’38) :

    «Parola in arabo che esprime l’idea di una persona che viaggia con l’intenzione di non residere in un luogo fisso ma di attraversare un altro paese transitando in un paese o diversi paesi in cui non ha nessun legame concreto. E per fare questo viaggio praticamente non ha nulla addosso, niente da portare, niente da usare per il suo percorso. Abisabir, il #passante, si caratterizza per essere una persona leggera, con poco carico, veloce, silenzioso, che cammina molto e dorme poco.»

    –-> ajouté à la métaliste sur les #mots de la migration :
    https://seenthis.net/messages/414225
    #vocabulaire #terminologie #passant

    #podcast #audio #frontières #migrations #réfugiés #asile #frontière_sud-alpine #France #Italie #racialisation #solidarité #violence_structurelle #résistance #Hautes-Alpes #Val_de_Suse #obstacles #rêve #parcours_migratoire #itinéraire_migratoire #danger #route_des_Balkans #Balkans #espoir #maraudeurs #maraudes

    • L’informazione di Blackout. La voce di chi passa il confine alpino tra Italia e Francia

      Una ricerca collaborativa tra l’Università degli Studi di Padova e Radio Melting Pot ha portato #Nagi_Cheikh_Ahmed, giornalista mauritano in Italia dal 2016, e Gustavo Alfredo Garcìa Figueroa, sociologo venezuelano emigrato in Italia nel 2018, ad attraversare la frontiera posta sullo spartiaque alpino tra Italia e Francia per raccogliere le testimonianze di chi è costretto a passare illegamente questo confine.

      “La ricerca evidenzia sia i processi di razzializzazione delle persone in transito su questo confine, e sia le esperienze di solidarietà che nascono tra i soggetti razzializzati e con le altre persone con background migratorio che operano sulla frontiera. Lo scopo è quello di rendere visibile il loro protagonismo che contrasta la violenza strutturale delle frontiere e delle politiche migratorie dell’UE con pratiche di solidarietà, resistenza e sfida in questo spazio complesso, poroso, senz’altro ostile con le persone del sud globale.”

      Questa è la descrizione che si può trovare sul sito di Melting Pot Europa, dove è stato pubblicato il primo frutto della ricerca: il podcast Abir Sabir. La sfida al regime delle frontiere.

      Ne abbiamo parlato con uno degli autori, Nagi Cheikh Ahmed.

      https://radioblackout.org/2023/07/la-voce-di-chi-passa-il-confine-alpino-tra-italia-e-francia

  • Le sentier de l’espoir

    « Comment oublier les anti-fascistes (y compris le futur Président de la République italienne Sandro Pertini) ou des Juifs comme #Robert_Baruch qui en #1939 dessine et envoie à sa communauté de Merano la carte ci-jointe (qui représente avec exactitude le chemin) dans la tentative d’offrir une issue aux lois raciales »


    http://www.ecodellariviera.it/le-sentier-de-lespoir

    #cartographie #contre-cartographie #Vintimille #frontière_sud-alpine #migrations #frontières #mobile_infrastructure_of_solidarity #solidarité #histoire #visualisation #croquis #Italie #France #col_de_la_mort #passo_della_morte

  • "Che il Mediterraneo sia", une chanson de #Eugenio_Bennato, dont voici un extrait...

    «Andare, andare, simme tutt’eguale
    affacciati alle sponde dello stesso mare
    e nisciuno è pirata e nisciuno è emigrante
    simme tutte naviganti

    allez, allez il n’y a pas de barrière
    nous sommes tous enfants de la même mer
    il n’y a pas de pirate il n’y a pas d’émigrant
    nous sommes tous des navigants»

    https://www.youtube.com/watch?v=JAzgANpo4d4

    ... et un nouveau mot à ajouter à la liste des #mots pour dire les migrations : les #navigants (i #naviganti) !

    https://seenthis.net/messages/414225

    #migrations #terminologie #vocabulaire

    ping @sinehebdo

  • [TÉMOIGNAGE] Moustady, rescapé secouru par l’Ocean Viking : « En Libye, un noir, c’est de l’argent. »
    (...)

    En Libye, un Noir, c’est de l’argent. Ils nous appellent les « #diamants_noirs ». J’étais en prison à Tripoli. Dans un lieu qui s’appelle Tarik al-Sikka. C’est une prison officielle. On n’y a même pas le droit à un avocat, et puis on nous y frappait jour et nuit. Même les femmes enceintes, même les nouveau-nés, ils tapent tout le monde là-bas. Pour sortir, c’est 500 euros pour les hommes, et 700 euros pour les enfants et pour les femmes aussi. Or, quand on est envoyé en prison, on nous prend tout. L’argent, le téléphone, tout. Donc on passe par un intermédiaire entre la police et nous pour payer. Ce sont les passeurs qui organisent l’échange, mais eux aussi, ils ont encore un intermédiaire. C’est du business, tout le monde profite de nous.

    (...)

    https://www.sosmediterranee.fr/journal-de-bord/temoignage-moustady

    Un mot qui dit la migration et qui avait déjà été recensé dans la métaliste des mots (précisément ici : https://seenthis.net/messages/414225#message669506) :
    #diamant_noir

    –-> ajouté à la métaliste sur les #mots de la migration

    #migrations #asile #réfugiés #terminologie #vocabulaire

    ping @sinehebdo

  • Prisonniers du passage

    Dans les #aéroports existent des espaces insoupçonnés pour les vacanciers que nous sommes.

    Les « #zones_d’attente » sont des lieux de #détention, où les étrangers sont enfermés jusqu’à vingt-six jours avant d’être admis en #France, de devenir demandeurs d’asile ou d’être refoulés.

    Une vraie enquête de terrain sur un enjeu de société adaptée en bande dessinée et accompagnée d’un cahier documentaire riche en chiffres, analyses, cartes et schémas.

    https://steinkis.com/livres/prisonniers-du-passage/prisonniers-du-passage.html

    #migrations #asile #réfugiés #BD #livre #Chowra_Makaremi #bande_dessinée
    #aéroport #frontières #zone_d'attente #ZAPI #limbe #GTM-multiservices #privatisation #procédure_d'asile #audition #abus #mensonge

    Et des mots pour décrire les personnes prisonnières du passage :
    #individus_non-admis (ou aussi #inads)
    #personnes_en_instance
    #zapiens (habitants des #ZAPI)

    –—

    ajouté à la métaliste sur les mots / terminologie de la migration :
    https://seenthis.net/messages/414225

  • WORKING WITH MEMORY : GEORGIA AND ARMENIA

    Does sound play an important role in collective memory? In January and February 2016 we wanted to look at some of the underlying socio/political and historical themes in Georgia and Armenia, developing a method of journalism that uses aural history and folk songs to understand the individual and contrasting narratives that form historical threads. In particular we wanted to record folk songs that had been passed down through generations in order to remember the Armenian genocide, and thereby look at the way sound and stories are often used to maintain identity in the aftermath of displacement. Likewise we wanted to listen to the stories of the Yazidi community, one of Georgia’s long established ethnic minorities, and understand both the conditions for minorities in Georgia, and also their views on the persecution of Yazidis under ISIS, and its impact on the wider community.

    However as we were relatively new to the context of both Georgia and Armenia, much of our focus fell on gathering impressions through fieldwork in markets, rural towns, choirs, and talking to people in cafes and bars. We wanted to give space for unexpected stories to emerge, to follow leads and open spaces for collaboration. This ultimately led us to interview a polyphonic choir of coal minors, learn about the Bengalis diaspora in Georgia and listen to conflicting stories of memories under the soviet era.

    https://brushandbow.com/home/podcasts/georgia-armenia
    #mémoire #Géorgie #Arménie #mémoire_collective #son #Yézidis
    #journalisme_créatif #creative_journalism

    Throughout Yazidi history we have always suffered religious discrimination. Arabs and Turks call us Kafirs (unbelievers)

    –-> un nouveau #mot pour la longue liste sur les mots utilisés pour désigner les personnes étrangères (ajouté à la métaliste) :
    #Kafirs (unbelievers)
    https://seenthis.net/messages/414225
    #terminologie #vocabulaires #migrations #étrangers

  • Débat #Marine_Le_Pen -vs- Darmanin : réaction de #François_Gemenne

    C’est l’une des séquences qui restera du débat #VALP d’hier soir : Marine Le Pen se trompe sur les chiffres des titres de séjour, et le Ministre de l’Intérieur et les journalistes jubilent de l’avoir prise en défaut. Pourtant cette séquence me gêne beaucoup, voilà pourquoi.


    https://twitter.com/JeunesMacron/status/1359976560552521728

    Elle me gêne parce que, si Marine Le Pen avait donné un chiffre inférieur à la réalité, elle n’aura sans doute pas été corrigée avec la même satisfaction. Au contraire, elle se serait horrifiée d’être en-dessous de la réalité.

    Comme si une #politique_migratoire efficace était forcément une politique qui accorde le moins de titres de séjour possibles. Comme s’il fallait absolument montrer « qu’on n’accorde pas tant de titres de séjour que ça ».

    Or on parle ici de l’#immigration régulière, mais on ne dit jamais qui sont ces gens. Ce sont des étudiants (33%), des conjoints qui se retrouvent, ou des enfants qui retrouvent leurs parents (32%). Ces deux catégories, à elles seules, c’est 2/3 de l’immigration.

    Les autres sont des gens qui ont été recrutés par des employeurs français (14%), ou des gens qui sont en danger dans leurs pays, et que nous protégeons. Mais le chiffre brut donne l’impression d’un groupe homogène, dont il faut réduire la taille à tout prix.

    Jamais on ne se dit que si le nombre augmente, c’est aussi parce que nos universités attirent davantage d’étudiants étrangers, qu’il y a de plus en plus de couples mixtes, que notre économie est plus dynamique ou que nous protégeons davantage de gens.

    Qu’on ne s’y trompe pas, c’est bien cela qui restera pour le téléspectateur, le mal est fait : que ce soient 277’000 ou 461’000, c’est beaucoup, c’est trop. Parce qu’on ne dira pas qui sont ces gens. Et que de toute façon les deux débatteurs étaient d’accord sur tout le reste.

    PS : d’ailleurs le RN n’est pas gêné par la bourde : ce qui compte, c’est de montrer que l’immigration augmente, et on l’a bien vu à l’écran. Ici un post de #Philippe_Vardon, figure de l’extrême-droite niçoise, fondateur du Bloc Identitaire.

    PS2 : Pour tout dire, j’en viens même à me demander si Marine Le Pen n’a pas commis cette bourde intentionnellement, dans le seul but de faire afficher le graphique à l’écran. Comme un piège tendu aux journalistes.

    https://twitter.com/Gemenne/status/1360195678941679621

    #Gérald_Darmanin #Darmanin #Le_Pen
    #migrations #chiffres #statistiques #France #titres_de_séjour

    ping @isskein @karine4

  • #Entreprises_offshores : le transfert ponctuel de personnel, une alternative à l’expatriation

    Dans le contexte de #délocalisation, les difficultés de #transfert_de_connaissances proviennent non seulement de la #distance géographique et des problèmes de #communication, mais aussi de ceux reliés à la #culture et aux différences de #fuseaux_horaires qui rendent plus difficiles l’interaction des équipes onshores et offshores.

    Il existe de nombreuses façons différentes de gérer et de transférer les connaissances d’une organisation à une autre. Cependant, même avec de bons programmes de formation, des employés hautement qualifiés et expérimentés, les entreprises doivent développer des processus appropriés afin de transférer les connaissances entre les membres des deux partis.

    C’est pourquoi les entreprises comptent sur le transfert physique de #personnel, consistant soit à envoyer un expatrié vers son #centre_offshore, soit à envoyer du personnel offshore vers le siège.

    Dans ce contexte, nous avons exploré, dans une étude à paraître, comment une grande entreprise du secteur financier transférait ses connaissances, à travers le transfert physique de personnel. Nous avons mené une étude de cas approfondie d’une entreprise basée en Belgique, et ayant une implantation offshore en Pologne. Au total, 51 entretiens ont été menés sur les deux sites.

    Dès l’arrivée des nouveaux employés recrutés au sein du centre offshore, ceux-ci sont immédiatement envoyés au siège en Belgique. Ils y suivent un programme de formation intensif leur permettant d’acquérir toutes les connaissances nécessaires afin d’exécuter leurs tâches correctement une fois retournés dans le centre offshore en Pologne.

    « Sous un angle différent »

    Outre le transfert de connaissances sur le poste, le transfert de personnel vers le siège a également aidé ces derniers à développer des relations de travail plus étroites avec les employés du siège. Ce transfert de connaissances relationnelles donne une approche en termes de mentalité : comment faire les choses, comment collaborer, communiquer avec vos collègues en Belgique ?

    Comme en témoigne un employé dans notre étude :

    « Désormais, si les employés offshores ont une question, ils appelleront immédiatement quelqu’un en Belgique. Le comportement est différent, car maintenant ils connaissent personnellement les collègues belges. Ils savent aussi qui sait quoi en Belgique ».

    De plus, le fait de passer du temps avec les employés offshores au siège a aidé le personnel en Belgique à comprendre les habitudes et les valeurs de leurs homologues polonais. Un interviewé en témoigne :

    « La culture, les coutumes polonaises, la façon de travailler en Pologne… Je sensibilise mes collègues belges sur ces caractéristiques de façon plus directe ».

    Encore plus pertinent, les personnes interviewées pour cette étude ont également partagé avec nous le fait que :

    « Les employés offshore nous font réaliser des choses. […] Ils sont nouveaux, ils regardent les choses sous un angle différent. Nous (le personnel du siège) faisons les choses comme nous l’avons toujours fait ici en Belgique. […] Après un certain temps, ils (les employés offshores) sont encouragés à générer des idées sur la manière dont le processus peut être amélioré ou à proposer de nouvelles méthodes de travail ».

    Ce programme de transfert des employés offshores vers le siège a donc fortement encouragé les transferts de connaissances dans les deux sens, entre le siège et son centre offshore.

    Processus dynamique

    À la suite du programme, l’entreprise a lancé un autre programme de transfert physique de personnel au cours duquel un certain nombre d’employés du siège ont passé trois mois dans le centre offshore en Pologne en tant qu’expatriés à court terme, juste après le séjour de plusieurs mois des employés offshores au siège.

    Ces « #expatriés_à_court_terme » ont pu expliquer une fois de plus ce qui n’était pas entièrement compris par les employés offshores à leur retour en Pologne :

    « Nous (les expatriés) questionnons les employés offshores chaque jour. Face à un problème, je peux par exemple demander “peux-tu m’expliquer pourquoi tu fais comme ça”. Certains vont me répondre “parce qu’on m’a dit de le faire”. Et plus vous les poussez, mieux vous définissez les causes profondes du problème qui, une fois identifiées, permettent d’envisager de nouvelles solutions. C’est vraiment notre rôle (de l’expatrié à court terme) ».

    Les données recueillies montrent également que les expatriés à court terme sont essentiels pour transférer les connaissances de la Pologne vers le siège. Un interviewé en témoigne :

    « Il est vrai qu’en Belgique, si les gens sont là depuis plus de 20 ans pour faire la même tâche, ils ne remettront pas en cause le processus, ou très rarement. Maintenant, nous avons des gens (employés offshores) qui parfois détectent des pistes d’amélioration des procédures. Un nouveau venu polonais peut parfaitement contribuer activement à changer les méthodes de travail ».

    Dans cette étude, nous avons souligné que différents types de connaissances nécessitaient différentes pratiques de transfert de connaissances, soutenues par des formes diverses de transfert de personnel, afin que les membres de l’équipe offshore acquièrent les connaissances requises.

    En résumé, les résultats de l’étude soulignent que la création, la distribution et le partage des connaissances étant un processus dynamique, il nécessite une interaction intensive et continue. Il ressort de nos travaux de recherche que les entreprises devraient envisager un large éventail de types de transfert de personnel pour faciliter le transfert de connaissances depuis et vers le siège.

    Nous montrons que le recours à des #missions_internationales_bidirectionnelles plus courtes, en plus de l’expatriation à long terme, n’est pas seulement un moyen de compenser les inconvénients bien connus de l’#expatriation à long terme (par exemple lié aux coûts de l’opération, et aux difficultés d’adaptation des expatriés à leur nouvel environnement), mais constitue aussi un moyen de faciliter le transfert de différents types de connaissances entre les deux parties, et à des moments différents. De plus, cette étude démontre que diverses formes de transfert de personnel sont utilisées de façon complémentaire pour transférer différents types de connaissances.

    https://theconversation.com/entreprises-offshores-le-transfert-ponctuel-de-personnel-une-altern

    #migrations #offshore

    –-

    Et un nouveau terme :
    #expatrié_à_court_terme qui font des #missions_internationales_bidirectionnelles...

    #mots #terminologie #vocabulaire

    –-> ajouté à la métaliste sur la terminologie de la migration :
    https://seenthis.net/messages/414225

  • Le «#navi_bianche», quando i profughi dall’Africa erano italiani

    «Donne smunte, lacerate accaldate, affrante dalle fatiche, scosse dalle emozioni… Bimbi sparuti che le lunghe privazioni e l’ardore del clima hanno immiserito e stremato fino al limite». Si presentavano così i coloni dell’ormai “ex Impero” agli occhi di #Zeno_Garroni, regio commissario della missione speciale che avrebbe rimpatriato 28mila tra donne, anziani, bambini e ragazzi sotto 15 anni dall’Etiopia, dall’Eritrea e dalla Somalia, paesi di quell’Africa orientale italiana facilmente conquistata all’inizio del 1941 dalle truppe britanniche. Un’ondata di profughi “bianchi” che ricevette un’accoglienza diversa da quella destinata oggi ai naufraghi ma che, come loro, si lasciavano alle spalle la esperienza drammatica della prigionia nei campi alleati.

    Alla missione umanitaria si arrivò dopo una lunga trattativa tra il governo britannico e quello italiano. Furono allestite quattro navi (“Saturnia”, “Vulcania”, “Caio Duilio” e “Giulio Cesare”), dipinte di bianco con grandi croci rosse, alle quali fu imposto il periplo dell’Africa, dal momento che non fu permesso loro di passare attraverso il canale di Suez. Il viaggio, così, diventava molto lungo: circa cinquanta giorni. E pericoloso: la prima spedizione salpò nell’aprile del 1942 da Genova e Trieste, la terza e ultima attraccò a Taranto nell’agosto del 1943. Tutto in piena guerra, quella che si combatteva anche lungo le rotte e i porti del Mediterraneo.

    «Costretti ad abbandonare case e averi, concentrati dai britannici in campi provvisori e da lì inviati a Berbera direttamente per l’imbarco - scrive lo storico Emanuele Ertola che alla vicenda delle “navi bianche” ha dedicato un saggio - affaticati e storditi dopo un lungo viaggio attraverso l’Etiopia in treno e camionetta, i rimpatrianti dovevano quindi sopportare la lunga attesa per salire a bordo». Qui venivano subito assistiti dal personale sanitario (c’erano medici e infermieri) ma affrontavano da subito il problema del sovraffollamento. Durante l’imbarco e il viaggio - soprattutto della prima spedizione - molti bambini, già provati e sofferenti per vita nei campi di concentramento britannici e sfiancati dalle condizioni climatiche, morirono. «Ricordo benissimo, giorno per giorno, la vita a bordo, che è durata circa un mese e mezzo - racconta una testimone, Maria Gabriella Ripa di Meana, citata nel libro di Massimo Zamorani Dalle navi bianche alla linea gotica (Mursia), inviato del Giornale di Indro Montanelli che era uno dei tanti bambini italiani d’Africa -. Ricordo i bambini più piccoli che morivano per infezione diarroica; ricordo l’epidemia di tosse convulsa che imperversava tra i bambini più grandi. Ricordo la madre disperata che aveva assistito alla fine del suo piccolo; ricordo che le donne in stato di gravidanza erano terrorizzate e ricordo che non c’erano più letti disponibili nell’infermeria strapiena».

    Ma oltre che umanitaria, nelle intenzioni del governo fascista, quella delle “navi bianche” doveva essere anche una missione politica. Aveva lo scopo di preparare i profughi che avevano vissuto nelle colonie al reinserimento nella vita della madrepatria e a “rieducarli” ai principi «della gerarchia e dei valori sociali » soprattutto dopo il periodo di prigionia nei campi britannici. Tra i “ragazzi d’Africa” c’era anche il futuro fumettista Hugo Pratt, all’epoca del rientro appena quindicenne. Come altri suoi coetanei si arruolò volontario appena compiuti diciotto anni, convinto che quella della fedeltà al regime fosse l’unica scelta possibile. Tra i bambini sopravvissuti c’era anche Luciano Violante (è nato a Dire Daua nel 1941) che, magistrato e politico ex comunista, molti anni dopo nel suo discorso di insediamento da presidente della Camera invitò a riflettere sui «vinti di ieri» per capire «senza revisionismi falsificanti» anche chi si schierò «dalla parte di Salò».

    https://www.ilsole24ore.com/art/le-navi-bianche-quando-profughi-dall-africa-erano-italiani-AE3GxU5E
    #réfugiés #réfugiés_italiens #décolonisation #Afrique #Corne_d'Afrique #Ethiopie #Erythrée #Somalie #navires #Saturnia #Vulcania #Caio_Duilio #Giulio_Cesare #Berbera #colonialisme #camps_de_concentration #réinsertion #rééducation #Hugo_Pratt

    • The World Refugees Made. Decolonization and the Foundation of Postwar Italy

      In The World Refugees Made, #Pamela_Ballinger explores Italy’s remaking in light of the loss of a wide range of territorial possessions—colonies, protectorates, and provinces—in Africa and the Balkans, the repatriation of Italian nationals from those territories, and the integration of these “national refugees” into a country devastated by war and overwhelmed by foreign displaced persons from Eastern Europe. Post-World War II Italy served as an important laboratory, in which categories differentiating foreign refugees (who had crossed national boundaries) from national refugees (those who presumably did not) were debated, refined, and consolidated. Such distinctions resonated far beyond that particular historical moment, informing legal frameworks that remain in place today. Offering an alternative genealogy of the postwar international refugee regime, Ballinger focuses on the consequences of one of its key omissions: the ineligibility from international refugee status of those migrants who became classified as national refugees.

      The presence of displaced persons also posed the complex question of who belonged, culturally and legally, in an Italy that was territorially and politically reconfigured by decolonization. The process of demarcating types of refugees thus represented a critical moment for Italy, one that endorsed an ethnic conception of identity that citizenship laws made explicit. Such an understanding of identity remains salient, as Italians still invoke language and race as bases of belonging in the face of mass immigration and ongoing refugee emergencies. Ballinger’s analysis of the postwar international refugee regime and Italian decolonization illuminates the study of human rights history, humanitarianism, postwar reconstruction, fascism and its aftermaths, and modern Italian history.

      https://www.cornellpress.cornell.edu/book/9781501747588/the-world-refugees-made/#bookTabs=1
      #livre #rapatriement #nationalisme #identité #citoyenneté

      –---

      Et un autre mot...

      Post-World War II Italy served as an important laboratory, in which categories differentiating #foreign_refugees (who had crossed national boundaries) from #national_refugees (those who presumably did not) were debated, refined, and consolidated.

      #terminologie #vocabulaire #mots
      –-> ajouté à la métaliste: https://seenthis.net/messages/414225
      ping @sinehebdo

    • Dalle navi bianche alla Linea Gotica

      Tra il 1941 e il 1943 quattro transatlantici della Marina mercantile italiana – Saturnia, Vulcania, Giulio Cesare e Caio Duilio – furono appositamente trasformati nelle cosiddette Navi Bianche per riportare in patria dall’Africa Orientale Italiana 30.000 civili prelevati dalle loro case dopo l’occupazione del 1941 e rinchiusi nei campi di concentramento britannici: donne, anziani, invalidi e tantissimi bambini.

      Tra questi c’era anche #Massimo_Zamorani, che racconta il viaggio epico vissuto in prima persona, a quindici anni, attraverso mari invasi dai sommergibili in guerra. Dopo mesi nei campi di prigionia trascorsi in proibitive condizioni climatiche, igieniche, alimentari e sanitarie, i rimpatriandi si trovarono ad affrontare un percorso lunghissimo e difficile di circumnavigazione dell’Africa, poiché il governo britannico non aveva concesso il passaggio dal Canale di Suez.

      Come altri giovani rimpatriati – fra questi anche l’allora sconosciuto Hugo Pratt, futuro creatore di Corto Maltese – appena compiuti gli anni minimi Zamorani si arruolò volontario nell’esercito della Repubblica Sociale e combatté sulla Linea Gotica dove, dato disperso in combattimento, finì ancora una volta prigioniero in Algeria e poi a Taranto.

      Un episodio poco noto della Seconda guerra mondiale nella straordinaria testimonianza di un piccolo sopravvissuto che tornerà da grande in Africa orientale, come inviato speciale.

      https://www.mursia.com/products/14128?_pos=1&_sid=96d96b040&_ss=r

    • Navi bianche. Missione di pace in tempo di guerra

      Erano le unità ospedaliere della nostra flotta. Navigavano protette dalle convenzioni internazionali, ma alcune ugualmente colarono a picco per siluramento, mine, mitragliatrici. Il racconto di questa grandiosa impresa poco conosciuta nei suoi moventi e nella sua esecuzione ma pervasa da un alto senso di umanità, densa di drammaticità e contessuta di episodi molto interessanti, anche dal punto di vista storico, si presenta molto complesso. Le missioni furono tre: dal marzo al giugno 1942; dal settembre 1942 al gennaio 1943; dal maggio all’agosto del 1943; compiute con 4 grandi piroscafi: Vulcania, Saturnia, Duilio e Giulio Cesare.

      https://www.anobii.com/books/Navi_bianche/01966660c104330368

  • #De_facto_refugees...

    “the public spaces became crammed with de facto refugees,meaning refugees who have not yet undertaken the processof formal determination of their refugee status, whousually escaped from reception facilities and were withouta place to sleep. In particular, ‘taking advantage’ ofits public nature, refugees utilised the nearby park asshelter.”

    Source : « Migrants and Refugees : Bottom-Up and DIY Spaces in Italy »
    https://www.cogitatiopress.com/urbanplanning/article/view/2921

    Un nouveau mot à ajouter à la liste sur les #mots liés à la #migration :
    https://seenthis.net/messages/414225

    #terminologie #vocabulaire

    ping @isskein @karine4 @sinehebdo

  • Keep Out... Come Again. The underbelly of American-styled conservation in the Indian Himalayas.

    IN DECEMBER, THE ROAD leading to the #Tirthan_Valley entrance archway of the #Great_Himalayan_National_Park (#GHNP), a #UNESCO World Heritage site in India’s mountain state of Himachal Pradesh, is a potholed mudslide: For miles, a fleet of excavators and tunnel-boring machines are lopping and drilling the mountains to widen and extend the highway. Most of the traffic passing through a big, dark tunnel blasted through the mountain is headed to Manali — the mass-tourist hub of the Western Himalayas, about an hour’s drive farther north.

    My partner and I pass through the archway and weave the motorcycle along a cliffside road into the gorgeous, narrow valley. Villages and orchards dot the ridges. The first snow is melting off the roofs, and far below the Tirthan River runs free and fast. This is still the off-beaten path. But around every turn, we see signs that development is on the rise. Guesthouses, campsites, cottages, hotels, and resorts are sprouting up outside the park’s boundaries. Trucks carrying construction material drive traffic off onto the shoulder. On the opposite ridge, a new helipad access road is being carved out. The area appears to be under construction, not conservation.

    It seems that by putting this once little-known national park on the global map, conservationists have catalyzed a massive wave of development along its border. And ecotourism, though ostensibly a responsible form of development, looks over here, as one researcher put it, more like “old wine in a new bottle.”

    In the two decades since it was formed, the park has displaced over 300 people from their land, disrupted the traditional livelihoods of several thousand more, and forced yet more into dependence on a risky (eco)tourism industry run in large part by outside “experts.” In many ways, the GHNP is a poster child of how the American national park model — conceived at Yellowstone and exported to the Global South by a transnational nexus of state and nonstate actors, continues to ignore the sociopolitical and cultural realities of a place. As a result, protected areas around the world continue to yield pernicious impacts on local communities, and, to some extent, on the local ecology as well. It also raises the question: If protecting one piece of land requires moving its long-time human residents out, developing adjacent land, and flying in tourists from around the world — what is actually being conserved?

    IN THE EARLY 1980s, at the invitation of the Himachal government, a team of Indian and international wildlife biologists led by a British researcher named Tony Gaston surveyed the Western Himalayas for a possible location for the state’s first national park. The state government had been eyeing the Manali area, but after a broad wildlife survey, Gaston’s team recommended the Upper Tirthan and Sainj valleys instead.

    The ecosystem was less disturbed, home to more wildlife, and thus had “excellent potential for attracting tourists”— especially foreign tourists — who might constitute both a “substantial source of [park] revenues” as well as “an enormous input to the local economy,” the team’s report said.

    The proposed 754.4-square-kilometer park included the upper mountain glacial and snow melt water source origins of the Jiwa Nal, Sainj Tirthan, and Parvati rivers, which are all headwater tributaries to the Beas River and subsequently, the Indus River. Given its location at the junction of two of the world’s major biogeographic realms — the Palearctic and Indomalayan — its monsoon-fed forests and alpine meadows sustain a diversity of plant, moss, lichen, bird, and mammal species, many of which are endemic, including the Himalayan goral, blue sheep, and the endangered western Tragopan pheasant and musk deer.

    The park’s boundary was strategically drawn so that only four villages needed to be relocated. But this glossed over the problem of resource displacement. To the northwest, the proposed park was buffered by high mountain systems that include several other national parks and wildlife sanctuaries, but the land in and around its southwest boundary was home to about 150 villages with a total population of at least 11,000 people, all of whom were officially dispossessed of the forests they depended on for centuries when the Indian government inaugurated The Great Himalayan National Park in 1999. These villages are now part of a 265.6-square-kilometer buffer, or so-called “ecozone,” leading into the park.

    A large majority of these families were poor. Many of them cultivated small parcels of land that provided subsistence for part of the year, and they relied on a variety of additional resources provided by the forestlands in the mountains around their homes to meet the rest of their food and financial requirements. That included grazing sheep and goats in the alpine meadows, extracting medicinal herbs that they could sell to the pharmaceutical and cosmetics industry, and collecting gucchi, or morel mushrooms, that fetched high prices in international markets.

    “IN THE INDIAN CONTEXT, the notion that you can have a landscape that is pristine and therefore devoid of humans is an artificial creation,” says Dr. Vasant Saberwal, a wildlife biologist and director of the Centre for Pastoralism, an organization based in Gujarat state that aims to enhance our understanding of pastoralist ecosystems. “India has [long] been a heavily populated country. So, when you think of alpine meadows at 15,000 feet above sea-level, they have been used by pastoral communities for several hundred years. You cannot now go into those landscapes and say we want a pristine alpine meadow. There’s no such thing.”

    In keeping with the lingering idea, tracing back to early American conservationism, that pastoral societies destroy their own land, the Gaston team’s original report claimed that firewood collecting, hunting, and especially overgrazing, were degrading habitat within the area. It recommended a ban on grazing and medicinal plant collection in order to maintain the park’s biodiversity.

    But Saberwal’s research shows that grazing practices in the park’s high alpine meadows — which constitute almost half the park’s area — were likely necessary to maintain its high levels of herb diversity. Before the area was closed off to people, traditional herders of the Indigenous Gaddi tribe would travel up to the alpine meadows with about 35,000 sheep and goats entrusted to them by individual families, and graze them in these meadows for six snow-free months from April through September.

    “So, when you talk to people and suggest to people that their use of the park leads to degradation, they say that we have been using these resources for the past 150-200 years,” he says. “They say, if our presence here has been such a threat, then why would there be biological diversity here?”

    Saberwal’s findings are consistent with reams of scholarship in recent years documenting how local and Indigenous communities, without external pressures, live convivially with nature.

    That is not to say that external pressures aren’t impacting the region. There has definitely been an uptick in morel and medicinal herbs extraction from the park area, especially since the early 1990s when India “liberalized” its economy. Yet today, without adequate enforcement, it remains unclear just how much the park actually helped curtail extraction of these herbs or instead just forced the market underground.

    Other threats include poaching, human-wildlife conflicts, and hydropower development. Ironically, a 10-square-kilometer area was deleted from the original map of the GHNP for building of a hydro-power project, underscoring a typical approach towards conservation “wherein local livelihoods are expendable in the interests of biodiversity, but biodiversity must make way for national development,” Saberwal says.

    India’s Wildlife Protection Act, which prohibits all human activities within a national park, does recognize people’s traditional rights to forest resources. It therefore requires state governments settle or acquire these rights prior to finalizing a new national park’s boundaries, either through financial compensation or by providing people alternative land where such rights can be exercised. But India’s record of actually honoring these rights has been sketchy at best. In GHNP’s case, the state chose to offer financial compensation to only about 300 of the 2,300 or so impacted households, based on family names listed in a colonial report with census data for the area dating back to 1894. It eventually provided the rest of the villagers alternative areas to graze their livestock, but this land was inadequate and nutrient-poor compared to the grasses in the high alpine meadows. Only a handful of families in these villages still have sheep and goat herds today.

    Saberwal, and many mainstream conservationists, says there is an argument to be made for allowing villagers into the park, and not only because it supports their livelihoods. “The presence of people with a real stake in the biological resources of the park can also lead to far greater levels of support for effective management of the park, including better monitoring of who goes into the park, for what, and at what times of the year. Poaching could be more effectively controlled, as could the excessive extraction of medicinal herbs,” he says.

    DESPITE STIFF LOCAL RESISTANCE, the forest department — with support from an international nonprofit called Friends of GHNP, as well as the World Bank, which chipped in a $2.5 million loan — developed an ecotourism industry in the area to help local communities adapt.

    Eco-development, of course, is the current cool idea for making exclusionary conservation acceptable. On paper, it requires community involvement to create “alternative livelihoods” to reduce locals’ dependence on a park’s resources. So, with the support of Friends of GHNP, the forest department helped form a street theater group. It developed firewood and medicinal herb plantations in an effort to wean villagers off of foraging for these the park. A women’s savings and credit collective called Sahara was set up to produce vermicompost, apricot oil, and handicrafts. The Forest Department also handed out “doles” — stoves, handlooms, televisions, pressure cookers — what Mark Dowie, in his book Conservation Refugees, calls “cargo conservation,” or the exchange of commodities for compliance.

    Yet, the project was mired in corruption and mismanagement. The male director of the women’s collective, for instance, was discovered to be siphoning off the collective’s funds. Meanwhile, local ecodevelopment committees set up to coordinate expenditure on livelihood projects were run by the most powerful people in the villages, usually upper-caste males of the devta (deity) community, and chose to spend the money on things like temple and road repairs. According to a 2001 study of the ecodevelopment project, 70 percent of the funds were spent on infrastructure initiatives of this kind. Much later, in 2002, in an attempt to distance itself from the program, the World Bank concluded ecodevelopment had left “very little or no impact … on the ground.”

    In 2014, the park, along with the adjacent Sainj and Tirthan wildlife sanctuaries, was designated a UNESCO World Heritage site, again in spite of more protests from the impacted local communities. Friends of GHNP wrote the application.

    If creating the park cracked the door to development in the Tirthan Valley, minting it a UNESCO World Heritage site flung it wide open.

    On the economic front, it’s certainly true that the influx of tourists has injected more money into the Tirthan Valley than ever before. And it’s true, too, that many locals, the youth especially, are excited, or at least hopeful, that the industry will improve their lives and alleviate poverty. But on the whole, locals are losing opportunities to outside entrepreneurs who come with deeper pockets, digital marketing savvy, and already established networks of potential clientele.

    “That kind of investment and marketing involvement is difficult for locals for figure out,” says Manashi Asher, a researcher with Himdhara, a Himachal-based environmental research and action collective. “Basically, what many locals have done instead, is circumvent local ecotourism policies by turning their properties into homestay or other kinds of [tourist] lodgings and leasing them out to outsiders to run.”

    Though there are no official estimates yet, there’s a consensus among locals that outsider-run guesthouses have already cornered a majority of the valley’s tourism revenue. “City-based tourism operators are licking out the cream, while the peasantry class and unemployed youth earn a pittance from the seasonal, odd jobs they offer,” Dilaram Shabab, the late “Green Man” of Tirthan Valley who spearheaded successful movements against hydropower development on the Tirthan river, wrote in his book Kullu: The Valley of Gods.

    When I read this quote to Upendra Singh Kamra, a transplant from the northwestern state of Punjab who runs a tourism outfit for fishing enthusiasts called Gone Fishing Cottages, he emphasizes how, unlike at most properties, they don’t lay off their local staff during low season. Some have even bought motorcycles or cars. “Logically, you have nothing and then you have something and then you’re complaining that something is not enough. So it doesn’t make sense for me.”

    Many locals see it differently. Narotham Singh, a veteran forest guard, told me he leased his land for 30 years, but now worries for his son and grandchildren. “If they don’t study, what they’re going to be doing is probably cleaning utensils and sweeping in the guesthouses of these people. That’s the dark future.” Karan Bharti, one of Shabab’s grandsons, told me many youth are so ashamed to work as servants on their own land that they’re fleeing the valley altogether.

    More broadly, tourism is also a uniquely precarious industry. Global market fluctuations and environmental disasters frequently spook tourists away for years. (The Western Himalayas is primed for an 8.0-plus magnitude quake tomorrow). And when destination hotspots flip cold, once self-reliant shepherds turned hoteliers are left holding the bill for that high-interest construction loan.

    Sadly, this is exactly what’s happened. In Himachal, the Covid-19 pandemic has exposed just how dependent the state has become on tourism. After the borders were shut in late March, pressure to reopen to salvage a piece of the summer high season was palpable in the press. Chief Minister Jai Ram Thakur proposed Himachal advertise itself for “Quarantine Tourism.” The hotel unions shot down the idea as absurd.

    THERE’S NO SIGN NOR ROAD to Raju’s Guesthouse. To get to it, you have to cross the Tirthan River in a cable basket or makeshift plank bridge and climb up the opposite bank into a fairytale. Vines climb the dark wood facade. There are flowers, fruit trees, and a fire pit. When I visit, kittens are playing around an old cherry tree and a pack of dogs bark up the steep south face; leopards, I learn, come over the ridge at night sometimes and steal dogs.

    Raju, in his late sixties, toothpick-thin, and wearing a baseball cap, is the pioneer of ecotourism in Tirthan Valley. He is also Shabab’s son. When I first spoke with him on the phone, he called the park an “eyewash.” What he meant was that most people don’t come to the park for the park. It’s a steep, half-day trek just to the official boundary, and, inside, the trails aren’t marked. Most tourists are content with a weekend kickback at a guesthouse in the ecozone.

    Still, if real ecotourism exists, Raju’s comes as close as I’ve ever seen. Food scraps are boiled down and fed to the cows. There’s fishing and birding and trekking on offer. No corporate groups allowed, even though that’s where the big bucks are. And no fume-expelling diesel generator, despite guests’ complaints after big storms. There’s a feeling of ineffable wholesomeness that has kept people coming back year after year, for decades now.

    In a 1998 report titled “Communtity-Based Ecotourism in the GHNP,” a World Bank consultant was so impressed by Raju’s that she recommended it be “used as a model for the whole area.” But this was a consultant’s fantasy. Rather than provide support to help locals become owners in the tourism industry, the government and World Bank offered them tour guide, portering, and cooking training. Today, similar second-tier job trainings are part of an $83 million project funded by the Asian Development Bank to develop tourism (mainly by building parking lots) across Himachal.

    Varun, one of Raju’s two sons who runs the guesthouse, doesn’t think any tourist property in the area is practicing ecotourism, even his own. People are illegally catching trout for guests’ dinners, cutting trees for their bonfires, and dumping their trash into the river, he says.

    In 2018, Varun founded the Tirthan Conservation and Tourism Development Association (https://www.facebook.com/Tirthan-conservation-and-tourism-development-association-101254861218173), a union of local guesthouses that works to “eliminate the commercialization of our neighborhood and retain the aura of the valley.” They do tree plantings, enforce camping bans around the river, and meet regularly to discuss new developments in the valley.

    Yet, Varun doesn’t see any way of stopping the development wave. “I mean, it’s inevitable. No matter how much you resist, you know, you’ll have to accept it. The only thing is, we can delay it, slow it down.”

    https://www.earthisland.org/journal/index.php/magazine/entry/keep-out...come-again
    #Inde #montagne #conservation_de_la_nature #nature #protection_de_la_nature #parc_national #Himachal_Pradesh #Manali #tourisme #colonialisme #néo-colonialisme #circulation_des_modèles #Hymalayah #Jiwa_Nal #Sainj_Tirthan #Parvati #rivières #Beas_River #paysage #conservationnisme #biodiversité #Gaddi #élevage #ressources #exploitation_des_ressources #Friends_of_GHNP #banque_mondiale #éco-tourisme #écotourisme #cargo_conservation #corruption #devta #deity #éco-développement #développement #World_Heritage_site #énergie_hydroélectrique #Asian_Development_Bank #Tirthan_Conservation_and_Tourism_Development_Association

    #ressources_pédagogiques

  • Sur la frontière gréco-turque, à l’épicentre des tensions

    L’Union européenne entend sanctionner la politique de plus en plus expansionniste de la Turquie, qui ravive en Grèce les souvenirs des conflits du passé. Ligne de rupture, mais aussi d’échanges entre Orient et Occident, la frontière gréco-turque ne respire plus depuis la crise sanitaire. De #Kastellorizo à la #Thrace en passant par #Lesbos, les deux pays ont pourtant tant de choses en commun, autour de cette démarcation qui fut mouvante et rarement étanche.

    Petite île aux confins orientaux de la Grèce, Kastellorizo touche presque la #Turquie. Le temps s’écoule lentement dans l’unique village, logé dans une baie profonde. En cette fin septembre, de vieux pêcheurs jouent aux cartes près des enfants qui appâtent des tortues dans les eaux cristallines. Devant son café froid, M. Konstantinos Papoutsis observe, placide, l’immense côte turque, à guère plus de deux kilomètres, et la ville de Kaş, son seul horizon. « Nous sommes une île touristique tranquille, assure cet homme affable qui gère une agence de voyages. Je l’ai répété aux touristes tout l’été. » Attablée autour de lui, la poignée d’élus de cette commune de cinq cents âmes reprend ses propos d’un air débonnaire : « Il n’y a aucun danger à Kastellorizo ! »

    Un imposant ferry, qui paraît gigantesque dans ce petit port méditerranéen, vient animer le paysage. Parti d’Athènes vingt-quatre heures plus tôt, il manœuvre difficilement pour débarquer ses passagers, parmi lesquels une cinquantaine d’hommes en treillis et chapeaux de brousse. Les soldats traversent la baie d’un pas vif avant de rejoindre les falaises inhabitées qui la dominent. « C’est une simple relève, comme il y en a tous les mois », commente M. Papoutsis, habitué à cette présence.

    Selon le #traité_de_Paris de février 1947 (article 14), et du fait de la cession par l’Italie à la Grèce du Dodécanèse, les îles dont fait partie Kastellorizo sont censées être démilitarisées. Dans les faits, les troupes helléniques y guettent le rivage turc depuis l’occupation par Ankara de la partie nord de Chypre, en 1974, précisent plusieurs historiens (1). Cette défense a été renforcée après la crise gréco-turque autour des îlots disputés d’Imia, en 1996. La municipalité de Kastellorizo refuse de révéler le nombre d’hommes postés sur ses hauteurs. Et si les villageois affichent un air de décontraction pour ne pas effrayer les visiteurs — rares en cette période de Covid-19 —, ils n’ignorent pas l’ombre qui plane sur leur petit paradis.

    Un poste avancé d’Athènes en Méditerranée

    Kastellorizo se trouve en première ligne face aux menaces du président turc Recep Tayyip Erdoğan, qui veut redessiner les cartes et imposer son propre #partage_des_eaux. Depuis les années 1970, les #îles du #Dodécanèse font l’objet d’un #conflit larvé entre ces deux pays membres de l’Organisation du traité de l’Atlantique nord (OTAN). La Turquie conteste la souveraineté grecque sur plusieurs îles, îlots et rochers le long de sa côte. Surtout, elle est l’un des rares pays, avec notamment les États-Unis, à ne pas avoir signé la convention des Nations unies sur le droit de la mer (dite #convention_de_Montego_Bay, et entrée en vigueur en 1994), et ne reconnaît pas la revendication par la Grèce d’un plateau continental autour de ses îles. Athènes justifie dès lors leur #militarisation au nom de la #légitime_défense (2), en particulier depuis l’occupation turque de Chypre et en raison d’une importante présence militaire à proximité : la marine et l’armée de l’air turques de l’Égée sont basées à İzmir, sur la côte occidentale de l’Asie Mineure.

    Si proche de la Turquie, Kastellorizo se trouve à 120 kilomètres de la première autre île grecque — Rhodes — et à plus de 520 kilomètres du continent grec. Alors que l’essentiel de la #mer_Egée pourrait être revendiqué par Athènes comme #zone_économique_exclusive (#ZEE) (3) au titre de la convention de Montego Bay (voir la carte ci-contre), ce lointain îlot de neuf kilomètres carrés lui permet de facto de jouir d’une large extension de plusieurs centaines de kilomètres carrés en Méditerranée orientale. Or, faute d’accord bilatéral, cette ZEE n’est pas formellement établie pour Ankara, qui revendique d’y avoir librement accès, surtout depuis la découverte en Méditerranée orientale de gisements d’#hydrocarbures potentiellement exploitables. À plusieurs reprises ces derniers mois, la Turquie a envoyé dans le secteur un bateau de recherche sismique baptisé #Oruç_Reis, du nom d’un corsaire ottoman du XVIe siècle — surnommé « #Barberousse » — né à Lesbos et devenu sultan d’Alger.

    Ces manœuvres navales font écho à l’idéologie de la « #patrie_bleue » (#Mavi_Vatan). Soutenue par les nationalistes et les islamistes, cette doctrine, conçue par l’ancien amiral #Cem_Gürdeniz, encourage la Turquie à imposer sa #souveraineté sur des #zones_disputées en #mer_Noire, en mer Égée et en #Méditerranée. Ces derniers mois, M. Erdoğan a multiplié les discours martiaux. Le 26 août, à l’occasion de l’anniversaire de la bataille de Manzikert, en 1071, dans l’est de la Turquie, où les Turcs Seldjoukides mirent en déroute l’armée byzantine, il avertissait la Grèce que toute « erreur » mènerait à sa « ruine ». Quelques semaines plus tard, le 21 octobre, lors d’une rencontre avec les présidents chypriote et égyptien à Nicosie, M. Kyriakos Mitsotakis, le premier ministre grec conservateur, accusait la Turquie de « fantasmes impérialistes assortis d’actions agressives ».

    Sous pression en août dernier, Athènes a pu compter sur le soutien de la République de Chypre, de l’Italie et de la France, avec lesquelles elle a organisé des manœuvres communes. Ou encore de l’Égypte, avec laquelle elle vient de signer un accord de partage des #zones_maritimes. Déjà en conflit ouvert avec son homologue turc sur la Syrie, la Libye et le Caucase, le président français Emmanuel Macron s’est résolument rangé aux côtés d’Athènes. « C’est un allié précieux que l’on voudrait inviter à venir sur notre île », déclare l’adjoint à la municipalité de Kastellorizo, M. Stratos Amygdalos, partisan de Nouvelle Démocratie, le parti au pouvoir. À la mi-septembre 2020, la Grèce annonçait l’acquisition de dix-huit Rafale, l’avion de combat de Dassault Aviation.

    « Erdoğan se prend pour Soliman le Magnifique. Mais il perd du crédit dans son pays, la livre turque s’effondre. Alors il essaie de redorer son image avec des idées de conquêtes, de rêve national… », maugrée de son côté M. Konstantinos Raftis, guide touristique à Kastellorizo. La comparaison entre le sultan de la Sublime Porte et l’actuel président turc revient fréquemment dans ce pays qui fit partie de l’Empire ottoman durant quatre siècles (de 1430, date de la chute de Salonique, à l’indépendance de 1830). La résistance hellénique a forgé l’identité de l’État grec moderne, où l’on conserve une profonde suspicion à l’égard d’un voisin encombrant, quatre fois plus riche, six fois plus grand et huit fois plus peuplé. Cette méfiance transcende les clivages politiques, tant le #nationalisme irrigue tous les partis grecs. Athènes voit aujourd’hui dans la doctrine de la « patrie bleue » une politique expansionniste néo-ottomane, qui fait écho à l’impérialisme passé.

    À l’embouchure du port de Kastellorizo, la silhouette d’une mosquée transformée en musée — rare vestige de la présence ottomane — fait de l’ombre à un bar à cocktails. L’édifice trône seul face aux vingt-six églises orthodoxes. La Constitution précise que l’orthodoxie est la « religion dominante » dans le pays, et, jusqu’en 2000, la confession était inscrite sur les cartes d’identité nationales. La suppression de cette mention, à la demande du gouvernement socialiste, a provoqué l’ire de la puissante Église orthodoxe, plus de 95 % des Grecs se revendiquant alors de cette religion. « Pendant toute la période du joug ottoman, nous restions des Grecs. Nos ancêtres ont défendu Kastellorizo pour qu’elle garde son identité. Nous nous battrons aussi pour qu’elle la conserve », s’emballe soudainement M. Raftis.

    Son île a dû résister plus longtemps que le reste du pays, insiste le sexagénaire. Après le départ des Ottomans, Kastellorizo, convoitée par les nations étrangères pour sa position géographique aux portes de l’Orient, a été occupée ou annexée par les Français (1915-1921), les Italiens (1921-1944), les Britanniques (1944-1945)… L’îlot n’est devenu complètement grec qu’en 1948, comme l’ensemble des îles du Dodécanèse. Depuis, il arbore fièrement ses couleurs. Dans la baie, plusieurs étendards bleu et blanc flottent sur les balcons en encorbellement orientés vers la ville turque de Kaş (huit mille habitants). Le nombre de ces drapeaux augmente quand la tension s’accroît.

    Trois autres grands étendards nationaux ont été peints sur les falaises par des militaires. En serrant les poings, M. Raftis raconte un épisode qui a « mis les nerfs de tout le monde à vif ». À la fin septembre 2020, un drone d’origine inconnue a diffusé des chants militaires turcs avant d’asperger ces bannières d’une peinture rouge vif, évoquant la couleur du drapeau turc. « C’est une attaque impardonnable, qui sera punie », peste l’enfant de l’île, tout en scrutant les quelques visages inconnus sur la promenade. Il redoute que des espions viennent de Turquie.

    « Les #tensions durent depuis quarante ans ; tout a toujours fini par se régler. Il faut laisser la Turquie et la Grèce dialoguer entre elles », relativise pour sa part M. Tsikos Magiafis, patron avenant d’une taverne bâtie sur un rocher inhabité, avec une vue imprenable sur Kaş. « Les querelles sont affaire de diplomates. Les habitants de cette ville sont nos frères, nous avons grandi ensemble », jure ce trentenaire marié à une Turque originaire de cette cité balnéaire. Adolescent, déjà, il délaissait les troquets de Kastellorizo pour profiter du bazar de Kaş, du dentiste ou des médecins spécialisés qui manquent au village. Les Turcs, eux, ont compté parmi les premiers touristes de l’île, avant que la frontière ne ferme totalement en mars 2020, en raison du Covid-19.

    À Lesbos, les réfugiés comme « #arme_diplomatique »

    À 450 kilomètres plus au nord-ouest, au large de l’île de Lesbos, ce ne sont pas les navires de recherche d’hydrocarbures envoyés par Ankara que guettent les Grecs, mais les fragiles bateaux pneumatiques en provenance de la côte turque, à une dizaine de kilomètres seulement. Cette île montagneuse de la taille de la Guadeloupe, qui compte 85’000 habitants, constitue un autre point de friction, dont les migrants sont l’instrument.

    Depuis une décennie, Lesbos est l’une des principales portes d’entrée dans l’Union européenne pour des centaines de milliers d’exilés. Afghans, Syriens, Irakiens ou encore Congolais transitent par la Turquie, qui accueille de son côté environ quatre millions de réfugiés. En face, le rivage turc se compose de plages peu touristiques et désertes, prisées des passeurs car permettant des départs discrets. Les migrants restent toutefois bloqués à Lesbos, le temps du traitement de leur demande d’asile en Grèce et dans l’espoir de rejoindre d’autres pays de l’espace Schengen par des voies légales. Le principal camp de réfugiés, Moria, a brûlé dans des conditions obscures le 8 septembre, sans faire de victime grave parmi ses treize mille occupants.

    Pour M. Konstantinos Moutzouris, le gouverneur des îles égéennes du Nord, ces arrivées résultent d’un calcul stratégique d’Ankara. « Erdoğan utilise les réfugiés comme arme diplomatique, il les envoie lorsqu’il veut négocier. Il a une attitude très agressive, comme aucun autre dirigeant turc avant lui », accuse cette figure conservatrice locale, connue pour ses positions tranchées sur les migrants, qu’il souhaite « dissuader de venir ».

    Il en veut pour preuve l’épisode de tension de mars 2020. Mécontent des critiques de l’Union européenne lors de son offensive contre les Kurdes dans le nord de la Syrie, le président turc a annoncé l’ouverture de ses frontières aux migrants voulant rejoindre l’Europe, malgré l’accord sur le contrôle de l’immigration qu’il a passé avec Bruxelles en mars 2016. Plusieurs milliers de personnes se sont alors massées aux portes de la Grèce, à la frontière terrestre du Nord-Est, suscitant un renforcement des troupes militaires grecques dans ce secteur. Dans le même temps, à Lesbos, une dizaine de bateaux chargés de réfugiés atteignaient les côtes en quelques jours, déclenchant la fureur d’extrémistes locaux. « Nous ne communiquons plus du tout avec les autorités turques depuis », affirme M. Moutzouris.

    Athènes assume désormais une ligne dure, quitte à fermer une partie de sa frontière commune avec la Turquie aux demandeurs d’asile, en dépit des conventions internationales que la Grèce a signées. Le gouvernement a ainsi annoncé mi-octobre la construction d’un nouveau #mur de 27 kilomètres sur la frontière terrestre. Au début de l’année 2020, il avait déjà déclaré vouloir ériger un #barrage_flottant de 2,7 kilomètres au large de Lesbos. Un ouvrage très critiqué et jugé illégal par les organisations non gouvernementales (ONG) de défense des droits humains. Un projet « absurde », juge M. Georgios Pallis, pharmacien de l’île et ancien député Syriza (gauche). Plusieurs sources locales évoquent une suspension de la construction de ce barrage. Le gouvernement, lui, ne communique pas à ce sujet.

    « Les réfugiés payent la rupture du dialogue gréco-turc », déplore M. Pallis entre deux mezze arrosés de l’ouzo local, près du port bruyant de Mytilène, dans le sud de l’île. « Des retours forcés de migrants sont organisés par les gardes-côtes grecs. » En septembre, le ministre de la marine se targuait, au cours d’une conférence de presse, d’avoir « empêché » quelque dix mille migrants d’entrer en 2020. Un mois plus tard, le ministre de l’immigration tentait, lui, de rectifier le tir en niant tout retour forcé. À Lesbos, ces images de réfugiés rejetés ravivent un douloureux souvenir, analyse M. Pallis : « Celui de l’exil des réfugiés d’Asie Mineure. » Appelé aussi en Grèce la « #grande_catastrophe », cet événement a fondé l’actuelle relation gréco-turque.

    Au terme du déclin de l’Empire ottoman, lors de la première guerre mondiale, puis de la guerre gréco-turque (1919-1922), les Grecs d’Asie Mineure firent l’objet de #persécutions et de #massacres qui, selon de nombreux historiens, relèvent d’un #génocide (4). En 1923, les deux pays signèrent le #traité_de_Lausanne, qui fixait les frontières quasi définitives de la Turquie moderne et mettait fin à l’administration par la Grèce de la région d’İzmir-Smyrne telle que l’avait décidée le #traité_de_Sèvres de 1920 (5). Cet accord a aussi imposé un brutal #échange_de_populations, fondé sur des critères religieux, au nom de l’« #homogénéité_nationale ». Plus de 500 000 musulmans de Grèce prirent ainsi le chemin de l’Asie Mineure — soit 6,5 % des résidents de Lesbos, selon un recensement de 1920 (6). En parallèle, le traité a déraciné plus de 1,2 million de chrétiens orthodoxes, envoyés en Grèce. Au total, plus de 30 000 sont arrivés dans l’île. Ils ont alors été péjorativement baptisés les « #graines_de_Turcs ».

    « Ils étaient chrétiens orthodoxes, ils parlaient le grec, mais ils étaient très mal perçus des insulaires. Les femmes exilées de la grande ville d’İzmir étaient surnommées “les prostituées”. Il a fallu attendre deux générations pour que les relations s’apaisent », raconte M. Pallis, lui-même descendant de réfugiés d’Asie Mineure. « Ma grand-mère est arrivée ici à l’âge de 8 ans. Pour s’intégrer, elle a dû apprendre à détester les Turcs. Il ne fallait pas être amie avec “l’autre côté”. Elle n’a pas remis les pieds en Turquie avant ses 80 ans. »

    Enfourchant sa Vespa sous une chaleur accablante, M. Pallis s’arrête devant quelques ruines qui se dressent dans les artères de #Mytilène : d’anciennes mosquées abandonnées. L’une n’est plus qu’un bâtiment éventré où errent des chatons faméliques ; une autre a été reconvertie en boutique de fleuriste. « Les autorités n’assument pas ce passé ottoman, regrette l’ancien député. L’État devrait financer la reconstruction de ces monuments et le développement du tourisme avec la Turquie. Ce genre d’investissements rendrait la région plus sûre que l’acquisition de Rafale. »

    En #Thrace_occidentale, une population musulmane ballottée

    Dans le nord-est du pays, près de la frontière avec la Turquie et la Bulgarie, ce passé ottoman reste tangible. En Thrace occidentale, les #mosquées en activité dominent les villages qui s’élèvent au milieu des champs de coton, de tournesols et de tabac. La #minorité_musulmane de Grèce vit non loin du massif montagneux des #Rhodopes, dont les sommets culminent en Bulgarie. Forte d’entre 100 000 et 150 000 personnes selon les autorités, elle se compose de #Roms, de #Pomaks — une population d’origine slave et de langue bulgare convertie à l’#islam sous la #domination_ottomane — et, majoritairement, d’habitants aux racines turques.

    « Nous sommes des citoyens grecs, mais nous sommes aussi turcs. Nous l’étions avant même que la Turquie moderne existe. Nous parlons le turc et nous avons la même #religion », explique M. Moustafa Moustafa, biologiste et ancien député Syriza. En quelques mots, il illustre toute la complexité d’une #identité façonnée, une fois de plus, par le passé impérial régional. Et qui se trouve elle aussi au cœur d’une bataille d’influence entre Athènes et Ankara.

    Rescapée de l’#Empire_ottoman, la minorité musulmane a vu les frontières de la Grèce moderne se dessiner autour d’elle au XXe siècle. Elle fut épargnée par l’échange forcé de populations du traité de Lausanne, en contrepartie du maintien d’un patriarcat œcuménique à Istanbul ainsi que d’une diaspora grecque orthodoxe en Turquie. Principalement turcophone, elle évolue dans un État-nation dont les fondamentaux sont la langue grecque et la religion orthodoxe.

    Elle a le droit de pratiquer sa religion et d’utiliser le turc dans l’enseignement primaire. La région compte une centaine d’écoles minoritaires bilingues. « Nous vivons ensemble, chrétiens et musulmans, sans heurts. Mais les mariages mixtes ne sont pas encore tolérés », ajoute M. Moustafa, dans son laboratoire de la ville de #Komotini — aussi appelée #Gümülcine en turc. Les quelque 55 000 habitants vivent ici dans des quartiers chrétiens et musulmans érigés autour d’une rivière méandreuse, aujourd’hui enfouie sous le béton. M. Moustafa n’a presque jamais quitté la Thrace occidentale. « Notre minorité n’est pas cosmopolite, nous sommes des villageois attachés à cette région. Nous voulons juste que nos descendants vivent ici en paix », explique-t-il. Comme de nombreux musulmans de la région, il a seulement fait ses études supérieures en Turquie, avant de revenir, comme aimanté par la terre de ses ancêtres.

    À cent kilomètres de Komotini, la Turquie demeure l’« État parrain » de ces musulmans, selon le traité de Lausanne. Mais l’influence de celle que certains nomment la « mère patrie » n’est pas toujours du goût de la Grèce. Les plus nationalistes craignent que la minorité musulmane ne se rapproche trop du voisin turc et ne manifeste des velléités d’indépendance. Son statut est au cœur de la discorde. La Turquie plaide pour la reconnaissance d’une « #minorité_turque ». La Grèce refuse, elle, toute référence ethnique reliée à une appartenance religieuse.

    La bataille se joue sur deux terrains : l’#éducation et la religion. À la fin des années 1990, Athènes a voulu intégrer la minorité dans le système d’éducation publique grec, appliquant notamment une politique de #discrimination_positive et offrant un accès facilité à l’université. Les musulmans proturcs plaident, eux, pour la création de davantage d’établissements minoritaires bilingues. Sur le plan religieux, chaque partie nomme des muftis, qui ne se reconnaissent pas mutuellement. Trois représentants officiels sont désignés par la Grèce pour la région. Deux autres, officieux, le sont par les musulmans de Thrace occidentale soutenus par Ankara, qui refuse qu’un État chrétien désigne des religieux.

    « Nous subissons toujours les conséquences des #crises_diplomatiques. Nous sommes les pions de leur jeu d’échecs », regrette d’une voix lasse M. Moustafa. Le sexagénaire évoque la période qui a suivi le #pogrom dirigé principalement contre les Grecs d’Istanbul, qui avait fait une quinzaine de morts en 1955. Puis les années qui ont suivi l’occupation du nord de #Chypre par la Turquie, en 1974. « Notre minorité a alors subi une violation de ses droits par l’État grec, dénonce-t-il. Nous ne pouvions plus passer le permis de conduire. On nous empêchait d’acheter des terres. » En parallèle, de l’autre côté de la frontière, la #peur a progressivement poussé la communauté grecque de Turquie à l’exil. Aujourd’hui, les Grecs ne sont plus que quelques milliers à Istanbul.

    Ces conflits pèsent encore sur l’évolution de la Thrace occidentale. « La situation s’est améliorée dans les années 1990. Mais, maltraités par le passé en Grèce, certains membres de la minorité musulmane se sont rapprochés de la Turquie, alimentant une méfiance dans l’imaginaire national grec. Beaucoup de chrétiens les considèrent comme des agents du pays voisin », constate M. Georgios Mavrommatis, spécialiste des minorités et professeur associé à l’université Démocrite de Thrace, à Komotini.
    « Ankara compte des milliers d’#espions dans la région »

    Une atmosphère de #suspicion plane sur cette ville, sous l’emprise de deux discours nationalistes concurrents. « Les gens de l’extrême droite grecque nous perçoivent comme des janissaires [soldats de l’Empire ottoman]. Erdoğan, lui, nous qualifie de soydas [« parents », en turc] », détaille d’une voix forte Mme Pervin Hayrullah, attablée dans un café animé. Directrice de la Fondation pour la culture et l’éducation en Thrace occidentale, elle se souvient aussi du passage du président turc dans la région, fin 2017. M. Erdoğan avait dénoncé les « discriminations » pratiquées par l’État grec à l’égard de cette communauté d’origine turque.

    Une chrétienne qui souhaite rester anonyme murmure, elle, que « les autorités grecques sont dépassées. La Turquie, qui est bien plus présente sur le terrain, a davantage de pouvoir. Ankara compte des milliers d’espions dans la région et donne des millions d’euros de budget chaque année au consulat turc de Komotini ». Pour Mme Hayrullah, qui est proche de cette institution, « le consulat ne fait que remplir une mission diplomatique, au même titre que le consulat grec d’Edirne [ville turque à quelque deux cents kilomètres, à la frontière] ». L’allure du consulat turc tranche avec les façades abîmées de Komotini. Surveillé par des caméras et par des gardes en noir, l’édifice est cerné de hautes barrières vertes.

    « La Grèce nous traite bien. Elle s’intéresse au développement de notre communauté et nous laisse exercer notre religion », vante de son côté M. Selim Isa, dans son bureau calme. Le président du comité de gestion des biens musulmans — désigné par l’État grec — est fier de montrer les beaux lustres et les salles lumineuses et rénovées d’une des vingt mosquées de Komotini. « Mais plus les relations avec la Turquie se détériorent et plus le consulat étend son influence, plus il revendique la reconnaissance d’une minorité turque », ajoute M. Isa, regard alerte, alors que l’appel du muezzin résonne dans la ville.

    À l’issue du sommet européen des 10 et 11 décembre, l’Union européenne a annoncé un premier volet de #sanctions contre la Turquie en raison de ses opérations d’exploration. Des mesures individuelles devraient cibler des responsables liés à ces activités. Athènes plaidait pour des mesures plus fortes, comme un embargo sur les armes, pour l’heure écarté. « C’était une proposition-clé. Nous craignons que la Turquie s’arme davantage. Sur le plan naval, elle est par exemple en train de se doter de six #sous-marins de type #214T fournis par l’#Allemagne, explique le diplomate grec Georgios Kaklikis, consul à Istanbul de 1986 à 1989. M. Erdoğan se réjouit de ces sanctions, qui sont en réalité minimes. » Le président turc a réagi par des #rodomontades, se félicitant que des pays « dotés de bon sens » aient adopté une « approche positive ». Bruxelles assure que d’autres mesures pourraient tomber en mars 2021 si Ankara ne cesse pas ces actions « illégales et agressives ».

    https://www.monde-diplomatique.fr/2021/01/PERRIGUEUR/62666
    #Grèce #Turquie #frontière #asile #migrations #réfugiés
    #Oruc_Reis #murs #Evros #barrières_frontalières #histoire

    ping @reka

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    #terminologie #mots #vocabulaire :
    – "Le traité (de Lausanne) a déraciné plus de 1,2 million de chrétiens orthodoxes, envoyés en Grèce. Au total, plus de 30 000 sont arrivés dans l’île. Ils ont alors été péjorativement baptisés les « #graines_de_Turcs »."
    – "Les femmes exilées de la grande ville d’İzmir étaient surnommées “les prostituées”."

    –-> ajoutés à la métaliste sur la terminologie de la migration :
    https://seenthis.net/messages/414225

    ping @sinehebdo

  • #Décolonisations : du sang et des larmes. La rupture (1954-2017) —> premier épisode de 2 (voir plus bas)

    Après huit années de conflits meurtriers, l’#Empire_colonial_français se fragilise peu à peu. La #France est contrainte d’abandonner l’#Indochine et ses comptoirs indiens. Les peuples colonisés y voient une lueur d’espoir et réalisent que la France peut-être vaincue. Les premières revendications d’#indépendance se font entendre. Mais la France reste sourde. Alors qu’un vent de liberté commence à se répandre de l’Afrique aux Antilles en passant par l’océan indien et la Polynésie, un cycle de #répression débute et la République répond par la force. Ce geste va nourrir des décennies de #haine et de #violence. Ce #documentaire, réalisé, à partir d’images d’archives, donne la parole aux témoins de la #décolonisation_française, qui laisse encore aujourd’hui des traces profondes.

    https://www.france.tv/france-2/decolonisations-du-sang-et-des-larmes/decolonisations-du-sang-et-des-larmes-saison-1/1974075-la-rupture-1954-2017.html
    #décolonisation #film_documentaire #colonialisme #colonisation #film

    #France #Indochine #Empire_colonial #FLN #Algérie #guerre_d'Algérie #guerre_de_libération #indépendance #François_Mitterrand #Algérie_française #Section_administrative_spécialisée (#SAS) #pacification #propagande #réformes #attentats #répression #Jacques_Soustelle #Antoine_Pinay #conférence_de_Bandung #Tunisie #Maroc #Gaston_Defferre #Cameroun #Union_des_populations_du_Cameroun (#UPC) #napalm #Ruben_Um_Nyobe #Ahmadou_Ahidjo #Milk_bar #armée_coloniale #loi_martiale #bataille_d'Alger #torture #haine #armée_française #Charles_de_Gaulle #paix_des_Braves #humiliation #camps #déplacement_des_populations #camps_de_déplacés #déplacés #internement #Madagascar #Côte_d'Ivoire #Guinée #Ahmed_Sékou_Touré #communauté_franco-africaine #liberté #Organisation_de_l'armée_secrète (#OAS) #17_octobre_1961 #accords_d'Evian #violence #pieds-noirs #rapatriés_d'Algérie #Harki #massacre #assassinats #déracinement #camp_de_Rivesaltes #invisibilisation #néo-colonialisme #ressources #gendarme_d'Afrique #Françafrique #Felix-Roland_Moumié #territoires_d'Outre-mer #Michel_Debré #La_Réunion #Paul_Vergès #Polynésie #Bureau_pour_le_développement_des_migrations_dans_les_départements_d'Outre-mer (#Bumidom) #racisme #Djibouti #Guadeloupe #Pointe-à-Pitre #blessure #mépris #crimes #mémoire

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    Et à partir du Bureau pour le développement des migrations dans les départements d’Outre-mer... un mot pour désigner des personnes qui ont « bénéficier » des programmes :
    les « #Bumidomiens »
    –-> ajouté à la métaliste sur les #mots en lien avec la #migration :
    https://seenthis.net/messages/414225
    #terminologie #vocabulaire

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    Une citation de #Jean-Pierre_Gaildraud, qui dit dans le film :

    « Nous étions formatés dans une Algérie française qu’il ne fallait pas contester. C’était ces rebelles, c’étaient ces bandits, ces égorgeurs qui menaçaient, qui mettaient en péril une si belle France. En toute bonne foi on disait : ’La Seine traverse Paris comme la Méditerranée traverse la France’ »

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    « Il faut tourner une page et s’abandonner au présent. C’est sûr, mais comment tourner une page quand elle n’est pas écrite ? »

    Hacène Arfi, fils de Harki

  • - 1,830 returnee migrants are completing their mandatory quarantine in IOM-supported 34 quarantine facilities across Ethiopia.

    – 25,500+ Ethiopian migrants have returned to the country since 1 April 2020.

    https://twitter.com/IOMEthiopia/status/1295368710354538496
    #statistiques #chiffres #renvois #2020 #Ethiopie #réfugiés_éthiopiens

    Evidemment, le #vocabulaire de l’OIM est à vomir ("Ethiopian migrants", « have returned to the country », « returnee migrants »), mais les chiffres sont assez impressionnants... plus de 25’500 « returnees » depuis le 1er avril...

    #terminologie #mots

    ping @rhoumour @karine4 @isskein

  • "Je veux qu’on m’appelle ’#égaré'"
    Entendu hier, 18.07.2020, lors d’une discussion qui a suivi la présentation de l’expo « Nomadistan » de la plasticienne Amandine Meunier (en Matheysine :

    ).

    Témoignage récolté par une étudiante qui a fait un mémoire sur le collectif qui accueille des réfugiés dans la région) :

    « Je ne veux pas qu’on m’appelle migrant/réfugié ou exilé, je veux qu’on m’appelle ’#égaré' »

    –-> à ajouter à la collection de #mots autour de la migration de @sinehebdo

    #vocabulaire #terminologie #migrations #asile #réfugiés

  • How #ICE Exported the Coronavirus

    An investigation reveals how Immigration and Customs Enforcement became a domestic and global spreader of COVID-19.

    Admild, an undocumented immigrant from Haiti, was feeling sick as he approached the deportation plane that was going to take him back to the country he had fled in fear. Two weeks before that day in May, while being held at an Immigration and Customs Enforcement detention facility in Louisiana, he had tested positive for the coronavirus — and he was still showing symptoms.

    He disclosed his condition to an ICE official at the airport, who sent him to a nurse.

    “She just gave me Tylenol,” said Admild, who feared reprisals if his last name was published. Not long after, he was back on the plane before landing in Port-au-Prince, one of more than 40,000 immigrants deported from the United States since March, according to ICE records.

    Even as lockdowns and other measures have been taken around the world to prevent the spread of the coronavirus, ICE has continued to detain people, move them from state to state and deport them.

    An investigation by The New York Times in collaboration with The Marshall Project reveals how unsafe conditions and scattershot testing helped turn ICE into a domestic and global spreader of the virus — and how pressure from the Trump administration led countries to take in sick deportees.

    We spoke to more than 30 immigrant detainees who described cramped and unsanitary detention centers where social distancing was near impossible and protective gear almost nonexistent. “It was like a time bomb,” said Yudanys, a Cuban immigrant held in Louisiana.

    At least four deportees interviewed by The Times, from India, Haiti, Guatemala and El Salvador, tested positive for the virus shortly after arriving from the United States.

    So far, ICE has confirmed at least 3,000 coronavirus-positive detainees in its detention centers, though testing has been limited.

    We tracked over 750 domestic ICE flights since March, carrying thousands of detainees to different centers, including some who said they were sick. Kanate, a refugee from Kyrgyzstan, was moved from the Pike County Correctional Facility in Pennsylvania to the Prairieland Detention Facility in Texas despite showing Covid-19 symptoms. He was confirmed to have the virus just a few days later.

    “I was panicking,” he said. “I thought that I will die here in this prison.”

    We also tracked over 200 deportation flights carrying migrants, some of them ill with coronavirus, to other countries from March through June. Under pressure from the Trump administration and with promises of humanitarian aid, some countries have fully cooperated with deportations.

    El Salvador and Honduras have accepted more than 6,000 deportees since March. In April, President Trump praised the presidents of both countries for their cooperation and said he would send ventilators to help treat the sickest of their coronavirus patients.

    So far, the governments of 11 countries have confirmed that deportees returned home with Covid-19.

    When asked about the agency’s role in spreading the virus by moving and deporting sick detainees, ICE said it took precautions and followed guidelines of the Centers for Disease Control and Prevention. As of last week, ICE said that it was still able to test only a sampling of immigrants before sending them home. Yet deportation flights continue.

    https://www.themarshallproject.org/2020/07/10/how-ice-exported-the-coronavirus

    #covid-19 #coronavirus #USA #Etats-Unis #migrations #migrerrance #renvois #expulsions #déportations #avions #transports_aériens #contamination #malades #rétention #détention_administrative #asile #réfugiés #déboutés #distanciation_sociale #swiftair #visualisation #cartographie #géographie

    ping @isskein @simplicissimus @karine4 @reka

  • #Libia

    “Mi ricordo che una volta ho sentito dire che quelli che scappano vengono apostrofati in maniera sprezzante con il nomignolo ‘Libia’. E’ questo, gli chiedo, il modo in cui gli eritrei della diaspora storica chiamano gli ultimi arrivati?
    Syoum non batte ciglio. ‘Sì, è così. Gli eritrei che ce l’hanno fatta, in Italia o in Europa, guardano agli immigrati di nuova generazione, quelli che si affollano sulle coste libiche, con supponenza. Sembrano non capire che stanno rifacendo il loro stesso percorso, solo molti anni dopo.”

    In : Alessandro Leogrande, La Frontiera, 2017, p. 61
    https://www.lafeltrinelli.it/libri/alessandro-leogrande/frontiera/9788807889714

    #terminologie #mots #vocabulaire
    #migrations #asile #réfugiés

    Le surnom est « #Libye » (#Libia), un surnom donné aux nouveaux arrivants d’Erythrée par les Erythréens de la diaspora, installés depuis longtemps en Italie...

    ping @isskein