• #Deliveroo’s algorithm discriminated against those who go on strike or get sick

    #Frank, the algorithm used by Deliveroo, does not weed out discrimination. A Court in Bologna issued an historic ruling in late December 2020. The Court decision is a landmark one both because of its outcome – it ruled that the system was discriminatory and awarded 50,000 euros in punitive damages – and for the judge’s arguments. The internal documentation submitted by the union federations and the workers’ testimonies give an accurate picture of the system of rules, incentives and sanctions that governed the food-delivery services. A model that discriminates indirectly, since it generates disadvantageous effects without taking due account of the differences among diverse cases. The algorithm, according to the Court, was effective when it came to planning and managing business flows by dispatching a large pool of available workers. However, it allowed neither organisational adaptability nor flexibility of judgement (see: Il tuo capo è un algoritmo. Contro il lavoro disumano).

    The case, promoted by the most representative Italian labour union, Cgil, brought to light that Deliveroo’s riders were evaluated primarily on two aspects: reliability and participation (we use the past tense because the company claims to have “adjusted” the statistics used for its slots through its new contracts, which were signed in November and are anyway widely contested). The combination of these metrics gave workers an internal ranking; by virtue of that ranking they were more or less likely to be offered new jobs or to be downgraded instead. Workers with good ratings were among the first to be able to apply for the most coveted work shifts and could also turn down the most uncomfortable ones. However, any waiver in the 24 hours prior to the shift weighed against future calls. Upon returning from a period of absence for various reasons (health problems, commitments related to the care of family members, or collective action), workers could be automatically downgraded and forced to start all over again, by climbing the ranking from the scratch.

    Platforms often purport that their workers are independent contractors because they are able to “turn off” the app or not to “log in” to the internal staffing system. Many judgements around the world, and many observers before them, have argued that availability to accept shifts, together with the number of deliveries performed and customers’ ratings, contribute to defining the ranking, which is far from being a perfect representation of reality. This “credits-based" model engenders severe subordination towards the users and the platform, whose mood is unfathomable.

    Autonomy and independence are only “virtual”, and courts gradually go beyond formalism to scrutinise the managerial prerogatives exercised by apps, which are increasingly equated with traditional employers. If some progress has been made on the issue of (mis)classification of the working relationship, it also about time to open up the “black boxes” also under the EU General Data Protection Regulation, which limits the use of “automated individual decision-making”, making the mechanics of algorithms transparent, impartial and contestable.

    The profiling of workers and clients is now the core part of the business for the operators of the platform economy, the only really promising one, if we look at the financial statements in which negative signs abound in almost all the indexes, despite the turnover’s growth due to the pandemic. Internal “reputation” plays a prominent role, influencing the worker’s potential compensation, all the more so in a regime of exclusivity. The exercise of control and disciplinary powers is facilitated by opaque and misleading systems that deliberately reproduce the business strategies imposed by management on the algorithms’ programmers.

    In recent weeks, the ecosystem of platform work was thoroughly shaken in Italy. Firstly, a Court of Palermo had reclassified a Glovo delivery rider as an employee for the first time in the country. If Italian courts lagged behind in reclassification cases, and employment status was only recognised after courts in many other countries had already done so, this case instead is at the forefront of litigation. It is the first time a court questions the operation of an algorithmic management system concerning workers and declares that algorithms may well discriminate against sick people or workers involved in union action.

    Algorithms, therefore, are far from being neutral tools and can be subject to judicial review. The European Commission also announced it will present a proposal for a directive to improve the working conditions of platform workers. We thus can debunk once and for all three false myths: the alleged autonomy of workers in deciding whether, when and how much to work, the “superhuman” objectivity of algorithms that organize the work, and the mirage of workforce entirely made up of young people looking for pocket money. Now reality knocks at the door.

    https://www.rivistailmulino.it/news/newsitem/index/Item/News:NEWS_ITEM:5480
    #livreurs #discriminations #inégalités #algorithme #justice #Italie #tribunal #livraison

    ping @etraces

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    voir aussi:
    #Frank, l’algoritmo anti-sciopero. La #Cgil porta in tribunale #Deliveroo
    https://seenthis.net/messages/817182

  • Se l’operaio alle dipendenze del cinese è pachistano

    Che ci fa un piccolo imprenditore cinese in ginocchio? Perché solleva davanti alle telecamere e ai giornalisti un artigianalissimo cartello che recita “Cobas Comanda #Prato, Aiuto Istituzioni”? Perché alcuni operai pachistani vengono picchiati e finiscono in ospedale insieme a un sindacalista?

    Benvenuti a Prato, città di frontiera, ieri come oggi, città dove il nuovo lavorativo e imprenditoriale si presenta prima che altrove. Nei decenni del “piccolo è bello” era stato il distretto industriale per eccellenza; dagli anni Novanta è stato il distretto che ha prima accolto e poi criminalizzato l’imprenditoria dei migranti cinesi; dal 2014 è stato il luogo dove la Regione ha introdotto controlli serrati sul lavoro in maniera esplicitamente discriminante: solo le ditte cinesi sarebbero state controllate a tappeto; negli ultimi tempi, gli imprenditori cinesi di Prato – adeguandosi a un modello già in uso tra gli italiani – sono stati i primi imprenditori migranti ad impiegare massicciamente manodopera immigrata non cinese.

    Oggi Prato è la nuova frontiera di quello che si sarebbe tentati di considerare un conflitto tutto etnico: la contrapposizione tra datori di lavoro cinesi e operai pachistani nell’industria tessile e dell’abbigliamento.

    Nel distretto di Prato i cinesi erano arrivati in sordina, alla fine degli anni Ottanta, proponendosi come terzisti nell’abbigliamento per ditte finali dislocate in diverse città del Centro Nord Italia. Come operai impiegavano solo connazionali, introducendo quindi un modello di etnicizzazione del lavoro che, anche grazie al laboratorio usato come luogo di vita e di lavoro insieme, ha permesso di ristrutturare gli spazi e i tempi del lavoro: gli operai cinesi pagati a cottimo, infatti, si spostavano da un laboratorio cinese all’altro seguendo le commesse in arrivo e il bisogno di evaderle urgentemente. A poco a poco una parte dei terzisti cinesi è riuscita a fare il grande balzo imprenditoriale e ad aprire le proprie ditte finali nel “pronto moda”. Nel frattempo e con gradualità, i cinesi sono riusciti anche ad acquisire da imprenditori pratesi le tintorie che tingono per il pronto moda, ricavandosi quindi uno spazio crescente anche nel settore tessile, appannaggio tradizionale dell’imprenditoria autoctona. Oggi ci sono a Prato circa 3.700 imprese cinesi nelle confezioni e 400 nel tessile.

    Negli ultimi anni, l’organizzazione del lavoro sta cambiando drasticamente nelle imprese cinesi. Gli operai non sono più solo cinesi, ma anche pachistani, bangladesi e africani, sia nelle tintorie che nei laboratori di confezioni. A spiegare questa evoluzione contribuisce la difficoltà crescente per gli imprenditori cinesi di trovare e trattenere presso di loro operai cinesi. Questo a sua volta scaturisce dalla fine degli arrivi di manodopera a basso costo dalla Cina, e dal fatto che i cinesi che vivono in Italia da decenni, se possono, cercano impiego fuori dal manifatturiero.

    Ma il processo di multi-etnicizzazione del lavoro non è solo una reazione a questo. Scaturisce anche dalla concreta possibilità per gli imprenditori di accrescere i propri profitti, impiegando una manodopera ancor più vantaggiosa di quella cinese. Se poi sono rifugiati – come lo sono buona parte dei migranti arrivati negli ultimi anni – gli operai diventano ancora più interessanti perché maggiormente vulnerabili.

    Già qualche anno fa, nelle fasi iniziali del processo di multietnicizzazione, la stampa locale aveva mostrato come vi fosse una sorta di gerarchia degli stipendi dei diversi gruppi di immigrati: gli operai cinesi erano al top, con stipendi (perlopiù a cottimo) di circa 1.300 euro, quelli pachistani e bangladesi avevano salari più bassi di circa 300-400 euro, e gli africani guadagnavano ancora meno. Invece, i pochi italiani che lavoravano nelle tintorie cinesi – operai specializzati o consulenti, a volte ex proprietari – ricevevano compensi ben diversi. Differenze nei salari di operai cinesi e altri immigrati non cinesi sono emerse anche da uno studio che ha analizzato l’impiego di manodopera immigrata non cinese nei centri ingrosso gestiti da cinesi nel Veneto (G. D’Odorico e D. Sacchetto, Il commercio all’ingrosso cinese in Italia: prospettive storiche e presenti in un’ottica globale, in Cinesi tra le maglie del lavoro).

    La differenza fondamentale tra gli operai cinesi e gli altri operai immigrati non sta però principalmente nei divari salariali, quanto nel fatto che i gli operai cinesi, a differenza degli altri immigrati, godono di benefit tradizionalmente garantiti agli operai cinesi nelle imprese cinesi: vitto e alloggio a costo zero. Nelle interviste che abbiamo raccolto nel corso dell’estate, gli operai pachistani protestavano per questo trattamento differenziato a parità di mansioni e di ore lavorate, e facevano i calcoli su quanto si alzerebbero le loro entrate mensili se come i cinesi non dovessero pagarsi l’appartamento e il cibo.

    Inoltre, dal nostro recente lavoro sul campo, così come da una ricerca sullo sfruttamento lavorativo finanziata dal Comune di Prato (A. Cagione e G. Coccoloni, Forme di sfruttamento lavorativo a Prato), emerge il potere assoluto dei datori di lavoro cinesi che lasciano a casa all’istante gli operai pachistani o africani quando, da mesi privi di un solo giorno libero, decidono di rimanere a casa per un giorno e quando chiedono di avere un contratto di lavoro, indispensabile per ottenere il permesso di soggiorno per lavoro. Non era mai stata registrata prima tanta rigidità nei rapporti lavorativi; al contrario, un vantaggio molto apprezzato dagli operai cinesi negli ultimi anni era la maggior flessibilità dell’orario di lavoro garantita dai datori di lavoro cinesi rispetto a quelli italiani – seppur in un contesto di forte sfruttamento e auto-sfruttamento. Inoltre, mentre i contratti di lavoro degli operai cinesi sono perlopiù a tempo indeterminato o si adeguano alle esigenze dei lavoratori cinesi di rinnovare il permesso di soggiorno per lavoro o di accedere al ricongiungimento con i familiari, i contratti dei lavoratori immigrati non cinesi sono di breve durata, quando ci sono.

    Il processo di etnicizzazione gerarchizzata in atto permette di fare luce su alcuni importanti mutamenti nel mondo del lavoro. L’idea che gli immigranti facciano i lavori che gli italiani non vogliono fare è in un certo senso superata. Oggi, e sempre di più, sono i datori di lavoro stessi a cercare attivamente gli operai immigrati preferendoli ai cosiddetti autoctoni. Detto altrimenti, il processo di etnicizzazione del lavoro scaturisce (anche) da volontà imprenditoriali di sfruttare al meglio il lavoro dipendente, giocando su tutte le forme di vulnerabilità possibili. E secondo molti il processo di precarizzazione intacca prima le categorie più vulnerabili, come i migranti e i giovani, per poi estendersi a fasce sempre più vaste di lavoratori, inclusi quelli cosiddetti “di concetto”. Allo stesso tempo, questo processo di sfruttamento rapace risponde all’esigenza di contenere sempre più il costo del lavoro in settori dove la concorrenza è serrata e i margini di profitto per i terzisti sono in continuo ribasso.

    Oggi, guidati dai sindacalisti autoctoni di Si Cobas – il sindacato di base che ha condotto lotte di successo tra gli immigrati che lavorano nella logistica – i pachistani impiegati in alcune aziende tessili pratesi gestite da cinesi scendono in sciopero e bloccano la produzione. Chiedono di non lavorare 12 ore al giorno 7 giorni su 7; chiedono di non avere contratti da 2, 4 o 6, ore ma contratti adeguati al numero di ore effettivamente svolte. Gli imprenditori cinesi reagiscono male agli scioperi dei lavoratori. I sindacalisti ci raccontano di imprenditori cinesi increduli, che non sanno spiegarsi come mai gli operai possano scendere in sciopero e addirittura possano bloccare la produzione, ostacolando l’entrata e l’uscita delle merci. A fine giugno, alcuni operai pachistani in sciopero sono stati portati in ospedale perché picchiati da cinesi durante un picchetto davanti alla tintoria dove lavoravano.

    Se pensiamo alle repressioni degli scioperi in Cina e all’irregimentazione del lavoro in Asia, viene da chiedersi se questo sia un modello tutto cinese di gestione della conflittualità con gli operai.

    Ma pensare che si tratti di un modello cinese è una foglia di fico. Oggi a Prato c’è una manciata di imprenditori pachistani nel settore delle confezioni che dà lavoro a connazionali. I loro operai ci raccontano che non c’è differenza tra i datori di lavoro cinesi e quelli pachistani: i livelli di sfruttamento sono gli stessi. Inoltre, i laboratori terzisti pachistani cuciono vestiti per ditte finali cinesi e italiane. Questo permette di capire che quello che è in atto non è uno scontro etnico, ma un’evoluzione nello sfruttamento del lavoro dove ogni imprenditore sfrutta ogni occasione per massimizzare il profitto. Pensare che si tratti di un modello cinese, inoltre, serve solo a non vedere come nel nostro Paese, da anni ormai, la difesa dei diritti dei lavoratori abbia finito per essere inusuale, inaspettata e perfino demonizzata. Diverse ricerche hanno mostrato come un costante processo di normalizzazione del lavoro precario – con la giustificazione che avrebbe favorito la ripresa dell’occupazione – ha portato a una proliferazione del lavoro povero e sfruttato. Contratti finti, che dichiarano orari di lavoro ridicoli rispetto a quelli effettivi non sono tipicamente cinesi. Paghe sempre più basse, lontane da quelle contrattuali sono la regola anche tra i giovani e meno giovani autoctoni, e ferie, malattia, e maternità sono diventati vocaboli sempre più desueti nel nostro Paese in generale, e non solo tra i lavoratori migranti.

    I cinesi hanno imparato cosa si può fare in questo Paese, lo hanno imparato così bene da dire oggi a chiare lettere – con quel cartello “Istituzioni aiuto!” – che si aspettano che il governo (locale) faccia rispettare il patto (nazionale) secondo cui i sindacati devono restare immobili e gli operai devono essere grati per avere il lavoro, non importa quanto grave sia lo sfruttamento. La cartina tornasole di questo stato di cose sta in un’azione istituzionale preoccupante: il foglio di via che la questura di Prato ha presentato ai due sindacalisti di Si Cobas che mobilitano i lavoratori pachistani in sciopero per avere un lavoro (più) dignitoso.

    https://www.rivistailmulino.it/news/newsitem/index/Item/News:NEWS_ITEM:4847
    #guerre_entre_pauvres #travail #exploitation #Italie #migrations #pakistanais #chinois #industrie_textile #ethnicisation_du_travail #textile #vulnérabilité #inégalités #salaire #ouvriers #précarisation #permis_de_séjour #etnicizzazione_gerarchizzata (#ethnicisation_hiéarchisée) #ethnicisation_du_travail #capitalisme #modèle_chinois #droits_des_travailleurs #working_poors #déportabilité

    ping @albertocampiphoto @wizo

  • Hotspot Italy: Abuses of refugees and migrants

    Thousands of people continue to cross the Mediterranean, fleeing persecution, conflict and poverty, seeking protection and a decent life in Europe.

    Europe’s so-called ‘hotspot approach’ to receive refugees and migrants in key arrival countries like Italy was introduced in 2015, as a way to faster identify, screen and filter all newly arrived men, women and children.

    But Amnesty International’s research suggests that, in Italy, there are cases where it’s less ‘identify, screen and filter’ and more a case of ‘abuse, mislead and expel’.

    https://www.amnesty.org/en/latest/campaigns/2016/11/hotspot-italy
    #Italie #violence #police #empreintes_digitales #asile #migrations #réfugiés #hotspots #torture

  • Contre les migrants, la #Hongrie matraque à plein

    2 septembre 2016 | Par Philippe Bertinchamps

    Affiches, spots publicitaires à la radio et à la télévision… Tandis que la campagne référendaire bat son plein, pour ou contre la « relocalisation » des migrants en vertu de l’accord européen, des centaines de réfugiés espèrent un jour pouvoir passer les murs de barbelés érigés par Budapest à la frontière entre la Serbie et la Hongrie. À leurs risques et périls.

    Frontière serbo-hongroise, envoyé spécial.- Ce sont les oubliés de la frontière. Syriens, Afghans, Pakistanais, Algériens, Marocains, Camerounais, Congolais, Maliens… En quarantaine dans des no man’s land entre la Serbie et la Hongrie, ils attendent au pied de la clôture de barbelés de pouvoir entrer dans l’espace Schengen. La liste est longue. L’appel a lieu une fois par jour, mais à n’importe quelle heure. Les familles ont la priorité. Trente personnes sont autorisées à passer dans un tourniquet et à pénétrer dans les « zones de transit » : quinze à Horgos-Röszke, quinze à Kelebija-Tompa. Sur un rempart formé de cinquante-deux conteneurs climatisés, policiers et soldats hongrois montent la garde. Cachés derrière des lunettes de soleil, ils observent le camp en Serbie. Tentes, huttes de branchages et de couvertures pour s’abriter contre le soleil et la pluie. Ce jour-là, à Horgos, on recense 264 personnes, dont 45 femmes et 122 enfants. Des ados jouent au cricket avec une batte taillée dans une planche. Le vent fait voler la poussière. Il est 18 heures, l’heure de la prière. Des hommes ont accompli leurs ablutions. Les ONG humanitaires ont donné les soins, distribué la nourriture, plié bagage.

    La frontière entre la Serbie et la Hongrie © Marija Janković La frontière entre la Serbie et la Hongrie © Marija Janković
    « Saviez-vous que les attaques de Paris ont été commises par des migrants ? Que depuis le début de la crise migratoire le harcèlement sexuel a augmenté ? Que plus de 300 personnes sont mortes en Europe dans des attaques terroristes ? » Panneaux d’affichage, spots publicitaires à la radio et à la télévision… De l’autre côté du rideau de fil de fer, le matraquage bat son plein. Un référendum est prévu le 2 octobre. Les citoyens hongrois devront se prononcer sur l’accueil de 1 294 réfugiés assignés à Budapest, selon l’accord entre les États membres de septembre 2015 ayant abouti à la décision de « relocaliser » par quotas cent soixante mille réfugiés en Europe. « Voulez-vous, oui ou non, que l’Union européenne décrète une relocalisation obligatoire de citoyens non hongrois sans le consentement du parlement ? » La campagne est enclenchée : « Seuls les Hongrois peuvent décider avec qui ils veulent vivre en Hongrie. »

    Lire aussi

    Hongrie : la politique du pire de Viktor Orbán Par Antoine Perraud
    « Une question démagogique et populiste », estime Mark Kékesi, professeur de socio-psychologie à l’université de Szeged (sud de la Hongrie) et l’un des fondateurs de l’association de solidarité MigSzol. « Le Premier ministre, Viktor Orban, proclame que l’arrivée de réfugiés musulmans met en péril l’identité chrétienne de l’Europe. Il traite le problème d’un point de vue religieux et dogmatique. C’est devenu une affaire d’État. Toute la communication est centralisée à Budapest. À l’en croire, nous sommes sous le feu roulant de l’ennemi : les migrants du Moyen-Orient et les eurocrates de Bruxelles. Il s’agit bien sûr d’un coup marketing. Grâce à ce référendum, sa cote remonte dans les sondages. Entre-temps, le pays s’enfonce dans une crise grave — hausse du chômage, dégradation de l’enseignement, des soins de santé — et son parti (Fidesz-Union civique hongroise, national-conservateur) est éclaboussé par des scandales de corruption. »

    « Dans les zones de transit, la procédure est parfois très expéditive », témoigne Omi, un Afghan de 17 ans, à Horgos. « Serbian police, no problem ? No problem, very good… » Dans ce cas, la Serbie est un pays sûr. « Go back to Serbia ! » Selon Budapest, dix-huit mille migrants ont traversé la « frontière sud » depuis le début de l’année. Talonné par son opposition qui demande à quoi bon avoir dépensé un million de dollars pour une « passoire », Viktor Orban a déployé les grands moyens. Depuis le 5 juillet, dix mille policiers et soldats patrouillent dans la zone : 175 kilomètres de barbelés coupants surveillés par des drones et des hélicoptères. Miradors, sentinelles… Les contrôles sont fréquents et les « migrants illégaux » qui se font attraper dans un rayon de huit kilomètres après la frontière – mais quel est le tracé précis de cette ligne ? – se font repousser manu militari de l’autre côté de la clôture, à un ou deux pas en deçà de la démarcation entre la Hongrie et la Serbie, sans autre forme de procès. Le 6 juillet, le Haut Commissariat des Nations unies pour les réfugiés (HCR) a dénombré cent vingt expulsions. Le même jour, un pic de sept cents personnes a été enregistré au camp de Horgos, trois fois plus que d’habitude… En une semaine, deux mille cinq cents demandeurs d’asile potentiels ont été refoulés. Les appréhensions ont diminué à vue d’œil : une quinzaine par jour en août, contre cent cinquante en juin. « Seuls ceux qui ne sont pas informés tentent de franchir la clôture, à leurs risques et périls », commente un humanitaire de Médecins sans frontières (MSF).

    Laszlo Toroczkai © Marija Janković Laszlo Toroczkai © Marija Janković
    « Et pourtant, ça ne suffit pas ! » Laszlo Toroczkai est le maire d’Asotthalom, une bourgade agricole de trois mille âmes située entre Tompa et Röszke. Interdit d’entrée sur les territoires serbe, roumain et slovaque à cause de son activisme en faveur des Hongrois d’outre-frontières, ce fils de bonne famille (né Toth), athlétique et bronzé, est également connu pour avoir incendié avec ses troupes de choc la Télévision hongroise lors des émeutes antisocialistes à Budapest en 2006. Fan de Donald Trump, partisan des armes à feu, défenseur des « honnêtes citoyens hongrois », c’est lui le premier qui aurait lancé l’idée d’une barrière frontalière, à l’exemple de la grande muraille États-Unis-Mexique. « Mais la solution n’est pas parfaite, admet-il. Ce qu’il faut, c’est une clôture électrifiée, des projecteurs, des caméras, un système d’alarme… » Son profil Facebook attire plus de quarante mille visiteurs. Les photos qu’il poste de jeunes Afghans et Pakistanais capturés par « ses » gardes champêtres en tenue militaire font un tabac. « Des agents auxiliaires, assure-t-il. Cinq ou six hommes qui dépendent du gouvernement local, encadrés par la police… »

    Zsolt, 38 ans, est un colosse aux muscles d’acier. Un « vrai », un « dur », un « tatoué ». Ancien videur de boîte de nuit, ce géant barbu est préposé depuis deux ans à la garde des propriétés rurales dans la commune d’Asotthalom. « Ce que j’aime, c’est la nature, dit-il. En ville, trop de junkies, trop de dealers. » Son nouveau job : protéger les frontières de l’Europe. Circuler à moto ou à bord d’un gros 4 x 4 dans les chemins sablonneux à l’affût de « migrants illégaux ». Il a fait ses classes en traquant les Albanais du Kosovo, l’hiver 2014-2015, quand un exode massif a vidé ce petit pays, qui venait de fêter les sept ans de son indépendance, de 10 % de la population. « Je travaille en solo. Si je surprends quelqu’un, je le conduis à la police. » Son uniforme paramilitaire n’est pas marqué à son nom, ni à son matricule. En août, il a fait « mauvaise chasse ». En juillet, il a épinglé vingt-cinq proies à son tableau. Avant, entre cinquante et cent… « Parfois, je tombe sur des jeunes entraînés à se battre, avoue-t-il. Là, je suis forcé de recourir à la violence. »

    Zsolt © Marija Janković Zsolt © Marija Janković
    « Des victimes de passages à tabac, nous en recueillons tous les jours, constate un responsable du Commissariat pour les réfugiés en Serbie. Bras cassés, morsures de chiens… La police ouvre une petite porte dans le grillage. On ne sait pas où ni quand. Ils ne préviennent jamais. Qui ? Combien de gens ? Ce matin, il y avait encore deux Kosovars… » Durant les six premiers mois de 2016, la Hongrie a enregistré plus de vingt-deux mille demandes d’asile, dont une majorité déposée par des Afghans (37 %) et des Syriens (15 %). Officiellement, à peine cent individus en situation irrégulière ont été renvoyés en Serbie. Parmi eux, trente-trois Serbes, vingt-six Kosovars et dix-neuf Albanais… Les autres, Syriens, Afghans, Irakiens ou Somaliens, tous ceux dont la demande a été rejetée dans les limbes juridiques des « zones de transit », ne comptent pas.

    « Nous, les Africains, on passe toujours après. Même au camp, on mange les restes. » Basile est camerounais. Il traîne à Horgos depuis le début de l’été, après avoir quitté la Grèce. « Nous étions au nombre de vingt-huit, dont un Camerounais, trois Maliens et un Congolais. Nous avons cisaillé les barbelés et nous sommes entrés en Hongrie, en plein jour. Subitement, trois policiers nous ont interpellés. Les renforts sont arrivés. Ils nous ont pulvérisé du gaz sur le visage, craché dessus et donné des coups de matraque. Nous avons couru et nous sommes repassés par le trou dans le grillage, en nous écorchant les mains. Le frangin congolais a voulu récupérer son sac et ses téléphones. Un policier l’a suivi et a braqué son arme sur lui, comme s’il allait tirer. » Le 13 juillet, Human Rights Watch (HRW) publiait un rapport : « Des gens qui entrent en Hongrie sans autorisation, y compris des femmes et des enfants, ont été violemment battus et renvoyés de force de l’autre côté de la frontière. » À Belgrade, la capitale serbe, MSF a signalé une augmentation des blessés. Le 24 août, pour la première fois, le chef de la police nationale hongroise, Karoly Papp, a reconnu que des « hommes en uniforme » avaient fait subir de mauvais traitements aux réfugiés. Quatre poursuites judiciaires ont été engagées.

    En mars 2016, l’Union européenne a confié à la Turquie la défense de sa frontière extérieure. Or, depuis le « putsch manqué » du 15 juillet, quelque chose a changé. Plus de quatre mille candidats ont débarqué à Chios, Leros, Lesbos, Samos. À peu près soixante mille réfugiés se trouvent dans une quarantaine de camps en Grèce. Beaucoup dorment dehors. Selon le secrétaire d’État à l’immigration, Ioannis Mouzalas, « environ quatre mille » ont refusé de demander l’asile et devraient poursuivre leur route vers l’Europe du Nord.

    © Marija Janković © Marija Janković
    La Bulgarie, qui a érigé une clôture de barbelés sur 130 de ses 259 kilomètres avec la Turquie, a demandé un renfort de trois cents hommes à Frontex. « J’espère que mes collègues européens sont conscients que la Bulgarie et la Grèce risquent d’être confrontées à un énorme problème » si l’accord UE-Turquie venait à être dénoncé, a averti le 12 août le premier ministre bulgare, Boïko Borissov, soulignant la « vulnérabilité » des deux pays. Selon le ministère serbe de la défense, en juillet-août, plus de trois mille migrants irréguliers ont été interceptés à la frontière avec la Macédoine, où les réseaux mafieux de passeurs ont été réactivés. La Serbie, dont la capacité d’accueil est évaluée à six mille places, compte aujourd’hui quatre mille six cents réfugiés. En Croatie, le ministère de l’intérieur a publié les photos d’un nouveau centre de transit, près de la frontière serbe, d’où les migrants seraient transférés à Zagreb, ou déportés en Serbie. La Slovénie a prévu de consolider sa barrière de barbelés avec la Croatie. À Ljubljana, les consultations entre le gouvernement et les ONG vont bon train, et les centres de réception, fermés en mars, ont rouvert.

    « Maintenant, je ne sais plus quoi faire », soupire Golamat, un Afghan de 29 ans, échoué à Horgos après avoir connu Idomeni et les camps autour de Thessalonique. « J’étais 196e sur la liste, je suis 121e. Ça fait un mois que j’attends. J’ai peut-être vu dix hommes entrer dans la zone de transit, huit en sont ressortis par la petite porte… » Le 26 août, le premier ministre Orban a annoncé à la radio qu’il allait fortifier son arsenal sécuritaire : un second système de défense, « plus robuste », à côté de la « barrière à installation rapide ». Last but not least, on demande des surveillants pour la rentrée : à partir du 1er septembre, trois mille « chasseurs frontaliers » – non pas gardes-frontières – seront recrutés. « Des policiers, des soldats et des armes ! »

    https://www.mediapart.fr/journal/international/020916/contre-les-migrants-la-hongrie-matraque-plein?onglet=full
    #Balkans #asile #migrations #réfugiés #murs #barrières_frontalières #Serbie #frontières #Bulgarie #violence

    • Over the Line. Bulgaria Welcomes Refugees With Attack Dogs and Beatings

      Abdul Bashir was resting when the police dogs came. He and 11 others were in the dense mountainous forest that joins Turkey and Bulgaria. They had just crossed to the Bulgarian side, for the second time in a month, stepping over the low-hanging wire that divides the two countries. The dogs came out of the woods behind them. Abdul Bashir saw one attack a man in his group, biting his shoulder and dragging him across the ground. The man was bleeding.


      https://theintercept.com/2016/11/03/bulgaria-welcomes-refugees-with-attack-dogs-and-beatings

    • Violence at the Hungarian border

      This winter, as temperatures dropped to 20 below zero, the level of violence at Hungary’s border with Serbia increased sharply, with many describing acts that can be only seen as torture. People of all ages, some as young as 13, were beaten, stripped naked and ordered to lie face-down in the mud, snow or water for as long as an hour. Their clothing was taken or destroyed. Water poured down their necks. Eyes pepper sprayed. Batons struck against genitals. Forced selfies with laughing officers. All this performed by people in “dark blue uniforms” – official Hungarian border police.

      Over the past two years, the Hungarian government has been running a “xenophobic scapegoating campaign" against migration, according to the Helsinki Committee. A 175 kilometer long fence has been setup along the Serbian-Hungarian border, while parallel efforts have been made to prevent the possibility of getting asylum through legal paths.

      Meanwhile in Serbia, the number of refugees significantly exceeds the country’s accommodation capacity and is still growing. During one of the harshest winters in years, up to 2000 people have had no alternative but to sleep rough outdoors – on the streets of Belgrade or in the forests of the north. Without a safe place to stay in Serbia and no legal way to travel backwards, they’ve been stuck in limbo.

      For most of them, attempting irregular crossings has become the only option. Nearly all of those who tried encountered systematic brutality and humiliation regardless of their gender, age or nationality.

      Numerous cases of beatings, dog bites and other abuses at the hands of Hungarian border police have been reported by human rights organisations and activists during the past year. Just in the first two months of 2017, Médecins Sans Frontières (Doctors Without Borders) treated over a hundred people in Belgrade alone, injured by the Hungarian border patrols.

      Although the Hungarian authorities deny all the accusations, the enormous scale and clear pattern of violence leave no doubt: these are not just rare and isolated acts of brutality.

      The stories in this video were collected during January and February 2017. During these 2 months we’ve interviewed more than 20 victims of abuse following human rights reporting guidelines. Informally, we’ve talked with many more.

      https://www.youtube.com/watch?v=nYxb2rtAohQ&feature=youtu.be

    • Hungary Plays the E.U.

      Hungary’s cruel treatment of refugees has reached a new low. On Tuesday, in defiance of international law, the Parliament approved the mass detention of asylum seekers, including children, in guarded camps enclosed with razor wire. The European Union has said in a directive that “Member States shall not hold a person in detention for the sole reason that he or she is an applicant” for asylum; moreover, Hungary’s treatment of refugee children defies international law.

      https://www.nytimes.com/2017/03/13/opinion/hungary-plays-the-eu.html?smid=tw-share&_r=0

    • L’Unione europea e l’«esperimento» ungherese. Migranti in ostaggio

      Il 2 ottobre 2016 il governo ungherese ha invitato i cittadini a rispondere a un referendum che consisteva in un unico, semplice quesito: «Vuoi che l’Unione europea sia abilitata a dare mandato di accoglienza ai cittadini non-ungheresi in Ungheria senza il consenso del Parlamento?». Il vero e il falso di questa domanda si combinavano in una tale ambiguità di senso che il cittadino si trova di fronte a una scelta difficile. Il modo in cui il quesito è stato proposto decontestualizza il problema, poiché in realtà non si tratta di un immaginario cittadino «non-ungherese», ma di persone concrete, detentrici di diritti in quanto profughi e richiedenti asilo.


      https://www.rivistailmulino.it/news/newsitem/index/Item/News:NEWS_ITEM:3862