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  • Palma da olio: le piantagioni maledette del Congo orientale

    Guardiani delle piantagioni di palma da olio che tormentano la popolazione, salari bassi e contratti fantasma: ecco la denuncia dei leader comunitari raccolta dalle ong nella Repubblica Democratica del Congo. Sotto accusa la compagnia canadese #Feronia e l’aiuto allo sviluppo, che sostiene la coltivazione della pianta in vaste aree.

    Rabbia e malcontento. È il clima che si respira tra i leader delle comunità congolesi, ai margini delle piantagioni di palma da olio della compagnia canadese Feronia. A raccontarlo sono le ong in visita sul campo.

    Le tre piantagioni di palma da olio della società canadese occupano più di 100.000 ettari e si trovano nelle regioni dell’Equatore e del Congo Orientale. La loro vicenda attraversa tutta la storia recente della Repubblica Democratica del Congo. Assegnate al britannico William Lever già in epoca coloniale, sono rimaste in uno stato di semi abbandono durante le due guerre del Congo, quando erano gestite dalla multinazionale anglo-olandese Unilever. Infine sono state assegnate alla compagnia Feronia nel 2009, con un contratto rinnovabile di 25 anni.

    L’aiuto allo sviluppo della palma da olio africana

    La compagnia canadese ha una struttura molto complessa. Fin troppo, secondo la rete di ong europee e congolesi che nel 2016 hanno analizzato le sue caratteristiche in un rapporto. La società è detenuta in maggioranza dal Cdc Group, un organismo pubblico britannico, ed è finanziata da banche di sviluppo europee, americane e dalla Banca Africana per lo Sviluppo. I soldi provengono, quindi, dalle istituzioni di molti paesi europei: Francia, Germania, Belgio, Gran Bretagna, Olanda e Svizzera.
    Le terre contese per la coltivazione di palma da olio

    Si tratta di terre concesse illegalmente, secondo la popolazione locale che ne rivendica la gestione, perché di proprietà dello stato congolese. Stéphane Desgain, ricercatore per il coordinamento Cncd (Centro nazionale per la cooperazione allo sviluppo), che riunisce numerose ong belghe, è stato sul posto a metà luglio. Ha incontrato alcuni rappresentanti delle comunità locali nell’area di Lokutu, dove si trovano le concessioni più ampie di Feronia.

    «La popolazione è assolutamente insoddisfatta delle relazioni con la compagnia, degli accordi presi e del programma degli investimenti. Le critiche sono a tutti i livelli», sottolinea il ricercatore del Cncd.

    Le molestie delle guardie private

    Al centro delle ultime contestazioni c’è l’operato delle guardie, che si occupano della sicurezza delle piantagioni. A giugno la rete di informazione e d’appoggio alle ong nazionali (Riao-Rdc) ha denunciato molestie, minacce nei confronti della popolazione e violazioni dei diritti umani. Feronia ha appaltato la sicurezza alla società privata “Tanganyika”, in sostituzione delle guardie industriali che operavano in precedenza. La nuova società ha assunto personale proveniente da altre regioni, per evitare forme di solidarietà con i residenti.

    Feronia sostiene, dal suo punto di vista, la necessità di tenere sotto controllo le piantagioni e di combattere i furti dei frutti della palma. A generare il conflitto con la compagnia, secondo Stéphane Desgain, è la mancanza di un negozio per la vendita locale di olio di palma.

    A questo si aggiunge la rabbia generalizzata della popolazione, che non vede vantaggi dalla presenza della piantagione, solo limitazioni. Le guardie di Feronia, infatti, impediscono ogni forma di trasformazione artigianale del frutto della palma e «danno la caccia a tutti coloro che ne possiedono», raccontano i leader comunitari interpellati.

    Se è vero che si sono verificati furti all’interno della piantagione, è altrettanto vero che «i frutti provengono anche dalla foresta», come evidenzia il ricercatore. La popolazione viene, di fatto, privata della possibilità di comprare l’olio e di trasformarlo localmente.
    Arresti arbitrari per chi ha frutti della palma da olio

    I leader comunitari raccontano anche di arresti arbitrari da parte delle guardie della compagnia. Lo scorso aprile l’ong locale Riao-Rdc denunciò l’arresto di un minatore in possesso di alcuni frutti della palma nei pressi di una delle piantagioni della società. L’uomo sarebbe stato picchiato dalle guardie e portato in una vicina prigione.
    Produzione, estrazione e vendita: salari bassi e personale da fuori

    Una delle rivendicazioni più sentite dai testimoni incontrati dal Cncd, durante la visita sul terreno, è l’assenza di personale locale tra i quadri dell’azienda. «Si tratta di una pratica che arriva dall’epoca coloniale e si ritrova in molte aziende», spiega Stéphane Desgain. Che aggiunge:

    «In questo modo l’azienda controlla meglio il personale ed evita che si generi solidarietà interna».

    Secondo i leader comunitari interpellati, inoltre, i salari non sarebbero sufficienti al benessere delle famiglie.

    Un rapporto sull’olio di palma pubblicato nel 2016 da una rete di organizzazioni internazionali e congolesi confermava la necessità di aumentare i salari sia per i lavoratori assunti che per quelli giornalieri. Le ultime buste paga recuperate dalle ong, però, sembrano essere in linea con la media salariale congolese.

    «In molti casi i lavoratori devono tornare a casa a piedi dopo ore di lavoro perché i camion che li accompagnano al mattino e non li prelevano in serata», racconta il ricercatore. I capi tradizionali denunciano anche la mancanza di contratti e l’utilizzo del lavoro giornaliero anche per lunghi periodi.
    Palma da olio: pochi investimenti nei villaggi

    Gli investitori internazionali che finanziano il progetto, riporta Stéphane Desgain, sostengono che ci sia stato un miglioramento nelle relazioni con la popolazione e nelle condizioni di vita, grazie alla presenza di Feronia. Ma dall’osservazione sul campo emergono ancora grosse difficoltà, anche a livello di infrastrutture.

    La compagnia sul suo sito internet ha riportato i dettagli della realizzazione di strade, di ambulatori medici e di scuole. I capi tradizionali incontrati dal Cncd parlano invece di ritardi nella costruzione, di cambi del progetto in corsa e di materiali al risparmio.

    «La mancanza di infrastrutture è la prima fonte di insoddisfazione della popolazione. Nella zona di Lokutu l’unica struttura realizzata dal momento dell’insediamento della compagnia sono le fondamenta di un presidio sanitario», sottolinea il ricercatore.

    Pianta di palma da olio ostacolo per agricoltura locale

    L’impatto delle operazioni della compagnia non è uguale in tutte le comunità. Alcuni villaggi si sono ritrovati circondati dalle piantagioni, altri confinano con le proprietà di Feronia.

    Già nel rapporto del 2016 emergeva la rivendicazione delle terre da parte delle comunità nei pressi delle piantagioni. I leader locali lamentano la limitazione nell’accesso alla terra per l’agricoltura di sussistenza e nell’accesso alla foresta come fonte di cibo.


    https://www.osservatoriodiritti.it/2018/09/17/palma-da-olio-coltivazione-congo

    #palmiers_à_huile #huile_de_palma #Congo #RDC #plantations #Canada #aide_au_développement #développement #coopération_au_développement #industrie_agro-alimentaire

  • Turismo sessuale minorile: il primato dei clienti italiani

    Nel mondo 3 milioni di persone viaggiano ogni anno per fare sesso con i minori. Molti di loro sono italiani e tanti arrivano dall’Europa. Il fenomeno del turismo sessuale minorile è in crescita ovunque, dalla Thailandia al Brasile, tra uomini e donne. Un reato che fa guadagnare cifre enormi alla criminalità organizzata.

    In tutto il mondo ci sono tre milioni di persone che ogni anno si mettono in viaggio per fare sesso con un minore. I dati sono dell’Organizzazione mondiale del turismo (Omt). Le mete più gettonate sono i cosiddetti “paesi del terzo mondo“, dove povertà e corruzione rendono più facile commettere questo tipo di reato. Perché di questo si tratta, nonostante si cerchi di far pensare che la vittima sia accondiscendente o il suo aspetto fisico tradisca i dati anagrafici.

    «Eppure molta gente pensa che – fuori dai confini patri – non si stia violando la legge», dice Yasmin Abo Loha, segretario generale di Ecpat Italia, ong attiva su questo fronte da più di 20 anni.

    Turismo sessuale minorile, il primato dell’Italia

    L’Italia gode, purtroppo, di un triste primato, piazzandosi tra i primi sei paesi da cui partono i “clienti” di minori costretti a prostituirsi. Gli altri sono Francia, Germania, Regno Unito, Cina e Giappone. Anche per questo, il 16 gennaio al Senato è stata presentata Stop sexual tourism, la campagna internazionale a tutela dei “Diritti Minorili nel Mondo”, promossa dall’Associazione fiori di acciaio, in collaborazione con Mete Onlus e patrocinata dall’Enac (Ente Nazionale per l’Aviazione Civile).

    L’iniziativa prevede l’affissione di un manifesto informativo in 57 aeroporti italiani, per denunciare una situazione sempre più dilagante, ma anche per stimolare una presa di coscienza in chi ha come scopo ultimo del proprio viaggio l’abuso del corpo di un bambino.

    I turisti sessuali italiani e le mete: non solo Thailandia

    I turisti sessuali italiani sono circa 80 mila, per lo più uomini (90%). Negli ultimi anni l’età si è abbassata ed è compresa tra i 20 e i 40 anni, come rivela uno studio di Ecpat Italia, contenuto nel Global Study di Ecpat Iternational (End Child Prostitution in Asian Tourism).

    Il documento è frutto di due anni di ricerca, condotta tra il 2015 e il 2016 grazie al supporto di 67 partner e al contributo di 66 esperti. I principali paesi di destinazione, contrariamente a quanto pensano tanti, sono Brasile, Repubblica Dominicana, Colombia, oltre a Thailandia e Cambogia. A questi poi, ultimamente, si sono aggiunte anche “nuove mete”: alcuni paesi dell’Africa e dell’Est Europa.
    Turismo sessuale femminile: tante le donne coinvolte

    Da non trascurare anche il numero in crescita delle donne che viaggiano in paesi in via di sviluppo, in cerca di sesso a pagamento con i minori. In totale sono il 10% dei turisti sessuali.

    Mentre gli uomini prediligono prede più giovani (fra i 12 e i 14 anni d’età) e tendono a cambiare partner ogni sera, le donne vanno in cerca di adolescenti, ragazzi che possano diventare i loro accompagnatori per tutta la vacanza. Questo avviene soprattutto in Kenya e nei Caraibi.
    Ecpat: pochi pedofili, tanti clienti abituali e occasionali

    Oltre al giro d’affari imponente, secondo solo a quelli di armi e droga, un altro dato preoccupante, sempre diffuso da Ecpat, riguarda i pedofili. Questi, che hanno un target molto profilato (under 12 o addirittura 9) e sono i più consapevoli di ciò che stanno facendo, sono il 5 per cento. Il restante 35% è costituito da clienti abituali, mentre quelli occasionali sono ben il 65%. E c’è di più: gli autori di questi delitti, nella maggior parte dei casi non sanno che quello che stanno commettendo è un reato, tanto in Italia e quanto all’estero.

    Uno dei primi ostacoli da superare per sconfiggere il fenomeno è, quindi, proprio l’inconsapevolezza. Per questo a Giorgia Butera, presidente di Mete Onlus e promotrice della campagna Stop sexual tourism, è venuta l’idea del manifesto informativo da affiggere negli aeroporti e, come ha spiegato a Osservatorio Diritti, «presto anche in altri luoghi di transito, affinché la comunicazione diventi circolare».
    Cosa dice la legge italiana: il reato di turismo sessuale.

    A normare questo tipo di illeciti nel nostro paese c’è la legge 269/1998, “Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù”, aggiornata poi dalla 38/2006, “Disposizioni in materia di lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pedopornografia anche a mezzo Internet”.

    La normativa italiana è considerata molto avanzata ed è stata tradotta in varie lingue perché è una delle prime che ha previsto il principio di extraterritorialità: gli italiani che compiono turismo sessuale potrebbero essere inquisiti nello stato estero, su denuncia delle vittime, e poi in Italia, d’ufficio, dalla magistratura.
    Turismo sessuale minorile, la definizione

    A livello internazionale, invece, il turismo sessuale minorile non è ancora considerato un crimine contro l’umanità. Per questo Giorgia Butera a marzo riproporrà la questione al Consiglio dei Diritti umani delle Nazioni Unite. Per ora l’unica definizione di «sfruttamento sessuale e commerciale dei minori» è stata formulata durante il Primo Congresso Mondiale sul tema che si è svolto a Stoccolma nel 1996.

    Nella Dichiarazione e Agenda per l’Azione si parla di una «violazione fondamentale dei diritti dei bambini che comprende l’abuso sessuale da parte dell’adulto e una retribuzione, in beni o in denaro, del minore e/o di terzi. Il bambino viene trattato sia come oggetto sessuale sia come oggetto commerciale. Lo sfruttamento sessuale dei minori a fini commerciali rappresenta una forma di coercizione e violenza esercitate nei confronti dei bambini ed equivale ai lavori forzati e a una forma di schiavitù contemporanea».

    Economia del turismo sessuale e criminalità organizzata

    Ma per Abo Loha la vera svolta per risolvere un «problema ormai di ordine commerciale, oltre che di violazione di diritti umani, in quanto gestito interamente dalla criminalità organizzata, sarebbe armonizzare la cooperazione giudiziaria e investigativa, perché si ha a che fare con crimini transnazionali».


    https://www.osservatoriodiritti.it/2018/03/27/turismo-sessuale-minorile-nel-mondo-italia-ecpat
    #tourisme #tourisme_sexuel #mineurs #enfants #enfance #Italie #statistiques #chiffres

    cc @albertocampiphoto

  • Biennale Venezia: muri protagonisti dell’esposizione di Architettura

    Mentre il governo italiano chiude i porti alle ong per lo sbarco di migranti alzando così una barriera immaginaria in mezzo al mediterraneo, quattro padiglioni della Biennale di Architettura di Venezia invitano i visitatori a riflettere su muri e confini. Un’esplicita critica all’attuale momento politico mondiale, segnalato da chiusure e separatismi.

    Freespace è il titolo scelto dalle architette irlandesi Yvonne Farrell e Shelley McNamara per parlare di libertà, generosità ed etica per arrivare alla valorizzazione degli spazi collettivi, senza tralasciare la rappresentazione politica che determinano le scelte nell’architettura. Secondo McNamara «dobbiamo essere consapevoli delle questioni politiche, l’architettura ha una profonda agenda sociale che ha una vasta portata politica».

    Partendo da questo principio, i padiglioni di Brasile, Stati Uniti, Germania e Israele hanno portato alla Biennale la loro ricerca basata sulla rappresentazione e percezione di muri, barriere e confini. Se in un momento della storia i muri erano indispensabile all’umanità per poter difendersi, oggi sono archetipi di conflitti e intolleranza.
    Biennale Venezia 2018: il muro nell’identità brasiliana

    Il viaggio tra interpretazioni ed esplorazioni, anche immaginarie, di muri e confini inizia dal padiglione brasiliano. A fare da cornice alla mostra Muros de Ar (Muri d’aria), si incontra una grande sala bianca dove sono state appese dieci gigantesche mappe suddivise per temi che attraverso la grafica mettono in relazione i problemi del paese con l’ambiente stesso.

    Attraverso la ricerca collettiva, i curatori Gabriel Kozlowski, Laura González Fierro, Marcelo Maia Rosa e Sol Camacho invitano a riflettere sulle condizioni archetipiche dei muri per il Brasile. Per i curatori «il muro è un elemento dell’architettura, della cultura e dell’identità brasiliane e la sua trasposizione si oppone all’omogeneizzazione, all’intolleranza e all’estremismo delle reclusioni».

    Le contraddizioni tra confine e divisione è vista alla luce del giorno nel paese verdeoro, dove la barriera sociale fra ricchi e poveri è sempre più evidente. Questa zona di confine costringe un’intera popolazione a vivere in uno stato di mancanza permanente di diritto.

    A dimostrazione di questo ci sono i dati l’istituto di ricerca Ipea. Soltanto nel 2016 più di 60 mila persone sono state assassinate nel paese e la maggior parte delle vittime sono giovani dai 15 ai 19 anni, neri e abitanti delle favelas.

    I dati rafforzano il pensiero di Ian Bremmer, presidente di Eurasia Group e professore della New York University, che durante un incontro a San Paolo a ottobre del 2017 aveva dichiarato che i governi dei paesi ricchi non daranno una risposta efficace all’aumento della disuguaglianza e che tensioni sociali e la violenza rafforzeranno i processi di esclusione e costruzione di muri, reali o virtuali.

    Oltre il muro di Trump alla Biennale di Venezia

    Su filone del pensiero di Bremmer si trova la mostra Dimensions of citizenship presentata dal padiglione degli Stati Uniti. Curata da Niall Atkinson, Ann Lui, Mimi Zeiger, l’esposizione si interroga sul significato della cittadinanza al giorno d’oggi, quando alcuni governi, compreso quello statunitense, limitano questo diritto. Per il team di curatori «è urgente che l’architettura agisca come uno strumento per comprendere, modellare e immaginare ciò che significa essere un cittadino oggi».

    Fra le opere della mostra, l’istallazione Mexus di Estudio Teddy Cruz + Fonna Forman ha riempito le parete di una delle sale del padiglione con una serie di fotografie intitolate La Nazione contro la Natura. Le immagini evidenziano una zona di confine fra Messico e Stati Uniti dove scorrono otto bacini fluviali che fanno una divisione geologica fra i due paesi.

    Arte e Biennale: 29 anni dopo la caduta del Muro

    Se gli Stati Uniti si sono interrogati sul senso della cittadinanza ai nostri giorni, la Germania ha fatto i conto con la propria storia. Ha presentato un’esposizione in cui il muro è mostrato come un’ombra oscura del passato, che deve essere ricordato perché non succeda più. Unbuilding Walls, curata da Marianne Birthler e dallo studio Graft, impressiona subito.

    Nella sala centrale del padiglione, l´istallazione di Alexander Lubic e cfk architetti riprende un muro alto, tagliato a pezzi, percorribile fra gli spazi vuoti. La parte davanti è dipinta di nero, mentro sul retro ci sono informazioni sui progetti costruiti nel 1989 lungo la striscia della morte che separava le due Germanie. L’istallazione gioca anche con la luce, proiettando sul pavimento l’ombra nera del muro frammentato, un chiaro richiamo al periodo buio del nazismo.

    Nelle due sale adiacenti, sei schermi fissi alle parete, messi uno accanto all’altro riprendendo l’impostazione di un muro, proiettavano la video-installazione Wall of Opinions. Ad ogni schermo un frammento di video documentava le testimonianze di persone che vivono in luoghi dove i muri esistono e fanno da barriera sociale, politica e immigratoria. Ad esempio, il muro che separa la Palestina da Israele, il muro di Trump che divide gli Stati Uniti dal Messico, quello della Corea del Nord e Sud e quello che fa da frontiera fra Unione Europea e Ceuta.
    Biennale di Architettura: Terra Santa, coesistenza tra culture

    Anche Israele ha portato il suo muro alla Biennale di Architettura. Statu Quo: Structures of Negotiation, curata da Ifat Finkelman, Deborah Pinto Fdeda, Tania Coen-Uzzielli, Oren Sagiv indaga sul delicato equilibrio coabitativo nei luoghi santi che spesso diventano luoghi di conflitti.

    Attraverso un percorso tra luoghi sacri invita a riflettere sulla coesistenza e le fragili regole di convivenza tra culture diverse che convivono in Terra Santa. L’architettura in questo caso è vista come un agente attivo per il mantenimento dell’equilibrio della regione, diventato molto complicato dopo 1948, l´anno in cui scoppiò la guerra con la Palestina.

    Subito all’ingresso è possibile vedere un modello materico della Chiesa del Santo Sepolcro dipinta di azzurro, bianco, giallo e marrone, dove ogni colore rappresenta una religione diversa. Nel piano superiore una video-installazione attende il pubblico. Nel video si vede il ponte in legno – che ricorda un tunnel – per Mughrabi, unica entrata al tempio per i non musulmani. Impressiona lo sguardo di una donna in un frame del video.

    #murs #art #Venise #biennale #frontières #barrières_frontalières

    @isskein y est, si j’ai bien compris!

  • #Peacekeeping: servono più donne nelle operazioni #Onu per la pace

    Ancora poche donne partecipano alle operazioni di pace dell’Onu. Eppure le Nazioni Unite hanno promosso l’Agenda delle Donne, Pace e Sicurezza, otto risoluzioni che prevedono, tra l’altro, un ruolo maggiore nel peacekeeping, #peacemaking, #peacebulding e #peace_enforcement. Ecco perché è così importante che questo avvenga davvero


    https://www.osservatoriodiritti.it/2018/06/26/peacekeeping-onu-pace-donne
    #paix #femmes #casques_bleus

  • #Seafuture 2018: a La Spezia navi militari offerte ai regimi autoritari

    Seafuture 2018 si presenta ufficialmente a La Spezia come il salone della sostenibilità e dell’innovazione. Eppure, di fatto, si è trasformato in un salone dell’usato militare, dove la Marina Militare cerca di vendere navi dismesse. Senza andare troppo per il sottile sui potenziali acquirenti: tra gli invitati ci sono regimi autoritari di mezzo mondo.

    Un salone dell’usato militare per promuovere la vendita delle navi dismesse dalla Marina Militare. Il tutto spacciato con lo slogan della sostenibilità e dell’innovazione. È questo Seafuture 2018, l’evento che prenderà il via martedì 19 giugno all’Arsenale Militare Marittimo di La Spezia. La rassegna, organizzata dal distretto ligure delle Tecnologie marine e da altri attori pubblici e privati in collaborazione con la Marina militare, non fa mistero del suo obiettivo.

    Come annunciato fin dalla prima conferenza stampa di questa edizione, che non a caso si è tenuta presso il circolo Sottufficiali della Marina Militare di Roma, e come ribadito nei giorni scorsi, «la manifestazione assume una grande rilevanza internazionale grazie alla presenza delle marine estere che parteciperanno coi loro rappresentanti e che potrebbero essere interessate all’acquisizione delle unità navali della Marina Militare non più funzionali alle esigenze della Squadra Navale, dopo un refitting effettuato da parte dell’industria di settore». Un salone dell’usato sicuro, quindi.
    Seafuture 2018: affari militari con i paesi poveri

    Contando sui quasi 6 miliardi di euro sotto forma di contributi ventennali garantiti dalla legge di Stabilità approvata dal governo Renzi nel dicembre del 2014, la Marina Militare sta infatti procedendo al rinnovo della propria flotta navale e progressivamente sta sostituendo 54 unità navali sulle 60 in servizio. La volontà di far cassa vendendo queste navi soprattutto ai paesi dell’Africa e del Medio Oriente viene spiegata con la loro «esigenza di dotazioni militari con tempi di consegna e budget più contenuti».

    Come annunciato già durante la precedente edizione di Seafuture, «le navi dismesse dalla Marina Militare rappresentano, infatti, un buon affare per le marine estere minori, perché sono garanzia di affidabilità nel tempo, in quanto progettate e costruite in Italia».
    A Seafuture invitate Marine Militari di regimi autoritari

    Da qui l’invito ai rappresentanti delle Marine Militari di oltre sessanta paesi (di cui però parteciperanno solo una trentina), per la gran parte monarchie assolute e regimi autoritari di mezzo mondo, oltre agli Stati internazionalmente riconosciuti per evidenti violazioni delle convenzioni internazionali.

    Dall’Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Marocco e Qatar, le cui forze militari sono intervenute, senza alcun mandato internazionale, nel conflitto interno in Yemen: conflitto che in tre anni ha causato più di 10 mila morti, di cui più della metà tra la popolazione civile anche a seguito di bombardamenti indiscriminati effettuati con ordigni di fabbricazione italiana, e che ha portato a una catastrofe umanitaria senza precedenti. E, riguardo al Marocco, non va dimenticato che da più di 40 anni occupa militarmente il Sahara Occidentale violando le risoluzioni delle Nazioni Unite e i diritti umani del popolo Saharawi.

    A cui va aggiunta la Turchia, nota per la continua violazione dei diritti democratici, dell’annosa repressione del popolo curdo e per i recenti attacchi indiscriminati nelle città siriane, a maggioranza curda, di Afrin e Azaz, oltre all’indegno trattamento dei migranti e dei richiedenti asilo.

    E c’è pure l’Egitto, dove continua la repressione interna del regime di Al Sisi e persiste l’inqualificabile comportamento delle autorità egiziane per il caso che riguarda l’uccisione del giovane ricercatore italiano Giulio Regeni.

    Non mancano nemmeno i rappresentanti delle forze militari di Israele, che da oltre 50 anni occupa illegittimamente diversi territori palestinesi e ha imposto da più di un decennio un blocco illegale sulla Striscia di Gaza sottoponendo due milioni di abitanti a una punizione collettiva.

    Per non parlare, poi, di una serie di paesi africani dagli standard di sviluppo umano bassissimi (Angola, Mauritania, Mozambico, Niger, Senegal, ecc.), tra le cui priorità, più che la spesa per l’acquisizione di navi militari, dovrebbero figurare la salute, l’istruzione e la lotta alla povertà.
    A La Spezia si ha voglia di far cassa ad ogni costo

    Intendiamoci bene. Non intendo mettere in discussione la legittimità della Marina Militare di fornire a paesi esteri sistemi navali che, dopo il necessario refitting e adattamenti vari, possano essere da loro utilizzati per esigenze di difesa. E nemmeno intendo criticare l’intenzione di approfittare della dismissione delle unità navali per provare a rivenderle.

    Quello verso cui punto il dito è innanzitutto la voglia di far cassa ad ogni costo, sottacendo sulle persistenti violazioni delle convenzioni e delle norme internazionali in materia di diritto umanitario e di diritti umani da parte dei paesi a cui vendiamo armamenti, più o meno nuovi. Fingendo di non sapere che la legge n.185 del 1990 vieta espressamente la vendita di sistemi militari, tra cui figurano le navi militari, a paesi in stato di conflitto armato, responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani e a paesi che, ricevendo aiuti economici dall’Italia, destinano al proprio bilancio militare risorse eccessive alle esigenze di difesa del paese.
    Innovazione, ricerca, sviluppo: volti ufficiali di Seafuture

    Ma c’è di più. Come ha fatto notare il comitato Riconvertiamo Seafuture nel suo appello, tutto questo avviene all’interno di un salone, Seafuture, che è stato presentato nel 2009 come «la prima fiera internazionale dell’area mediterranea dedicata a innovazione, ricerca, sviluppo e tecnologie inerenti al mare». Un evento che per tre edizioni ha avuto sede presso la fiera di La Spezia (LaSpeziaExpò), e non all’Arsenale militare, e in cui la Marina Militare aveva un suo spazio limitato tra gli altri espositori.

    «Nel corso degli anni Seafuture è stata trasformata in una piattaforma di business dove gli operatori principali sono le aziende del settore militare (Leonardo, MBDA, Fincantieri, Elettronica, ecc.) insieme alla Marina Militare», denuncia il comitato Riconvertiamo Seafuture, che sabato scorso ha promosso un convegno nel quale ha smascherato l’operazione di radicale trasformazione del salone fieristico messa in atto, già a partire dalle precedenti due edizioni, dal comparto militare.
    Governo Conte alle prese con Seafuture e spese militari

    È stata infatti la Marina Militare a trasformare, già dall’edizione del 2014, Seafuture da evento per promuovere l’economia civile del mare a salone per favorire gli affari del comparto militare. Una trasformazione sostenuta dall’allora ministra della Difesa, Roberta Pinotti, che non ha mancato di presentarsi all’edizione di Seafuture che si è tenuta nell’ottobre del 2014 proprio all’Arsenale Militare.

    Alla scorsa edizione partecipò, in rappresentanza della ministra, il sottosegretario alla Difesa, Domenico Rossi. Chi parteciperà in rappresentanza del governo Conte? Al momento (domenica 17 giugno) non è dato di sapere.

    È vero che il governo si è insediato solo da una quindicina di giorni e che tutto l’organico ha preso incarico solo alcuni giorni fa. Ma non è certo una questione secondaria se la neoministra della Difesa, Elisabetta Trenta, parteciperà di persona, o se invece invierà qualcuno del ministero a rappresentarla a Seafuture.

    Una cosa è certa. Il “governo del cambiamento” non potrà esimersi dal prendere posizione sia riguardo a Seafuture, sia, soprattutto, rispetto alle spese militari e alle esportazioni di armamenti del nostro paese. Come per i precedenti governi, lo terremo monitorato.


    https://www.osservatoriodiritti.it/2018/06/18/seafuture-2018-la-spezia
    #armes #armement #foire #armée #commerce_d'armes #navires_militaires #marine_militaire

    Le Marine Militari presenti a Seafuture 2018 (screenshot del sito dell’evento):

    cc @albertocampiphoto

  • Update from the Nicaraguan #Insurrection

    Two weeks ago, we published a report from the uprising in Nicaragua that began in April. Since then, the situation has only intensified. Here is an update from our comrades in Nicaragua, describing the most recent developments and the stakes of the struggle. In Nicaragua, we see an uprising against the neoliberal policies of a “left” government in which a movement is attempting to resist right-wing cooptation in the absence of an established anarchist or autonomous movement. We are concerned about the prevalence of nationalist and rhetoric and imagery, but we believe that it is important to support revolts against authoritarian governments in order to generate dialogue that could open up a revolutionary horizon. Just as it will not benefit leftists to support unpopular and oppressive “left” governments, it does not benefit anarchists to refuse to engage with insurgents whose goals are still evolving.


    https://crimethinc.com/2018/05/21/update-from-the-nicaraguan-insurrection-horizontal-organizing-vs-left-ne
    #Nicaragua #résistance #protestations #révoltes

    • The April 19 Uprising in Nicaragua

      In April, a countrywide revolt broke out in Nicaragua against neoliberal reforms introduced by the government of Daniel #Ortega, a Sandinista revolutionary from the 1980s. We worked with Nicaraguan anarchists who participated at the forefront of the movement to bring you the following interview, offering an overview of the events and an analysis of the difficulties of organizing against leftist authoritarian governments while resisting right-wing cooptation.

      https://crimethinc.com/2018/05/06/the-april-19-uprising-in-nicaragua-an-interview-overview-of-events-and-a
      #chronologie

    • Nicaragua: un paese allo sbando e lo spettro del vuoto di potere

      Le proteste scoppiate a Managua non trovano una via d’uscita. Decine di morti negli scontri. La situazione politica del Nicaragua appesa a un filo, col presidente Daniel Ortega che ha perso il consenso. Anche quello di gerarchia cattolica e impresa privata. Sullo sfondo lo spettro del vuoto di potere, che farebbe precipitare la situazione. Ecco l’analisi di Giorgio Trucchi.

      Oggi non c’è più Silvio Rodriguez, il cantautore cubano che nel 1982 dedicò al Nicaragua sandinista una ispirata Canción urgente para Nicaragua. Tre anni prima il Fronte Sandinista aveva rovesciato la dittatura e Rodriguez denunciava l’azione dei gruppi armati controrivoluzionari, i “contras”, legati agli Stati Uniti d’America. Quarant’anni dopo, il piccolo Paese centroamericano – poco più di 6 milioni di abitanti – è nel caos.

      Le proteste sono iniziate il 18 aprile, nel giorno in cui era entrata in vigore una riforma del sistema pensionistico voluta dal governo guidato dal 2007 dall’ex guerrigliero Daniel Ortega. Anche se la riforma è stata prontamente ritirata (il 22 aprile scorso), proteste e manifestazioni vanno avanti da oltre un mese in tutto il Paese, coinvolgendo in particolare gli studenti.

      Fallimentare, per il momento, il tentativo della Conferenza episcopale del Nicaragua di promuovere il dialogo tra le parti, governo, studenti e società civile, il cui obiettivo è avviare un’agenda per la democratizzazione. Il Nicaragua è stanco di Daniel Ortega, che nel 2016 ha nominato come vicepresidente della Repubblica la moglie, Rosario Murillo.

      Secondo Amnesty International, che denuncia le pratiche repressive del governo, «al 28 maggio, almeno 81 persone sono state uccise, 868 ferite e 438 arrestate». Secondo un comunicato della Divisione di relazioni pubbliche della Polizia nazionale, che Osservatorio Diritti ha potuto visionare, tra le vittime di colpi d’arma da fuoco ci sarebbero anche elementi delle forze di sicurezza, attaccati da quelle che vengono definite «bande delinquenzali», manifestanti incappucciati.

      Per comprendere a fondo un contesto estremamente complesso, Osservatorio Diritti ha intervistato Giorgio Trucchi, giornalista italiano che vive a Managua dal 1998.

      «Ortega e la moglie pagano un modo di governare verticale, che negli ultimi anni ha portato al controllo assoluto di partito, parti sociali, pubblica sicurezza (sia sindacati sia movimenti sociali) e poteri dello Stato. In questi anni il Nicaragua è cambiato, e tanto: infrastrutture, diminuzione della povertà, stabilità macroeconomica, credito per la piccola e media industria, stabilità sociale e sicurezza, salute ed educazione gratuita, copertura elettrica, acqua potabile, e il tutto è stato ottenuto grazie a un patto che chiamerei di desistenza con i due nemici storici degli anni Ottanta, la gerarchia cattolica e l’impresa privata».

      Cosa è successo, quindi? Qual è la situazione politica?

      Un governo che sembrava di ferro, con oltre il 70% dei consensi, ed elezioni stravinte dal 2006 a oggi, con un’opposizione frammentata e senza proposte, una dissidenza fuoriuscita minuscola come numeri e contenuti, subisce la forza di una rete di ong e mezzi di comunicazione “indipendenti”, lautamente finanziati con progetti Usa, che per anni hanno preparato giovani delle superiori e universitari e una piattaforma mediatica per scatenare un’offensiva senza precedenti sulle reti sociali, quando se ne fosse presentata l’occasione. Basta seguire sui social network #SOSNicaragua #SOSInss, le due parole d’ordine.
      Nessun errore da parte di Ortega e Murillo?

      Il governo ha offerto l’occasione di cui parlavo su un piatto d’argento, prima con la riforma della previdenza sociale approvata unilateralmente (in perfetto stile autoritario), poi facendo attaccare con gruppi de choque i primi gruppi di manifestanti, oscurado i canali di televisione che mostravano le violenze e, infine, attaccando gli studenti universitari, storicamente un bacino della militanza del Frente Sandinista. In meno di un’ora le reti lanciavano un’offensiva mediatica, a livello mondiale, mai vista in Nicaragua.
      Quella riforma venne ritirata dopo tre giorni, però.

      I settori dell’opposizione avevano però già visto la possibilità di capitalizzare politicamente il caos. Sono totalmente convinto, ma non ne avrò mai le prove, che la protesta genuina, spontanea ed autoconvocata degli studenti sia stata quasi da subito infiltrata da persone, anche armate, che avevano l’obiettivo di elevare il livello dello scontro, generando morti, feriti e distruzione, creando così un rifiuto generalizzato nella popolazione.

      Ci sono i primi morti, anche tra i poliziotti, e per tre giorni è il caos totale in cui è assolutamente impossibile ricostruire davvero cosa sia successo. Lo sdegno davanti ai morti coinvolge trasversalmente la società e a quel punto anche una parte della base sandinista butta in piazza il suo malessere contro la coppia presidenziale.
      Si leggono notizie contrastanti: cosa sta accadendo?

      Tutto e il contrario di tutto: si fingono attacchi alle università di presunte bande armate o poliziotti, e ogni volta che si prospettano passi positivi all’interno del Dialogo nazionale immediatamente si eleva il livello dello scontro, muore gente, si moltiplicano barricate in tutto il Paese, si mandano messaggi che estremizzano le posizioni (qui un’analisi dello stesso Giorgio Trucchi per l’associazione Italia Nicaragua). Il numero dei morti diventa un balletto di cifre tra organizzazioni di diritti umani, mentre né la polizia, né il governo hanno presentato un rapporto ufficiale.
      Cosa si potrebbe vedere a questo punto in Nicaragua?

      L’opposizione ha in questo momento due anime: una che punta sul dialogo, l’altra che spinge verso il caos e il colpo di Stato per capitalizzare politicamente. La prima che siede al tavolo del Dialogo Nacional vorrebbe anticipare le elezioni attraverso riforme costituzionali (bisognerà vedere come e quando) che garantiscano un voto trasparente e sicuro e che gode dei favori dell’Organizzazione degli Stati Americani e del suo segretario Almagro.

      La seconda, invece, ha come obiettivo la caduta immediata di Ortega, del governo e di tutti i membri delle istituzioni, compresi i vertici della Polizia. Di questa ala fanno parte alcuni settori dell’impresa privata, la gerarchia cattolica più conservatrice, gli studenti e la societa civile finanziata dagli Usa.

      Il governo e il partito gioco-forza negoziano, sentono che hanno perso la piazza e che parte della base, stanca, non li segue. L’impressione, però, è che non sia disposta ad accettere la caduta di Ortega e del governo.
      Quali sono gli elementi più pericolosi per il Paese?

      L’elemento più pericoloso in questo momento è, a mio avviso, il vuoto di potere. Una rinuncia di Ortega e di tutta la struttura istituzionale aprirebbe la porta al caos (non è pensabile in questo momento una persona che possa fare da reggente, mentre si preparano le condizioni per nuove elezioni), e questo è quanto vogliono i settori più estremisti che hanno dalla loro l’opinione pubblica nazionale e internazionale. Nemmeno si può pensare a riforme amplie e generalizzate dello Stato attraverso un tavolo di dialogo: serve necessariamente una assemblea costituente.

      C’è poi un altro elemento di preoccupazione estrema: governo e Fsln (Fronte sandinista di liberazione nazionale, ndr) non hanno per ora mobilitato la propria base più dura, che è armata e preparata. Mettere il governo con le spalle contro il muro potrebbe portare il conflitto a livelli ben più alti degli scontri di questi giorni.

      E il mio timore è che questo sia proprio cio che vogliono i settori più duri dell’opposizione. Il ruolo dell’esercito è stato fino ad ora impeccabile: difendere le istituzioni è però parte del loro mandato costituzionale.
      Come si può uscire da questa situazione?

      L’unica via è il dialogo nazionale, che obbliga tutti a fare un passo indietro. Governo e manifestanti devono essere disposti a cedere qualcosa, questi ultimi isolando i settori violenti e le formazioni politiche e della “società civile” che volgiono capitalizzare il caos.
      Mezzi di comunicazione e organismi internazionali devono esigere giustizia e verità per le persone morte da entrambi i lati, per i feriti e i danni occasionati, ma dando il tempo necessario per uscire dalla crisi e disegnare un percorso negoziato che può essere fatto solo al tavolo di dialogo.


      https://www.osservatoriodiritti.it/2018/06/05/nicaragua-pericoloso-notizie-situazione-politica

    • Il Nicaragua del sandinista Ortega, da liberatore a despota

      Nuovi scontri tra la polizia e i manifestanti che protestano contro il presidente Ortega.
      –La rivolta scoppiata sei settimane fa contro i tagli sociali ha già fatto oltre cento vittime.
      –L’appello del Papa per il dialogo
      –Altro pezzo di America latina che vede i suoi equilibri sociali travolti non più con colpi di Stato ma a colpi di mercato.


      https://www.remocontro.it/2018/06/04/il-nicaragua-del-sandinista-ortega-da-liberatore-a-despota

    • Nicaragua: Lettera aperta di #Gioconda_Belli a Rosario Murillo

      “Nè la storia, né il popolo vi assolveranno mai” per la repressione in Nicaragua.

      Rosario,

      Certamente la tua politica di comunicazione, da quando sei giunta al governo, si è retta mediante quella massima che “una menzogna ripetuta sufficienti volte, si converte in verità”. Per undici anni hai seminato vento in questo paese, convertendo coloro che non stavano al tuo fianco in vili avversari e proclamando una patria solidale che non esisteva altro che nella tua immaginazione. Ma hai seminato vento e ora raccogli tempeste. Mentire è stato un errore. Ora tutte le menzogne, come nere formichine ti perseguitano.

      E, nonostante ciò, lo spettacolo della verità falsata non cessa. Che orribili giorni sono stati questi: morti, dopo morti, poliziotti che capeggiavano orde di paramilitari, giovani scomparsi, bastonate! Tanta violenza è culminata ieri nel dantesco e tristissimo incendio dove è perita un’intera famiglia con dei bambini piccoli e dove la gente eccitata ha bruciato coloro che ha considerato colpevoli.

      Non so cosa potremmo aspettarci da te, che non hai mostrato nessuna pietà verso tua figlia, carne della tua carne e sangue del tuo sangue. Ma sul dolore di più di 170 persone morte, non ti sei fermata a pensare né hai sentito nessuno scrupolo per orchestrare, al tavolo del Dialogo Nazionale, di fronte ai Vescovi e al popolo sofferente, il cinico e falso discorso del Cancelliere Moncada e degli altri partecipanti del tuo governo. Il copione disegnato che seguono ha il tuo sigillo: vuole esimervi dalla colpa e presentare gli aggrediti come aggressori; un altro caso delle colombe che sparano ai fucili.

      In quello stesso dialogo, senza nessuna vergogna, il Cancelliere Moncada ha letto un comunicato dei Pompieri dello Stato sul funesto incendio. Ma siamo un piccolo paese e si sa tutto: il Benemerito Corpo dei Pompieri, il corpo volontario, ha chiarito che sono stati loro, e non coloro che hanno sottoscritto il comunicato, come lo abbiamo visto nel video, quelli che hanno cercato di spegnere le fiamme. Ma la popolazione che aiutava è stata accusata dai falsi pompieri di aver ostacolato il loro lavoro.

      Un altro dei tuoi rappresentanti, Edwin Castro, venerdì è uscito alla fine della sessione, evitando i giornalisti con la scusa che a León stavano bruciando la Renta. Risulta che coloro che andavano a bruciarla -paramilitari- sono giunti sul luogo dopo il suo annuncio, ed è stata la popolazione sollevata che ha impedito l’incendio. L’inganno non è stato sincronizzato bene. E tutti ne siamo testimoni. Lo abbiamo visto anche quando abbiamo visto dei camion svuotare del contenuto gli edifici dello stato che dopo venivano incendiati da degli scagnozzi per incolpare i giovani che protestano.

      Vorrei raccomandarti, Rosario, di uscire dal tuo recinto di El Carmen a parlare con le persone che affermi di rappresentare.

      Avvicinati sulla tua jeep Mercedes Benz ai blocchi dell’eroica Masaya per renderti conto di cosa pensano di te e del tuo sposo. Non avere paura. La gente non è assassina, il tuo popolo non è assassino. Gli assassini sono armati e rispettano ordini del tuo compagno comandante. Li abbiamo visti passare per i quartieri, passare su furgoni Hilux, dietro alle unità della Polizia, armati fino ai denti e con la licenza di uccidere che voi gli avete dato. Diciotto furgoni carichi di quei paramilitari scortati dalla Polizia, sono passati per il Quartiere Santa Rosa. Sono stati filmati in quel quartiere e in altri che hanno assediato e terrorizzato. Nulla di questo è rimasto nascosto, come non è nascosto dove risiedono i tenebrosi che con inaudita violenza hanno voluto dominare questo paese.

      Per undici anni hai con ossessiva costanza pronunciato stucchevoli discorsi d’amore per il Nicaragua e amore per questo popolo. Sei passato ordinando e scompigliando il nostro sistema di Governo, aggredendo la nostra libertà e la nostra democrazia. Ma la verità ha le sue modalità per splendere. L’ultima inchiesta della Cid Gallup registra che il 70% della popolazione vuole che rinunciate e ve ne andiate. Guarda quanto rapidamente si sono rivelati i veri sentimenti del popolo nicaraguense quando hanno perso la paura e si sono azzardati a dire la verità dei loro cuori.

      Rosario, il 14 giugno hai osato vedere qualche canale TV che non fosse uno di quelli che ripetono il tuo discorso? Hai visto la risposta nazionale all’appello di sciopero generale? Non hai visto i negozi chiusi, le strade desolate nelle città e nei villaggi del paese? Quel giorno, la gente ha gridato con il suo silenzio quanto è stanca di falsità, perfino di quella strana religiosità con cui ci ordini di pregare mentre la tua gente minaccia di morte i coraggiosi Vescovi che hanno difeso il popolo. E cosa pensi che abbia motivato tanti cittadini a gettare le alberate che ci hai imposto come scenario eccessivo e dilapidatore di Managua? Folle contente e in festa che abbattevano i simboli psichedelici di un paese che hai cercato di personalizzare come se ti appartenesse.

      Lasciami ricordarti che la bastonata che i tuoi vecchi “ragazzi” della JS (Gioventù Sandinista) hanno dato agli studenti -quella che tutti abbiamo visto dal vivo e a colori grazie alle macchine fotografiche dei cellulari- è stata ciò che ha fatto scoppiare questa ribellione. Vestiti con magliette di Pace e Amore con la tua firma e quella di Daniel hanno calpestato e colpito persone indifese. Se avessi visto quei video e quelli degli studenti morti nei giorni seguenti per gli spari in testa, forse avresti più pudore in quella colorita campagna a cui nessuno ora crede #Nicaragua vuole la pace, #Amore per il Nicaragua. Sì, il Nicaragua vuole la pace, ma non quella che predichi e che è costata 170 morti, più di duemila feriti e decine di scomparsi in solo due mesi.

      Quanta poca decenza dopo che i tuoi delegati al dialogo sono giunti a nominare le poche perdite che avete subito voi! Anche le vostre morti sono da deplorare, non c’è dubbio, ma che speravate? Chi di spada uccide di spada perisce. È la terribile sequela della nube nera di violenza che voi avete soffiato senza misericordia sul nostro paese. Come puoi, Rosario, inviare la Ministra della Sanità, Sonia Castro, a dire che a nessuno è stato impedito di entrare negli ospedali, che a nessuno è stato negato il soccorso, quando ci sono prove e morti che testimoniano come sia stata negata l’assistenza medica ai giovani studenti? Perché non parli con la mamma di Alvaro Conrado, di 15 anni, che è morto perché gli è stato negato l’accesso all’Ospedale Cruz Azul? Lei ti dirà la verità, come te la direbbero le altre madri se osassi ascoltarle. Io ho visto la Ministra Castro negare l’entrata degli studenti di medicina nell’ospedale di León come rappresaglia per aver partecipato alle proteste. I dinieghi degli ospedali sono stati registrati nei video dalla popolazione. Non sono fantasie delle vittime.

      Sei l’unica che continua ostinata a propagare fantasie che in nulla assomigliano alla realtà. Attraverso i canali della TV e i media della tua famiglia, fin dal primo giorno, sono state messe in uso le più sporche tecniche di propaganda per trasformare la popolazione scontenta in “bande delinquenziali della destra”. È un vecchio schema: trasformare coloro che protestano in nemici per poterli uccidere e chiedere agli altri di ucciderli senza pietà. Queste tecniche di disumanizzare un presunto “nemico” sono state effettivamente usate contro gli ebrei nella Germania nazista. Così qui sono stati lanciati nicaraguensi contro nicaraguensi inventando colpi di stato, complotti e altri motivi simili che vogliono solo tappare il sole con un dito.

      Quel sole della libertà che muove questa rivoluzione civica e disarmata, non ti sei resa conto che si è esteso su tutto il territorio nazionale? Il popolo medesimo si è auto-convocato senza altra leadership che quella dei suoi dirigenti comunitari e il suo grido è “Che se ne vadano”.

      Non ho molte speranze che tu ammaini la crudeltà e l’accanimento che si cerca di mascherare con una pelle di pecora. È una pena che tu abbia deciso di usare la tua intelligenza e la tua capacità di organizzazione per portarci a questo terribile dilemma. Con la tua calligrafia, quella con la quale hai segnato tutto il Nicaragua, hai scritto la pagina più nera nella storia del FSLN, hai sporcato la sua eredità, sei tornata ad uccidere tutti gli eroi e i martiri che hanno lottato perché in Nicaragua non ci fosse un’altra dittatura.

      Nei campi e nelle montagne, nelle città e nei paesi ci sono milioni di occhi che ti osservano, alcuni con incredulità, altri con orrore, ma ora nessuno con timore. Ciò che stiamo vedendo mai lo dimenticheremo. Mai dimenticheremo che nel Giorno delle Madri, durante la marcia più gigantesca che abbia visto la città e nelle altre marce dei dipartimenti, sono morte diciotto persone innocenti. Credi che ci convincerai che quelli della marcia si siano sparati da sé?

      Non è la prima lettera che ti scrivo, Rosario. Della tua mania di equivocare le cose e della tua abilità di rivoltare la realtà, sono stata testimone più di una volta. Ammetto che non ho pensato che il potere distruggesse in modo così assoluto la tua poesia, che la donna a cui in passato ho dato rifugio, dilapidasse non solo il suo presente, ma anche il suo futuro.

      Né tu, né Daniel passerete alla storia nella pagina colorita e magnifica che avresti immaginato. A voi, né la storia, né il popolo vi assolveranno mai.

      17 giugno 2018

      https://www.infoaut.org/conflitti-globali/nicaragua-lettera-aperta-di-gioconda-belli-a-rosario-murillo

    • Entretien. Au Nicaragua, “la situation est explosive”

      Le dessinateur de presse nicaraguayen #Pedro_Molina publie chaque jour une caricature sur le féroce couple présidentiel Ortega et sur la résistance que lui opposent les citoyens, au péril de leur vie. Depuis avril dernier, le conflit a fait 325 morts. Le pouvoir réprime systématiquement, dans la violence, toute manifestation. Pedro Molina collabore également avec d’autres médias dans le monde et est membre du réseau Cartooning for Peace. De passage en Europe, il a répondu aux questions de Courrier international.


      https://www.courrierinternational.com/article/entretien-au-nicaragua-la-situation-est-explosive

  • #Zimbabwe: bambini avvelenati nelle piantagioni di tabacco

    Bambini nelle piantagioni di tabacco. Piccoli e adulti vittime di avvelenamento e con problemi respiratori. Mentre le multinazionali continuano a comprare il tabacco coltivato in queste condizioni. Human Rights Watch fa luce sul paese che si sta prepararando alle elezioni dopo il colpo di Stato contro Mugabe


    https://www.osservatoriodiritti.it/2018/05/21/zimbabwe-bambini-economia-tabacco
    #tabac #industrie_du_tabac #sigarettes #enfants #plantations #agriculture #multinationales #intoxication #British_American_Tobacco #Japan_Tobacco_Group #Imperial_Brands #nicotine
    cc @albertocampiphoto @marty

  • Armi italiane nel mondo: dove finiscono e chi colpiscono

    Bombe per decine di milioni di euro all’Arabia Saudita, che le usa nella guerra in Yemen. E le armi italiane finiscono pure in Nord Africa, Turchia e in tanti altri paesi del Medio Oriente. Un commercio che vede tra i protagonisti la #Rwm_Italia (della #Rheinmetall) e le autorità italiane che lo permettono. Una situazione così grave che gli attivisti hanno presentato un esposto.

    Più di 45 milioni di euro di bombe all’Arabia Saudita. Una fornitura che rappresenta un record non solo per la piccola azienda di Domusnovas in Sardegna, dove la Rwm Italia produce bombe aeree del tipo MK 82. MK83 e MK84 per conto della multinazionale tedesca Rheinmetall, ma per l’intera produzione italiana di ordigni.

    Un dato che, considerata la rilevanza a livello manifatturiero e soprattutto la criticità del destinatario e utilizzatore finale, dovrebbe apparire in chiara evidenza nella Relazione destinata al Parlamento. Di cui, invece, non si trova menzione nella “Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento per l’anno 2017” pubblicata – in totale silenzio (nemmeno un tweet per annunciarla) – lo scorso venerdì 4 maggio sul sito del Senato (ma non ancora disponibile su quello della Camera).
    Armi italiane in Medio Oriente e Nord Africa

    Della Relazione sul controllo del commercio di armi ci siamo in parte già occupati, commentando alcune anticipazioni offerte, in modo alquanto insolito, dal direttore dell’Unità nazionale per le autorizzazioni dei materiali di armamento (Uama), Francesco Azzarello, con una sua intervista all’Ansa. Ma i dati che emergono dal documento ufficiale sono molto più preoccupanti di quelli finora anticipati.

    Innanzitutto perché, degli oltre 10,3 miliardi di euro di autorizzazioni all’esportazione di materiali d’armamento rilasciate nel 2017 dal governo Gentiloni, il 57,5% è destinato a Paesi non appartenenti all’Ue o alla Nato e prevalentemente ai paesi del Medio Oriente e Nord Africa. Ma soprattutto perché tra i principali destinatati figurano nazioni belligeranti, monarchie assolute, regimi autoritari irrispettosi dei diritti umani, governi fortemente repressivi.

    L’esatto opposto di quello che ci si aspetterebbe: ai sensi della normativa nazionale che regolamenta questa materia, la legge 185 del 1990, le esportazioni di armamenti «devono essere conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia» e dovrebbero essere regolamentate «secondo i principi della Costituzione repubblicana che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» (art. 1).
    Guerra in Yemen e regimi: le armi italiane nel mondo

    L’elenco di questi Paesi è impressionante. Si comincia con il Qatar (4,2 miliardi di euro), a cui sono state fornite da Fincantieri quattro corvette, una nave per operazioni anfibie e due pattugliatori e in aggiunta il sistema di combattimento e missilistico della Mbda: un intero arsenale bellico che la sottosegretaria di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri, onorevole Maria Elena Boschi, nella sezione di sua competenza liquida sbrigativamente come una mera «fornitura di navi e di batterie costiere».

    Segue l’Arabia Saudita (52 milioni), a cui vanno aggiunti altri 245 milioni di euro per gli Efa “Al Salam” e i Tornado “Al Yamamah” riportati nei programmi intergovernativi.

    E poi Turchia (266 milioni), Pakistan (174 milioni), Algeria (166 milioni), Oman (69 milioni), Iraq (55 milioni), Emirati Arabi Uniti (29 milioni), Giordania (14 milioni), Malaysia (10 milioni), Marocco (7,7 milioni), Egitto (7,3 milioni), Tunisia (5,5 milioni), Kuwait (2,9 milioni), Turkmenistan (2,2 milioni).
    #Pakistan #Algérie #Oman #Irak #EAU #Emirats_Arabes_Unis #Jordanie #Malaysie #Maroc #Birmanie #Egypte #Tunisie #Kuwaït #Turkmenistan

    Come ha rilevato con un comunicato la Rete italiana per il Disarmo, «il risultato è evidente: gli affari “armati” dell’industria a produzione militare italiana si indirizzano sempre di più al di fuori dei contesti di alleanze internazionali dell’Italia verso le aree più problematiche del mondo».

    Armi all’Arabia Saudita: «Violati i diritti umani»

    Soprattutto le forniture di armamenti all’Arabia Saudita sono state oggetto di specifiche denunce da parte delle associazioni pacifiste italiane ed europee. Si tratta di forniture – non va dimenticato – che il Parlamento europeo ha chiesto con tre specifiche risoluzioni di interrompere ponendo un embargo sugli armamenti destinati all’Arabia Saudita «visto il coinvolgimento del paese nelle gravi violazioni del diritto umanitario accertato dalle autorità competenti delle Nazioni Unite» (risoluzione del Parlamento europeo sulle esportazioni di armi del 13 settembre 2017).

    Insieme all’’European Center for Constitutional and Human Rights (Ecchr) e all’organizzazione yemenita per i diritti umani Mwatana, lo scorso 18 aprile la Rete Italiana per il Disarmo ha presentato una denuncia penale alla Procura della Repubblica italiana di Roma.
    Autorità e Rwm Italia: chiesta apertura indagine

    Nella denuncia si chiede che venga avviata un’indagine sulla responsabilità penale dell’Autorità italiana che autorizza le esportazioni di armamenti (Unità per le autorizzazioni dei materiali d’armamento – Uama) e degli amministratori della società produttrice di armi Rwm Italia S.p.A. per le esportazioni di armamenti destinate ai membri della coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita coinvolti nel conflitto in Yemen.

    La denuncia è estremamente dettagliata e riporta il caso di un raid aereo effettuato l’8 ottobre 2016, verosimilmente dalla coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita, che ha colpito il villaggio di Deir Al-Hajari, nello Yemen nord-occidentale, distruggendo la casa della famiglia Houssini e uccidendo sei persone, tra cui una madre incinta e quattro bambini. Sul luogo dell’attacco sono stati rinvenuti dei resti di bombe e un anello di sospensione prodotti da Rwm Italia.
    Rheinmetall nel mirino dell’azionariato critico

    Le associazioni non si sono limitate alla denuncia. Per sensibilizzare l’opinione pubblica la Fondazione Finanza Etica (Ffe) ha partecipato lo scorso 8 maggio a Berlino all’assemblea degli azionisti della Rheinmetall, l’azienda che controlla la Rwm Italia.

    All’assemblea era presente, in rappresentanza delle associazioni pacifiste italiane, Francesco Vignarca, coordinatore di Rete Disarmo. Numerose anche le organizzazioni tedesche che, acquistando azioni della Rheinmetall, hanno potuto partecipare all’assemblea dei soci: tra le altre va ricordata la banca cattolica Bank für Kirche und Caritas (presente in rappresentanza del network SfC-Shareholder for Change), Urgewald, Campact, varie associazioni cattoliche ed Ecchr (European Centre for Constitutional and Human Rights).

    Particolarmente significativo l’intervento di Bonyan Gamal, in cui l’attivista yemenita di Mwatana ha descritto la tragica morte della famiglia Houssini, suoi vicini di casa, centrati da una bomba prodotta dalla Rwm Italia.
    Mons. Zedda su Rwm Italia: «No a produzione di armi»

    Una presa di posizione quanto mai significativa è venuta dal vescovo di Iglesias, monsignor Giovanni Paolo Zedda. Il prelato è titolare della diocesi di cui fa parte Domusnovas, dove ha sede la fabbrica della Rwm Italia. Dopo aver ricordato nel suo messaggio la «gravissima situazione occupativa» nell’iglesiente, monsignor Zedda evidenzia che «la gravissima situazione economico-sociale non può legittimare qualsiasi attività economica e produttiva, senza che ne valutiamo responsabilmente la sostenibilità, la dignità e l’attenzione alla tutela dei diritti di ogni persona».

    «In particolare, non si può omologare la produzione di beni necessari per la vita con quella che sicuramente produce morte. Tale è il caso delle armi che – è purtroppo certo – vengono prodotte nel nostro territorio e usate per una guerra che ha causato e continua a generare migliaia di morti».

    E, in merito ai piani proposti dalla Rwm Italia per ampliare la fabbrica, monsignor Zedda afferma con chiarezza: «Qualunque idea di conservazione o di allargamento di produzione di armi è da rifiutare». Un messaggio che è stato accolto con grande attenzione dai partecipanti al convegno “Pace, lavoro, sviluppo”, che proprio in quei giorni si teneva a Iglesias per riflettere anche sulle prospettive di una possibile riconversione della fabbrica delle bombe.


    https://www.osservatoriodiritti.it/2018/05/15/armi-italiane-nel-mondo-arabia-saudita-yemen
    #armes #Italie #armement #commerce_d'armes #Arabie_Saoudite #Yémen #Turquie
    cc @albertocampiphoto

    • Armi italiane in Yemen: Governo del Cambiamento alla prova

      Il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, vuole vederci chiaro sull’esportazione di armi italiane verso Arabia Saudita e altri Paesi coinvolti nel conflitto in Yemen. E si dichiara pronta a bloccare le vendite di armi «verso Paesi in guerra o verso altri Paesi che potrebbero rivenderle a chi è coinvolto». Nel frattempo, però, servirebbe più trasparenza.

      Il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, ha annunciato ieri l’intenzione, «laddove si configurasse una violazione della legge 185 del 1990», di interrompere le esportazioni di armamenti a Paesi coinvolti in conflitti bellici. L’annuncio, pubblicato sulla sua pagina Facebook, fa seguito a una serie di dichiarazioni rilasciate nei giorni scorsi da diversi parlamentari del Movimento 5 Stelle (M5S) ed in particolare dal suo leader politico, Luigi Di Maio.

      Al termine della riunione della Cabina di Regia per l’Italia internazionale, il ministro dello Sviluppo economico, Di Maio, aveva infatti affermato:

      «Non vogliamo, ad esempio, continuare ad esportare armi verso Paesi in guerra o verso altri Paesi che, a loro volta, potrebbero rivenderle a chi è coinvolto in un conflitto bellico».

      Una dichiarazione salutata positivamente da alcuni parlamentari del M5S che hanno annunciato di voler avviare iniziative parlamentari «per imprimere un cambiamento anche in questo settore».
      Trenta chiede chiarimenti su esportazione armi italiane

      Ma torniamo alla dichiarazione del ministro della Difesa. A fronte delle «immagini di quel che accade in Yemen ormai da diversi anni», Elisabetta Trenta annuncia innanzitutto di aver chiesto «un resoconto dell’export, o del transito di bombe o altri armamenti dall’Italia all’Arabia Saudita». Il ministro, specificando agli organi di stampa che «fino ad ora, erroneamente, si era attribuita la paternità della questione al ministero della Difesa, mentre la competenza è del ministero degli Affari Esteri (Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento-UAMA)», comunica di aver inviato «venerdì scorso una richiesta di chiarimenti, sottolineando – laddove si configurasse una violazione della legge 185 del 1990 – di interrompere subito l’export e far decadere immediatamente i contratti in essere».

      Si tratta, evidenzia, di «contratti firmati e portati avanti dal precedente governo» (leggi Armi italiane ai regimi autoritari). La titolare della Difesa annuncia infine di aver «allertato il collega Moavero, che sono certa si interesserà quanto prima dell’argomento». Al momento, dal ministero degli Esteri non risulta alcuna risposta. Ma la dichiarazione della Trenta evidenzia un’attenzione, finora inedita, da parte di un organo governativo, da non sottovalutare.
      Rete Disarmo e Amnesty su armi italiane vendute all’estero

      La Rete italiana per il Disarmo, che per anni insieme a diverse altre organizzazioni della società civile ha sollevato in varie sedi la questione, ha salutato positivamente la presa di posizione della ministro Trenta sulla questione delle vendite di bombe italiane all’Arabia Saudita, evidenziando che «va nella giusta direzione e verso l’unica e sola soluzione sensata e umana: lo stop di qualsiasi fornitura militare».

      https://www.osservatoriodiritti.it/2018/09/18/armi-italiane-in-yemen-arabia-saudita

    • Triplicherà la produzione la fabbrica di bombe in Sardegna che rifornisce i sauditi

      L’azienda tedesca investe sulle sue filiali all’estero per aggirare il blocco di forniture a Riyadh imposto da Angela Merkel

      #Rwm verso l’ampliamento. Il comitato di riconversione e Italia Nostra Sardegna in piazza per protestare: «Il comune di Iglesias non ci ascolta»

      La Rwm, la fabbrica di bombe situata a Domusnovas in Sardegna, triplicherà la sua produzione e amplierà le sue strutture su un territorio che rientra sotto il comune di Iglesias. È prevista la costruzione di due nuovi reparti produttivi; a giorni verrà pubblicata l’autorizzazione sull’albo pretorio comunale.

      Secondo Italia Nostra Sardegna, la richiesta di autorizzazione all’ampliamento è stata formulata in modo che i due reparti impiegati nel processo di miscelazione, caricamento e finitura di materiali esplodenti non vengano inquadrati come impianti chimici, così da eludere le valutazioni di Impatto ambientale e il coinvolgimento della Regione Sardegna. Con i due nuovi reparti la produzione passerà da 5 mila a 15 mila bombe l’anno.

      La Rwm è tristemente famosa per le forniture all’Arabia Saudita, che utilizza gli ordigni per bombardare i civili in Yemen nella guerra contro i ribelli sciiti Houthi che ormai va avanti dal 2015. La fabbrica è una filiale dell’azienda tedesca di armamenti Rheinmetall, il cui presidente Papperger già a maggio scorso dichiarava durante il consiglio di amministrazione il rinnovo di investimenti per il sito di Domusnovas. Gli investimenti sono arrivati e l’ampliamento ha ricevuto l’autorizzazione.

      In circa 18 mesi i lavori dovrebbero essere conclusi: a dare la tempistica approssimativa era stato proprio l’amministratore delegato di Rwm, Fabio Sgarzi, in un’intervista a La Nuova Sardegna lo scorso luglio. Proprio in quel periodo, infatti, la società aveva presentato la richiesta di ampliamento per la quale lo scorso 3 novembre è scaduta la prima fase autorizzativa.

      «Non possiamo essere complici di una tale sciagura» dichiara Arnaldo Scarpa, portavoce del Comitato di riconversione, che giovedì 8 novembre era in piazza assieme all’associazione Italia Nostra Sardegna per un sit in di protesta. Lo scorso luglio le due associazioni si sono costituite nella Conferenza dei Servizi, in cui vengono presi in considerazione gli interessi pubblici, per richiedere la necessità di una valutazione di impatto ambientale. Ma questa volta non sono stati ascoltati: in assenza di pareri contrari, la procedura di ampliamento va avanti. «Diventa così ancora più importante la protesta” continua Scarpa “Stiamo valutando gli estremi per un ricorso al Tar».

      È dal 2016 che la Rwm prova ad ampliarsi nel territorio di Iglesias: due anni fa, infatti, la società aveva richiesto l’autorizzazione per la costruzione di un nuovo campo per i test. Ma questa richiesta è al momento bloccata in fase istruttoria presso la regione Sardegna, in attesa di una Valutazione di impatto ambientale, istanza fortemente voluta dall’associazione Italia Nostra Sardegna. Fino ad ora, denunciano le associazioni, la politica locale non ha preso una posizione, sostenendo che l’approvazione o il rigetto delle autorizzazioni di ampliamento siano questioni puramente tecniche di competenza del Suap (Sportello unico per le attività produttive). «Ci siamo rivolti direttamente al Sindaco di Iglesias, al responsabile del Suap e al responsabile del procedimento del comune di Iglesias, speriamo che in questi giorni la situazione possa essere ribaltata” conclude Scarpa «la lotta non violenta continua e con maggiore motivazione».

      I progetti di espansione peraltro vanno nella direzione contraria a quella indicata dalla cancelliera tedesca Angela Merkel, che in relazione al caso Kashoggi ha minacciato di sospendere il commercio di armi con l’Arabia Saudita. Di fatto però la Merkel sa benissimo che in mancanza di una regolamentazione definita sulle filiali all’estero, le grosse aziende tedesche di armi possono continuare a commerciare impunite.

      La Rheinmetall infatti sta implementando gli investimenti sulle sue due più grosse succursali all’estero: da un lato procede all’ampliamento della sarda Rwm e dall’altra ha appena ricevuto una grossa offerta dalla compagnia della difesa saudita Sami (Saudi Arabian Military Industries) per la sudafricana Rdm (Rheinmetall Denel Munition). Secondo una fonte anonima riportata dalla Reuters l’offerta ammonterebbe a un miliardo di dollari e riguarderebbe Denel, l’azienda che dal 2008 si è legata in una join venture con la Rheinmetall Waffe Munition tedesca e che attualmente detiene il 49% della filiale sudafricana. In tale modo i sauditi, con una quota di minoranza, entrerebbero di diritto nel consiglio di amministrazione e riuscirebbero ad impossessarsi di una grossa parte della fabbrica.

      Se nelle dichiarazioni politiche viene messa in discussione la possibilità di commerciare con l’Arabia Saudita, nei fatti quando si parla di affari milionari, la solidarietà tra i vari paesi coinvolti risulta più compatta che mai.

      https://www.dirittiglobali.it/2018/11/triplichera-la-produzione-la-fabbrica-di-bombe-in-sardegna-che-riforn
      #Allemagne

    • Armi italiane vendute all’estero per rilanciare il “Sistema Paese”

      Il Governo del Cambiamento non ha intenzione di rinunciare alla vendita di armi italiane in Medio Oriente. Tanto che per il sottosegretario alla Difesa Tofalo si tratta di un business «da sfruttare al massimo». Con buona pace dei diritti umani violati dall’Arabia Saudia nella guerra in Yemen. Società civile e Comuni, invece, chiedono un’inversione di rotta

      Ha preso il via domenica scorsa Idex 2019 (International Defence Exhibition), l’esposizione biennale di sistemi militari di Abu Dhabi giunta alla quattordicesima edizione. Un salone che rappresenta il punto di riferimento per i ricchi acquirenti del Medio Oriente e, soprattutto, per le aziende produttrici di armamenti.

      Come annunciato (leggi Marina militare: dalla Spezia al Medio Oriente per affari di guerra), la Marina Militare ha voluto inviare ad Abu Dhabi la fregata Margottini per arricchire con le sue tecnologie belliche il salone Navdex, che si tiene in contemporanea a Idex.

      Tra le 1.235 aziende di 57 Paesi, la presenza italiana è rilevante: 31 aziende, tra cui oltre ai colossi #Leonardo (ex #Finmeccanica) e #Fincantieri, figurano i produttori di bombe (#Simmel_Difesa del gruppo francese #Nexter), di “armi leggere” (#Beretta, #Benelli, #Tanfoglio, #Fiocchi, ma anche la meno nota #Mateba), di “materiali da difesa” di ogni tipo e soprattutto di sistemi elettronici tra cui spicca #Hacking_Team, l’azienda sospettata di essere coinvolta nello spionaggio di Giulio Regeni (con relative proteste dell’azienda) e anche nel caso dell’omicidio del giornalista saudita Jamal Khashoggi.

      In breve, un ampio campionario dell’arsenale bellico italiano, pesante e leggero, con tanto di associazione di rappresentanza, l’Aiad (Federazione Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza), la cosiddetta “Confindustria degli armamenti”, capitanata dal suo presidente Guido Crosetto che è anche coordinatore nazionale di Fratelli d’Italia.

      Armi italiane vendute all’estero: occasione da “sfruttare”

      In questo contesto non poteva certo mancare la visita di un rappresentante del governo italiano: vi ha infatti partecipato il sottosegretario alla Difesa, l’onorevole pentastellato Angelo Tofalo. Per non far passare inosservata la sua presenza, il sottosegretario ha voluto dedicare al salone militare un ampio scritto sulla sua pagina Facebook con tanto di foto ricordo della visita agli stand ed in particolare del suo incontro con Mohammed bin Zayed Al Nahyan, il Principe erede dell’Emirato di Abu Dhabi e delegato per il ministero della Difesa.

      Un resoconto entusiasta, in cui il sottosegretario parla di Idex 2019 nei termini di «una grande opportunità per stabilire e rafforzare cooperazioni con i principali attori dell’area», di «un’occasione da sfruttare al massimo» e, soprattutto, del suo ruolo «per sostenere le nostre eccellenze (…) per affermare il “made in Italy” nel mercato internazionale». «Anche questo vuol dire fare politica, quella buona, e gli interessi dell’Italia», chiosa Tofalo.

      Dichiarazioni in perfetto stile “commesso viaggiatore” dell’industria militare italiana. Quanto questo risponda al suo ruolo di sottosegretario alla Difesa, il cui compito principale sarebbe quello di assicurare la sicurezza del nostro Paese a fronte della minaccia che queste monarchie rappresentano (ne parlo più sotto), non è dato di sapere.

      In sfregio alle violazioni e ai crimini di guerra

      La partecipazione di Tofalo a Idex 2019 è un messaggio molto chiaro: il governo Conte non intende rinunciare agli affari militari e coglie l’occasione del salone di Abu Dhabi per rafforzare i legami con le monarchie del Golfo. Manifestando così il suo appoggio politico all’intervento militare che vede protagonisti gli Emirati Arabi insieme ai sauditi in Yemen.

      Un sostegno inammissibile alla luce della relazione dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani dell’agosto scorso che documenta come tutte le parti implicate nel conflitto nello Yemen stiano commettendo “crimini di guerra”. E in totale disprezzo della risoluzione 2018/2853 del Parlamento europeo che lo scorso ottobre ha esortato tutti gli Stati membri dell’Ue ad «astenersi dal vendere armi e attrezzature militari all’Arabia Saudita, agli Emirati Arabi Uniti e a qualsiasi membro della coalizione internazionale, nonché al governo yemenita e ad altre parti del conflitto».

      Sulla questione dello Yemen il sedicente governo del Cambiamento quindi si mostra non solo in perfetta continuità con i governi che l’hanno preceduto (leggi Armi italiane in Yemen: Governo del Cambiamento alla prova), ma anzi intende incentivare le forniture belliche perché – come spiega il sottosegretario Tofalo – «in questo settore, quando viene a crearsi un bisogno, accade che tanti competitor sono pronti a inserirsi e affermare le proprie tecnologie e prodotti». E per promuovere l’export armato sta pensando «ad una a grande fiera sull’Industria della Difesa, magari a Milano», scrive Tofalo nel suo post.
      Armi sviate alle milizie in Yemen

      Tutto questo avviene a pochi giorni di distanza dalla pubblicazione di un rapporto in cui Amnesty International documenta che «gli Emirati Arabi Uniti sono diventati il principale fornitore di veicoli blindati, sistemi di mortaio, fucili, pistole e mitragliatrici a milizie presenti in Yemen che compiono crimini di guerra e altre gravi violazioni dei diritti umani in modo del tutto impunito».

      Non solo. Amnesty evidenzia che «i gruppi armati destinatari finali di questi loschi traffici – tra cui i “Giganti”, la “Cintura di sicurezza” e le “Forze di elite” – sono addestrati e finanziati dagli Emirati Arabi Uniti ma non rispondono ad alcun governo». Alcuni di loro sono stati accusati di crimini di guerra, anche nel corso della recente offensiva contro la città portuale di Hodeidah e nella gestione del sistema di prigioni segrete nel sud dello Yemen».
      Guerra in Yemen: anche gli Usa ci ripensano

      Accuse confermate da un’inchiesta della CNN che documenta come Arabia Saudita e Emirati Arabi hanno trasferito armamenti di fabbricazione americana a combattenti legati ad al Qaeda, alle milizie salafite e ad altre fazioni attive nella guerra nello Yemen. Arabia Saudita e Emirati Arabi «hanno usato le armi prodotte dagli Stati Uniti come una forma di valuta per comprare la lealtà delle milizie e delle tribù, rafforzare i rapporti con gruppi armati scelti e influenzare il complesso panorama politico», riporta la CNN.

      Anche a fronte di queste inchieste, nei giorni scorsi la Camera degli Stati Uniti ha votato per porre fine al coinvolgimento militare e al sostegno di Washington alla coalizione a guida saudita nello Yemen. Un fatto rilevante, sia per il ruolo fondamentale di sostegno degli Stati Uniti alla coalizione a guida saudita nel conflitto yemenita, sia perché la risoluzione è passata grazie al voto anche di 18 rappresentanti repubblicani (248 voti a favore, 177 contrari): è la prima volta che la Camera approva una risoluzione del “War Powers Act” da quando la legge è stata emanata nel 1973.
      Le città italiane: basta armi italiane all’Arabia Saudita

      Il blocco delle forniture belliche all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti è stato ripetutamente richiesto, oltre che dal Parlamento europeo (leggi Basta armi ai sauditi, lo chiede l’Europa), anche da numerose associazioni della società civile italiana (da Amnesty International Italia a Fondazione Finanza Etica, dal Movimento dei Focolari a Oxfam Italia, dalla Rete della Pace alla Rete Italiana per il Disarmo e Save the Children Italia che ieri ha diffuso un nuovo appello). E sta trovando il sostegno da parte di numerose amministrazioni comunali.

      La mozione per fermare le forniture belliche è partita da Assisi, “Città della pace”, dove nel novembre scorso è stata approvata all’unanimità nel consiglio comunale. È poi approdata a Cagliari (la città dal cui porto e aeroporto partono le bombe della serie MK 80 fabbricate dalla Rwm Italia di Domusnovas e destinate all’Arabia Saudita), dove il consiglio comunale lo scorso 8 gennaio ha approvato un ordine del giorno che sollecita l’applicazione delle legge 185/90, che vieta la produzione e la vendita di armi ai Paesi in guerra. Sono seguite le mozioni approvate nei consigli comunali di Verona e di Bologna.

      È quindi approdata nell’assemblea capitolina che lo scorso 12 febbraio ha approvato la mozione “Stop bombe per la guerra in Yemen”. La mozione impegna la giunta, tra l’altro, a:

      «Promuovere, insieme agli altri comuni convergenti su questi intenti, alle associazioni e ai comitati di cittadini interessati, ogni azione perché il Governo e il Parlamento Italiano diano attuazione ai principi costituzionali e alle risoluzioni del Parlamento Europeo, bloccando l’esportazione di armi e articoli correlati, prodotti in Italia, destinate all’Arabia Saudita e a tutti i Paesi coinvolti nel conflitto armato in Yemen».

      Un’iniziativa importante, che andrebbe replicata in tutte le città e comuni d’Italia.

      Per riportare all’attenzione nazionale il tema delle esportazioni di armamenti, segnaliamo il convegno “Produzione e commercio di armamenti: le nostre responsabilità”, che si terrà il 1° marzo a Roma (iscrizione obbligatoria entro il 22 febbraio).

      https://www.osservatoriodiritti.it/2019/02/22/armi-italiane-vendute-all-estero-yemen-arabia-saudita

    • No all’allargamento della #RWM a #Iglesias

      La Tavola Sarda della Pace prende atto della decisione dell’Amministrazione comunale di Iglesias che autorizza d’ufficio l’allargamento della fabbrica di armamenti RWM, con la costruzione di due nuove linee di produzione che porteranno lo stabilimento a triplicare la capacità produttiva. Poiché tutto ciò è avvenuto con scarsa trasparenza, nessuna apertura ad un dibattito pubblico che coinvolga le popolazioni locali, nessuna considerazione dei documenti a tale scopo presentati da comitati ed organizzazioni della società civile, intende prendere posizione su questo grave fatto.

      Da oltre tre anni ormai la RWM, succursale italiana della multinazionale degli armamenti Reinhmetal a maggioranza tedesca e con sede a Berlino, vende i suoi micidiali ordigni all’Arabia Saudita, che li utilizza per i bombardamenti a tappeto contro i centri abitati e le popolazioni civili dello Yemen, che hanno fino ad oggi causato oltre 10mila vittime, in un’emergenza umanitaria gravissima, amplificata dalla mancanza di acqua e cibo e dalla conseguente epidemia di colera che ha colpito la popolazione. Il Governo italiano in carica, come peraltro quello precedente, continua ad ignorare l’applicazione della legge 185 del 1990 che fa divieto alla vendita e al transito sul suolo italiano di armi dirette a paesi in guerra o che violino i diritti umani. La monarchia saudita non sfugge ad entrambi i criteri, in quanto viola i diritti umani (il caso Khashoggi è solo la punta dell’iceberg, le donne continuano ad essere pesantemente discriminate) e bombarda la popolazione yemenita con le bombe prodotte nella fabbrica RWM situata nei territori dei Comuni di Domusnovas e Iglesias.

      Essendo fermamente avversi ad ogni guerra, violenza e discriminazione, pensiamo che questo devastante e illecito commercio d’armi vada fermato e, nel rispetto del diritto ad un lavoro dignitoso, vadano con urgenza ricercate soluzioni di sviluppo ecosostenibile sul territorio sardo.

      Per questo chiediamo che il Sindaco di Iglesias Mauro Usai riconsideri la decisione presa troppo frettolosamente, che il Presidente della Giunta Francesco Pigliaru intervenga in modo chiaro utilizzando le prerogative della Regione, che il Governo italiano aderisca all’embargo proposto dall’Unione Europea sulla vendita d’armi all’Arabia Saudita.

      https://www.arci.it/no-allallargamento-della-rwm-a-iglesias
      #Sardaigne

    • Rwm nel #Sulcis. Fabbrica delle bombe giorni decisivi per l’ampliamento

      Il momento è decisivo. In questi due giorni si gioca la fase clou della partita per l’ampliamento della “fabbrica delle bombe” sarde. Così è spesso chiamato lo stabilimento di Rwm Italia situato nel Sulcis, in bilico fra il comune di Domusnovas e quello di Iglesias. La ragione è semplice. L’impianto è specializzato – come si evince dal sito ufficiale – nella produzione di «sistemi antimine, testate missilistiche, dispositivi elettronici con spolette». In particolare, ordigni Mk-80. I cui frammenti, con tanto di codici identificativi – come documenta da anni Avvenire – sono stati ritrovati sul territorio yemenita dopo i bombardamenti della coalizione a guida saudita.

      Riad, del resto, è tra i clienti principali della Rwm Italia. Proprio da quest’ultima, nel 2016, ha ricevuto un “mega-ordine” da 411 milioni di euro. A cui si sono sommate, nel periodo successivo, commesse più piccole, tutte già autorizzate. Le richieste hanno fatto aumentare di oltre il 50 per cento il fatturato dell’azienda in un biennio. I ricavi delle vendite sono passati da 48,1 milioni di euro nel 2015 a 90 milioni di euro. Al contempo, però, esso ha innescato una “maratona produttiva”.

      L’impianto sardo lavora ormai h 24, sette giorni su sette. Nemmeno questo, però, sembra essere sufficiente per soddisfare la domanda. Da qui, l’idea di un’espansione. Dal 2016, nell’ambito di un piano di investimenti da 40 milioni di euro, Rwm Italia ha presentato al Comune di Iglesias dodici pratiche di ampliamento. La sorte della più significativa di queste si conoscerà domani. Ieri, è scaduto il termine per la presentazione di “osservazioni” relative all’effetto sul territorio dell’autorizzazione per la costruzione di due nuovi siti nella regione iglesiente da parte dei diversi enti locali.

      Solo domani, però, data la concomitanza della festa, si saprà se queste sono state effettivamente inoltrate. In caso affermativo, le parti ne dovranno discutere in una riunione ad hoc già prevista per giovedì. Il mancato recapito di rimostranze, invece, equivarrebbe a un via libera all’ampliamento, senza necessità di una valutazione dell’impatto ambientale. A quel punto, Rwm Italia potrebbe raddoppiare o triplicare la produzione, passando dall’attuale media annuale di 5mila ordigni a 10 o 15mila. Certo, tale espansione avrebbe anche ricadute in termini di occupazione.

      Un problema non da poco in un’aerea depressa come il sud della Sardegna che, nel 2017, s’è aggiudicato il penultimo posto nella classifica italiana per Pil pro capite. Dal 2015 al 2017, sono stati assunti altri 37 nuovi dipendenti, raggiungendo quota 171, in buona parte con contratti a termine o interinali. «Siamo pienamente consapevoli del dramma della disoccupazione che tanto ferisce la nostra terra – spiega Cinzia Guaita, del Comitato riconversione Rwm –. Eventuali nuove assunzioni, tuttavia, aumenterebbero una produzione eticamente inaccettabile e totalmente incompatibile con la legislazione italiana, che consente la produzione di armi solo per fini difensivi.

      Non solo. Finirebbero per incrementare ulteriormente l’esercito dei precari e, poi, dei disoccupati. In caso di blocco dell’export a Riad, i contratti sarebbero soggetti a immediata risoluzione». Nato il 15 maggio 2017, il Comitato – a cui aderiscono venti tra associazioni, fondazioni, singole persone di diverse orientamento – si batte per la riconversione dell’impianto. In occasione della scadenza di ieri, in collaborazione con Italia Nostra, ha rivolto forti appelli agli enti locali perché approfondissero le conseguenze ambientali dell’ultimo ampliamento. «Lottiamo pacificamente per un lavoro sostenibile e umano. In questo anno e mezzo, abbiamo promosso incontri con esperti per trovare insieme alternative per tutti i dipendenti della fabbrica – spiega il portavoce Arnaldo Scarpa –. Soluzioni non assistenziali, pacifiche, sostenibili e foriere di duraturo sviluppo nel nostro territorio».

      «Dobbiamo costruire pezzi di pace nei territori, invertendo il processo di un’economia armata che fa cadere sui lavoratori, ultimo anello della catena, un peso di coscienza insostenibile», conclude Guaita. Curioso che una delle partite decisive per Rwm si giochi proprio proprio l’indomani del moto di indignazione mediatica per la morte per fame della piccola yemenita Amal. Mentre la foto della bimba scompare dai social, il flusso di armi occidentali verso i teatri di guerra, prosegue.

      https://www.avvenire.it/attualita/pagine/rwm-si-prepara-a-ingrandirsi-fino-a-15mila-bombe-lanno

    • La fabbrica di bombe e armi si amplia: reportage della tv di Stato tedesca

      Il primo canale della tv di Stato tedesca continua a interessarsi al Sulcis, e in particolare alla fabbrica di bombe di #Domusnovas. Ieri, in prima serata, sulla Ard è andato in onda un dettagliato servizio firmato da Philipp Grüll e Karl Hoffmann (qui il video completo con un’intervista al vescovo di Iglesias, Giovanni Paolo Zedda). Al centro ci sono gli ampliamenti previsti – e già in corso, come si capisce dalle immagini – della sede locale della Rwm (di proprietà del colosso tedesco #Rheinmetall). Undici gli interventi diversi – autorizzati dal Comune di Iglesias – che porteranno all’aumento della produzione di bombe e armi, impiegate, come documentato anche da un’inchiesta del New York Times nello Yemen. Più volte, inutilmente, il Parlamento europeo ha approvato risoluzioni contrarie ell’export di armi verso i paesi in conflitto. Ma di fatto produzione e carichi non si sono mai fermati. E ora arriva il rilancio. Alle proteste di pacifisti e dello stesso presidente della Regione, Francesco Pigliaru, si contrappongono i lavoratori e chi sostiene la linea “se non qui si produrranno altrove”.

      https://www.sardiniapost.it/cronaca/la-fabbrica-di-bombe-e-armi-si-amplia-il-servizio-della-tv-di-stato-ted

    • Iglesias, la fabbrica di bombe Rwm raddoppia: ok del Comune per l’ampliamento dello stabilimento

      La fabbrica di bombe, al centro di tantissime polemiche nel corso degli ultimi anni dopo che si è scoperto che gli ordigni qui prodotti venivano utilizzato contro i civili in Yemen, non lascia la Sardegna, anzi raddoppia.

      https://www.vistanet.it/cagliari/2018/11/14/iglesias-la-fabbrica-di-bombe-rwm-raddoppia-ok-del-comune-per-lampliamento-

  • Italie. #Procès contre Eni et Shell, accusées d’avoir versé des “maxi-#pots-de-vin” au #Nigeria

    Le lundi 14 mai s’ouvre à Milan le procès sur les pots-de-vin que le groupe italien Eni aurait versé au Nigeria. La société pétrolière est accusée d’avoir payé plus d’un milliard de dollars pour l’acquisition des #droits_d’exploitation du gisement nigérian #OPL_245.


    https://www.courrierinternational.com/article/italie-proces-contre-eni-et-shell-accusees-davoir-verse-des-m
    #ENI #Shell #corruption #pétrole #énergie

  • Nuove rotte per i minerali insanguinati

    Verisk Maplecroft: combattenti trafficano stagno, oro e tungsteno in Colombia e #Myanmar.

    La mappa dei paesi a rischio violazione di diritti umani legati ai cosiddetti “minerali insanguinati”, o “minerali di conflitto”, si allarga a Colombia e Myanmar. Secondo l’ultimo rapporto dalla società di consulenza Verisk Maplecroft attiva nella gestione del rischio globale, infatti, le zone interessate da questi fenomeni non sono più solo la Repubblica democratica del Congo o la regione africana dei Grandi Laghi, dove da tempo i signori della guerra finanziano i conflitti locali proprio trafficando questi materiali.

    La ricerca ha esaminato venti fattori di rischio di natura politica, sociale e ambientale relativi all’estrazione e al commercio di tantalio, stagno, tungsteno e oro (noti anche con l’acronimo 3TG derivato dalle tre T dei primi tre – stagno è tin in inglese – più la G di gold, oro) nei principali paesi produttori a livello globale di questi minerali.

    L’analisi condotta dalla multinazionale britannica mostra che i paesi africani della regione dei Grandi Laghi, in particolare la Repubblica democratica del Congo, non sono più né gli unici né i più importanti fornitori di 3TG, fondamentali per la produzione di dispositivi ad alta tecnologia e batterie per auto elettriche, per citare solo un paio di esempi. Secondo le conclusioni degli analisti di Verisk Maplecroft, infatti, i quattro minerali sono prodotti anche sotto il controllo di gruppi armati attivi in Myanmar (ex Birmania) e Colombia, al fine di finanziare la guerriglia nei due paesi.

    Uno tra i più importanti di questi gruppi è lo United Wa State Army (Uswa), un esercito formato da oltre 30 mila uomini, che grazie al sostegno di Pechino dal 1989 controlla di fatto lo Stato di Wa, nel nord-est del Myanmar. Lo stagno prodotto nelle miniere di Man Maw sotto il controllo dei ribelli birmani viene esportato nella vicina Cina e immesso nelle catene di fornitura di oltre 500 aziende locali, che producono materiale elettronico. Nel 2003, l’Uwsa è stata sanzionata dal governo degli Stati Uniti per il suo coinvolgimento nel traffico internazionale di stupefacenti.

    In Colombia, invece, alcune formazioni armate come l’Esercito di liberazione nazionale (Eln) che, dopo le Farc, rappresenta il secondo principale gruppo ribelle di ispirazione marxista attivo nella nazione latino-americana, attualmente detengono il controllo dell’attività estrattiva di ingenti giacimenti di oro e tungsteno.

    Le disposizioni in vigore in Europa e negli Stati Uniti per risalire all’esatta catena di fornitura di un dato minerale e renderlo tracciabile, si sono finora concentrate sulle nazioni della regione dei Grandi Laghi, nonostante la miriade di rischi che possono sorgere nelle catene di approvvigionamento di atri paesi.

    https://www.osservatoriodiritti.it/2017/04/28/nuove-rotte-per-minerali-insanguinati
    #matières_premières #extractivisme #Colombie #or #Birmanie #Tungstène #Étain #rapport #mines #risques #rapport #Congo #RDC

    Lien vers le rapport :
    Conflict Minerals Risk Analysis

    Verisk Maplecroft’s conflict minerals analysis quantifies 20 political, social and environmental risk related to the production of tantalum, tin, tungsten and gold (#3TG) in the largest global producers of the minerals. The focus of the risk assessment is at the mine level of the value chain, though risk issues present across the wider value chains of the assessed commodities are also incorporated.


    https://www.osservatoriodiritti.it/wp-content/uploads/2017/04/VM_Conflict_Minerals.pdf
    #cartographie #visualisation

  • Diritti umani : sotto attacco chi difende i migranti

    Il nuovo rapporto del relatore speciale Onu sui Difensori dei diritti umani denuncia l’attacco in corso contro chi protegge le persone in movimento. Si parla di processi contro chi dà da mangiare ai migranti, campagne di denigrazione e accuse di vicinanza ai trafficanti. E c’è spazio pure per l’Italia

    https://www.osservatoriodiritti.it/2018/02/20/diritti-umani-attacco-difensori-diritti-umani-migranti
    #droits_humains #délit_de_solidarité #asile #migrations #réfugiés #rapport #solidarité

    Rapport de l’#ONU :
    Rapport du Rapporteur spécial sur la situation des défenseurs des droits de l ’ homme

    Dans le présent rapport, établi en application des résolutions 66/164 et 68/181 de l ’ Assemblée générale et 16/5 et 25/18 du Conseil des droits de l ’ homme, le Rapporteur spécial sur la situation des défenseurs des droits de l ’ homme, Michel Forst, examine la situation globale des personnes qui œuvrent pour la défense des droits de toutes les personnes en déplacement. Le Rapporteur spécial entend attirer l ’ attention sur la situation difficile de ceux qui font preuve de solidarité envers l es personnes en déplacement et qui s’emploient à promouvoir et à protéger leurs droits. Il appelle tous les États et les autres parties prenantes à protéger et à promouvoir les droits des défenseurs des personnes en déplacement et à remédier aux problèmes que ceux - ci rencontrent.

    https://documents-dds-ny.un.org/doc/UNDOC/GEN/G18/008/52/PDF/G1800852.pdf?OpenElement

    cc @isskein

  • #The_harvest

    Gurwinder viene dal #Punjab, da anni lavora come bracciante delle serre dell’Agro Pontino. Da quando è arrivato in Italia, vive insieme al resto della comunità #sikh in provincia di Latina. Anche Hardeep è indiana, ma parla con accento romano, e si impegna come mediatrice culturale.
    Lei, nata e cresciuta in Italia, cerca il riscatto dai ricordi di una famiglia emigrata in un’altra epoca, lui è costretto, contro le norme del suo stesso credo, ad assumere metanfetamine e sostanze dopanti per reggere i pesanti ritmi di lavoro e mandare i soldi in India.

    La storia di Gurwinder è rappresentativa di un vasto universo di sfruttamento: un esercito silenzioso di uomini piegati nei campi a lavorare, senza pause, attraversa oggi l’Italia intera. Raccolta manuale di ortaggi, semina e piantumazione per 12 ore al giorno filate sotto il sole; chiamano padrone il datore di lavoro, subiscono vessazioni e violenze di ogni tipo. Quattro euro l’ora nel migliore dei casi, con pagamenti che ritardano mesi, e a volte mai erogati, violenze e percosse, incidenti sul lavoro mai denunciati e “allontanamenti” facili per chi tenta di reagire.
    The Harvest racconta tutto questo: la vita delle comunità Sikh stanziate stabilmente nella zona dell’Agro Pontino e il loro rapporto con il mondo del lavoro. I membri di queste comunità vengono principalmente impiegati come braccianti nell’agricoltura della zona. Gli episodi di sfruttamento (caporalato, cottimo, basso salario, violenza fisica e verbale) sono stati rilevati in numerosi casi, quasi sempre da associazioni che operano sul territorio locale. A fianco di questi fenomeni è inoltre cresciuto in maniera esponenziale l’uso di sostanze dopanti per sostenere i faticosi ritmi del lavoro nei campi. Sostanze che, nello specifico, si compongono di metanfetamine, oppiacei e antispastici.
    La questione dello sfruttamento del lavoro agricolo e in particolare della manodopera migrante diventa centrale ogni qualvolta si avvicina la stagione estiva, ricevendo attenzione dai media e portando alla ribalta questioni cruciali come quella del caporalato. Ciò nonostante questa attenzione è ciclica e il fenomeno passa in secondo piano con l’arrivo dell’autunno.
    The Harvest affronta la questione attraverso una lente innovativa che coniuga lo stile del documentario con quello del musical, utilizzato come espediente narrativo per raccontare la fatica del lavoro nei campi e l’utilizzo di sostanze. Attraverso una ricerca musicale e cinematografica il film vuole far emergere una determinata condizione che sarebbe altrimenti difficile da portare all’attenzione del pubblico senza toni retorici o didascalici. Trovare una forma artistica innovativa per narrare una realtà brutale, ma che tende a nascondersi nelle pieghe della quotidianità, è il nodo stilistico che il film affronta.

    Un docu-musical che, per la prima volta, unisce il linguaggio del documentario alle coreografie delle danze punjabi, raccontando l’umiliazione dei lavoratori sfruttati dai datori di lavoro e dai caporali. Due storie che si intrecciano nel corso di una giornata, dalle prime ore di luce in cui inizia il lavoro in campagna alla preghiera serale presso il tempio della comunità.
    Un duro lavoro di semina, fatto giorno dopo giorno, il cui meritato raccolto, tra permessi di soggiorno da rinnovare e buste paga fasulle, sembra essere ancora lontano.

    https://www.silenzioinsala.com/photos/4693/locandina4693.jpeg
    https://www.theharvest.it/il-film
    #film #caporalato #Italie #Inde #agriculture #exploitation #travail #film #documentaire

  • Statement by acting Humanitarian Coordinator for the oPt, Roberto Valent, on the Israeli authorities’ destruction of donor-funded classrooms in the Palestinian community of #Abu_Nuwar

    I am deeply concerned by the Israeli authorities’ demolition this morning of two donor-funded classrooms (3rd and 4th grade), serving 26 Palestinian school children in the Bedouin and refugee community of Abu Nuwar, located in Area C on the outskirts of Jerusalem. The demolition was carried out on grounds of lack of Israeli-issued permits, which are nearly impossible to obtain.


    https://www.ochaopt.org/content/statement-acting-humanitarian-coordinator-opt-roberto-valent-israeli-author
    #école #destruction #Israël #Palestine

    • Cisgiordania: Israele demolisce scuole e case palestinesi

      L’ultima scuola a cadere nei territori palestinesi della Cisgiordania è stata segnalata il 5 dicembre, ma l’azione di Israele verso edifici considerati illegali prosegue ormai da diverso tempo. A soffrirne sono soprattutto i bambini, per i quali andare a scuola risulta un’impresa sempre più difficile.

      Una scuola elementare è stata demolita dalle forze di difesa israeliane (Idf, Israeli defense force). È accaduto la mattina del 5 dicembre nella comunità beduina di As Simiya, vicino alla città di Al Samou, nella zona a sud di Hebron, in Cisgiordania. La notizia è stata riportata dall’agenzia di stampa palestinese Wafa, da quella turca Anadolu e dall’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari, Ocha, con un alert pubblicato sulla pagina Facebook dell’ente internazionale nei territori occupati.

      La scuola, denominata “Al Tahaddi 13”, che in arabo significa “scuola della sfida”, sarebbe stata inaugurata dopo qualche giorno la sua demolizione. Destinato a ospitare una cinquantina di bambini, l’istituto è costato circa 40.000 euro e prevedeva sette “classi mobili” con l’obiettivo di evitare il viaggio quotidiano degli alunni di As Simiya verso la città di Al Samou.

      Gli studenti, infatti, sono costretti ad affrontare ogni giorno il lungo cammino verso la scuola, subendo spesso violenze da parte israeliana e dovendo attraversare la principale autostrada della zona.
      Le tre aree della Cisgiordania negli accordi di Oslo

      La scuola demolita rientrava nel programma del ministero della Pubblica istruzione palestinese per costruire “aule mobili”, ossia allestite in container, per i bambini residenti in comunità, considerate vulnerabili e a rischio, sparse in tutta l’area C della Cisgiordania meridionale.

      In seguito agli accordi di Oslo siglati nel 1995 da Israele e dall’Autorità nazionale palestinese (Anp), la Cisgiordania venne suddivisa in tre aree: A, B e C. L’area A ricade sotto il controllo amministrativo e di sicurezza dell’Anp. L’area B è controllata a livello amministrativo dall’Anp, mentre la sicurezza è sotto il comando israeliano. Infine l’area C, nella quale vivono circa 300.000 palestinesi, molti dei quali beduini, è sotto il totale controllo, civile e di sicurezza, dello stato di Israele.

      Cisgiordania, scuole e case demolite da Israele

      Le scuole palestinesi sono da tempo le prime vittime delle demolizioni autorizzate da Israele. Le forze di difesa, infatti, confiscano e buttano giù regolarmente strutture considerate illegali dal governo perché prive dei necessari permessi di edificazione nell’area C. Per i palestinesi è spesso difficile ottenere queste autorizzazioni. Una difficoltà che spinge molti a traferirsi o a innalzare costruzioni senza i via libera necessari.

      Il coordinatore dell’Ocha nel territori palestinesi occupati, Roberto Valent, aveva allertato qualche mese fa sulla difficile situazione di alcuni istituti scolastici palestinesi: almeno 45 a rischio demolizione a causa della mancanza di permessi nel mese di febbraio 2018.

      In seguito alla demolizione della scuola di Abu Nuwar, comunità beduina nella parte Est di Gerusalemme, anche il governo palestinese con base a Ramallah aveva sollecitato un’azione internazionale urgente per fermare il comportamento israeliano che vìola il diritto dei bambini palestinesi all’istruzione.

      Ad Abu Nuwar vivono su base stagionale quasi 700 palestinesi, l’88 per cento dei quali rifugiati. Una realtà che fa parte delle 46 comunità beduine della Cisgiordania, 18 delle quali nella zona E1 tra la parte Est di Gerusalemme e l’insediamento israeliano di Ma’ale Adumim.
      Palestina: occupazione nella West Bank e demolizioni

      L’Ocha ha pubblicato a fine novembre l’ultimo report sulle demolizioni ed evacuazioni avvenute in Cisgiordania, nel quale si evidenzia un netto aumento delle demolizioni nel mese di ottobre sia rispetto ai mesi precedenti, sia alla media mensile riscontrata nel 2017. Sarebbero infatti circa 51 le strutture demolite o poste sotto sequestro dalle autorità israeliane nel solo mese di ottobre, con 43 persone costrette a cercare nuove abitazioni.

      Undici di queste strutture, situate tra la zona Est di Gerusalemme e l’area C, erano destinate all’assistenza umanitaria. Cinque di queste erano ricoveri donati in risposta a una precedente emergenza abitativa causata dalle demolizioni avvenute bella comunità di Halaweh, a sud di Hebron, in quella che viene chiamata “Firing Zone 918” (Zona di fuoco 918), dichiarata zona militare già negli anni ‘70.

      Anche il centro israeliano di informazione per i diritti umani nei territori occupati, B’tselem, denuncia sul proprio sito come migliaia di persone si trovino quotidianamente a dover affrontare un imminente espulsione o demolizione da parte delle autorità israeliane sotto vari pretesti. La situazione, secondo l’ente israeliano, va avanti da decenni e farebbe parte di una più ampia strategia mirata a rendere sempre più miserevoli e difficoltose le condizioni di vita in molte comunità dell’Area C.

      Sempre in questa prospettiva, le autorità israeliane proibiscono costruzioni di edifici pubblici o privati in questi territori, negando la possibilità di un collegamento idrico o elettrico. Quando i residenti resistono a queste restrizioni e costruiscono ugualmente, senza permessi, le autorità ordinano costanti demolizioni.
      Le zone colpite dall’azione israeliana in Cisgiordania

      Le zone più colpite da demolizioni e sfollamenti sono tre: le South Hebron Hills, colline a sud di Hebron, dove si trova, appunto, la comunità di As Simiya e dove vivono circa un migliaio di palestinesi, la metà dei quali minori; l’area di Ma’ale Adumim, detta anche E1, dove vivono circa 1.400 residenti a rischio espulsione a causa del piano israeliano che prevede la creazione di un blocco urbano tra Ma’ale Adumin e Gerusalemme; la Valle del Giordano, nella quale vivono 2.700 palestinesi.

      Secondo il report pubblicato dall’Ichad, il Comitato israeliano contro la demolizione delle abitazioni, nel mese di novembre sarebbero almeno 63 le strutture palestinesi demolite dalle forze di sicurezza israeliane: 42 persone sfollate, tra cui 19 minori, per un totale di 687 persone colpite, tra cui 196 bambini, dall’inizio dell’anno.

      Molte delle strutture demolite sostenevano l’agricoltura, la pastorizia e il commercio locale. Le demolizioni non sono destinate però solo ai territori occupati e le comunità beduine sono prese di mira anche all’interno di Israele. L’Ichad ricorda infatti che il villaggio beduino palestinese di Al-Aragib, nel deserto del Naqab nel sud di Israele, è stato demolito quest’anno per la 136esima volta. E con l’arrivo dell’inverno la situazione di chi si ritrova da un giorno all’altro senza casa diventa drammatica.


      https://www.osservatoriodiritti.it/2018/12/17/cisgiordania-israele-demolizioni-palestinesi
      #Cisjordanie

  • Minori e frontiere: il rapporto di INTERSOS

    Pubblichiamo il rapporto “I minori stranieri non accompagnati lungo il confine Nord italiano” realizzato da INTERSOS con il supporto di OPEN SOCIETY FOUNDATIONS.

    Il rapporto è frutto del lavoro dei team di monitoraggio di INTERSOS lungo le frontiere nord del nostro Paese e si avvale di materiali e testimonianze raccolti nell’ambito dei due progetti specifici avviati da INTERSOS a Como e Ventimiglia, in partnership con UNICEF, volti a facilitare la presa in carico dei minori stranieri non accompagnati intercettati, attraverso l’informativa, il supporto e l’assistenza legale, in stretta collaborazione con le realtà presenti sul territorio e le istituzioni di riferimento.

    Dai risultati ottenuti nel corso del nostro assessment emerge, nelle zone dei confine settentrionali italiani, una diffusa inapplicazione delle disposizioni previste a tutela dei minori non accompagnati dalle relative norme di rango internazionale, europeo e nazionale, con la presenza di prassi operative, variamente articolate, comunque gravemente lesive dei diritti e del benessere psico-fisico dei soggetti coinvolti.

    Le autorità francesi, svizzere e austriache procedono sistematicamente alla riammissione in Italia dei minori da loro intercettati e, seppur con modalità che variano a seconda dei luoghi, vengono meno all’obbligo di protezione e alla conseguente presa in carico dei minori.

    La natura del sistema di gestione dei flussi pare nei fatti, avere una portata sanzionatoria. L’unica colpa dei migranti sembra essere quella di volersi emancipare, con enormi sacrifici, dal paradigma di vittime, da una condizione e da un’esistenza che spesso li ha visti oggetto di soprusi, sfruttamenti e violenze.
    La ricerca è stata condotta avvalendosi del materiale raccolto tramite le attività intraprese, costituito principalmente da interviste effettuate direttamente con i minori a Roma, Como e Ventimiglia e dalle informazioni assicurate dal dialogo costante con le istituzioni e le realtà della società civile operanti nel settore. Nelle località dove non è stabilmente presente un’equipe Intersos la ricerca è stata effettuata attraverso visite di monitoraggio, interviste con i migranti, incontri con le autorità coinvolte nella gestione del fenomeno migratorio e potendo contare su una stabile cooperazione con le associazioni attive sui territori.


    https://www.intersos.org/minori-e-frontiere-il-rapporto-intersos-open-society

    Pour télécharger le rapport
    https://www.intersos.org/wp-content/uploads/2018/01/Rapporto-MSNA.pdf

    #frontière_sud-alpine #asile #migrations #réfugiés #Italie #frontières #MNA #mineurs #enfants #enfance #Intersos #rapport #Côme #Italie #Vintimille #Suisse #Autriche #Slovénie #push-back #MNA #mineurs_non_accompagnés #refoulement
    cc @isskein

    • Frontiera Francia-Italia : associazioni ed avvocati si mobilitano per il diritto d’asilo e la protezione dei minori stranieri

      Il ripristino dei controlli alle frontiere interne deciso dal governo francese alla fine del 2015, e regolarmente rinnovato fino ad oggi, non può giustificare la violazione di principi fondamentali quali la protezione dei minori, il divieto di detenzione arbitraria o ancora il diritto d’asilo.

      Eppure ogni giorno le autorità francesi respingono verso l’Italia minori stranieri non accompagnati, in violazione della Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia.

      Viste le modalità dei rinvii, a molti viene di fatto impedito di chiedere asilo in Francia.

      https://www.asgi.it/allontamento-espulsione/frontiera-francia-italia-diritto-asilo-protezione-minori-stranieri

      #Vintimille

    • Minori non accompagnati, Asgi: «A Ventimiglia respingimenti illegali»

      In una lettera alle istituzioni europee e italiane dura denuncia di Associazione studi giuridici sull’immigrazione, Intersos, Terres des Hommes Italia, Oxfam Italia, Caritas Diocesana di Ventimiglia-Sanremo e Diaconia Valdese nei confronti delle autorità francesi «per violazioni sistematiche dei diritti dei minori migranti». Sotto esame anche la situazione in Italia, dalle cui strutture spesso i msna scappano per «condizioni di accoglienza non adeguate»

      http://www.vita.it/it/article/2018/04/10/minori-non-accompagnati-asgi-a-ventimiglia-respingimenti-illegali/146515

      Lettre:
      https://www.asgi.it/wp-content/uploads/2018/04/2018_4_Lettera-Respingimenti-MSNA-Ventimiglia.pdf

    • Important decision in the alpine northern border region of Italy: Minors not to be left in the cold

      A new report by INTERSOS and Open Society Foundations reveals systematic violation of legal guarantees and international standards for foreign minors along Italy’s northern border. In a recent decision concerning a 12 year-old asylum applicant who was denied access to France, the Administrative Tribunal of Nice found the denial of entry unlawful and a serious violation of the best interest of the child.

      In the order from 22 January 2018, the judge granted an emergency request (référé-liberté) brought forward by the National Association for Border Assistance to Foreigners (Anafé) on behalf of a 12-year-old Eritrean asylum seeker who was stopped by the French police upon arrival at the Menton-Garavan train station in France. French police refused his entry to the territory and sent him back to Ventimiglia (Italy), where he was left without assistance. In accordance with the request by Anafé, the Administrative Tribunal ordered the relevant national authorities to grant the applicant a “safe conduct” (sauf-conduit) allowing him to present himself before the authorities so that his request for entry to the territory is examined in conformity with national safeguards. Further, the judge ordered the relevant authorities to ensure that the unaccompanied child is given information with regard to his rights and obligations concerning asylum applications, in a language he understands.

      “Even though Anafé celebrates the decision by the Administrative Tribunal of Nice, there is still a long way until the rights of all children who are present in the border are respected by the French administration”, said Alexandre Moreau, President of Anafé .

      The report “Unaccompanied foreign minors along the Italian northern border” discloses that this case is similar to those of many other minors. Amongst others based on interviews conducted in Rome, Como and Ventimiglia the study reveals that one of four minors left Italian reception facilities, made themselves untraceable to bypass the deficiencies of the Italian reception and asylum system to reach other Member States, often to reunite with relatives. Attempting to cross the well secured and mainly alpine borders either to France, Switzerland or Austrian, the interviewees gave similar testimonies of immediate interception and readmission to Italy despite their intention of applying for asylum.

      https://www.ecre.org/important-decision-in-the-alpine-northern-border-region-of-italy-minors-not-to

    • A la frontière italienne, la #police prive des migrants mineurs de leurs droits

      Dans un rapport publié mardi 5 juin, l’autorité chargée de veiller sur les personnes privées de liberté dénonce des « atteintes aux #droits » en série à l’encontre des migrants, lorsqu’ils sont refoulés par la police aux frontières de Menton. Mediapart a vérifié sur place.

      C’est un petit pont coincé entre falaises et Méditerranée. À proximité de Menton (Alpes-Maritimes), il enjambe la frontière et relie deux postes de garde : la police française à gauche, l’italienne à droite, distantes d’une centaine de mètres. Chaque année depuis 2015, sur le « pont Saint-Louis », se jouent non seulement le destin de dizaines de milliers de migrants mais aussi l’idée qu’on se fait de l’Europe, continent forteresse ou refuge, oublieuse ou bien respectueuse des droits fondamentaux censés lui servir de socle.

      Le soleil tape déjà fort, ce samedi 2 juin au matin, quand on aperçoit quatre jeunes exilés sortir du bâtiment de la police aux frontières (PAF) française. La veille, ils ont été interpellés en gare de Menton alors qu’ils tentaient de pénétrer l’Hexagone en train depuis Vintimille (Italie). Après avoir écopé d’un « refus d’entrée », ils sont relâchés sur le pont avec une seule consigne : repartir de l’autre côté, à pied.

      Les voilà donc qui retraversent la frontière, sans même un sac sur le dos, dépités. À peine a-t-on le temps de les interroger sur leur nationalité (trois Syriens, un Irakien) qu’ils arrivent déjà devant la PAF italienne, où ils sont introduits pour un énième contrôle. Trente minutes plus tard, surprise. Deux des Syriens ressortent sur les talons d’un fonctionnaire en tenue civile (baskets et simple badge autour du coup), un chef visiblement agacé, qui hèle un agent en uniforme pour qu’il l’escorte : la petite troupe s’engage illico sur le pont, direction Menton. « Je les ramène en France », lâche l’Italien.

      « C’est des mineurs, pourquoi la France ne les garde pas ?, nous lance-t-il, en avançant au pas de charge. S’ils disent qu’ils sont mineurs, faut les traiter comme des mineurs. C’est simple. Pourquoi je dois descendre les ramener ? C’est du travail inutile pour tout le monde. » On les interroge à la volée : « Quel âge ? » Eux : « 16 ans », « 17 ans ». Pas sûr qu’ils comprennent pourquoi ils repartent en sens inverse.

      Arrivé devant la #PAF française, l’Italien pousse la porte sans trop de formalités, puis ressort sans les adolescents. Cette fois, la France va respecter les obligations qui lui incombent à chaque fois que des « mineurs non accompagnés » (sans famille), en situation de vulnérabilité, tombent entre ses mains : organiser leur prise en charge par les services de l’aide sociale à l’enfance (ASE) du département, les placer en foyer, au moins le temps de vérifier leur âge, quitte à les renvoyer en Italie plus tard en cas de « fausse minorité ». « S’ils trichent et mentent sur l’âge, il faut contrôler évidemment, gronde l’Italien en remontant le pont. En attendant, la France doit les prendre. » Ce n’est pas la première fois qu’il fait le trajet, ni la dernière. « C’est un problème. »

      Que deux polices aux frontières, de deux pays amis fondateurs de l’Union européenne, se repassent des enfants comme des « patates chaudes », oui, comment le dire autrement, c’est un « problème ».

      Sur cette frontière où des contrôles ont été réintroduits par la France en novembre 2015, plus grosse porte d’entrée en métropole, c’est loin d’être le seul. Mardi 4 juin, une autorité administrative indépendante, le Contrôleur général des lieux de privation de liberté (CGLPL), a publié un rapport au vitriol sur les pratiques des forces de l’ordre dans le département, où quelque 40 000 adultes et plus de 10 000 mineurs isolés ont été refoulés en 2017, ou plutôt « réacheminés » à la faveur d’une procédure propre aux interpellations en zones frontalières (dite de « non-admission » dans le jargon), très allégée parce qu’elle revient à considérer que l’étranger n’est jamais entré en France. Malgré tout, elle est censée garantir certains droits sur le papier.

      Or, dans les faits, les contrôleurs du CGLPL (que des associations locales ont alertés) ont relevé de nombreuses « atteintes aux droits » des migrants (la plupart stoppés dans leur élan en gare de Menton), à l’occasion d’un déplacement effectué sur place en septembre.

      « La prise en charge quotidienne des personnes étrangères s’effectue dans des conditions indignes et irrespectueuses de leurs droits », cingle le rapport. « L’objectif de réacheminement des migrants interpellés à la frontière franco-italienne par la police aux frontières s’apparente à une obligation de résultat : garantir l’étanchéité de la frontière dans le déni des règles de droit, analyse l’institution pilotée par la magistrate Adeline Hazan (ex-élue socialiste). Dans ce contexte de pression politique, les fonctionnaires de police accomplissent leurs missions “à la chaîne”. » D’urgence, « il revient à l’État d’assurer la mise en œuvre de procédures respectueuses des droits des personnes ». À ce stade, toutefois, le ministre de l’intérieur, sollicité par le CGLPL, n’a toujours formulé aucune remarque, ni démenti d’ailleurs.

      Que se passe-t-il exactement avec les mineurs isolés ? « Ils ne font pas l’objet d’un traitement différent de celui des adultes », s’indignent les contrôleurs. Le devraient-ils, en droit ? Si l’obligation de prise en charge par la France est inconditionnelle une fois qu’ils sont entrés sur le territoire, la procédure de « non-admission » en cas d’interpellation en zone frontalière peut bien leur être appliquée. Comme les adultes, ils écopent alors d’un « refus d’entrée » (document de trois pages obligatoirement remis par un fonctionnaire de la PAF).

      Cependant, à la différence des majeurs, leur renvoi n’est alors autorisé qu’à l’issue d’un « jour franc », et la justice doit en être informée au préalable, afin qu’elle désigne un administrateur ad hoc pour assister l’enfant, défendre ses intérêts. Lors du passage du CGLPL à Menton, aucune de ces deux conditions n’était respectée.

      Saisi en janvier et février 2018 par diverses associations, le tribunal administratif de Nice a d’ailleurs mis en échec le réacheminement d’une vingtaine de mineurs (Soudanais, Érythréens, etc.), au motif qu’ils n’avaient pas bénéficié du « jour franc ». Quant au Défenseur des droits, Jacques Toubon, il vient d’estimer à son tour, dans une décision publiée le 31 mai, que cette pratique était « contraire à la Convention internationale des droits de l’enfant » ainsi qu’« au droit français », tout bonnement, au point de « demander instamment » au préfet des Alpes-Maritimes « d’y mettre fin » et au ministre de l’intérieur « de veiller à la bonne application de [cette] recommandation ».

      Qu’à cela ne tienne ! Dans le projet de loi « asile et immigration » de Gérard Collomb (examiné ces jours-ci Sénat), un amendement a été discrètement glissé qui prévoit de faire sauter ce fameux « jour franc »… « On est dans une espèce de jeu de go, s’attriste Me Mireille Damiano, auteure du référé victorieux devant le tribunal de Nice et membre du Syndicat des avocats de France, attablée dans un café de Menton. On met un pion blanc ? Paf, ils mettent un pion noir en face. »

      https://www.mediapart.fr/journal/france/050618/la-frontiere-italienne-la-police-prive-des-migrants-mineurs-de-leurs-droit

  • Transgender: viaggio nello sconosciuto mondo Lgbt del Pakistan

    Reportage dal mondo trans pakistano, tra un islam più aperto di quanto si pensi e una realtà sospesa tra riconoscimenti politici e pregiudizi, discriminazione, violenze di genere e omicidi


    https://www.osservatoriodiritti.it/2018/01/12/transgender-lgbt-pakistan

    #transgenre #LGBT #pakistan #genre

  • Caporalato e macellazione carne: cosa c’è dietro al cotechino di Natale

    In alcuni casi i salumi arriveranno sulle nostre tavole a Natale attraverso appalti illegali, contratti irregolari e giornate lavorative di 13 ore. Negli impianti di macellazione della carne si diffonde il nuovo caporalato. La denuncia arriva dalla Flai Cgil dell’Emilia Romagna


    https://www.osservatoriodiritti.it/2017/12/18/caporalato-macellazione-carne
    #caporalato #travail #exploitation #Italie #industrie_de_la_viande #viande #alimentation

  • Reati di solidarietà: leggi europee colpiscono chi aiuta i migranti

    La ong inglese Irr denuncia 45 casi di persecuzione per favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Tutti casi in cui le leggi europee contro il traffico di esseri umani hanno colpito attivisti e persone intenzionati ad aiutare i migranti. L’Italia è tra i Paesi più severi proprio contro chi soccorre i profughi

    https://www.osservatoriodiritti.it/2017/12/04/reati-di-solidarieta-migranti
    #délit_de_solidarité #solidarité #désobéissance_civile #asile #migrations #réfugiés #Italie

  • #Sami_Blood: i primi abitanti della Lapponia protagonisti di un film

    Il film Sami Blood di #Amanda_Kernell arriva oggi, 30 novembre, nelle sale italiane. Un racconto di formazione, un viaggio nella storia di una delle popolazioni indigene del Nord Europa. Che fino agli anni Cinquanta ha subito discriminazioni e razzismo. E che ancora oggi è vittima d’attacchi in Svezia e Norvegia


    https://www.osservatoriodiritti.it/2017/11/30/sami-blood-film-recensione-trailer-lapponia
    #Lapponie #film #peuples_autochtones #cinéma #Suède #Norvège #racisme #discriminations #xénophobie

  • Spose bambine: la prima indagine italiana registra record mondiale

    Una ricerca dell’Associazione 21 luglio svela una situazione drammatica nelle baraccopoli di Roma, dove il tasso di matrimoni precoci raggiunge il 77 per cento. Un dato peggiore anche del Niger, che finora ha detenuto il record mondiale quanto a spose bambine. E di gran lunga un primato negativo anche a livello europeo

    https://www.osservatoriodiritti.it/2017/11/27/spose-bambine-italia-record-mondiale
    #mariage_forcée #enfants #enfance #Italie #Rome