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  • Diffamazione e falsità contro le Ong in mare. La prima vittoria in tribunale per la #Louise_Michel

    Il Tribunale di Bologna ha condannato un giornalista del Quotidiano Nazionale per un articolo pubblicato in seguito al sequestro della nave due anni fa. È la prima di quindici cause promosse dalla Ong contro diversi media italiani, accusati di colpire l’organizzazione e la comandante #Pia_Klemp. “Pubblicare e diffondere informazioni false è un reato grave perché alimenta l’agenda dello Stato italiano contro la migrazione e le persone solidali”

    “Siamo andati in tribunale e abbiamo vinto”. Con queste parole pubblicate sui propri canali social l’organizzazione di ricerca e soccorso Louise Michel ha commentato la sentenza del Tribunale di Bologna, che a metà aprile ha condannato un giornalista del Quotidiano Nazionale per diffamazione.

    In occasione dell’udienza l’imputato ha ritirato l’opposizione, rendendo così definitiva la condanna. Si tratta della prima azione legale andata a sentenza tra le cause avviate dalla Ong nei confronti di 15 mezzi di informazione del nostro Paese.

    I processi si fondano su alcuni articoli pubblicati all’indomani del fermo della MV Louise Michel, avvenuto nel marzo del 2023. Due anni fa la nave di ricerca e soccorso, finanziata da Banksy, era stata sottoposta infatti a fermo amministrativo dalle autorità italiane nel porto di Lampedusa in seguito al salvataggio di 178 persone, portato a termine in quattro operazioni distinte. Il provvedimento è stato motivato dalla presunta violazione del cosiddetto “decreto Piantedosi”. Questo dispositivo regola le attività delle Ong impegnate nel soccorso nel Mediterraneo centrale e stabilisce che dopo un solo salvataggio deve essere effettuato lo sbarco immediato delle persone.

    In una nota la Ong ha spiegato che “in seguito a questo sequestro, diverse fonti giornalistiche italiane hanno pubblicato informazioni false sul progetto e su una delle sue fondatrici, Pia Klemp”.

    Al momento del fermo, infatti, la comandante tedesca non si trovava a bordo della nave, né in Italia e a suo carico non vi è alcuna denuncia, come erroneamente riportato dagli organi di stampa citati in giudizio dall’organizzazione. Tra il 2016 e il 2017, Pia Klemp, biologa e attivista per i diritti civili, è stata la comandante della nave Iuventa -supportata dalla Ong tedesca Jugend Rettet-, che contribuì a trarre in salvo circa 14.000 persone.

    Dal 2017 al 2024 l’organizzazione è stata indagata dalla Procura di Trapani in relazione a tre eventi di soccorso avvenuti nel settembre del 2016 e nel giugno del 2017. Secondo l’accusa la Iuventa avrebbe favorito l’ingresso illegale di persone migranti in Italia, sottraendole alle autorità competenti e agevolando l’attività dei trafficanti, agendo in modo “non neutrale” e al di fuori dei protocolli ufficiali. Nel 2021 il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Trapani ha archiviato le accuse nei confronti di quattro membri dell’equipaggio -tra cui Pia Klemp- stabilendo che “il fatto non costituiva reato e che le attività di salvataggio si erano svolte in conformità con il diritto del mare”.

    Inoltre il giudice ha rilevato che non vi era alcuna prova di collusione con i trafficanti. Il processo si è concluso definitivamente il 19 aprile 2024 con una sentenza di non luogo a procedere per tutti gli altri imputati, accogliendo la richiesta della stessa Procura, che smentendo il suo stesso impianto accusatorio aveva riconosciuto l’insussistenza delle prove a loro carico.

    Alla luce di questi fatti secondo Amnesty International questa indagine va inserita “nel quadro della criminalizzazione della solidarietà, che molti Stati europei hanno deliberatamente perseguito per ostacolare, anche attraverso l’uso del diritto penale, chi in questi anni ha prestato assistenza e offerto solidarietà a rifugiati e migranti”.

    Nel suo comunicato l’organizzazione Louise Michel ha quindi ribadito che “le indagini contro Klemp sono state archiviate nel 2021, due anni prima del fermo della nave e di tutti gli articoli che ne sono seguiti”, sottolineando anche come “i giornali coinvolti nell’azione legale hanno utilizzato il coinvolgimento di Klemp nel caso Iuventa per consolidare una narrazione razzista e misogina, creando un collegamento tra Ong e trafficanti”.

    Nel processo di Bologna, oggetto specifico della denuncia, era un articolo pubblicato dal Quotidiano Nazionale, accusato di aver riportato affermazioni false e di aver banalizzato l’impegno di Klemp, concentrandosi sul suo aspetto fisico, sulla sua età e sfruttando la sua immagine e il suo nome al fine di attirare l’attenzione del pubblico.

    Klemp ha accolto con soddisfazione la sentenza, definendo “la falsa informazione un metodo indegno con risultati catastrofici”. La comandante della Louise Michel, inoltre, ha richiamato i media al loro dovere di “informare il pubblico piuttosto che diffondere bugie e narrazioni razziste”, evidenziando come “la migrazione viene screditata come un accumulo infinito di crimini, con conseguenze mortali per migliaia di persone migranti”.

    A questo proposito, l’organizzazione ha evidenziato che “l’obiettivo di queste false narrazioni è quello di criminalizzare individui e Ong come strumento per criminalizzare la migrazione” e che pertanto “questo tipo di diffamazione non si limita a screditare chi offre sostegno, ma prende di mira i rifugiati e le persone migranti, con conseguenze letali per loro”.

    Le date delle prossime udienze contro le altre testate citate in giudizio non sono state ancora rese note ma la lotta della Ong prosegue con determinazione. Lo conferma Francesca Cancellaro, avvocata di Klemp e della Louise Michel. Commentando la sentenza del Tribunale di Bologna, le legale ha dichiarato che “pubblicare e diffondere informazioni false è un reato grave perché alimenta l’agenda dello Stato italiano contro la migrazione e le persone solidali. Siamo qui per opporci a questa prassi e per il diritto di tutti e di tutte a una corretta informazione su questa vicenda politica”.

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  • Il ricatto europeo targato #Frontex sui rimpatri “volontari” dei migranti

    In sei anni il numero di persone straniere a cui l’Agenzia ha dato supporto per “ritornare” è aumentato del 2.181%. Con un #budget superiore al miliardo di euro, le “divise blu” sono le vere protagoniste della politica europea sulle frontiere.

    “Giro per strada e mi vergogno. Tutti sanno che non ce l’ho fatta e che non sono riuscito a restituire neanche i soldi necessari per pagare il mio viaggio per l’Europa”. Nuha sospira mentre descrive una quotidianità difficile a Sukuta, città del Gambia che dista una ventina di chilometri dalla capitale Banjul. “Non ho un lavoro stabile e anche se sono passati tanti anni spesso ripenso al giorno in cui sono stato rimpatriato -racconta-. Non avevo commesso nessun reato: solo una volta non ho pagato il biglietto dell’autobus ma sono tornato nel mio Paese con le manette ai polsi”.

    Era il novembre 2019 e dopo cinque anni vissuti tra Italia e Germania, Nuha è stato rimpatriato su un volo gestito da Frontex. Come lui, negli ultimi dieci anni, altri 1.158 cittadini gambiani sono tornati nel loro Paese con l’assistenza dell’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, che nel 2025 ha superato per la prima volta dalla sua istituzione il miliardo di euro di budget.

    “Soffrono molto”, sottolinea Bakary Camara, direttore sanitario dell’ospedale psichiatrico Tanka Tanka che si trova proprio a Sukuta, nella città in cui vive Nuha. “Spesso vengono ricoverati qui per problemi di salute mentale e dipendenza da sostanze stupefacenti sviluppate in Europa. Non è facile ricominciare da capo”.

    Guardare dal Gambia l’ossessione europea per i rimpatri dei cittadini irregolari è particolarmente significativo. Da quando nel 2017 è finita la dittatura dell’ex presidente Yahya Jammeh, molti giovani hanno deciso di lasciare uno dei più piccoli Paesi del continente africano che conta 2,5 milioni di abitanti in poco più di 11mila chilometri quadrati.

    L’aumento dell’emigrazione ha avuto un effetto decisivo sull’economia di uno Stato che nel 2022 era al 174esimo posto su 191, secondo l’indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite. I 513 milioni di dollari inviati nel 2023 dagli emigrati ai propri familiari dall’estero (le cosiddette rimesse) hanno coperto il 21,9% del Prodotto interno lordo del Paese. Una fetta fondamentale dell’economia.

    Anche per questo il presidente Adama Barrow è stato duramente contestato quando nel 2018 ha siglato un accordo con l’Unione europea in materia di rimpatri. “Quando una persona è deportata non si perdono solo i soldi che questa inviava alla famiglia -spiega Yahya Sonko, attivista gambiano che dal 2015 vive in Germania- ma anche lo sviluppo di realtà imprenditoriali in loco. Dall’Europa io garantisco lavoro a 15 persone nella mia città di origine”.

    Le proteste hanno costretto Barrow a un passo indietro e all’inizio di un braccio di ferro con le istituzioni europee che più volte, l’ultima a luglio 2024, hanno minacciato una stretta sul rilascio dei visti come punizione per la mancata cooperazione sui rimpatri. “Un ricatto inaccettabile e uno spreco di soldi per gli europei -osserva Sonko-. Rimandare indietro una persona costa tantissimo e non è detto che questa, una volta rientrata, non riparta. Una politica dannosa e inutile”. Una strategia che numericamente ha fallito.

    Prendiamo come esempio il terzo trimestre del 2024: in Europa su un totale di 112.055 persone che hanno ricevuto un cosiddetto “ordine di espulsione”, quelle poi effettivamente rimpatriate sono state 28.630. Uno ogni cinque. “Una percentuale troppo bassa”, ha sottolineato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen nel presentare, a inizio marzo, il nuovo sistema comune di rimpatrio europeo che prevede procedure più snelle e che ha un protagonista indiscusso: Frontex.

    “Ricordo bene gli agenti che ci hanno accompagnato sull’aereo”, riprende Nuha. Sono quelli di Frontex, l’Agenzia guidata oggi dall’olandese Hans Leijtens che quest’anno celebra vent’anni di attività e si è vista destinare dalla Commissione europea la stratosferica cifra di 1,1 miliardi di euro, un budget che non ha eguali in istituzioni simili. Ad esempio, supera di ben 42 volte quello dell’Agenzia europea sulla cybersicurezza e dieci volte quello dell’Agenzia europea per l’ambiente.

    Di questa cifra monstre solo 2,5 milioni di euro vengono destinati alle attività relative ai diritti umani mentre ben 133 milioni ai rimpatri, con un aumento del 42% rispetto al 2024. “Nel nuovo Regolamento proposto dalla Commissione -spiega Silvia Carta, advocacy officer della Piattaforma per la cooperazione internazionale sui migranti senza documenti (Picum)- emerge chiaramente la centralità dell’Agenzia e si prevede un ulteriore aumento delle disponibilità di spesa per i rimpatri”. L’attività di Frontex in questo settore non è una novità.

    Fin dalla sua nascita, infatti, ha collaborato con gli Stati membri supportandoli con la copertura dei costi degli aerei e delle attività pre-partenza ma è con il nuovo regolamento del 2019 che si è ritagliata un ruolo sempre più importante. Grazie a maggiori possibilità di operare anche in Paesi terzi dell’Ue, attraverso agenti dislocati sul territorio, è diventata protagonista della delicata attività di cooperazione con le autorità locali.

    I problemi principali dei bassi numeri di rimpatri dall’Europa, infatti, oltre ai costi stratosferici (almeno quattromila euro a persona, solo per il noleggio dell’aereo, per l’espulsione di un cittadino dall’Italia alla “vicinissima” Tunisia) sono proprio gli accordi con gli Stati di origine: spesso, come si è visto nel caso del Gambia, questi sono restii ad accettarli.

    Così, per ovviare a questo problema, l’Agenzia con sede a Varsavia e le istituzioni europee puntano sempre di più sui cosiddetti rimpatri volontari che hanno almeno due vantaggi: non richiedono il coinvolgimento dei Paesi di origine perché la persona collabora e il viaggio costa meno perché avviene su un volo di linea. E infatti, oggi, più della metà delle persone che lasciano l’Europa lo fanno “volontariamente” e Frontex è sempre più protagonista.

    Dal 2019 l’Agenzia può aiutare i Paesi Ue anche sui rimpatri volontari assistiti e i dati dimostrano che la sua attività da quell’anno è esplosa. Si passa dalla collaborazione con nove Stati membri per 155 persone rimpatriate alle 35.637 (+2.181%) del 2024 da 26 Stati Ue diversi. Inoltre cresce tantissimo anche il numero dei Paesi di destinazione coinvolti nell’attività delle “divise blu” che oggi sono 117 contro i 41 di sei anni fa. In totale quindi Frontex supporta i rimpatri nel 74% degli Stati del mondo extra-Ue: se si guarda al continente africano mancano all’appello solo eSwatini e Malawi.

    “La strategia di Bruxelles su questa tipologia di rimpatri è ambigua. Il nuovo Regolamento prevede una stretta sui rientri volontari ma lascia la possibilità alle autorità nazionali di implementare forme di premialità per persone che ‘cooperano’ con la propria deportazione, accettando di partecipare a programmi di rimpatrio assistito -riprende Carta di Picum-. Una forma di ricatto che deriva dalla riduzione degli anni del divieto di reingresso sul territorio europeo e dal supporto economico”.

    Per Frontex questi aiuti avvengono nell’ambito del “Reintegration program” che garantisce un “supporto a breve termine” (615 euro per i rimpatri volontari, 205 per quelli forzati) e uno a “lungo termine” che prevede forme indirette di aiuto per un anno (dalla copertura dell’assistenza sanitaria alla possibilità di supporto nell’aprire un’attività) per un importo di duemila o mille euro, a seconda di rientro volontario o forzato per il richiedente principale, più mille per ogni familiare.

    Questa dote è gestita da sei Ong che sono state selezionate tramite bando pubblico per operare in 38 diversi Paesi del mondo: Caritas international Belgium, Women empowerment, literacy and development organization (Weldo), Irara, European technology and training centre (Ettc), Life makers foundation Egypt, Micado migration. Se nel 2022 i cittadini rimpatriati supportati all’interno di questo progetto erano 867, nel 2024 sono cresciuti del 1.362% (12.676): le principali nazionalità delle persone sono Turchia (2.750), Iraq (2.469), Georgia (1.472), Gambia (1.162), Nigeria (816), Pakistan (794) e Bangladesh (620).

    “Spesso queste forme di aiuto non sono efficaci per chi ritorna nel proprio Paese perché è molto problematico l’utilizzo dei fondi -chiarisce Rossella Marino, professoressa all’Università di Gent in Belgio che ha svolto un dottorato proprio sul tema dei progetti di reintegrazione in Gambia-. Sono estremamente utili però alle istituzioni europee perché descrivono attraverso una narrazione positiva e accettabile, ovvero aiutare le persone che rientrano, quello che è un approccio neocoloniale e che mira in definitiva al controllo della mobilità”. Marino sottolinea, infatti, come la “macchina” dei rimpatri coinvolga tantissimi attori sul campo. “Tutte attività che consolidano la presenza delle istituzioni europee su quel territorio ma soprattutto che aiutano a evitare la ripartenza di chi è rientrato. Questo processo avviene anche attraverso la digitalizzazione di tutte le informazioni”.

    Proprio con questo scopo è stata sviluppata la piattaforma digitale Reintegration assistance tool (Riat), finanziata dalla Commissione europea e implementata dal Centro internazionale per lo sviluppo delle politiche migratorie (Impcd), attraverso cui avviene un monitoraggio costante dei casi che accedono al programma di Frontex e viene migliorata la cooperazione degli Stati.

    C’è poi un enorme tema di responsabilità rispetto al ruolo di Frontex nei rimpatri. Tutto ruota attorno alla questione se le divise blu siano o meno responsabili di quello che avviene prima del rimpatrio. Che cosa succede ad esempio se il decreto di espulsione alla base del rimpatrio della persona è illegittimo? Chi ne risponde? Oppure se, nel caso della partenza volontaria, la persona non si trovava in una condizione adeguata per decidere liberamente? Questo aspetto è decisivo. “Frontex si fa forte del fatto che la responsabilità di tutto ciò che succede prima del rimpatrio ricade unicamente sullo Stato membro. Ma non è così -spiega Laura Salzano, docente di diritto dell’Ue dell’Università Ramon Llull di Barcellona che da anni si occupa di queste tematiche-. L’Agenzia deve valutare caso per caso se quella espulsione sia legittima o meno: glielo impone il suo stesso Regolamento all’articolo 80. O si cambiano le regole di ingaggio, oppure è così”.

    Tutto questo riguarda da vicino anche l’Italia. Il nostro Paese è il fanalino di coda in Europa, insieme alla Romania, per il numero di rimpatri volontari. In dieci anni (2015-2024), secondo i dati forniti dal ministero dell’Interno ad Altreconomia, sono state 4.059 le persone rimpatriate con questo programma per un totale di 35,5 milioni di euro investiti dal Viminale. Nel 2024 tutti i 290 casi di rimpatrio assistito, che riguardavano per il 42% persone in posizione di irregolarità, sono stati gestiti dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim).

    Negli ultimi mesi, però, nei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) italiani crescono le testimonianze di chi racconta una forte pressione da parte degli operatori per accedere a quelle che vengono definite “partenze volontarie”. Un funzionario di Oim che preferisce mantenere l’anonimato ci conferma che l’organizzazione per cui lavora non attiva rimpatri volontari dal Cpr.

    A intervenire è Frontex con il suo “Reintegration program”, che ora sembra una priorità anche per l’Italia: tutto è gestito dalla questura che segue caso per caso segnalando a Varsavia coloro che accettano di lasciare subito il Paese. La longa manus dell’Agenzia è arrivata così anche nei centri di detenzione italiani. E chi lo sa, forse presto sbarcherà anche in Albania.

    “A sei anni di distanza -conclude Nuha- una delle cose che mi fa più male è non aver potuto abbracciare mia moglie e mia figlia prima di partire: mi hanno fatto uscire dal retro della stazione di polizia, lei ha provato a seguire la macchina ma l’hanno seminata. Piangeva, urlava e con lei anche la bambina. Questa è l’ultima immagine che ho dell’Europa”.

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  • Da “sudditi coloniali” a partigiani d’Oltremare. Un’esperienza antirazzista della Resistenza

    Giunti in Italia per essere esposti nello “zoo umano” della #Mostra_triennale_delle_Terre_d’Oltremare nel 1940, ne uscirono dopo la guerra come partigiani liberatori. Lo storico Matteo Petracci ha il merito di aver riportato alla luce la vicenda di una dozzina di uomini e donne provenienti dal Corno d’Africa, membri della “#banda_Mario”. Dopo la Liberazione dovettero affrontare però l’“offensiva giudiziaria antipartigiana nell’Italia repubblicana”. L’abbiamo intervistato

    Arrivati in Italia come sudditi coloniali da esporre nello “zoo umano” della Mostra triennale delle Terre d’Oltremare nel 1940, ne uscirono anni dopo, terminata la Seconda guerra mondiale, come partigiani. Erano una dozzina di uomini e donne provenienti dal Corno d’Africa: lo storico Matteo Petracci ha riportato alla luce la loro vicenda unica con il libro “Partigiani d’oltremare. Dal Corno d’Africa alla Resistenza italiana” (Pacini Editore, 2019).

    Le loro storie, insieme a quella dell’italo-etiope Giorgio Marincola e non solo, testimoniano la presenza nelle forze della Resistenza italiana di partigiani provenienti dal continente africano.

    Uno di loro era l’etiope Abbabulgù “Carlo” Abbamagal, che compare in due posizioni diverse nelle foto scattate ai partigiani della banda “Mario”, attiva nelle Marche nei mesi dell’occupazione nazista tra 1943 e 1944. Da queste immagini, conservate presso l’archivio fotografico Anpi di San Severino Marche (MC), prende avvio il nostro incontro con lo storico Matteo Petracci alla scoperta di un’esperienza intrinsecamente antirazzista e meticcia durante la Resistenza italiana.

    Come mai hanno voluto scattare e tramandare, con tutti i rischi che l’eventuale scoperta di quelle foto da parte dei nazifascisti avrebbe potuto comportare, due fotografie praticamente identiche? Che cosa ci rivelano quelle immagini?
    MP Sono state scattate in sequenza: la prima immortala il momento in cui, proprio mentre il gruppo partigiano è in posa su due file, passa il loro compagno etiope che, infatti, compare di striscio e seminascosto sullo sfondo. Decidono allora di farne una seconda, in cui il ragazzo africano si staglia al centro dell’immagine, in mezzo ai suoi compagni di lotta. Queste due foto sono la rappresentazione plastica delle motivazioni ideali che avevano portato queste persone ad armarsi e a lottare contro il progetto nazifascista: richiamando il compagno etiope e facendolo posare al centro della foto hanno voluto enfatizzare una visione del mondo antitetica a quella fascista, sottolineando il valore della solidarietà internazionale e il carattere autenticamente antirazzista della banda “Mario”.

    “A very mixed bunch”, la definì infatti un ex prigioniero inglese. Come mai? Che brigata partigiana era quella che accolse nei suoi ranghi le donne e gli uomini portati in Italia nel 1940 e fuggiti nel 1943 da Villa Spada nel Comune di Treia (MC) in cui erano confinati dopo il trasferimento da Napoli?
    MP La peculiarità di questa formazione partigiana, ovvero la sua composizione marcatamente internazionale, è stata resa possibile da una serie di fattori. In particolare, è stata fondamentale la presenza nei dintorni di diversi campi di prigionia e internamento realizzati dal fascismo nelle zone interne delle Marche e, più in generale, dell’Appennino. La notizia della firma dell’Armistizio l’8 settembre e il conseguente dissolvimento dei centri di comando spinse molti alla fuga, diretti verso le montagne. Qui trovarono dei validissimi alleati all’interno della popolazione contadina della zona: li nascosero, diedero loro da mangiare e fornirono loro le indicazioni necessarie a poter raggiungere i luoghi dove, nel frattempo, si stavano formando i primi gruppi partigiani intorno a figure carismatiche e con un’esperienza politica e militare tale da coagulare intorno a sé i fuggitivi. Mario Depangher era uno di questi: nato a Capodistria nel 1896, conosceva cinque lingue ed era fuggito anche lui dalle prigioni fasciste. Diventò nel giro di poco “la persona giusta nel posto giusto”, aggregando attorno a sé donne e uomini scappati dai campi di prigionia: militari sbandati, antifascisti della zona, preti e anche l’imprenditore Enrico Mattei. Alla banda “Mario” si unirono, dopo la fuga dalla struttura nel Comune di Treia, anche quattro etiopi, portati in Italia nel 1940 per la Mostra triennale delle Terre d’Oltremare e impossibilitati a tornare a casa con l’entrata dell’Italia in guerra. Per loro quattro, a cui si unirono, dopo l’attacco partigiano in cerca di armi a Villa Spada del 28 ottobre 1943, anche altri somali, eritrei ed etiopi, tra cui due donne, la partecipazione alla Resistenza fu una scelta del tutto volontaria e una forma di riscatto personale, ancora prima che politico.

    Nella banda “Mario” c’erano partigiani di tante nazionalità. Come gestivano una questione banale ma centrale nella vita di una qualunque organizzazione come le diversità linguistiche?
    MP Dalle testimonianze raccolte sia da alcuni partigiani sia nei documenti, pare che che ogni singolo gruppo nazionale utilizzasse la propria lingua al proprio interno, mentre l’italiano era una lingua franca, utilizzata e conosciuta da tutti. Molti combattenti della banda “Mario”, infatti, erano stati portati in Italia forzatamente e sapevano benissimo quanto fosse importante la conoscenza della lingua locale, soprattutto in caso di fuga. È curioso notare, però, come ogni tanto le persone che ho intervistato utilizzassero anche parole straniere per descrivere quanto successo in quei mesi nella banda “Mario”: ho immaginato che alcune espressioni, a prescindere dall’origine, fossero diventate di uso comune all’interno di questa formazione partigiana. È come se, in quei mesi, fosse nata una sorta di lingua universale composta da parole provenienti da lingue diverse: era una sorta di esperanto partigiano.

    La storia dei partigiani provenienti dal Corno d’Africa della banda “Mario” non si conclude, però, con la Liberazione. Quali altre sfide dovettero affrontare? Uno di loro si trovò anche sotto processo per omicidio. Ci può raccontare?
    MP Nel luglio del 1944 la zona dove operava il battaglione Mario venne liberata e in molti si trovarono di fronte al dilemma su cosa fare. Alcuni si arruolarono con il Corpo Volontario per la Libertà e continuarono a combattere fino alla Liberazione di Bologna. Con la fine delle ostilità, uno degli ex combattenti etiopi, però, si trovò addirittura a affrontare un processo per episodi successi durante l’esperienza partigiana. Erano gli anni della cosiddetta “offensiva giudiziaria antipartigiana nell’Italia repubblicana” e a farne le spese fu anche l’etiope Abbagirù Abbanagi, partigiano della banda “Mario”, arrestato con l’accusa di aver ucciso un milite fascista per rapina. Dal carcere, con l’aiuto di un amico italiano, cominciò a scrivere delle lettere alla neonata Anpi a Roma che, contattata la sezione locale, lo fece assistere dall’ avvocato antifascista Virginio Borioni, passato sia dalle galere fasciste sia dall’esperienza del confino. Alla fine, grazie al supporto dell’Anpi locale e dell’avvocato, il partigiano etiope venne prosciolto dall’accusa, uscì dal carcere e tornò nel suo Paese. Nel Corno d’Africa era tornato anche un altro dei combattenti africani della banda “Mario”, il somalo Aaden Shire Jamac. A Mogadiscio si iscrisse alla Lega dei Giovani Somali e prese parte al processo di decolonizzazione dell’ex colonia italiana: sarebbe diventato pochi anni dopo ministro nei governi dopo l’indipendenza del Paese.

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    • Partigiani d’oltremare. Dal Corno d’Africa alla Resistenza italiana

      Napoli, 1940. L’ingresso dell’Italia nel secondo conflitto mondiale sorprende un gruppo di somali, eritrei ed etiopi chiamati ad esibirsi come figuranti alla Mostra delle Terre d’Oltremare, la più grande esposizione coloniale mai organizzata nel Paese. Bloccati e costretti a subire le restrizioni provocate dalle leggi razziali, i “sudditi coloniali” vengono successivamente spostati nelle Marche dove, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e lo sfaldamento dello Stato, alcuni decidono di raggiungere i gruppi di antifascisti, militari sbandati, prigionieri di guerra e internati civili che si stanno organizzando nell’area del Monte San Vicino.

      Attraverso testimonianze, documenti e fotografie, l’autore ricostruisce il percorso di questi Partigiani d’Oltremare, raccontandone il vissuto, le possibili motivazioni alla base della loro scelta di unirsi alla Resistenza e la loro esperienza nella “Banda Mario”, un gruppo partigiano composto da donne e uomini di almeno otto nazionalità diverse e tre religioni: un crogiuolo mistilingue che trova nella lotta al fascismo e al nazismo una solida ragione unificante.

      https://www.youtube.com/watch?v=mdjLAqMB-p4


      https://www.pacinieditore.it/prodotto/partigiani-oltremare

      signalé ici aussi:
      https://seenthis.net/messages/1018245

      #livre

  • Il “clima di terrore” tra i lavoratori dei centri per migranti in Albania

    Riservatezza e “obbligo di fedeltà” sono alcune delle clausole che i dipendenti di Medihospes Albania hanno dovuto sottoscrivere per iniziare a lavorare nelle strutture di #Shëngjin e #Gjadër. Gli operatori lamentano cattiva gestione e licenziamenti improvvisi. A un anno dall’aggiudicazione dell’appalto, la prefettura di Roma e il gestore non hanno ancora firmato il contratto. Mentre il governo ha riavviato i trasferimenti nella massima opacità. La nostra inchiesta.

    “Firmando il contratto abbiamo dovuto accettare una clausola che prevede ‘l’obbligo di fedeltà’: all’interno dei centri c’era un clima di terrore”, dice Arben, nome di fantasia di un ex dipendente della Cooperativa #Medihospes, l’ente gestore delle strutture per migranti di Shëngjin e Gjadër, in Albania, volute dal Governo Meloni. Un castello di carta retto da silenzio e “fedeltà” che poche informazioni fanno crollare in fretta.

    Documenti ottenuti da Altreconomia dimostrano infatti la confusionaria gestione del ministero dell’Interno dopo la frettolosa apertura di metà ottobre 2024, quando i centri erano in gran parte inagibili. A pochi mesi di distanza, la sostanza non è cambiata: il nuovo avvio dell’11 aprile è avvenuto nel buio più totale e ancora senza un contratto esistente tra la prefettura di Roma e Medihospes.

    Riavvolgiamo però il nastro per capire che cosa è successo. Esattamente un anno fa, il 16 aprile 2024, viene aggiudicato l’appalto da oltre 133 milioni di euro per la gestione dei centri e quando la presidente del Consiglio Giorgia Meloni si reca in Albania il 5 giugno 2024 per inaugurarli, l’apertura sembra imminente. Non è così: tutto resta fermo per settimane con l’esecutivo che posticipa di mese in mese l’apertura. Poi, in pochissimi giorni arriva un’accelerazione.

    L’8 ottobre avviene il doppio passaggio di “consegna” della struttura di Gjadër, il cuore del progetto albanese che prevede oltre 800 posti tra l’hotspot, il Cpr e la sezione destinata al carcere: il ministero della Difesa italiano, che ha svolto i lavori, consegna le strutture alla prefettura di Roma che a sua volta ne affida la gestione a Medihospes. Il documento, ottenuto da Altreconomia, sottolinea che l’avvio è parziale e “in via d’urgenza” ma il motivo dell’improvvisa fretta del governo non è indicato. Quel che è lampante, invece, è il ritardo dei lavori come dimostra la mappa allegata al verbale di inizio attività in cui vengono delimitate le aree ancora oggetto di cantiere che coprono gran parte del perimetro dei centri.

    I problemi non sono solo relativi agli spazi inagibili. Con una nota del 14 ottobre 2024, a tre giorni dall’arrivo dei primi migranti intercettati in mare, Medihospes indica alla prefettura tutte le criticità di un avvio della gestione così precipitoso. “Sono state consegnate all’ente gestore due palazzine alloggi ma, come poi verificato nelle ore successive presso il sito di Gjadër, solo una è utilizzabile dal personale atteso che la seconda è priva di letti”. I posti destinati ad alloggi per l’ente gestore “da capitolato risultano essere 60” mentre al 14 ottobre erano stati consegnati “soli 24 posti e non 48”, come era stato evidentemente pattuito. Secondo la cooperativa ciò rappresenta una “enorme criticità che comporta un notevole aggravio dei costi per la conseguente sistemazione del personale trasfertista”.

    Ancora. “Il numero delle aree destinate a spogliatoio del personale dell’ente gestore risulta assolutamente insufficiente”. Un’altra criticità è l’assenza di un locale da destinare a mensa o sala per la distribuzione dei pasti, così come l’affidamento a Medihospes della gestione di una “control room” non rientrante nelle prestazioni previste dal capitolato e dagli atti di gara. Solo per questa attività, comunicata all’ente gestore a sette giorni dall’avvio del servizio, serviranno un totale di 336 ore settimanali per le operazioni di videosorveglianza, antintrusione, antincendio, gestione di accessi e la filodiffusione.

    La cooperativa si mette addirittura a disposizione per fornire servizi non previsti del bando di gara, compresa la citata “control room”. Il confine tra gestione e sorveglianza si fa così progressivamente sempre più labile. Tanto che l’ente segnala le problematiche relative ai “varchi con cancelli motorizzati, non essendoci cancelli pedonali per entrare nei singoli lotti”. Medihospes sottolinea che “l’apertura frequente dei cancelli carrabili aumenterebbe il rischio di tentativi di fuga dal singolo lotto verso le aree comuni”, auspicando la realizzazione di “cancelli metallici dotati di tornello” così da garantire un maggior controllo.

    Insomma, i centri allora sono ancora lontani dall’essere pronti ma il 15 ottobre, mentre la nave Libra sta trasportando le prime persone soccorse al largo di Lampedusa verso le coste albanesi, arriva la firma del “verbale di esecuzione anticipata”. La giustificazione indicata dalla prefettura è “l’esigenza e l’urgenza di assicurare nell’interesse pubblico l’avvio del servizio di accoglienza e dei servizi connessi”.

    “La mancata firma del contratto sembra testualmente fondarsi su ragioni di urgenza che tuttavia sono correlate all’interesse pubblico di vedere avviati i centri -osserva Maria Teresa Brocchetto, avvocata amministrativista di Milano e socia dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi)– con una formulazione che suona solo tautologica e lascia inspiegata la ragione stessa dell’urgenza, a fronte di un protocollo della durata di cinque anni e di un contratto di gestione della durata di due anni prorogabile per altri due”. Un contratto che ancora oggi, a un anno di distanza, non sembra essere stato firmato.

    La confusione organizzativa poi ha avuto effetti negativi soprattutto sui lavoratori assunti da Medihospes, che a luglio 2024 ha aperto una filiale con sede a Tirana. “Ho siglato il contratto la notte prima dell’arrivo della nave Libra, non ho avuto neanche il tempo per leggere attentamente tutte le clausole”, riprende Arben, che racconta di non aver mai neanche ricevuto una copia dell’originale. “Ci è stata consegnata solo la fotocopia ma due mesi dopo la firma”, aggiunge, raccontando poi nel dettaglio come ha vissuto la prima operazione del governo. “Quando le prime persone sono arrivate sembravano spaventate, con gli sguardi assenti e sopraffatti dalle informazioni ricevute nell’hotspot di Shëngjin. Anche per noi è stato difficile seguire queste procedure”.

    Dopo il primo sbarco non sono stati solo i migranti ad affrontare la confusione ma anche gli operatori albanesi che non avevano ricevuto alcuna formazione. “Ci è stato detto di mantenere un ruolo di osservazione durante quella operazione. Non conoscevamo altri colleghi, né avevamo una visione d’insieme sul funzionamento dei centri. Fino alla fine di dicembre non abbiamo avuto nemmeno un ufficio”, sottolinea l’ex lavoratore, criticando la cattiva gestione e il caos della prima operazione avvenuta in fretta e furia. Tanto che i turni di lavoro sono stati forniti ai lavoratori molto tardi. “Tra le nove e le dieci della sera prima, e questo è accaduto anche nella seconda operazione”, spiega Arben.

    Inoltre, la prima formazione dello staff, durante la quale i lavoratori sono stati istruiti su tutte le procedure che si svolgono a Shëngjin e Gjadër con esercizi di simulazione sarebbe avvenuta solo una settimana dopo il primo trasferimento. Le sessioni informative sarebbero state condotte da Benedetto Bonaffini, imprenditore di Messina e già vicepresidente nazionale della Federazione italiana esercenti pubblici e turistici (Fiepet) di Confesercenti nonché colui che ha supportato Medihospes (allora Senis Hospes, come raccontato qui) a implementare le proprie attività nella città siciliana, soprattutto nell’ambito dell’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati.

    I lavoratori albanesi assunti da Medihospes nei primi mesi di attività nei centri sono stati 99. Il contratto che hanno firmato ha stringenti clausole di riservatezza e fedeltà

    Nonostante gli esorbitanti investimenti per i centri stimati in 800 milioni di euro, i lavoratori hanno poi lamentato l’assenza di condizioni adeguate di base per il personale, tra cui il fatto che hanno dovuto viaggiare a proprie spese per coprire i venti chilometri di distanza che separano l’hotspot di Shëngjin ai centri di Gjadër. “Il mio turno più lungo è durato dalle otto del mattino alle undici di sera, anche se per legge non possiamo lavorare più di 12 ore -denuncia il lavoratore-. La cooperativa ci ha pagato tutti gli straordinari che abbiamo lavorato, ma non ci ha riconosciuto l’aumento del 25% del salario per le ore extra dopo le 19 previsto dal contratto”.

    Sulla base di una lista interna di lavoratori ottenuta da Altreconomia, Medihospes Albania avrebbe assunto 99 lavoratori nei primi mesi di attività dei centri. Tra ottobre 2024 e metà gennaio 2025 sono stati contrattualizzati dieci mediatori, 14 informatori legali, sette operatori sociali e altri professionisti sanitari e amministrativi. Uno di questi ci ha mostrato il contratto di lavoro, basato sul diritto albanese, evidenziando le stringenti clausole di riservatezza che hanno costretto molti dei suoi colleghi a non parlare con i giornalisti. L’articolo 11 s’intitola “Riservatezza”, quello successivo “Obbligo di fedeltà” e prevede il dovere dei lavoratori a “mantenere segrete tutte le informazioni relative all’attività del datore di lavoro, informazioni di cui è venuto a conoscenza durante il periodo di impiego presso il datore di lavoro”. Anche dopo la fine del rapporto di lavoro.

    Oltre al contratto, i lavoratori hanno dovuto firmare poi un codice di condotta, ovvero un documento interno che stabilisce le linee guida per garantire standard etici e professionali. Quest’ultimo li obbliga a consegnare il telefono all’ingresso del centro e a riporlo in un armadietto chiuso a chiave per utilizzarlo solo durante le pause, tranne nei casi in cui abbiano presentato al direttore del centro la richiesta di tenere il cellulare per esigenze di salute. Se non rispettano il codice di condotta, le persone assunte rischiano di incorrere in sanzioni che vanno dall’ammonimento scritto alla risoluzione del contratto. Come sostengono diversi ex dipendenti sentiti da Altreconomia, i rischi di infrangere il dovere di riservatezza ha fatto sì che si diffondesse paura nel denunciare potenziali abusi per timore di azioni legali o di licenziamento da parte dell’ente gestore.

    “Alcuni colleghi mi hanno raccontato di aver firmato il contratto il 3 febbraio quando i migranti erano già stati riportati in Italia. Appena due ore dopo la firma sono stati informati in una riunione che il rapporto di lavoro si sarebbe concluso a metà febbraio” – Arben

    Licenziamento che è comunque arrivato, per molti di loro, a metà febbraio. Infatti, dopo la conclusione dei primi tre mesi di contratto a gennaio 2025, alcuni dipendenti sono stati richiamati in vista del terzo tentativo del governo italiano di trasferire i migranti dopo i due “fallimenti” di ottobre. Ai lavoratori è stato fatto firmare un contratto di sei mesi ma le cose non hanno funzionato come il Governo Meloni auspicava: il 31 gennaio tutti e 43 i migranti portati in Albania hanno fatto rientro in Italia su decisione del Tribunale di Roma, che ha applicato la legge. “Alcuni colleghi mi hanno raccontato di aver firmato il contratto il 3 febbraio quando i migranti erano già stati riportati in Italia -sottolinea Arben-. Appena due ore dopo la firma sono stati informati in una riunione che il rapporto di lavoro si sarebbe concluso a metà febbraio”. La “giustificazione” data dall’ente gestore è stata fatta risalire a “una serie di pronunce giudiziarie contraddittorie e non conformi agli orientamenti della Corte di cassazione”, come si legge nella comunicazione di interruzione del contratto di lavoro inviata ai dipendenti da Walter Balice, l’amministratore di Medihospes Albania.

    L’ennesimo tentativo di rendere operativi i centri è iniziato come detto l’11 aprile di quest’anno con il trasferimento a Gjadër di 40 persone straniere rinchiuse nei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) italiani. Due sono già tornate in Italia ma è una delle poche informazioni note. L’operazione è infatti avvenuta nella più totale opacità. “Non abbiamo potuto avere accesso alla lista di chi è rinchiuso e ci sono già stati gravi atti di autolesionismo -racconta Rachele Scarpa, parlamentare del Partito democratico che ha visitato i centri il 16 aprile-. Sul contratto, invece, l’ente gestore non ha potuto rispondere altro che ‘no comment’”.

    I nodi critici rimangono così molti. Non si sa se è previsto un importo minimo garantito a Medihospes per questi mesi di stop forzato delle strutture ma soprattutto la prefettura oggi sembra trovarsi in una posizione scomoda con l’ente gestore, vista la mancata firma del contratto a un anno dall’aggiudicazione dell’appalto. La prefettura di Roma non ha risposto alle nostre richieste di chiarimento, così come la cooperativa che si è limitata a dire che “essendo un fornitore” non gli è permesso commentare quello che succede nei centri in Albania.

    https://altreconomia.it/il-clima-di-terrore-tra-i-lavoratori-dei-centri-per-migranti-in-albania
    #Albanie #Italie #externalisation #travail #conditions_de_travail #contrat_de_travail #Medihospes_Albania #licenciement #sous-traitance #privatisation #obbligation_de_loyauté #migrations #réfugiés #asile #control_room #Benedetto_Bonaffini #code_de_conduite #Walter_Balice

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    ajouté à la métaliste sur l’#accord entre #Italie et #Albanie pour la construction de #centres d’accueil (sic) et identification des migrants/#réfugiés sur le territoire albanais...

    https://seenthis.net/messages/1043873

    • Automutilation, « violation flagrante des droits », expulsion coûteuse... Les transferts de migrants vers l’Albanie sous le feu des critiques

      Dix jours après le transfert de 40 migrants d’Italie vers l’Albanie en vue d’une expulsion vers leur pays d’origine, deux personnes ont dû être rapatriées en Italie pour des cas d’automutilation et deux autres pour des questions juridiques. Dans la structure de Gjadër, les exilés sont confrontés à une « violation fragrante de leurs droits », estiment des parlementaires qui ont visité les lieux. Les autorités italiennes, de leur côté, vantent le « premier rapatriement d’un citoyen étranger » détenu en Albanie.

      Les revers s’enchaînent pour le gouvernement italien dirigé par la Première ministre d’extrême droite Giorgia Meloni. Dix jours après le transfert en Albanie de 40 migrants, quatre d’entre eux sont déjà de retour en Italie, indique la presse locale.

      Le 11 avril, 40 exilés maintenus en centre de rétention italien ont été expulsés vers le centre albanais de Gjadër, dans le cadre d’un accord entre Rome et Tirana. Ils sont désormais enfermés dans la structure en attendant leur renvoi dans leur pays d’origine. Une procédure qui peut prendre des mois.

      Très peu d’informations ont filtré sur la nationalité et le profil de ces personnes. Selon Rome, plusieurs d’entre elles ont des casiers judiciaires pour des faits de violences, de tentative de meurtre ou de trafic de drogue.
      Inaptes à la détention

      Mais ce transfert, largement salué par le gouvernement, semble déjà avoir du plomb dans l’aile. Quelques jours après leur arrivée en Albanie, deux migrants ont été rapatriés vers l’Italie pour des cas d’automutilation. Du fait de leur état psychologique, ils ont été jugés inaptes à ce type de détention.

      Deux autres ont été renvoyés sur le sol italien pour des questions juridiques : l’un car son appel sur sa demande d’asile n’a pas encore été traitée par la justice italienne, l’autre parce qu’il a déposé une demande de protection internationale à son arrivée en Albanie.

      En effet, l’accord entre les deux pays stipulent que seuls les migrants jamais entrés en Italie et les personnes en situation irrégulière présente sur le territoire national peuvent être transférés en Albanie. En demandant l’asile, même une fois arrivé sur le sol albanais, cette personne n’entre dans aucune de ces deux catégories, et ne peut donc être retenue à Gjadër.
      Première expulsion controversée vers le Bangladesh

      Le gouvernement, lui, préfère mettre en avant la réussite de son projet. Samedi 19 avril, le ministre de l’Intérieur Matteo Piantedosi s’est ainsi réjoui sur X du « premier rapatriement d’Albanie d’un citoyen étranger détenu au centre de Gjadër ». « Les opérations de rapatriement des migrants irréguliers se poursuivront dans les prochains jours comme le prévoit la stratégie du gouvernement pour une action plus efficace de lutte contre l’immigration illégale », a-t-il martelé.

      Mais le ministre omet de préciser que pour parvenir à cette évacuation, le processus a été long et coûteux. Selon la presse italienne, ce ressortissant bangladais de 42 ans a été transféré fin mars du centre de rétention de Pian del Lago, à Caltanissetta (Sicile) où il se trouvait, vers celui de Brindisi (Sicile). C’est depuis cette structure que les 40 exilés ont été envoyés en Albanie le 11 avril. Après six jours dans le centre de Gjadër, le Bangladais a été rapatrié en l’Italie, et enfin expulsé vers Dacca. Les expulsions d’étrangers vers un pays tiers ne pouvant se faire directement depuis le sol albanais.

      Au total, cette expulsion a coûté pas moins de 6 000 euros aux autorités italiennes, contre 2 800 euros si l’homme n’avait pas été transféré en Albanie, d’après les calculs de la Repubblica.

      « Comment peut-on qualifier, sinon de farce, le fait de déplacer un migrant déjà détenu dans un CPR [centre de rétention, ndlr] en Italie vers l’Albanie et de le rapatrier, alors qu’il aurait pu être rapatrié directement d’Italie, plus tôt et sans frais supplémentaires pour la communauté ? », s’est interrogé sur les réseaux sociaux le vice-président du parti libéral Italia Viva, Davide Faraone. « Les CPR en Italie ne sont pas pleins (...) Il n’existe aucune situation de surpopulation justifiant l’utilisation de centres albanais inutiles et les mouvements de navires militaires le long de la Méditerranée », a insisté le responsable politique.
      « Opacité et manque d’accès à l’information »

      Dès les premiers jours, les transferts vers l’Albanie ont suscité de vives critiques. Lors d’une visite dans la structure de Gjadër mi-avril, la députée italienne Rachele Scarpa, du Parti démocrate (centre gauche), et l’eurodéputée Cecilia Strada (Alliance progressiste des socialistes et démocrates) ont pu rencontrer quatre des quarante migrants retenus.

      Selon ces femmes politiques, toutes les personnes « ont appris dès leur arrivée qu’elles seraient transférées en Albanie. Aucune information préalable n’a été donnée, en violation flagrante de leurs droits ». L’un des exilés a raconté avoir été réveillé à 3h du matin dans le centre de rétention italien où il se trouvait, et qu’il avait découvert qu’il était en Albanie qu’après l’atterrissage. Il n’avait pas eu accès à un avocat.

      Les parlementaires dénoncent aussi le manque de transparence du gouvernement. « L’ensemble de l’opération en Albanie est mené dans l’opacité et dans un manque d’accès à l’information pourtant cruciale pour l’exercice adéquat de nos pouvoirs d’inspection en tant que parlementaires. »

      Avec le transfert de 40 exilés début avril, le gouvernement italien tente de « remettre en activité » les centres d’accueil pour demandeurs d’asile que Rome a construit à grands frais en Albanie. Fin mars, le Conseil des ministres avait adopté un décret-loi permettant de recycler les structures en centres de rapatriement pour migrants en situation irrégulière.

      Un projet de reconversion qui témoigne de l’inutilité de ces centres alors que la justice italienne a refusé à plusieurs reprises de valider la détention en Albanie de migrants interceptés en mer, exigeant même leur rapatriement sur le territoire italien.

      La Première ministre d’extrême droite Giorgia Meloni défend, depuis son arrivée au pouvoir en octobre 2022, un projet de d’externalisation du traitement de l’immigration dans un pays tiers, présenté comme un « modèle » pour toute l’Europe.

      https://www.infomigrants.net/fr/post/64111/automutilation-violation-flagrante-des-droits-expulsion-couteuse-les-t

  • Il bene ritrovato. Turismo responsabile e beni confiscati alla criminalità organizzata

    Spesso l’immagine dell’Italia è legata alla criminalità organizzata, ma esiste un’altra realtà. Questo libro racconta come il turismo responsabile possa trasformare i beni confiscati alle mafie in risorse per lo sviluppo socioeconomico e culturale, restituendoli alla collettività.

    Attraverso storie e testimonianze, scopriremo come questi luoghi, un tempo simboli di potere criminale, siano oggi strumenti di legalità, offrendo opportunità di lavoro, educazione e sensibilizzazione.

    Un viaggio tra cooperative turistiche come Addiopizzo Travel e Libera Terra, che promuovono un turismo consapevole e impegnato, capace di valorizzare i territori e contrastare l’illegalità.

    Un’indagine sul ruolo dello Stato, delle associazioni e dei cittadini nel combattere le mafie e nel costruire un futuro più giusto.

    Il turismo responsabile non è solo una forma di sviluppo sostenibile, ma anche uno strumento di cambiamento sociale, capace di generare consapevolezza e coinvolgere le nuove generazioni.

    https://altreconomia.it/prodotto/il-bene-ritrovato
    #biens_confisqués #confiscation_de_biens #mafia #Italie #tourisme #livre #coopératives #Addiopizzo_Travel #Libera_Terra

  • Lontano dal mare c’è un’altra Genova tutta da scoprire. A piedi

    Due amici hanno dato vita a un progetto di comunicazione online che promuove l’entroterra del capoluogo ligure, creando itinerari e una comunità offline di cui fanno parte residenti e turisti.

    Genova non è una città di mare. Se si è pronti ad accogliere questa affermazione, allora si può aprire il profilo Instagram di Emanuele ed Edoardo e programmare la prossima gita nel capoluogo ligure: si chiama “Less than 30 from home”e -mutuando un’espressione in lingua inglese- richiama il fatto “che a Genova, a meno di mezz’ora da casa, puoi metterti in cammino per incontrare e raggiungere luoghi inaspettati, una peculiarità che crediamo possano condividere ormai poche grandi città in Italia”, racconta Emanuele Crovetto. Classe 1994, con l’amico Edoardo Testa, nato nel 1993, ha avviato il progetto nel 2020, con un messaggio esplicito: “Raccontiamo un’altra Genova fatta di sentieri montani e tradizioni rurali, luoghi selvaggi e storie perdute, mondi vicini eppure lontanissimi”.

    Il progetto nasce dalle passioni comuni dei due amici, l’escursionismo e l’entroterra, che in un momento particolare, l’emergenza Covid-19 e le limitazioni anche geografiche che impedivano di spostarsi, gli ha permesso di “raccogliere tanto materiale e decidere di renderlo disponibile per trasformare il limite in un’opportunità, per andare più in profondità e renderci conto, noi per primi, che esistono ‘storie’ e ‘luoghi’ che vale la pena raccontare, che sono poco divulgate e lo sono male”, racconta Emanuele.

    Il fine esplicito è anche politico, sottolinea Edoardo: “Molte proposte non sono adatte: sui social si pubblicano fotografie irraggiungibili, con una spettacolarizzazione del territorio che non rende giustizia e ne offre un’immagine meravigliosa ma fine a se stessa, perchè non presenta un racconto che ne metta in luce la bellezza ma anche le problematiche. Per noi è fondamentale, anche nei testi che accompagnano le foto che pubblichiamo, far comprendere come le contraddizioni entrino in dialogo tra loro: non basta una geolocalizzazione, ma serve raccontare la storia e le caratteristiche ambientali e anche sociali e culturali, le problematiche e i limiti, lo stato d’abbandono”.

    A quattro anni e mezzo dal primo post sul profilo (che è del novembre 2020) gli itinerari pubblicati sono una trentina, arricchiti dalle grafiche curate da Crovetto che ha fatto studi di architettura e si occupa di design e progettazione. Le mappe e le descrizioni degli itinerari hanno come “obiettivo far scoprire il territorio in autonomia, anche se negli ultimi tempi abbiamo valutato che non era male ogni tanto creare delle occasioni proponendo agli utenti delle visite e delle escursioni guidate, non tanto per creare un calendario fitto ma per uscire dai social, dare l’opportunità di un contatto diretto, conoscere le persone, esprimere in modo più profondo il racconto, senza limitarsi ai 30 secondi’’ di un reel o al contenuto di un post”, racconta Edoardo Testa, che dopo la laurea in Giurisprudenza oggi studia Scienze umane per l’ambiente ed è anche Guida ambientale ed escursionistica abilitata.


    La comunità con cui dialogano è quella dei 18.500 follower del loro profilo. Il messaggio non riguarda solo i “luoghi da scoprire sulle alture di Genova”, cioè le cime tra gli 800 e i mille metri che si trovano nel territorio del Comune di Genova. Invita ad avere un altro rapporto con la città: “Le nostre escursioni partono dal basso per raggiungere la montagna. Nel percorso non è raro imbattersi in brutture. Dove questo contrasto esiste, lo rendiamo visibile, non lo nascondiamo. Non idealizziamo l’entroterra. Esistono alcuni quartieri particolarmente ‘difficili visivamente’ da cui sarebbe facile ‘raggiungere’ luoghi che esprimono un valore, ma una rete sentieristica poco sviluppata fa sì che per molti che ci vivono questo ‘legame’ non esista. Ecco un tema politico: la divulgazione della costa, lo sguardo sempre rivolto al mare, nasconde le opportunità che esistono guardandosi alle spalle”, sottolinea Edoardo.

    “Less than 30 from home” rappresenta un’alternativa rispetto a una scelta di promozione del territorio che i due fondatori del progetto definiscono “discutibile, a partire dal tema del turismo crocieristico e dalle relative infrastrutture”. Per questo, spiega Emanuele, è importante “lo sforzo per decostruire cliché, per raccontare un’altra Genova”. In questo senso, il progetto è anche politico: “Serviva qualcuno che facesse da contraltare al racconto mainstream, per non vocare la città a un turismo mordi e fuggi. Sulle alture, dove i servizi non esistono, non è possibile pensare a infrastrutture per il turista e non per chi vi abita. La Regione Liguria ha scelto, secondo noi commettendo un errore, di offrire una certa visione del territorio e della città, che è indubbiamente costa-centrica e lì concentra le risorse, ignorando le altre . Massivamente i turisti visitano così determinate zone della città. Quando si offre un racconto troppo facile, troppo semplice, questo attira il visitatore che non ha particolari velleità di comprendere quello che lo circonda. Un turista che vuole confermare la visione che ha di Genova, e non scoprirne un’altra: il primo può portare più danni del secondo”.

    Nemmeno per chi vi abita è scontato conoscere aree e quartieri di una città lunghissima, che rende il Levante un mondo a parte per chi è nato a Ponente, e viceversa. Due esempi: “La Val Cerusa, alle spalle di Voltri, torrentizia, con il paese di Sambuco, straniante. Appena si supera il cavalcavia dell’autostrada si entra in un mondo molto diverso rispetto a quanto uno si aspetta di trovare a Genova. La roccia qui è serpentinite, ha un impatto ‘alpino’. Se guardi verso l’alto, in giornate invernali, con un po’ di neve sulla vetta, difficilmente puoi sentire di essere a Genova”, racconta Edoardo.

    Fa eco Emanuele: “C’è la Val di Noci che nonostante il lago artificiale è davvero un luogo poco conosciuto, anche se tutt’intorno c’è il tracciato dell’Alta via dei Monti Liguri. Da lì, si può raggiungere l’Alpe Sisa e poi scoprire alcuni borghi abbandonati, come Canate di Marsiglia, dove oggi vive solo un eremita, Francesco. Sono paesi che hanno smesso di vivere negli anni Sessanta o Settanta. Luoghi vicini nel tempo e nello spazio, per buona parte dimenticati. Farli riscoprire è importante perché rappresentano un patrimonio architettonico e di tradizioni e di storie che altrimenti rischia di perdersi”. Restano in vita persone che hanno offerto ai due amici testimonianze della vita in quei luoghi.

    “Siamo l’ultima generazione -conclude Edoardo- che ha un rapporto diretto o indiretto con l’entroterra: le prossime avranno bisogno di qualcuno che ne conservi per loro una testimonianza. Non credo che sia un racconto da romanzare, ma da conservare. Una traccia di quello che siamo”.

    https://altreconomia.it/lontano-dal-mare-ce-unaltra-genova-tutta-da-scoprire-a-piedi

    #marche #promenade #Gênes #Italie #montagne #alternative #itinéraires #Italie

  • Un nuovo report documenta le espulsioni e la vendita dei migranti dalla Tunisia alla Libia

    “Tratta di Stato” inchioda con testimonianze dirette le responsabilità dell’Italia e dell’Unione europea nel fornire fondi e supporto agli stessi apparati statali tunisini che sistematicamente catturano ed espellono migliaia di persone verso la rete di campi e prigioni libiche. Il prezzo oscilla tra 12 e 90 euro a persona. Le donne valgono di più. Un patto disumano che deve essere stracciato il prima possibile

    Secondo le testimonianze di 30 persone migranti raccolte in un nuovo report, la polizia e i militari tunisini catturano, torturano ed espellono sistematicamente persone nere oltre il confine orientale del Paese, dove entrano a far parte dell’“industria del sequestro nelle prigioni libiche”.

    Il report “State Trafficking” (“Tratta di Stato”) denuncia che questi “crimini di Stato” si sono sviluppati anche come conseguenza del supporto di Italia e Unione europea ai due Paesi nordafricani.

    “Finanziando e collaborando con regimi come quelli libici e tunisini, l’Europa ha scelto di esternalizzare i propri confini, chiudendo un occhio su pratiche orribili come la vendita di esseri umani, che non possono più essere ignorate”, ha dichiarato Ilaria Salis, europarlamentare del gruppo della Sinistra (The Left), durante la conferenza stampa presso il Parlamento europeo a Bruxelles lo scorso 29 gennaio, in occasione della pubblicazione del rapporto.

    La Tunisia governata dal presidente Kaïs Saied ha impresso negli ultimi anni una forte svolta autoritaria e una retorica razzista nel Paese. A febbraio 2023 ha indetto “misure urgenti” per fermare l’immigrazione “illegale” di persone subsahariane, che secondo il presidente farebbero parte di “piano criminale ordito all’alba di questo secolo per modificare la composizione demografica della Tunisia”. Nei mesi seguenti le persone nere sono state vittime di aggressioni e rapine da parte di cittadini tunisini, sfratti arbitrari e licenziamenti. Molti migranti sono stati arrestati, detenuti e in certi casi deportati nel deserto, senza cibo né acqua. A marzo 2024 l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Iom) ha denunciato il ritrovamento di almeno 65 corpi di migranti in una fossa comune in Libia, vicino al confine con la Tunisia. A inizio febbraio 2025 ne sono state trovate altre nel Sud del deserto libico, a Jakharrah e Alkufra, quindi in un contesto territoriale diverso, con decine di corpi all’interno, e oltre 25 organizzazioni per i diritti umani (da Asgi ad AlarmPhone, da Borderline Europe a Sea-Watch, da SOS Humanity al Border violence monitoring network) hanno chiesto il congelamento dei fondi europei alla Libia per la “gestione” delle migrazioni.

    Questo nuovo report rivela un ulteriore tassello: la responsabilità degli apparati statali tunisini nella tratta di esseri umani alla frontiera libica. Ad essere prese di mira sono sempre le persone nere: “Studenti o lavoratori con documenti di soggiorno, persone con passaporto e timbro di entrata in Tunisia, persone con documenti rilasciati dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) o dal consolato di pertinenza, persone prive di ogni tipo di documentazione”, si legge nel report.

    Realizzato dal gruppo Ricercatrici/Ricercatori X, che preferisce rimanere anonimo per non mettere in pericolo le persone coinvolte, come spiega uno dei ricercatori parlando con voce modificata durante la conferenza stampa, insieme all’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), Border forensics e OnBorders, il documento contiene le esperienze di 30 migranti. Tutti sono stati vittime di queste operazioni di espulsione dalla Tunisia.

    Cinque le fasi evidenziate nel rapporto. La prima è la cattura e la detenzione delle persone a opera della Garde nationale tunisina. Diversi i luoghi dove i migranti vengono catturati, “in mare, sul posto di lavoro, di fronte a banche e agenzie di trasferimento di denaro, per strada, nelle abitazioni, dentro il perimetro del carcere e nel corso dei raid in cui vengono distrutti gli accampamenti informali delle partenze nella zona a Nord di Sfax”. Eppure, il modus operandi si ripete secondo i ricercatori: spesso i migranti sono portati via grazie a scuse, dicendogli ad esempio che si tratta solo di un controllo di routine; gli vengono sottratti soldi, documenti e telefoni, per evitare che allertino qualcuno o documentino quello che succede; sono sottoposti a violenze e la loro detenzione non viene documentata.

    Nell’ultimo anno si è registrato un calo del 59% degli arrivi in Europa attraverso la rotta del Mediterraneo centrale, che parte proprio da Libia e Tunisia. Dai dati di Frontex, nel 2024 ci sono stati 67mila attraversamenti, contro i 158mila del 2023, quando i numeri erano raddoppiati rispetto all’anno precedente. Secondo il report, questo calo è “direttamente riconducibile alla violenza e all’intensità delle intercettazioni in mare dei migranti”.

    Quando i migranti vengono raggiunti in mare, infatti, alcuni naufragi sono provocati proprio dalla guardia costiera tunisina secondo il rapporto. “Ci hanno chiesto di dargli il motore. Noi gli abbiamo chiesto di trainarci a terra. Loro hanno detto no e hanno iniziato a fare le onde. Arrivati al porto, ci hanno ammanettato e nel mentre ci picchiavano”, racconta un ragazzo di 18 anni della Costa d’Avorio nel report.

    I prigionieri riferiscono di essere poi portati dalla Garde nationale su grandi bus fino al confine libico. Durante questi viaggi le richieste di cibo e acqua si traducono in percosse e le perquisizioni si trasformano spesso in molestie sessuali. Mentre alcuni sono portati direttamente alla frontiera, molti migranti raccontano “di essere filtrati” attraverso una rete di campi di detenzione, l’ultimo dei quali per gli uomini è spesso una famigerata gabbia a pochi chilometri dalla Libia. Secondo i ricercatori, questo iter permette di gestire grandi numeri di persone, “trattenendo e muovendo i prigionieri sulla base dei tempi definiti dagli accordi di scambio con gli acquirenti libici”. Può durare da uno a 30 giorni, scanditi da violenze e torture “sistematiche”. In alcuni casi i prigionieri muoiono a causa delle violenze e della mancanza di cure. Altri scompaiono, e una testimonianza parla di fosse comuni. “Ci hanno picchiato come delle bestie, come delle bestie. Ci hanno fatto giurare di non tornare mai più in Tunisia”, racconta un ragazzo di 29 anni del Camerun ai ricercatori.

    Al confine, i gruppi di prigionieri sono scambiati con “denaro, hashish e carburante -si legge nel report-. Una costante fra i venditori è la presenza di personale in uniforme dal lato tunisino. Variabile è la tipologia degli acquirenti dal lato libico”, quindi gruppi in uniforme, milizie in abiti civili o gruppi misti.

    Il prezzo oscilla tra 12 e 90 euro a persona, “in funzione del valore finale che il soggetto venduto può generare attraverso il riscatto in Libia”. Le donne hanno un valore superiore. Dalla testimonianza video di un giovane di origine camerunense di 25 anni, “quando siamo arrivati ci hanno diviso in gruppi di 10 persone, i coxeur e i soldati libici ti comprano, pagano i tunisini di fronte a te”.

    Parte dello scambio sono spesso anche i documenti e telefoni dei prigionieri, utili per chiedere i riscatti nelle prigioni libiche. Una tra le principali è quella di Al Assah, gestita dalla Libyan border guard (Lbg) e dal Department of combating illegal migration (Dcim), entrambe sotto l’ombrello del ministero dell’Interno di Tripoli. “In molte interviste, vengono menzionati giorni fissi collegati all’arrivo di nuovi gruppi dalla Tunisia, evidenziando così il funzionamento di una macchina logistica coordinata in modo transfrontaliero”, è la conclusione dei ricercatori.

    In Libia, i migranti entrano in un circolo di centri di detenzione, dove vengono “rivenduti i prigionieri insolventi”. Quelli per cui la famiglia può immediatamente pagare il riscatto vengono liberati per circa mille euro, racconta il report, mentre per gli altri la cifra varia tra i 400 e i 700 euro. I prigionieri vivono in condizioni disumane, vengono sottoposti a torture, violenze e lavori forzati. Una volta liberati quasi tutti arrivano nella città di Zwara, dove rischiano di ricadere “dentro gli ingranaggi dell’economia del sequestro e della detenzione”.

    Non si sa esattamente quante persone migranti ci siano in Tunisia e Libia. Secondo dati dell’Oim, la a maggio 2024 si contavano oltre 725mila migranti in Libia. Le autorità tunisine hanno invece annunciato che nel 2024 hanno arrestato 80mila migranti mentre 20mila sono passati da Al Amra a Sfax, dove partono molte delle barche organizzate dai trafficanti.

    Secondo quanto scrive Asgi, le testimonianze evidenziano diverse violazioni del diritto internazionale, come crimini contro l’umanità, detenzione arbitraria, discriminazione razziale, respingimenti collettivi, sparizioni forzate, tortura, e tratta e violenza di genere.

    “Sul versante tunisino tutte le infrastrutture di base sono costruite e gestite da attori statali -ha sottolineato uno dei ricercatori del gruppo X durante la conferenza stampa-. Autobus, auto, barche, armi, benzina, stipendi, uniformi, droni e altri dispositivi e tecnologie che rendono possibile la cattura dei migranti e il traffico di Stato si basano su cospicui fondi europei stanziati per rafforzare le politiche di frontiera”.

    L’Italia è in prima linea tra i Paesi europei nel portare avanti i rapporti con Tunisi. Secondo dati raccolti dal report, a partire dal 2017, sono 75 i milioni spesi da Roma nell’equipaggiamento e nella formazione delle guardie di frontiera tunisine (la Garde nationale, appunto). Ed è stata proprio l’Italia a giocare un ruolo fondamentale nel raggiungimento della firma del Memorandum tra Ue e Tunisia dell’estate 2023, con il quale l’Unione ha trasferito 150 milioni al regime di Saied, in buona parte per la gestione delle frontiere.

    “Esortiamo l’Ue a sospendere la cooperazione con le autorità tunisine”, ha concluso Andreina De Leo di Asgi. Perché è urgente riconsiderare la classificazione italiana della Tunisia come “Paese sicuro”.

    https://altreconomia.it/un-nuovo-report-documenta-le-espulsioni-e-la-vendita-dei-migranti-dalla

    #expulsions #Tunisie #Libye #migrations #trafic_d'êtres_humains

  • La responsabilità dell’Australia per la detenzione arbitraria sull’isola di #Nauru

    Con due accordi firmati oltre dieci anni fa con la Repubblica di Nauru, Canberra -spesso presa a “modello” dai governi europei- ha stabilito che le domande di asilo presentate nel suo territorio debbano essere esaminate offshore sull’isola, trasferendo forzatamente le persone. Un modo per aggirare i propri obblighi internazionali che è stato sanzionato dal Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite. Ecco perché.

    Con due decisioni di portata storica, il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha decretato la responsabilità dell’Australia per la detenzione arbitraria di richiedenti asilo trasferiti o reindirizzati verso i centri di detenzione offshore situati nella Repubblica di Nauru. Attraverso la sottoscrizione di due memorandum d’intesa con Nauru nel 2012 e nel 2013, l’Australia ha stabilito che le richieste di asilo presentate nel suo territorio vengano esaminate offshore su quest’isola, trasferendo forzatamente le persone migranti nel piccolo Stato insulare del Pacifico.

    Il 9 gennaio 2025, il Comitato delle Nazioni Unite ha deliberato su due casi riguardanti rifugiati e richiedenti asilo sottoposti a detenzioni prolungate e arbitrarie proprio presso il Centro di elaborazione regionale di Nauru. “Uno Stato non può sottrarsi alle proprie responsabilità in materia di diritti umani delegando l’elaborazione delle richieste d’asilo ad un altro Paese”, ha dichiarato Mahjoub El Haiba, membro del Comitato, aggiungendo: “quando un Paese esercita un controllo effettivo su un’area, i suoi obblighi secondo il diritto internazionale rimangono saldi”.

    Il primo caso esaminato dalle Nazioni Unite riguarda 24 minori non accompagnati provenienti da Iraq, Iran, Afghanistan, Pakistan, Sri Lanka e Myanmar, tutti intercettati in mare dalle forze di polizie australiane mentre fuggivano dalle persecuzioni nei loro Paesi d’origine. I minori erano diretti in Australia: tra il 2013 e il 2014, sono stati portati sull’Isola di Natale, piccolo territorio australiano nell’Oceano Indiano, e trattenuti in detenzione obbligatoria per periodi compresi tra i due e i 12 mesi.

    Nel 2014 sono poi stati trasferiti a Nauru e trattenuti nel sovraffollato Centro di elaborazione regionale, caratterizzato da carenza di acqua potabile e servizi igienici, alte temperature e umidità e da cure mediche inadeguate. Secondo quanto esaminato dal Comitato, quasi tutti i minorenni hanno sofferto un deterioramento della loro salute fisica e mentale, manifestando autolesionismo, depressione, problemi renali, insonnia, mal di testa, problemi di memoria e perdita di peso. Nonostante quasi tutti avessero ottenuto lo status di rifugiati intorno a settembre 2014, sono però rimasti detenuti a Nauru.

    Nel secondo caso, una richiedente asilo iraniana è arrivata in barca sull’Isola di Natale nell’agosto 2013 con il marito, il patrigno, la sorellastra e un cugino maschio: nessuno di loro aveva un visto valido. Sette mesi dopo, la donna è stata trasferita a Nauru e trattenuta nel Centro di elaborazione regionale. Le autorità nauruane le hanno riconosciuto lo status di rifugiata nell’aprile 2017, ma non è stata rilasciata nell’immediato. Tredici mesi dopo il riconoscimento del suo status, è stata trasferita in un’area di supporto -sempre a Nauru- per ricevere assistenza sanitaria. Solo nel novembre 2018 è stata trasferita nella terraferma australiana per motivi medici, ma è comunque rimasta detenuta in varie strutture.

    In entrambi i casi, le vittime hanno presentato reclami al Comitato per i diritti umani, sostenendo che l’Australia aveva violato i suoi obblighi ai sensi del Patto internazionale sui diritti civili e politici (Iccpr), in particolare l’articolo 9, relativo alla detenzione arbitraria. L’Australia ha respinto le accuse sostenendo che non vi fossero prove sufficienti a dimostrare che le presunte violazioni avvenute a Nauru rientrassero nella sua giurisdizione.

    Tuttavia il Comitato ha fatto notare che, secondo fonti pubbliche e ufficiali, l’Australia ha pianificato la costruzione e l’istituzione del Centro di elaborazione regionale a Nauru, contribuendo direttamente alla sua gestione attraverso finanziamenti, contratti con enti privati e altri soggetti responsabili direttamente nei suoi confronti. Secondo i funzionari delle Nazioni Unite, “l’Australia ha un controllo e un’influenza significativi sul Centro di elaborazione regionale a Nauru e, pertanto, riteniamo che i richiedenti asilo coinvolti in questi casi siano sotto la giurisdizione dello Stato parte ai sensi dell’Iccpr”, ha specificato El Haiba.

    Nel dettaglio, per quanto riguarda il caso dei 24 minori non accompagnati, il Comitato ha riscontrato che l’Australia non ha giustificato in maniera adeguata perché questi minori non potessero essere trasferiti in centri di detenzione comunitari sulla terraferma, più adatti alle esigenze specifiche di individui vulnerabili. Il Comitato ha quindi concluso che l’Australia ha violato l’articolo 9 dell’Iccpr, che garantisce il diritto di essere liberi dalla detenzione arbitraria. Inoltre, poiché i minori non avevano un canale efficace per contestare la legalità della loro detenzione davanti ai tribunali nazionali, il Comitato ha riscontrato anche una violazione relativa al diritto delle persone private della libertà di portare le proprie richieste in tribunale.

    Nel caso invece della rifugiata iraniana, il Comitato ha osservato che l’Australia non ha dimostrato su base individuale che la detenzione prolungata e indefinita della vittima fosse giustificata, violando anche in questo caso l’articolo 9 dell’Iccpr. “Le nostre conclusioni inviano un chiaro messaggio a tutti gli Stati: dove c’è potere o controllo effettivo, c’è responsabilità. L’esternalizzazione delle operazioni non esime gli Stati dai propri doveri. I centri di detenzione in non sono zone franche per i diritti umani dello Stato parte, che rimane vincolato dalle disposizioni del Patto”, è il commento di El Haiba.

    L’Iccpr, infatti, è stato ratificato da 174 Paesi, Australia inclusa. Su tali basi, il Comitato ha invitato l’Australia a fornire un risarcimento adeguato alle vittime e ad adottare misure per garantire che violazioni simili non si ripetano. In particolare, ha sollecitato una revisione della legislazione migratoria e degli accordi bilaterali di trasferimento per allinearli agli standard internazionali sui diritti umani.

    https://altreconomia.it/la-responsabilita-dellaustralia-per-la-detenzione-arbitraria-sullisola-
    #Australie #externalisation #modèle_australien #asile #migrations #réfugiés #détention_arbitraire #responsabilité #ONU #Comité_des_droits_de_l'Homme

    • Australia responsible for arbitrary detention of asylum seekers in offshore facilities, UN Human Rights Committee finds

      In two landmark decisions, the UN Human Rights Committee has ruled that Australia remained responsible for the arbitrary detention of asylum seekers redirected or transferred to offshore detention facilities in the Republic of Nauru.

      The Committee published its Decisions today about two cases involving refugees and asylum seekers who have endured prolonged and arbitrary detention in the Regional Processing Centre in Nauru. Australia signed Memoranda of Understanding with Nauru in 2012 and 2013, allowing Australia to forcibly redirect and transfer asylum seekers to the Pacific Island nation for processing.

      “A State party cannot escape its human rights responsibility when outsourcing asylum processing to another State,” said Committee member Mahjoub El Haiba, adding that, “Where a State exercises effective control over an area, its obligations under international law remain firmly in place and cannot be transferred.”

      In the first case, 24 unaccompanied minors from Iraq, Iran, Afghanistan, Pakistan, Sri Lanka and Myanmar were intercepted at sea by Australia while fleeing persecution in their home countries and enroute to Australia. They were first brought to Christmas Island, an Australian territory in the Indian Ocean, between 2013 and 2014 and placed in mandatory immigration detention for between 2 and 12 months.

      They were then transferred to Nauru in 2014 and detained at the overcrowded Regional Processing Centre with insufficient water supply and sanitation, high temperatures and humidity, as well as inadequate healthcare. Almost all of these minors have suffered from deterioration of physical and mental well-being, including self-harm, depression, kidney problems, insomnia, headaches, memory problems and weight loss.

      Despite all but one of these minors being granted refugee status around September 2014, they remained detained in Nauru.

      In the second case, an Iranian asylum seeker arrived by boat on Christmas Island with her husband, stepfather, stepsister, and male cousin without valid visas in August 2013. Seven months later, she was transferred to Nauru and detained at the Regional Processing Centre. She was recognised as a refugee by the authorities in Nauru in April 2017 but was not released immediately. Thirteen months after the granting of her refugee status, she was moved to a Support Accommodation Area in Nauru for healthcare services. She was subsequently transferred to mainland Australia in November 2018 for medical reasons but was still detained in various facilities.

      Victims from both cases filed complaints to the Human Rights Committee, claiming Australia had violated its obligations under the International Covenant on Civil and Political Rights (ICCPR), particularly Article 9 regarding arbitrary detention.

      Australia opposed the allegations, stating there was no prima facie substantiation that the alleged violations in Nauru had occurred within Australia’s jurisdiction.

      The Committee, however, observed that pursuant to various public and official sources, Australia had arranged for the construction and establishment of the Regional Processing Centre in Nauru and directly contributed to its operation through financing, contracting with private and other entities which were accountable to Australia, and management.

      The Committee recalled its earlier jurisprudence and its General Comment No. 31, which defines the principle of “power or effective control” when establishing the exercise of jurisdiction.

      “It was established that Australia had significant control and influence over the regional processing facility in Nauru, and thus, we consider that the asylum seekers in those cases were within the State party’s jurisdiction under the ICCPR,” said El Haiba.

      In the first case regarding 24 unaccompanied minors, the Committee found that Australia failed to justify why they could not have been transferred to community detention centres on the mainland, which are more tailored to meet the specific needs of vulnerable individuals. The Committee thus concluded that Australia had violated Article 9 (1) of the ICCPR, which guarantees the right to be free from arbitrary detention. In addition, given that the minors did not have an effective channel to challenge the legality of their detention before domestic courts, the Committee also found that Australia had violated article 9 (4) of ICCPR regarding the right of people deprived of liberty to bring their claims to court.

      In the case concerning the Iranian refugee, the Committee observed that Australia had not demonstrated on an individual basis that the victim’s prolonged and indefinite detention was justified. The Committee thus found that Australia had violated Article 9(1).

      “These decisions send a clear message to all States: Where there is power or effective control, there is responsibility. The outsourcing of operations does not absolve States of accountability. Offshore detention facilities are not human-rights free zones for the State party, which remains bound by the provisions of the Covenant,” said El Haiba.

      The Committee called on Australia to provide adequate compensation to the victims and take steps to ensure that similar violations do not recur. Specifically, it urged a review of migration legislation and bilateral transfer agreements to align with international human rights standards.

      https://www.ohchr.org/en/press-releases/2025/01/australia-responsible-arbitrary-detention-asylum-seekers-offshore-facilities
      #décision

  • #PFAS

    Gli inquinanti eterni e invisibili nell’acqua. Storie di diritti negati e cittadinanza attiva.

    Quattro lettere che messe insieme descrivono i contorni di un disastro ambientale globale. I PFAS (composti Poli e perfluoroalchilici), nati dall’attività umana, si sono diffusi in ogni angolo del Pianeta, contaminando l’ecosistema e il nostro organismo.

    In questo sconvolgente reportage, il primo su questo tema nel nostro Paese, Giuseppe Ungherese racconta la storia e gli effetti nefasti dei PFAS, derivati del fluoro utilizzati in moltissimi prodotti di uso quotidiano e definiti “inquinanti eterni”.

    Attraverso un approccio unico, che alterna conoscenze scientifiche, testimonianze e impegno civile, l’autore ci guida in un viaggio nelle ‘zone di sacrificio’: le regioni del mondo più colpite dalla contaminazione, dove gli interessi economici delle industrie e delle multinazionali chimiche hanno sacrificato la salute dell’ambiente e delle comunità, spesso con la complicità delle istituzioni, che per anni hanno ignorato o sottovalutato il problema.

    Dalla causa per crimini ambientali intentata contro l’azienda DuPont negli Stati Uniti, l’inquinamento da PFAS ha colpito molte aree dell’Occidente, arrivando fino in Italia, nello stabilimento della Solvay in Piemonte, e passando per il Veneto, dove hanno contaminato l’acqua potabile di oltre 350 mila persone.

    Negli ultimi anni, numerosi cittadini hanno dovuto attivarsi dal basso per ottenere il riconoscimento dei propri diritti e, attraverso un rinnovato senso di civismo, hanno individuato nelle azioni collettive e nelle proteste una via d’uscita dalla crisi. Questo libro è anche la loro storia.

    https://altreconomia.it/prodotto/pfas
    #livre #Italie #eau #eau_potable #contamination #pollution #plastique #polluants_éternels

  • L’assalto alle terre alte e il progetto del comprensorio sciistico “#Colere-Lizzola

    La #Val_Sedornia e la #Val_Conchetta sono due aree selvagge e non ancora antropizzate delle #Orobie_bergamasche. Un vetusto progetto di collegamento tramite due impianti di risalita e un tunnel lungo 450 metri scavato attraverso il #Pizzo_di_Petto le mette a rischio. I promotori lo presentano come uno strumento per rilanciare l’economia e fermare lo spopolamento. Ma è una ricetta obsoleta.

    Nelle valli bergamasche rischia di consumarsi un nuovo assalto alle terre alte, con decine di milioni di euro di fondi pubblici destinati a impianti di risalita e di innevamento artificiale.

    Un progetto che comprometterebbe il prezioso ambiente montano delle Orobie bergamasche senza fermare lo spopolamento delle valli e dei Comuni montani e promuovendo una visione del turismo ormai insostenibile.

    Lo denunciano i rappresentati di Orobievive, associazione dei gruppi ambientalisti della bergamasca, di terreAlt(R)e, collettivo di cittadini attivi in campo ecologico e sociale, di Legambiente e della sezione locale del Club alpino italiano (Cai) che si oppongono al progetto di collegamento tra i comprensori sciistici di Lizzola (BG) e Colere (BG).

    “Quella del comprensorio è un’idea progettuale vecchia di trenta o quarant’anni -fa notare il Cai Val di Scalve-, quando molte delle consapevolezze che oggi stiamo (ancora troppo lentamente) maturando non erano ancora di pubblica evidenza. Oggi abbiamo gli strumenti per qualche cosa di più ambizioso e lungimirante. Da costruire insieme”.

    Lo scopo del collegamento è quello di creare un unico comprensorio unendo due stazioni sciistiche: quella di Lizzola, frazione del Comune di Valbondione, dotata al momento di quattro seggiovie e 20 chilometri di piste, e quella di Colere, che dispone di tre seggiovie e di una cabinovia sostituita e ristrutturata a fine 2023. Il collegamento avverrà tramite due impianti di risalita e un tunnel lungo 450 metri scavato attraverso il Pizzo di Petto, montagna al confine tra le due valli.

    In parallelo per gli impianti di Lizzola si prevede la demolizione di tre seggiovie e la loro sostituzione con un’unica cabinovia e il completamento dell’impianto di innevamento artificiale. Il costo dell’intero collegamento è pari a 70 milioni di euro, di cui 50 milioni coperti da fondi pubblici.

    I promotori del progetto e gli amministratori locali, come i sindaci dei Comuni di Valbondione e di Colere, plaudono al progetto e lo presentano come un modo per arrestare lo spopolamento della valle e rilanciare turismo ed economia locale. Dall’altro lato le organizzazioni e i cittadini criticano il collegamento per ragioni ambientali, economiche e sociali. A iniziare da Legambiente che nel 2024 ha assegnato alla società Rsi, che controlla gli impianti di Colere ed è al centro del contestato progetto di collegamento, la “Bandiera nera” destinata alle aziende e associazioni che ripropongono un modello superato e dannoso di turismo montano.

    Le maggiori criticità riguardano il piano ambientale. “I nuovi impianti interessano due zone, la Val Sedornia dal lato di Lizzola e la Val Conchetta da quello di Colere -racconta ad Altreconomia Angelo Borroni di Orobievive, rete di associazioni ambientaliste locali-, si tratta di due valli selvagge e non ancora antropizzate e la costruzione degli impianti di risalita, delle piste e dell’impianto di innevamento rischia di danneggiare una delle zone più preziose per la natura delle montagne lombarde”.

    L’area interessata dagli interventi non solo fa parte del Parco delle Orobie bergamasche ma anche di un Zona speciale di conservazione (Zsc) “Val Sedornia – Val Zurio – Pizzo della Presolana” istituita dal progetto dell’Unione europea Rete Natura 2000 e comprende il cosiddetto “Mare in burrasca”, la zona carsica alpina più grande della Lombardia.

    “Si tratta della zona più preziosa per la biodiversità di tutta Lombardia e che viene studiata per il suo ambiente carsico di particolare unicità -prosegue Borroni- ma le criticità non si fermano qui. La valle dove sorgeranno gli impianti è molto ripida e va protetta dal rischio valanghe con opere in calcestruzzo”.

    I promotori sostengono che i nuovi impianti non impatteranno sulla biodiversità della zona. “Il progetto ha una specifica attenzione verso la mitigazione dell’impatto ambientale, in virtù della quale si è scelto di realizzare in Val Conchetta (versante Colere) una minore lunghezza delle piste e una cabinovia anziché le due seggiovie già previste. Questa scelta ha consentito di ridurre ad un terzo l’impatto ambientale”, scrivono in un comunicato stampa.

    “Ma si tratta di una valutazione su impianti previsti nel 2008 che non sono stati poi realizzati, mentre ora si vuole introdurre una cabinovia, due piste, un bacino e un traforo”, controbatte Borroni. Lo stesso ente gestore del Parco delle Orobie bergamasche nella sua valutazione sottolinea come sia proprio la presenza di piste da sci e di strutture ricreative a rappresentare la minaccia maggiore per la zona. E come la costruzione del comprensorio già esistente ne abbia danneggiato la biodiversità. “Lo stato di conservazione è già stato compromesso dalla realizzazione degli impianti sciistici -si legge nel rapporto-. Numerose doline e pozzi carsici, non solamente quelli situati in prossimità delle piste, sono stati colmati da materiali di discarica e da rifiuti prodotti durante l’attività sciistica”.

    A minacciare l’integrità ecologica della zona non saranno solo impianti e piste da sci ma anche il sistema di innevamento artificiale che verrà costruito per “sparare” sulle piste nuove e quelle esistenti, che si trovano per la maggior parte della loro estensione al di sotto dei 2.000 metri di quota. Per alimentare il sistema è prevista la costruzione di un bacino artificiale ai piedi del Monte Ferrante, cima che svetta su Colere. A causa della natura carsica del suolo, permeabile all’acqua, l’invaso artificiale dovrà essere impermeabilizzato tramite materiali plastici e potrà venire alimentato solo dalle piogge.

    Un’altra incognita riguarda i costi, che secondo Orobievive saranno ben superiori alle previsioni. “Rsi indica un aumento dei costi del 36% dichiarati per il versante Val Sedornia e Lizzola -denuncia Borroni- e questo bilancio non comprende la sostituzione degli impianti destinati a durare fino al 2084 e quelli di dismissione per quando gli impianti arriveranno inevitabilmente a fine vita. Per non parlare poi dei costi per innevare artificialmente i 40 chilometri di piste che sono stimati essere al di sopra del milione di euro l’anno. Questo turismo rischia solo di far aumentare il costo della vita per gli abitanti della valle e paradossalmente accelerare il fenomeno dello spopolamento di questi Comuni montani”.

    Una simile posizione è quella di terreAlt(r)e. “Non siamo contrari per principio a un rinnovamento degli impianti di risalita, se questo fosse limitato e su territori già antropizzati -spiega Nicola Mazzucchini di terreAlt(r)e-. Ma il nuovo progetto, oltre a non essere sostenibile da un punto di vista climatico (la società Rsi ha calcolato che sono necessari 120 giorni di innevamento l’anno, un numero difficile da raggiungere per colpa del cambiamento climatico), non aiuterà neanche a fermare lo spopolamento delle valli. I nuovi impianti non daranno lavoro a più di dieci persone e le infrastrutture della valle, come alberghi e strade, non sono adatte a sostenere un turismo di massa”.

    Infine, il nuovo collegamento sciistico si baserebbe, secondo gli oppositori, su un modello di sviluppo turistico obsoleto e non più sostenibile. La sezione della Val di Scalve del Club alpino italiano (Cai) ha espresso critiche e perplessità sulla sostenibilità sociale, sostenendo invece la necessità di promuove una forma di turismo alternativa. “La nostra contrarietà non riguarda solamente gli aspetti economici e sociali -afferma Loris Bendotti consigliere Cai Val di Scalve- ma soprattutto l’aspetto sociale. Il cambiamento climatico sta rendendo lo sci, specie a quote così basse, non sostenibile. Da anni proponiamo forme di turismo alternativo e lento, come il cammino della Via Decia. Infine, non condividiamo l’idea che lo spopolamento delle vallate alpine si combatta solo tramite il turismo, specie se di massa. La Val di Scalve gode di solide realtà imprenditoriali che andrebbero valorizzate, magari con gli stessi fondi pubblici che invece verranno destinati ai nuovi impianti”.

    https://altreconomia.it/lassalto-alle-terre-alte-e-il-progetto-del-comprensorio-sciistico-coler
    #montagne #Alpes #ski #Italie #anthropisation #neige_artificielle #Orobievive #résistance #Lizzola #Colere #biodiversité #terreAlt(r)e

  • #Publish_or_perish”. Per ridere e riflettere sul mondo accademico

    Il gioco inventato da #Max_Hui_Bai è una satira ma anche un modo per far emergere le difficoltà dei ricercatori per stare al passo con le tempistiche di pubblicazione. Con la speranza che la loro condizione possa migliorare.

    “Benvenuti nella vita caotica dell’editoria accademica. In questo gioco, sei un ricercatore senza prospettive che cerca di fare l’unica cosa che conta: sfornare pubblicazioni, velocemente”. Sono le premesse del gioco da tavolo “Publish or perish. Un party game umoristico sulla pubblicazione accademica” realizzato e prodotto da Max Hui Bai, ricercatore e psicologo sociale indipendente, in cui i giocatori si danno battaglia a colpi di citazioni, pubblicazioni, workshop e convegni per prevalere come ricercatori e studiosi di successo. Un’occasione per divertirsi ma anche per riflettere sulle difficoltà affrontate ogni giorno da chi lavora nel mondo accademico. E forse portare a un cambiamento.

    “Il termine ‘Publish or perish’ si usa per indicare il fatto che, se si vuole sopravvivere nel mondo accademico, la valuta più importante è la quantità di articoli e ricerche che si riescono a produrre -racconta Max Bai ad Altreconomia-. Devi avere molte pubblicazioni, idealmente su riviste prestigiose. Ma allo stesso tempo un lavoro accademico può richiedere molto tempo e risorse e non sempre portare ai risultati sperati”. Può capitare che uno studioso resti bloccato per molto tempo in un lavoro i cui risultati non siano utilizzabili ma in quello stesso periodo di tempo sarà giudicato dal mondo accademico sul numero di pubblicazioni e di citazioni ottenute. Ma che cosa succede a chi non riesce a stare al passo con le tempistiche di pubblicazione richieste? “Si va incontro a una lenta ‘morte accademica’, cioè si avrà difficoltà a ottenere fondi e finanziamenti, avanzare nella propria carriera o ottenere una posizione di successo”, prosegue Bai. Un problema che è stato aggravato dalla pandemia da Covid-19. “Il settore universitario e della ricerca è stato colpito duramente ma non in modo uniforme. Le facoltà e gli studiosi che disponevano di maggiori risorse sono stati in grado di superare meglio questa crisi, ma chi non aveva questi fondi ha avuto forti difficoltà a pubblicare”.

    Lo scopo del gioco è proprio questo: ottenere il maggior numero possibile di citazioni attraverso la pubblicazione di articoli scientifici dai titoli bizzarri e improbabili come “Pattern di procrastinazione nel mondo accademico: un caso studio su me stesso”. Ricevendo in cambio citazioni, premi e recensioni. I giocatori possono accumulare riconoscimenti ma anche ostacolarsi a vicenda e allearsi. Fintanto che il giocatore con più riconoscimenti accademici non verrà eletto vincitore.

    Max Bai ha avuto l’idea di sviluppare “Publish or perish” durante una serata di giochi di ruolo tra colleghi. Il ricercatore si è reso conto che anche la vita accademica aveva aspetti interessanti e che potevano diventare oggetto di satira. Il gioco infatti contiene diversi elementi parodistici. Ad esempio le regole impongono che quando un giocatore “pubblica una ricerca” gli altri partecipanti gli devono tributare un applauso e fargli i complimenti. E chi non lo fa riceve una penalità.

    Chi ha potuto provare il gioco in anteprima ha espresso pareri per lo più favorevoli. Un successo sottolineato anche dalla campagna di raccolta fondi sul sito Kickstarter che ha raccolto oltre 260mila dollari (al 16 ottobre) su un obiettivo base di cinquemila. “Le persone hanno apprezzato il gioco per diversi motivi: alcuni accademici ne hanno visto una satira del loro mondo, altri un modo per comunicare a persone esterne le loro difficoltà quotidiane -prosegue Bai-, e alcuni hanno semplicemente apprezzato i quiz e le curiosità scientifiche proposte”. Infatti tra le carte del gioco ve ne sono ben cento che contengono domande a risposta multipla su curiosità scientifiche e di cultura generale (lo sapevate che il cervello è l’organo più grasso del corpo umano e che i polpi hanno il “sangue blu”?) a cui i giocatori possono rispondere per ottenere bonus.

    Lo scopo di “Publish or perish” però non è solo quello di divertire ma anche di lanciare un messaggio e denunciare una situazione che per molti sta diventando sempre più insostenibile. Un primo passo, secondo il ricercatore, consiste proprio nel superamento di un sistema che porta gli studiosi a essere valutati esclusivamente in base alle loro pubblicazioni. Dando maggior risalto ad altre attività e finalità che si possono intraprendere, al di fuori della ricerca, come iniziative sociali o attività di tutoraggio accademico.

    “Ho creato questo gioco anche per fare in modo che le persone che lo usano si fermino a riflettere sulla realtà del mondo accademico e magari fare qualcosa per cambiarlo -conclude il ricercatore-. Anche se so che questo gioco non avrà impatti rivoluzionari spero che spinga a dedicare più tempo alla riflessione e che infine porti il mondo accademico a cambiare in meglio”.

    https://altreconomia.it/publish-or-perish-per-ridere-e-riflettere-sul-mondo-accademico
    #édition_scientifique #ESR #recherche #université
    #jeu #satire #publications #citations #impact_factor #H-index

  • Rimpatri “volontari” dalla Libia? Non con i soldi italiani. Il ricorso contro Oim e Farnesina

    Diverse realtà chiedono la sospensione dell’uso di quasi un milione di euro per i rimpatri cosiddetti volontari da parte del ministero degli Esteri. “Si nascondono espulsioni mascherate che violano il principio di #non-refoulement e gli obblighi di protezione di minori e persone sopravvissute a tratta, tortura e violenza di genere”. L’attività dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni.

    L’appuntamento è per l’8 gennaio 2025: è la data dell’udienza cautelare davanti al Tar del Lazio per il ricorso presentato da una serie di organizzazioni (Asgi, ActionAid, A Buon Diritto, Lucha y Siesta, Differenza Donna, Le Carbet e Spazi Circolari) contro il nuovo finanziamento del ministero degli Esteri all’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) per i programmi di “#rimpatrio_volontario_assistito” dalla Libia verso i Paesi di origine.

    Il Tribunale amministrativo dovrà esprimersi sulla richiesta di sospensione in via cautelare dell’uso dei fondi. Quasi un milione di euro per i rimpatri cosiddetti volontari dietro cui, per le organizzazioni, “si nascondono espulsioni mascherate che violano il principio di non-refoulement e gli obblighi di protezione di minori e persone sopravvissute a tratta, tortura e violenza di genere”.

    Il finanziamento al centro del ricorso ammonta a 970mila euro per 24 mesi, dal primo luglio 2024 al 30 giugno 2026. I fondi fanno parte di un totale di sette milioni stanziati per il “Multi-sectoral support for vulnerable migrants in Libya”, realizzato da Oim attraverso le risorse del Fondo migrazioni della Farnesina.

    Tra i risultati previsti c’è appunto il rimpatrio di 820 migranti vulnerabili dalla Libia verso i Paesi di origine: meno di 1.200 euro a testa. Un altro milione e mezzo (1.480.000 euro) viene stanziato per la “reintegrazione”.

    Le attività promosse attraverso il Fondo migrazioni “devono rispettare le norme europee e internazionali in materia di diritti fondamentali”.

    C’è un ma. “Molti migranti in Libia, in particolare quelli nei centri di detenzione, non sono in grado di prendere una decisione veramente volontaria di rimpatrio in conformità con il diritto e gli standard internazionali sui diritti umani, incluso il principio del consenso libero, preventivo e informato”, si legge in un rapporto del 2022 dell’Ufficio dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i Diritti umani (Ohchr), “Nowhere but Back” (https://www.ohchr.org/en/documents/reports/nowhere-back-assisted-return-reintegration-and-human-rights-protection-migran).

    Sulle violazioni dei diritti umani in Libia -detenzione arbitraria, tortura, maltrattamenti, violenze sessuali, sparizioni forzate, estorsioni- si versano poi da ancor più anni fiumi di inchiostro.

    “I migranti sono spesso costretti ad accettare il rimpatrio assistito”, si legge ancora. Anche perché “viene loro di fatto negato l’accesso a percorsi di protezione sicuri e regolari, incluso l’asilo”. Condizioni che insomma creano “un ambiente coercitivo che è spesso incoerente con la libera scelta”, scrivono le Nazioni Unite.

    Anche l’Organizzazione internazionale per le migrazioni fa parte del sistema delle Nazioni Unite. Nella proposta di progetto del 2024, quella finanziata con i fondi governativi al centro del ricorso, Oim scrive che “solo nel 2023, 9.370 migranti sono stati supportati per tornare in 26 Paesi di origine in Africa e Asia attraverso il programma Vhr dell’Oim Libia”.

    Il 43% “era in stato di detenzione al momento della loro identificazione e supporto e quasi il 7% era vittima di tratta”. Secondo i rapporti semestrali dell’Oim ottenuti con istanze di accesso civico generalizzato al ministero degli Esteri, tra il settembre 2021 e luglio 2024 sono state rimpatriate in tutto 1.826 persone: in Bangladesh e Ciad ma anche in Pakistan, Benin, Guinea Bissau, Sri Lanka, Congo, Iraq.

    Almeno 450 di loro (ma non tutti i report sono omogenei e contengono gli stessi dati nei differenti periodi) erano detenute in centri di detenzione prima del ritorno nei Paesi di origine. Vengono rimpatriate donne, minori, persone sopravvissute a tratta e a tortura e con ulteriori vulnerabilità. Non si sa quali siano i centri di detenzione libici né le località da cui vengono eseguiti i rimpatri.

    E ancora. Nel progetto precedente, implementato tra settembre 2017 e aprile 2021, il finanziamento totale ammontava a 20 milioni dal cosiddetto “Fondo Africa”, di cui 11 per rimpatri e reintegrazione di 20mila persone: 550 euro a testa. Torneranno “a casa loro” -c’era il Covid-19 in mezzo- in 8.928: 7.162 uomini e 1.766 donne; 6.827 persone vengono dai centri di detenzione libici: il 76,5%.

    Tra i rimpatriati ci sono 117 minori, 59 vittime di tratta, 202 casi medici. Tra le nazionalità principali delle persone rimpatriate figurano la Nigeria, il Mali, la Somalia e l’Eritrea, Paesi –scrivono le associazioni ricorrenti– “in cui il rimpatrio, in assenza di adeguate garanzie, rischia di violare il principio di non-refoulement”.

    “A essere rimpatriate sono soprattutto donne sottoposte a tratta di esseri umani”, dice ad Altreconomia Simona Ammerata della casa delle donne e centro antiviolenza romano Lucha y Siesta. “Donne che sono andate via da Paesi dove esiste una questione legata alla violenza di genere drammatica e profonda. Un buon numero di rimpatri avviene dai centri di detenzioni libici: così diventa l’unico modo per sottrarsi alla detezione arbitraria, alla violenza sessuale, alla tortura. A tutti gli abusi che avvengono sia nei centri di detenzione sia in generale in Libia”.

    È forte “la coercizione”, forte la “violenza diffusa e strutturale”: il rimpatrio, aggiunge Ammerata, “non può essere definito volontario. Che effetto ha su donne o persone sottoposte a violenza basata sul genere? I programmi di reintegrazione prevedono perlopiù piccoli contributi economici che incidono sul piano personale, con cui magari aprire un negozio di parrucchiera. Ma non sul contesto in cui sono discriminate in modo strutturale, hanno scarso accesso a reddito, lavoro e diritti civili e sociali. I programmi di rimpatrio si collocano all’interno delle politiche di esternalizzazione che bloccano la possibilità di arrivare in Europa e vanificano la migrazione come strategia di fuoriuscita dalla violenza che molte donne adottano come possibilità di sottrazione e sopravvivenza”.

    https://altreconomia.it/rimpatri-volontari-dalla-libia-non-con-i-soldi-italiani-il-ricorso-cont

    #Libye #Italie #renvois #expulsions #rapatriements #rapatriements_volontaires #OIM #IOM #aide_financière #externalisation #migrations #réfugiés #justice #réintégration #femmes #violence

  • Andrea Di Michele. Il segno coloniale

    Dopo decenni di rimozione collettiva, l’epoca delle colonie italiana viene oggi riletta in chiave critica. Di Michele, professore di Storia contemporanea a Bolzano, delinea le fasi di un passato ancora presente nelle piazze e nelle vie.

    Monumenti, mausolei, bassorilievi, intitolazioni di vie: le tracce del colonialismo italiano sono presenti ancora oggi in molte città. Negli ultimi anni il dibattito culturale e politico si è interrogato su come intervenire su queste opere. Lo storico Andrea Di Michele vede nelle iniziative di ricontestualizzazione la possibilità di leggere criticamente l’epoca coloniale italiana e di fornire alla cittadinanza gli strumenti per conoscere e approfondire questo periodo che costituisce una delle pagine più buie della storia del nostro Paese.

    Professor Di Michele, in quale cornice temporale si ascrive l’epoca coloniale italiana?
    ADM Si tende erroneamente a fare coincidere il colonialismo italiano con il fascismo, mentre il suo inizio si colloca immediatamente dopo l’unificazione del Paese e più precisamente nel 1869 con l’acquisto della baia di Assab, in Eritrea, da parte di una compagnia di navigazione privata. Nei primi anni Ottanta dell’Ottocento questo avamposto venne poi acquistato dallo Stato italiano e nel 1885 l’occupazione di Massaua segnò l’inizio dell’esperienza coloniale statale italiana.

    Come si sviluppò questo primo periodo coloniale?
    ADM In questa fase l’Italia fece i conti con i suoi limiti, subendo molte sconfitte. Nel 1887, a Dogali, cercò di espandere senza successo la propria posizione, arrivando a contare cinquecento morti tra le proprie fila. Ancora più pesante fu la sconfitta di Adua, in Etiopia, nel 1896: i morti italiani furono migliaia, il Governo Crispi cadde e la politica coloniale si arrestò temporaneamente per riprendere nel 1911 con la guerra di Libia.

    L’avvento del fascisco cambiò le cose?
    ADM Benito Mussolini ampliò le conquiste dell’Italia liberale e lo fece con una violenza inaudita nei confronti della popolazione civile. Ad esempio per invadere definitivamente la Cirenaica, all’inizio degli anni Trenta, più di un terzo della popolazione di questo territorio -circa 100mila persone- venne deportata e rinchiusa in veri e propri campi di concentramento con una tasso di mortalità spaventosa. Nel 1937, il fallito attentato a Rodolfo Graziani, a quel tempo viceré di Etiopia, scatenò una vera e propria caccia all’uomo che provocò migliaia di morti. Non va poi dimenticata la legislazione che portò alla “zonizzazione”, ovvero a un sistema di apartheid con aree separate per bianchi e neri.

    Il 1869 è stato l’anno in cui gli storici collocano l’inizio del colo-nialismo italiano che coincide con l’acquisto della baia di Assab, in Eritrea, da parte di una compagnia di navigazione privata

    La caduta del fascismo sancì una rottura con l’epoca coloniale?
    ADM No. Dopo il 1945 l’Italia cercò di mantenere il controllo dei territori che deteneva prima del fascismo. Vi fu anche una netta continuità nell’amministrazione pubblica: fino al 1953 ha operato il ministero dell’Africa italiana, in cui lavorava chi aveva le “competenze” giuste, ovvero chi aveva lavorato nel Paese fino a poco prima.

    Quando si è iniziato a guardare al passato coloniale italiano con uno sguardo critico?
    ADM L’immagine di un colonialismo italiano sostanzialmente un po’ “all’acqua di rose” ha resistito a lungo. Solo a partire dagli anni Ottanta una nuova generazione di studiosi si è interrogata sul ruolo dei fenomeni profondamente razzisti che avevano caratterizzato la storia d’Italia. Si sono ricostruite quindi le gravi responsabilità italiane nelle colonie, ad esempio per quanto riguarda l’uso dei gas, per molti anni negato. Poi dagli archivi militari sono emersi i documenti ufficiali, in molti casi tenuti prima volutamente nascosti, e con loro la verità storica.

    Secondo lei perché questo processo è stato così lento e osteggiato?
    ADM La politica della memoria è un tema molto caldo che rimanda spesso a dinamiche a livello nazionale e locale. Va inoltre sottolineato il ruolo giocato dalla presenza di forze politiche che non hanno mai rinnegato il passato fascista e coloniale. In questo senso è interessante monitorare cosa avviene nelle singole Regioni e nei Comuni, dove ancora oggi una determinata maggioranza politica e un certo clima consentono di intitolare monumenti e vie a personaggi che ebbero un ruolo drammatico in quel periodo storico.

    Ci può fare un esempio?
    ADM A Filettino, in provincia di Roma, nel 2012 è stato dedicato un mausoleo a Rodolfo Graziani. L’amministrazione comunale di destra si è giustificata dicendo di voler ricordare il proprio concittadino che fece “anche cose buone”.

    Che cosa fare con l’eredità architettonica e odonomastica del colonialismo?
    ADM Credo che la strada da percorrere non sia l’eliminazione di queste opere, ma la loro ricontestualizzazione. Ci sono, ad esempio, diversi progetti di mappatura dell’odonomastica, che coniugano ricerca e attivismo. Penso al caso di Bologna, dove “Resistenze in Cirenaica” (resistenzeincirenaica.com) ha operato una ridenominazione -non ufficiale ma parallela- delle vie, intitolandole a partigiani e ad altri personaggi politici e non della città. Un esempio forse unico è poi quello di Bolzano, con la risignificazione del Monumento alla Vittoria e del bassorilievo con il duce a cavallo.

    Di che cosa si tratta?
    ADM Il primo è un monumentale complesso marmoreo costruito tra il 1926 e il 1928, che celebrava la vittoria italiana sull’Austria-Ungheria nella Prima guerra mondiale. La seconda opera andò a decorare la “Casa Littoria”, sede del Partito nazionale fascista ed è costituita da 57 pannelli di larghezza variabile, alti 2,75 metri, posti su due file sovrapposte, per uno sviluppo lineare di 36 metri e una superficie di 198 metri quadrati.

    Quale intervento è stato fatto su queste due opere?
    ADM Nel 2011, un accordo tra Stato, Provincia e Comune di Bolzano ha previsto di accompagnare il restauro del Monumento con un intervento di contestualizzazione storica. Si è deciso di aprire al suo interno uno spazio museale su Bolzano, l’Alto Adige e i totalitarismi che ne hanno segnato la storia e di apporre all’esterno un segno visibile, che si è tradotto in un anello a led con un testo luminoso rotante recante la scritta “Un Monumento, una città, due dittature. Un percorso espositivo” intorno a una delle colonne dei fasci littori. Opposto è stato invece quanto fatto sul bassorilievo.

    “La strada da percorrere non è l’eliminazione delle opere, ma la loro ricontestualizzazione. Ci sono diversi progetti di mappatura dell’odonomastica, che coniugano ricerca e attivism0″

    Ovvero?
    ADM In questo caso l’equilibrio tra opera visiva e approfondimento storico è stato ribaltato. Si è scelto di privilegiare il linguaggio visivo ed emozionale, apponendo davanti al bassorilievo una frase di Hannah Arendt in tre lingue, italiano, tedesco e ladino: “Nessuno ha il diritto di obbedire”. Contestualmente nella piazza di fronte all’opera è stato realizzato un intervento di approfondimento storico con dei pannelli esplicativi.

    Che cosa ha reso possibile questo tipo di operazione a Bolzano?
    ADM La ricontestualizzazione di queste opere è avvenuta perché erano monumenti che continuavano a rappresentare un elemento di divisione e tensione tra i gruppi di lingua italiana e tedesca. Quello che per decenni ha rappresentato un problema quindi si è trasformato in una possibilità di apprendimento e approfondimento e, al contempo, il tema del monumentalismo fascista ha perso la sua carica divisoria.

    Questo intervento locale ha sortito qualche effetto a livello nazionale?
    ADM La stampa ha acceso i riflettori sul “caso-Bolzano” che però a oggi resta un esempio unico. Forse non è nemmeno necessario fare un lavoro del genere dappertutto, ma almeno nei luoghi dove un monumento ha un impatto a causa delle sue dimensioni sì. Penso all’Obelisco di Mussolini a Roma, dove un intervento sarebbe auspicabile. Se ne potrebbero immaginare differenti da quelli di Bolzano, magari legati a installazioni artistiche o utilizzando le nuove tecnologie.

    A quali progetti sta lavorando attualmente?
    ADM Da qualche settimana ho iniziato “Curating fascism”, un progetto in collaborazione con la facoltà di Design. Ho scritto un testo immaginando una passeggiata sulle tracce del colonialismo a Bolzano a partire dal retro del Monumento alla Vittoria, quindi la Colonna romana, le iscrizioni dei palazzi di Piazza Vittoria, le vie intitolate a personaggi e luoghi di quell’epoca come Reginaldo Giuliani e la battaglia dell’Amba Alagi. L’idea è di realizzare una pubblicazione in cui testo e immagini si combinino così da offrire alla cittadinanza e a chi visita la città una guida per conoscere i suoi monumenti, la loro storia e il loro significato.

    https://altreconomia.it/andrea-di-michele-il-segno-coloniale

    #toponymie #toponymie_coloniale #Italie #passé_colonial #présent_colonial #colonialisme_italien #Italie_coloniale #traces #recontextualisation #Erythrée #histoire_coloniale #Libye #fascisme #camps_de_concentration #Rodolfo_Graziani #Ethiopie #apartheid #zonizzazione #responsabilité #mémoire #politique_de_la_mémoire #Filettino #héritage #Bologne #Resistenze_in_Cirenaica #Bolzano #Monumento_alla_vittoria #Casa_Littoria #monuments #Reginaldo_Giuliani

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    Ajouté à la métaliste sur le colonialisme italien :
    https://seenthis.net/messages/871953

  • Il contratto fantasma tra #Medihospes e la prefettura di Roma per i centri in Albania

    A un mese dall’arrivo dei primi naufraghi a #Shëngjin e a più di sei dall’aggiudicazione della gara, l’ufficio del Viminale non ha ancora siglato il contratto con la cooperativa che si è aggiudicata il bando da oltre 133 milioni di euro. Un’anomalia amministrativa. Intanto 13 organizzazioni della società civile chiedono alle realtà medico-sanitarie di non rendersi “complici” del protocollo

    Solo un verbale di esecuzione in urgenza: tra la prefettura di Roma e Medihospes, la cooperativa sociale che ha vinto l’appalto da oltre 133 milioni di euro per la gestione dei centri per migranti in Albania, non è stato ancora siglato alcun contratto.

    A oltre un mese di distanza dall’arrivo delle prime 16 persone nei centri di Shëngjin e Gjadër ma soprattutto a più di sei mesi dall’aggiudicazione della gara pubblica. “Uno schema molto insolito”, osserva l’avvocata Maria Teresa Brocchetto, avvocata amministrativista e socia dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione.

    Secondo il codice degli appalti infatti è previsto che dal momento dell’aggiudicazione la stazione appaltante -in questo caso la prefettura di Roma- entro sessanta giorni stipuli il contratto con chi ha vinto la gara pubblica: un termine ampiamente superato dall’aggiudicazione da parte della Cooperativa sociale Medihospes del 16 aprile 2024. Un ritardo facilmente imputabile alle lungaggini dei lavori di allestimento dei centri, che hanno fatto slittare l’inaugurazione alla metà di ottobre. Sei mesi di limbo che non hanno però impedito alla cooperativa romana di procedere, da un lato, con l’apertura a metà luglio di più di cento posizioni lavorative e soprattutto con la creazione di una “succursale” albanese per la gestione dei centri. Il tutto sulla “fiducia”, senza alcun contratto firmato. Infatti a metà novembre la prefettura di Roma ha fatto sapere formalmente ad Altreconomia di non aver ancora stipulato né sottoscritto alcun contratto con la cooperativa aggiudicataria della gara.

    “Ritardare in questo modo la stipula del contratto contraddice apertamente il carattere d’urgenza che ha connotato tutta l’avventura albanese, a partire dalla decisione di indire una procedura negoziata senza pubblicazione di bando”, aggiunge Brocchetto. Da un punto di vista giuridico, l’aver superato i termini di legge potrebbe essere giustificato dalle deroghe al codice degli appalti previste espressamente proprio dal protocollo Italia-Albania che autorizza all’esecuzione dei contratti “anche in deroga ad ogni disposizione di legge diversa da quella penale”.

    Quello che dovrebbe essere stato siglato è una sorta di verbale d’urgenza con cui è stato riconosciuto a Medihospes, a partire dalla consegna delle strutture, l’importo “parametrato” sulla ridottissima capienza con cui il centro è stato aperto.

    “Una ‘deroga’ è per definizione un’eccezione e quindi quella al codice degli appalti, anche se ammessa dalla legge italiana di ratifica del protocollo Italia-Albania, deve essere giustificata dall’urgenza o comunque dall’impossibilità di attuarlo rispettando il codice e sempre comunque nei limiti strettamente necessari. Presupposti che non si comprendono in presenza di una procedura negoziata già conclusa con l’aggiudicazione”, spiega Francesca Dealessi, avvocata di Torino ed esperta di diritto amministrativo.

    Insomma, i punti interrogativi sono molti. “Sebbene l’area del Cpr e quella funzionante come carcere non siano ancora operative, tutto è già pronto per un potenziale utilizzo -spiega Francesco Ferri, esperto di migrazioni di ActionAid Italia, che ha visitato i centri albanesi insieme a una delegazione del Tavolo asilo e immigrazione e ad alcuni parlamentari-. Il centro di Gjäder è in piena fase di ampliamento: ho osservato un cantiere a cielo aperto, destinato a occupare una porzione sempre più vasta della campagna circostante il piccolo centro abitato”.

    Nel capitolato della gara d’appalto è prevista la possibilità di assicurare “una ricettività progressiva rispetto a quella massima prevista, nelle more del completamento dei lavori di allestimento degli stessi”. La latitanza della prefettura di Roma nel seguire questa via potrebbe anche essere legata alla “fragilità” del modello Albania, il cui funzionamento è stato nuovamente bloccato lo scorso 11 novembre quando il Tribunale di Roma non ha convalidato -per la seconda volta- il trattenimento di sette persone, sospendendo la decisione e rinviando alla Corte di giustizia dell’Ue a causa dei “vari profili di dubbia compatibilità con la disciplina sovranazionale”.

    Intanto Medici senza frontiere e altre 13 organizzazioni hanno lanciato un appello chiedendo a tutte le realtà medico-sanitarie di non rendersi “complici” del protocollo. Secondo i firmatari, l’intesa siglata tra Roma e Tirana “viola il codice di deontologia medica e i diritti umani e mette a rischio la salute fisica e psicologica delle persone migranti”. Durante le procedure di identificazione a bordo della nave militare Libra e delle motovedette italiani non sussisterebbero “le condizioni perché possa essere effettuata una valutazione adeguata dello stato di salute di una persona” anche per la mancanza di un ambulatorio medico e di stanze che garantiscono un’adeguata tutela della privacy.

    A conferma dell’inadeguatezza delle valutazioni medico-sanitarie in sede di primo assessment delle vulnerabilità l’Asgi ha ottenuto dal ministero dell’Interno le cosiddette Sop (Standard operating procedures) che descrivono le modalità con cui vengono condotte le attività di screening in mare e lo sbarco sulle coste albanesi.

    La “sequenza operativa” da seguire prevede esclusivamente una “valutazione dello stato di salute generale di ciascun migrante, volto all’identificazione di condizioni di interesse sanitario meritevoli di attenzione e/o di ulteriori condizioni di vulnerabilità”. Per individuare questi profili il funzionario di polizia a bordo, con l’aiuto del team dedicato al pre-screening, raccoglie informazioni sulle nazionalità dichiarate e “su eventuali vulnerabilità immediatamente rilevabili e sugli eventuali legami di parentela per individuare nuclei familiari”.

    “Non c’è una definizione della vulnerabilità di tipo sanitario e sociale -spiega il medico Nicola Cocco-. Inoltre non è chiaro da chi è costituito il team che comprende il personale sanitario e non viene mai menzionata la soggettività migrante come destinataria di una tutela, ma vengono fatte solo indicazioni generiche sulla ‘sicurezza’ a bordo”. Una procedura quindi che, come già successo, che rischia di concludersi con il trasferimento nei centri albanesi di persone vulnerabili e minori. Come previsto fin dall’inizio.

    https://altreconomia.it/il-contratto-fantasma-tra-medihospes-e-la-prefettura-di-roma-per-i-cent

    #Albanie #Italie #externalisation #migrations #réfugiés #accord #privatisation #coopérative #contrat #MoU #Gjadër #sous-traitance

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    ajouté à la métaliste sur l’#accord entre #Italie et #Albanie pour la construction de #centres d’accueil (sic) et identification des migrants/#réfugiés sur le territoire albanais...

    https://seenthis.net/messages/1043873

  • Turismo insostenibile. Per una nuova ecologia degli spazi del tempo libero

    L’overtourism è sinonimo di coste antropizzate, sci alpino succhia-risorse, città sovraffollate e borghi mercificati. Tra numero chiuso e sottrazione di spazi pubblici, urge una nuova ecologia degli spazi del tempo libero.

    A partire da un’analisi storica del turismo, Giuzio traccia l’evoluzione delle pratiche e delle abitudini dei viaggiatori nel corso dei decenni. Oggi il turismo globale ha causato gravi problemi, tra cui impatti ambientali negativi, sovraffollamento e il degrado di molte destinazioni.

    Questo fenomeno, noto anche come iperturismo, ha prodotto effetti devastanti, compromettendo gli ecosistemi locali e trasformando irreparabilmente il tessuto sociale e culturale delle comunità ospitanti.

    Tuttavia questo libro non si limita a evidenziare le criticità, ma propone soluzioni concrete e approcci alternativi per promuovere un turismo più equilibrato e rispettoso.

    Viene sottolineata l’importanza di un approccio olistico che tenga conto dell’impatto ambientale, sociale ed economico delle attività turistiche. L’autore suggerisce strategie per ridurre l’impronta ecologica del turismo, partendo da riforme legislative, come la rinaturalizzazione delle spiagge e i limiti alla mobilità inquinante, fino a promuovere scelte consapevoli che ogni individuo può adottare.

    https://altreconomia.it/prodotto/turismo-insostenibile

    #overtourisme #tourisme #surtourisme #tourisme_de_masse #livre

  • #Frontex spends half a billion on aerial surveillance, new research shows more involvement in pullbacks

    On the 20th anniversary of the founding of Frontex, new details about its complicity with the Libyan Coast Guard have come to light. Activists and lawyers are protesting and taking legal action.

    The European border agency Frontex has invested over €500 million in aerial surveillance in the Mediterranean region since 2017. This is reported by the Italian newspaper “Altreconomia” and complements new investigations by the Liminal research project. Its research shows that the surveillance equipment is not used to protect people at sea, but to force them back to Libya or Tunisia.

    Liminal was founded two years ago at the University of Bologna for the forensic investigation of border violence. In an exhibition currently on display in Paris, Liminal documents at least 240 new cases in which Frontex reconnaissance flights specifically reported boats in the central Mediterranean to the Libyan or Tunisian Coast Guards, who then took the refugees back to the North African countries against their will. Between 2019 and 2023 alone, over 27,000 people were affected by such pullbacks.

    Liminal’s research is based on 319,000 data records from the “Joint Operation Reporting Application” (JORA), Frontex’s internal database system. This is where the agency records all of its activities, including in the central Mediterranean. In a total of 473 cases, Frontex detected boats carrying refugees on their way to Europe before Libyan or Tunisian units intercepted them and forced them to return. The research shows that these routines are not random, but that the reconnaissance flights as part of the Frontex operation “Themis” are used strategically for migration defence.

    A significant part of Frontex’s surveillance work is carried out by drone missions. Among others, the border agency uses two “Heron” drones, produced by the Israeli defence company Israel Aerospace Industries, which are also used for military purposes in the Gaza Strip. One of these drones is stationed in Malta and another in Crete. Frontex tested another drone from Israel in 2019, but this “‘Hermes”’ suffered a total loss after a few months.

    Using JORA datasets from 2016 onwards, the Liminal researchers were able to reconstruct a significant number of cases in which the Frontex surveillance service recorded boats before they were turned back to Libya or Tunisia. These pullbacks are carried out in cooperation with the Libyan Coast Guard, which has received financial and organisational support from the EU since 2017.

    A new set of JORA data requested by Liminal via a Freedom of Information request shows that surveillance teams in Warsaw, where Frontex is based, analyse images in real time and make decisions on who to notify for pullbacks in North Africa. For Operation “Themis” alone, Liminal documented 473 previously unknown cases in which boats were discovered by Frontex and then pulled back to Libya or Tunisia.

    “The chain of responsibility in these operations is extremely complex”, Giovanna Reder from Liminal emphasises to “nd”. The information gathered by aircraft and drones passes through several instances, from Warsaw to the operations control centres in Italy, Malta and Greece.

    Liminal shows how Frontex conceals the pullbacks by systematically labelling the operations in the JORA datasets as “prevention of departures”. “Frontex is thus continuing a trend that we have been observing for a long time”, says Reder. Accordingly, the agency is also becoming increasingly non-transparent and is disclosing less and less data in response to requests under the Freedom of Information Act.

    The Libyan Coast Guard has long been suspected of severely mistreating intercepted persons and detaining and abusing them in prisons under conditions that violate human rights. Despite ample evidence of the catastrophic conditions in Libyan camps, Frontex has so far shown no inclination to end its cooperation with the Coast Guard. On the contrary: Frontex’s monitoring capacities have been massively expanded in recent years.

    However, Article 46 of the Frontex Regulation, which is relevant to human rights issues, requires the agency to stop such operations if they promote human rights violations, as in Libya or Tunisia, which encourages pogroms against refugees and abandons them in the desert.

    In response to this practice, which violates international law, the legal organisation Front-Lex, together with the group Refugees in Libya, has taken legal action against Frontex before the European Court of Justice. A plaintiff from Sudan, who has been living in Libyan detention under dangerous conditions since 2019, accuses Frontex of having facilitated his forced repatriation and subsequent torture in Libya by sharing location data.

    Front-Lex lawyer Ifatch Cohen demands on behalf of the plaintiff that Frontex take the protection of human rights seriously. In his argumentation, he refers to EU law, according to which the indirect promotion of human rights violations is not permitted. There is already sufficient evidence of Frontex’s co-responsibility for crimes against humanity in Libya, explains Cohen when asked by “nd”. What is needed is not more evidence, but a competent court that grants Frontex victims access to legal protection. “We hope that judge Maria José Costeira will finally allow our case to proceed”, said the lawyer.

    The 24 October 2024 was the 20th anniversary of the founding of Frontex. There were demonstrations, events and actions in several cities in Europe and Africa, including Brussels, Berlin, Bregenz, Innsbruck, Calais and Dakar.

    The Alarm Phone network, which consists of hundreds of volunteers and celebrated its tenth anniversary in October, also met in the Senegalese capital at the beginning of October. Refugees on the Mediterranean can use the emergency number to ask for help. The Alarm Phone forwards these messages to the relevant maritime rescue centres in the central Mediterranean.

    For 3,650 days and nights, they have been on duty, the network explains. During this time, the activists have been alerted to over 8,000 boats “from all corners of the Mediterranean Sea, the Atlantic region or the English Channel”.

    https://digit.site36.net/2024/10/31/frontex-spends-half-a-billion-on-aerial-surveillance-new-research-show
    #pull-backs #Libye #migrations #réfugiés #complexe_militaro-industriel #surveillance_aérienne #Méditerranée #mer_Méditerranée #drones #complexe_militaro-industriel #Joint_Operation_Reporting_Application (#JORA) #Themis #opération_Themis #Heron #Israel_Aerospace_Industries #chaine_de_responsabilité #prévention_des_départs #gardes-côtes_libyens

    • Oltre 27mila naufraghi respinti in Libia e Tunisia grazie a Frontex. La nuova ricerca di Liminal

      Il gruppo di ricerca del centro con sede a Bologna ha analizzato 319mila “stringhe” del database Jora, nel quale l’Agenzia europea registra le proprie attività. Incluse quelle di sorveglianza sul Mediterraneo: in almeno 473 casi le imbarcazioni sono state avvistate prima dell’intervento delle milizie libiche e dei guardiacoste tunisini. Anche grazie all’Heron drone prodotto dalla Israeli aerospace industries, lo stesso utilizzato per le operazioni militari sulla Striscia di Gaza

      L’Agenzia europea Frontex ha collaborato al respingimento verso Libia e Tunisia di almeno 27.288 naufraghi tra il 2019 e il 2023. Lo rivela uno studio inedito realizzato dal progetto Liminal, centro di ricerca con sede a Bologna, visionato in esclusiva da Altreconomia. “In 473 casi l’Agenzia ha individuato la barca tramite i suoi mezzi di sorveglianza prima che questa venisse bloccata dai guardiacoste libici e tunisini -spiega Lorenzo Pezzani, direttore di Liminal-. Non sono ipotesi o accuse rivolte da Ong ma la stessa Frontex che nei suoi database implicitamente ammette che è stata protagonista di queste operazioni”.

      È la prova che la sorveglianza aerea sul Mediterraneo, a cui l’Agenzia ha destinato oltre 500 milioni di euro di budget tra il 2017 e il 2023, non ha come obiettivo il salvataggio delle persone in mare ma quello di evitare che queste arrivino in Europa. Una “verità” che emerge dalle oltre 319mila “stringhe” ottenute e analizzate da Liminal del database in cui Frontex registra le informazioni relative a tutte le sue attività, comprese quelle dei droni. Tra cui anche l’Heron drone, fornito dall’Israel aerospace industries, che oggi viene utilizzato dall’esercito israeliano per le operazioni militari sulla Striscia di Gaza.

      Liminal si è concentrata sui dati contenuti nel Joint operation reporting application (Jora), un database in cui dal 2011 Frontex registra tutti gli eventi di attraversamento irregolare dei confini di cui viene a conoscenza. Le “stringhe” registrate dal settembre 2016 al settembre 2021 sono state ottenute dal giornalista Emmanuel Freudenthal e contenevano con esattezza i luoghi in cui si trovavano le barche nel momento in cui sono state individuate e in molti casi il porto finale di sbarco: in 197 casi le operazioni si concludono con un respingimento verso Libia e Tunisia. Sui dati dal 2021 al 25 gennaio 2023, Frontex ha fornito i dati con ancora meno dettagli, soprattutto con riferimento al porto finale di sbarco. Il motivo? “Comprometterebbe la protezione dell’interesse pubblico”. O forse il rischio di essere chiamati a rispondere delle proprie azioni.

      Infatti, nonostante l’assenza di quelle informazioni, il gruppo di ricerca ha ricostruito incrociando diverse informazioni contenute nel file almeno 218 casi in cui le barche sono state avvistate dagli assetti aerei dell’Agenzia prima che fossero respinte verso le coste libiche e tunisine. Questi eventi sarebbero però solo la punta dell’iceberg:. Dal 25 gennaio 2023 al 2024, infine, l’Agenzia ha negato a Liminal la possibilità di accedere alle informazioni a causa di “nuovi metodi operativi” per cui la divulgazione di questi dati “ostacolerebbe l’efficacia delle operazioni di Frontex”.

      Analizzando l’enorme database di Jora, poi, Liminal ha individuato un’altra criticità. Nel periodo fra gennaio 2021 and gennaio 2023 viene introdotta una nuova operazione, “Fsc aerial surveillance”, in cui sono presenti 1.580 casi per i quali come “reporting country” viene indicata la Polonia. L’Fsc è il Centro di sorveglianza che si trova a Varsavia, sede centrale di Frontex, in cui i membri dell’European monitoring team (Emt) analizzano le immagini trasmesse in tempo reale dai velivoli dell’Agenzia. Di questo team fanno parte anche membri delle forze dell’ordine dei Paesi membri, tra cui anche la Guardia di finanza e la Guardia costiera italiana. Fra tutti i casi categorizzati come “FSC aerial surveillance”, i ricercatori di Liminal sono riusciti a individuarne 240 che sono elencati anche come casi di avvistamento avvenuti nell’ambito dell’ operazione Themis che Frontex conduce nel Mediterraneo Centrale, e che si poi sono conclusi con un respingimento. “Anche se in assenza di altri dati non ci è ancora possibile dire molto di più su questi casi, sono tuttavia interessanti perchè rivelano la complessa catena decisionale che caratterizza queste operazioni -spiega la ricercatrice di Liminal Giovanna Reder-. Le informazioni trasmesse da un veivolo che vola a pochi chilometri dalla Libia vengono inviate tramite satellite ai piloti di Airbus che stanno a Malta, alla operation room di Varsavia e anche ai vari centri di sorveglianza degli stati membri coinvolti: tutta questa catena di informazioni è opaca e difficile da ricostruire. Quando avviene un avvistamento, chi è che decide che cosa fare e chi contattare, e in base a quali criteri? Rispondere a queste domande è decisivo sotto l’aspetto della responsabilità”, aggiunge Pezzani.

      In decine di casi, inoltre, Liminal ha incrociato i dati del database con quelli resi pubblici dalle Ong tra cui Alarmphone. “Questo ci aiuta a recuperare quelle informazioni che Frontex ha oscurato nel fornirci le stringhe di Jora -aggiunge Reder-. E anche a marcare le differenze tra come l’Agenzia registra le informazioni, penso al numero dei morti, da quella che poi è la realtà sul campo denunciata dai naufraghi alle Ong”. Tra i casi analizzati c’è quello di un’imbarcazione avvistata il 4 gennaio 2023 quando secondo la posizione inviata ad Alarmphone era già nella zona di ricerca e soccorso maltese: Frontex registra quell’evento nel database, quindi è a conoscenza di dove si trovi, ma i naufraghi vengono con molta probabilità intercettati e respinti dalla cosiddetta guardia costiera libica. “Viene registrata come attività di ‘prevention departure’ che in linguaggio burocratico è la maschera per classificare un respingimento”.

      Questa nuova ricerca di Liminal segue quella pubblicata nell’agosto 2022 in collaborazione con Human rights watch (Hrw) dal titolo “Airborne complicity” in cui grazie a documenti inediti si ricostruiva una “chiara correlazione” tra i voli di Frontex e il tasso di intercettazioni da parte della Guardia costiera libica. “Un andamento che suggerisce e rinforza il fatto che vi sia una collaborazione sistematica tra l’Agenzia e le ‘milizie libiche’, come tra l’altro è emerso anche in diverse inchieste giornalistiche”, sottolinea Reder. E come ha ammesso anche lo stesso direttore esecutivo di Frontex Hans Leijtens che nel febbraio 2024 ha ammesso che in almeno 2.200 casi la posizione delle imbarcazioni è stata inviata alla Guardia costiera libica tra il 2020 e il 2023.

      Anche a seguito di quelle dichiarazioni, le Ong Front-Lex e Refugees in Libya hanno deciso di portare Frontex di fronte alla Corte di giustizia dell’Unione europea per chiedere ai giudici di fermare la collaborazione con le autorità libiche. Il ricorrente è un 29enne di origini sudanesi, malato di diabete, bloccato in Libia dal 2019 e oggi in grave pericolo anche per la sua condizione di salute. “Il fatto che Frontex condivida la posizione con le milizie libiche riduce le possibilità che lui raggiunga l’Europa e lo espone a tortura e trattamenti degradanti -spiega Ifatch Cohen, avvocato che per Front-lex ha promosso la causa-. Diversi rapporti provano come tutti coloro che vengono respinti subiscono detenzione arbitraria e sono quindi sottoposti alla violazione dei loro diritti basilari”. In questo quadro, l’Agenzia dovrebbe fermare di condividere le informazioni ottenute attraverso i suoi velivoli. “Non è necessario che la sua attività provochi direttamente le lesioni subite dal ricorrente: l’articolo 46 del regolamento prevede infatti che le operazioni vengano fermate anche qualora favoriscano anche indirettamente la violazione dei diritti umani”, aggiunte l’avvocato Cohen.

      Gli avvocati hanno chiesto alla Corte di esprimersi con un giudizio d’urgenza perché il ricorrente rischia la vita. Ma Frontex si è opposta. “In altri casi presentati da potenziali vittime, la Corte ha rigettato i casi e non li ammessi perché non era ‘certo’ che i richiedenti, una volta al mare, sarebbero avvistati dall’Agenzia e poi respingi illegalmente -continua Cohen-. Ci aspettiamo forse che la persona bloccata in Libia produca un giudizio mostrando un biglietto di una nave con cui ha tentato di raggiungere l’Europa? Spero che i giudici cambino il loro approccio e adottino una decisione in conformità con la legge. Anche se c’è l’1% delle possibilità che qualcuno subisca un respingimento e di conseguenza sia vittima di tortura gli va riconosciuta la possibilità di ricorrere di fronte a un giudice”.

      A sorreggere tutta la “macchina dei respingimenti” ci sono poi le grandi multinazionali, spesso aziende legate all’industria militare, che garantiscono a Frontex i velivoli. Come raccontato su Altreconomia l’importo dei bandi pubblicati dall’agenzia con riferimento a servizi di sorveglianza aerea passa da 1,6 milioni di euro nel 2017 a 172 milioni di euro nel 2023. Con un numero sempre più ampio di soggetti interessati a queste tipologie di commesse. Tra gli apripista troviamo l’italiana Leonardo Spa (già Finmeccanica), la prima nel 2018 a fornire un drone per Frontex. Ma il progetto di ricerca Liminal si concentra soprattutto sui contratti siglati con le israeliana Elbit Systems (Hermes 900 drone) e l’Israeli aerospace industries (Iai) per l’Heron drone (in questo caso un subappalto da parte di Airbus).

      “Lo stesso che oggi sorvola il Mediterraneo viene utilizzato anche per le operazioni militari su Gaza -sottolinea Pezzani-. L’ennesima inquietante prova della compenetrazione dell’industria militare nel settore del controllo dei confini”. Il 24 ottobre Frontex ha festeggiato i primi vent’anni di vita, costellati da scandali e un ruolo centrale nell’esternalizzazione dei confini europei, nella totale impunità. C’è poco da festeggiare.

      https://altreconomia.it/oltre-27mila-naufraghi-respinti-in-libia-e-tunisia-grazie-a-frontex-la-

      #Fsc_aerial_surveillance #European_monitoring_team (#Emt)

  • Al via la procedura per il declassamento dello status di protezione del lupo in Europa

    Lo scorso 25 settembre la votazione del #Coreper ha dato il la al processo di declassamento dello #status di protezione del lupo da “rigorosamente protetto” a “protetto”, alimentando il dibattito politico e pubblico -da sempre caratterizzato da retorica e propaganda- sul grande carnivoro per eccellenza e sulla sua coesistenza con l’essere umano. Il punto della situazione e i prossimi passaggi.

    La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen lo aveva annunciato lo scorso dicembre: “lo status di protezione del lupo va ridotto”. E in questo senso si è mosso il Comitato dei rappresentanti permanenti (Coreper), organo subordinato del Consiglio europeo, costituito dagli ambasciatori degli Stati membri presso l’Unione europea, che nel corso della seduta del 25 settembre scorso ha dato il via al declassamento della protezione dei lupi da “rigorosamente protetta” a “protetta”.

    La maggioranza qualificata degli Stati dell’Unione europea, infatti, ha votato a favore dell’avvio della procedura di modifica della Convenzione di Berna del 1979, l’accordo internazionale per la conservazione della vita selvatica e dell’ambiente naturale in Europa. Spagna e Irlanda hanno espresso voto contrario, mentre Cipro, Slovenia, Malta e Belgio si sono astenuti.

    Decisiva per il raggiungimento della maggioranza qualificata è stata la Germania che, dopo aver ottenuto una dichiarazione verbale in cui si precisa che la modifica della protezione è specifica per il lupo -che in Europa conta circa 20mila esemplari- e non può riguardare altre specie, ha votato a favore.

    Adalbert Jahnz, portavoce della Commissione europea, ha definito l’esito della votazione degli Stati membri “un passo importante per affrontare le sfide legate all’aumento della popolazione di lupi, al fine di mantenere al tempo stesso uno stato di conservazione favorevole alla specie”. Entusiasti, invece, i toni di Pietro Fiocchi, parlamentare europeo di Fratelli d’Italia e vicepresidente della commissione Ambiente (Envi) del Parlamento europeo, conosciuto per le sue posizioni pro-caccia con tanto di manifesti elettorali che lo ritraevano in posa seduto sotto un albero di Natale addobbato con delle cartucce.

    Fiocchi ha parlato di “un’ottima notizia” e ha espresso “soddisfazione per il risultato raggiunto, che premia le battaglie per il declassamento che conduciamo da tempo a fianco degli allevatori italiani che subiscono predazioni”.

    Di tenore decisamente diverso le reazioni delle organizzazioni ambientaliste. Secondo Stefano Raimondi, responsabile nazionale biodiversità di Legambiente, per esempio, questa decisione “mette a rischio decenni di sforzi di conservazione e rappresenta una significativa battuta d’arresto per quello che è stato uno dei più importanti successi dell’Unione europea in materia di conservazione della fauna selvatica: il ritorno del lupo dopo un periodo in cui la specie ha rischiato l’estinzione”.

    In Italia, in particolare, il lupo ha vissuto una storia lunga e travagliata. All’inizio del Novecento sull’arco alpino era stato eradicato, mentre sugli Appennini se ne contavano appena un centinaio di esemplari. Il suo ritorno ha avuto inizio negli anni Settanta, soprattutto grazie all’introduzione di alcune leggi volte alla sua tutela: nel 1971 il decreto ministeriale Natali proibì la caccia e i bocconi avvelenati, nel 1979 la Convenzione di Berna lo classificò come “specie rigorosamente protetta”, mentre nel 1992 il governo italiano recepì la Direttiva Habitat dell’Unione europea sulla conservazione degli habitat naturali e della fauna e flora selvatiche.

    Proprio nel 1992 il canis lupus ha fatto la sua ricomparsa sulle Alpi occidentali, quando tra Italia e Francia si è sviluppata per dispersione la prima coppia proveniente dall’arco appenninico. Nel 2011 si è registrata invece la prima coppia sulle Alpi centrali e l’anno successivo quella nelle zone della Lessinia, altopiano che comprende parti di territorio della provincia di Verona, Vicenza e Trento.

    Una stima dell’attuale numero dei lupi in Italia l’ha fornita lo scorso anno l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), che dal 2018 al 2022 ha coordinato il primo monitoraggio nazionale. Al termine dell’analisi dei dati raccolti -6.520 avvistamenti fotografici da fototrappola, 491 carcasse di ungulato predate, 1.310 tracce, 171 esemplari morti, 16mila escrementi-, l’Ispra ha stimato la presenza di 3.330 lupi sul territorio italiano.

    Negli ultimi anni, anche nel nostro Paese il dibattito pubblico intorno al lupo -e alla coesistenza con l’essere umano- si è decisamente inasprito. Allevatori e contadini di montagna lamentano le predazioni del bestiame, mentre alcune campagne politiche a mezzo stampa alimentano la paura di possibili attacchi contro l’uomo.

    A questo proposito il Wwf ha però precisato che “in Italia l’ultima aggressione letale di un lupo a un uomo risale al 1825, in un contesto sociale e ambientale totalmente differente da quello attuale, quando ad esempio era diffusa la pratica di affidare la custodia delle greggi a bambini di appena quattro o cinque anni”.

    Per quanto riguarda il percorso per il declassamento dello status di protezione del lupo, va sottolineato che la votazione del Coreper non ha effetti immediati e costituisce solo il primo passo in questa direzione. Per raggiungere il loro obiettivo i sostenitori dell’iniziativa, infatti, dovranno sottoporre la misura a ulteriori passaggi.

    “A inizio dicembre la proposta dovrà essere approvata innanzitutto dalla Convenzione di Berna, accordo relativo alla conservazione della vita selvatica e dell’ambiente naturale in Europa. Qualora la riduzione della tutela venisse approvata anche in questa sede, la Commissione europea potrà presentare un emendamento mirato alla modifica della Direttiva Habitat, per ‘spostare’ il lupo dall’allegato IV (Specie animali e vegetali di interesse comunitario che richiedono una protezione rigorosa) al V (Specie animali e vegetali di interesse comunitario il cui prelievo nella natura e il cui sfruttamento potrebbero formare oggetto di misure di gestione)”.

    A illustrare il quadro è Benjamin Kostner, ricercatore del gruppo di ricerca Human-Environmental interactions dell’Istituto per lo sviluppo regionale di Eurac Research di Bolzano e partner di LIFEstockProtect, progetto europeo volto ad aumentare l’attenzione per le misure di protezione del bestiame al fine di mitigare il conflitto uomo-lupo nell’area alpina di lingua tedesca.

    Il ricercatore, inoltre, fa notare che “secondo l’articolo 19 della Direttiva, in questa sede al momento non basta raggiungere la maggioranza qualificata, ma il voto degli Stati deve essere unanime”.

    Solo con l’entrata in vigore di tale modifica, la tutela del lupo potrà essere effettivamente ridotta e gli esemplari di questa specie potrebbero essere prelevati più facilmente rispetto a quanto avviene oggi. Kostner sottolinea, però, come “anche se si profilasse davvero questo scenario gli Stati saranno tenuti a garantire lo status di conservazione della specie e a documentare a livello scientifico una popolazione di lupi sana all’interno del proprio territorio bio-geografico di riferimento”.

    In ogni caso, secondo Kostner, l’equazione retorica secondo cui “abbassare lo status di protezione e sparare” sarebbe sufficiente per risolvere la questione-lupo “non ha evidenze scientifiche”. Il ricercatore altoatesino evidenzia come “la polarizzazione delle posizioni del mondo dell’agricoltura e di quello della conservazione sia in realtà dannosa per tutte le parti in causa” e che, al contrario, “lavorando insieme si possono raggiungere buoni risultati: i dati ci dimostrano che laddove vengono adottate adeguate misure di prevenzione e protezione delle greggi -presenza del pastore, cani da guardiania e reti elettrificate-, le esperienze sono positive”.

    https://altreconomia.it/al-via-la-procedura-per-il-declassamento-dello-status-di-protezione-del
    #protection #loup #Europe #déclassement #convention_de_berne

  • Il ruolo dell’#Unhcr nei centri in Albania, tra le “lettere” con il governo e le vittime di tratta

    Non c’è alcun protocollo siglato dal ministero dell’Interno ma uno scambio epistolare, ottenuto da Altreconomia, in cui si definisce l’intervento che l’Agenzia Onu per i rifugiati dovrebbe svolgere nelle contestate strutture per migranti di #Shëngjin e #Gjadër. “Era doverosa la nostra presenza”, spiega Chiara Cardoletti dell’Unhcr. Resta però il punto estremamente critico delle persone “vulnerabili”

    Nessun protocollo, solo uno “scambio di lettere”. La presenza del personale dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) nei centri per migranti di Shëngjin e Gjadër in Albania si basa su una semplice dichiarazione di intenti “in assenza di una formale stipula d’accordo”.

    Scrive così il ministero dell’Interno rispondendo alla richiesta di Altreconomia di poter visionare la documentazione relativa al ruolo che l’Unhcr rivestirà nell’ambito dell’accordo tra Roma e Tirana.

    “Non è stato siglato un protocollo perché l’Unhcr non fa parte dell’accordo Italia-Albania -spiega ad Altreconomia Chiara Cardoletti, Rappresentante per l’Italia, la Santa Sede e San Marino dell’agenzia Onu per i rifugiati-. Dopo aver ricevuto chiarimenti su alcuni aspetti del Protocollo anche in sede parlamentare, alla luce di incontri durante i quali il governo ha ribadito la forte volontà che questo sia in linea con il diritto e gli standard internazionali, si è ritenuto più opportuno procedere con uno scambio di lettere con il ministero dell’Interno per definire le nostre funzioni”.

    Proprio a firma di Cardoletti è la lettera inviata il 7 agosto al ministero dell’Interno e ottenuta da Altreconomia. L’Unhcr esprime “gratitudine per l’invito esteso dal Governo italiano” che permette di “contribuire alla protezione delle persone coinvolte nell’attuazione del Protocollo”. Osserva in apertura che qualsiasi accordo tra Stati relativo alle persone soccorse o intercettate al mare “deve essere conforme al diritto internazionale dei rifugiati, ai diritti umani nonché agli standard di protezione”.

    Molti giuristi ritengono che lo stesso protocollo violi il diritto internazionale ma Cardoletti, a nostra specifica richiesta, ha risposto che “molto dipenderà da come questo protocollo verrà implementato e proprio per questo consideriamo importante il nostro ruolo di monitoraggio”.

    Che cosa farà l’Unhcr? Nelle lettere si indica attività di monitoraggio e di counselling attraverso personale qualificato dell’Agenzia che sarà presente sia sulla “nave hub” che trasferirà i migranti verso il territorio albanese così come nei centri di Shëngjin e Gjadër in Albania “e in qualsiasi altra località che possa diventare rilevante nell’attuazione del Protocollo in questione”. Non è chiaro, in questa frase, a quale struttura si riferisca l’Alto commissariato.

    Il governo italiano, dal canto suo, dovrà condividere regolarmente “tutte le informazioni pertinenti” inclusi “i dati statistici relativi all’attuazione del Protocollo”. L’intervento è previsto per un periodo di tre mesi dalla data in cui questo diventerà operativo e l’Unhcr si riserva il diritto “a sua completa discrezione, di ritirarsi da questa intesa in qualsiasi momento” in caso diventi necessario “per motivi operativi, gestionali o di altra natura”.

    L’Alto commissariato fornirà a Roma “osservazioni e raccomandazioni” che contribuiranno “ove necessario” a promuovere l’adesione al diritto internazionale e agli standard pertinenti” nell’attuazione del Protocollo.

    La risposta da Roma non si fa attendere. E il 12 agosto la prefetta Laura Lega, a capo del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, sottolinea che la presenza di Unhcr “costituirà un sicuro valore aggiunto per l’attuazione del Protocollo” che si pone come obiettivo quello di sviluppare “un innovativo modello di gestione dei flussi migratori nel pieno rispetto del diritto e degli standard internazionali”.

    A proposito di tali garanzie c’è un altro punto delicato. Come raccontato da Altreconomia è prevista infatti la possibilità di trasferire anche i cosiddetti “vulnerabili” -citati tra l’altro anche dall’Unhcr nella sua lettera- viste le attività garantite dalla Medihospes Albania Srl proprio per questa tipologia di persone.

    “Abbiamo ricevuto garanzie e rassicurazione su questo punto di vista e il Protocollo prevede, in ogni modo che le persone vulnerabili siano portate in Italia”, sottolinea Cardoletti che però specifica che non sarà compito dell’Unhcr “identificare le vulnerabilità che spetta ai soggetti attuatori del protocollo, quindi alle autorità”, aggiungendo che l’Agenzia sarà pronta “a intervenire se le necessità o i diritti dei vulnerabili non saranno garantiti”.

    Questo è un punto molto scivoloso, fa notare Maria Grazia Giammarinaro, già magistrata e Special Rapporteur delle Nazioni Unite sulla tratta di esseri umani dal 2014 al 2020. “Non comprendo la posizione dell’Unhcr sulle persone vulnerabili -spiega ad Altreconomia-. Identificare le condizioni che garantiscono il diritto d’asilo implica inevitabilmente esaminare anche le vulnerabilità. D’altra parte, proprio in Italia, l’Agenzia ha avuto un ruolo di primo piano nella costruzione e implementazione di Linee guida che facilitassero l’identificazione e il referral delle vittime di tratta durante le procedure di asilo. E l’essere vittima di tratta, secondo la giurisprudenza di molti tribunali, è a sua volta un presupposto per il riconoscimento dello status di rifugiato”.

    In risposta a un accesso dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione in seno al Viminale ha provato a chiarire chi si occuperà dei vulnerabili, specificando nuovamente che i minori non verranno trasferiti in Albania (dove però sono presenti, secondo i documenti di Medihospes, dei fasciatoi) chiarendo che a bordo della nave sarà svolta un’attività di pre-screening coordinata da funzionari della polizia, “coadiuvato da personale specializzato per gli aspetti sanitari e la mediazione linguistico-culturale”.

    Una volta arrivati in Albania, invece, interverranno “diversi attori” per identificare quei casi in cui “una vulnerabilità emergesse successivamente presso le strutture site in Albania, il migrante verrà trasferito sul territorio italiano”.

    Oltre all’Ufficio di sanità marittima, aerea e di frontiera del ministero della Salute, ci sarà l’Istituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti che a fine luglio ha aggiudicato una gara da oltre due milioni di euro per l’affidamento di un “servizio medico ed infermieristico presso l’istituto detentivo di Gjadër” alla Croce Bianca Srl, con sede a Roma.

    E infine il Dipartimento indica il personale dell’ente gestore “per la ricerca attiva di vulnerabilità sanitarie che dovessero verificarsi durante la permanenza” o in “collaborazione con psicologi e altri specialisti” per l’emersione di violenza e tratta. Su questo punto, però, non è chiaro come si procederà. L’ufficio del Viminale cita il “Vademecum per la rilevazione, il referral e la presa in carico delle persone portatrici di vulnerabilità”.

    Questo documento, siglato nel giugno 2023, prevede con riferimento alle vittime di tratta (la cui identificazione è spesso complicata perché vivono la “paura” delle minacce subite dai trafficanti) che laddove è presente l’Oim (Organizzazione mondiale per le migrazioni) sia suo compito svolgere la prima intervista alla potenziale vittima, come succede ad esempio sulle coste siciliane. Laddove però l’Oim non c’è, come nel caso albanese, “la prima intervista può essere condotta dal personale che ha momentaneamente in carico la potenziale vittima in coordinamento con le associazioni anti-tratta a cui è possibile fare una segnalazione attraverso l’utilizzo di materiale informativo”.

    Il documento cita il Numero verde, un dispositivo attivo giorno e notte a cui è possibile segnalare i casi. “Nessuno ci ha contattato per informarci o chiedere supporto su questo”, spiega però Gianfranco Della Valle, referente del numero del numero verde nazionale antitratta.

    Così come nessuno ha contattato il Dipartimento per le pari opportunità, titolare dei progetti per le vittime di tratta. Non solo: il numero verde non funziona se la chiamata arriva dall’estero. “Qualunque vademecum si voglia utilizzare c’è un problema alla radice -riprende Giammarinaro-. Per identificare le vulnerabilità, e soprattutto le vittime di tratta, sono necessari vari colloqui con operatori sociali qualificati, è necessario costruire un rapporto di fiducia che porti alla condivisione del proprio vissuto di sfruttamento. Questo certamente non può avvenire in mare dopo il salvataggio e men che meno una volta arrivati in Albania, data l’approssimazione metodologica con la quale il problema viene affrontato e l’incertezza sui soggetti che se ne faranno carico. Penso che sarà quasi impossibile identificare una vittima di tratta nel contesto di questo Protocollo”.

    Per Cardoletti di Unhcr “la fase di identificazione e screening sarà decisiva, soprattutto a bordo delle navi” e risulta “evidente l’importanza del ruolo di monitoraggio dell’Agenzia che permetterà di verificare il rispetto effettivo dei diritti dei soggetti a cui si applica il Protocollo”.

    La linea che separa il monitoraggio all’avallo del protocollo è però molto sottile. A inizio settembre il sottosegretario al ministero dell’Interno Nicola Molteni ha detto a La Stampa che in Libia e Tunisia “la politica migratoria avviene in un quadro di politiche internazionali con il controllo di organizzazioni come Unhcr e Oim. I diritti umani sono quindi garantiti”. Molteni nega l’evidenza, raccontata, recentemente da un duro reportage del Guardian che documenta stupri e uccisioni. Chissà se in Albania basterà citare le lettere con l’Unhcr per rassicurare in merito al rispetto dei diritti.

    https://altreconomia.it/il-ruolo-dellunhcr-nei-centri-in-albania-tra-le-lettere-con-il-governo-
    #HCR #Albanie #migrations #réfugiés
    #Shengjin e #Gjader #Italie #externalisation #accord

    –-

    ajouté à la métaliste sur l’#accord entre #Italie et #Albanie pour la construction de #centres d’accueil (sic) et identification des migrants/#réfugiés sur le territoire albanais...

    https://seenthis.net/messages/1043873

    • UNHCR denies role in identifying migrants in Albania

      During the question time of the Chamber of Deputies on October 23, Minister for Parliamentary Relations Luca Ciriani claimed UNHCR was involved in the identification of migrants in Italian centers recently opened in Albania. The UN agency has denied any such role.

      The UN’s refugee agency has denied any role in identification procedures for the migrants taken to Italian centers in Albania after an Italian minister claimed otherwise.

      “Activities for the identification of migrants eligible for border procedures in Albania was carried out onboard the pre-selected Navy ship hub Libra by a team composed of seven linguistic-cultural mediators, healthcare personnel of the International Organisation for Migration (IOM), as well as a police official assisted by three operators and UNHCR representatives,” said Minister for Parliamentary Relations Luca Ciriani in the question time of an October 23 session of Italy’s Chamber of Deputies.

      “The operations were carried out after the rescue in international waters of 79 migrants, of whom 16 met requirements for the transfer to Albania based on the guide for the detection of vulnerabilities drawn up by the interior ministry,” he continued.

      UNHCR subsequently issued a statement clarifying that it is involved in monitoring the Italy-Albania accord but not in identifying migrants.

      Minister outlines procedures in Italy and Albania

      Ciriani added: “The migrants underwent a careful medical examination by IOM healthcare personnel with full respect for their privacy and were interviewed individually in order to facilitate the finding of any sort of vulnerability, including of a psychological nature.”

      “During the sailing” of the naval vessel, he continued, “migrants were provided with both healthcare assistance onboard and detailed information in languages they understand on the procedures applied and their rights, in part thanks to the presence onboard of three IOM linguistic-cultural mediators. The migrants were also provided with thermal blankets, warm meals prepared onboard the ship, which has a hangar with an area equipped for rest and with washroom facilities.”

      The minister noted that, “on arrival in Albania, after authorization from the healthcare personnel onboard, the migrants were disembarked and healthcare screening and identification procedures were started at the hotspot. During this phase, two Bangladeshi nationals, contrary to what had been found onboard the Libra, said that they were minors. Two other Egyptian migrants, following medical examinations, were found to be unfit for life in a restricted community, confirming the accuracy of the checks carried out.”

      “For these reasons,” he concluded, “the four foreigners, assisted by an IOM mediator, were taken to Italy and inserted into the reception system.”

      https://www.infomigrants.net/en/post/60795/unhcr-denies-role-in-identifying-migrants-in-albania

  • Chiusi dentro. Dall’alto.
    I campi di confinamento dei migranti nell’Europa del XXI secolo.

    Che aspetto hanno i campi di confinamento costruiti o finanziati dai Paesi dell’Unione europea in questi anni per segregare i richiedenti asilo e/o i migranti in transito e come hanno stravolto i territori nei quali sono stati realizzati? Grazie al libro “Chiusi dentro” curato da RiVolti ai Balcani ed edito da Altreconomia nel 2024 è nato il progetto digitale “Chiusi dentro. Dall’alto”, che con le immagini satellitari esclusive eseguite da PlaceMarks mostra il volto delle politiche europee: per bloccare, respingere, confinare, condannare alla marginalizzazione.

    Dalla Turchia alla Grecia, dalla Serbia all’Italia, dall’Albania alla Bosnia ed Erzegovina, passando per Lituania, Macedonia del Nord, Ungheria e ancora. Quindici Paesi, oltre 100 tra immagini e mappe per conoscere e far conoscere i campi dell’Europa di oggi.

    https://altreconomia.it/chiusi-dentro-alto-progetto
    #images_satellitaires #visualisation #détention_administrative #rétention #campements #Europe #encampement #migrations #réfugiés #Europe #marginalisation #images

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  • Il dialogo spezzato tra i ghiacciai alpini e il clima. E chi fa finta di non accorgersene

    I ghiacciai al di sotto dei 3.500 metri sono oggi immersi in un clima che è incompatibile con la loro esistenza. Non essendo più capaci di conservare la neve registrano inevitabilmente bilanci negativi, avviandosi all’estinzione. Quale patrimonio si disperde e che cosa, invece, si può ancora salvare. Intervista a Giovanni Baccolo, divulgatore e ricercatore di Glaciologia e scienze della Terra negli ambienti freddi

    Ogni anno tra fine agosto e inizio settembre è il momento naturale in cui determinare lo stato di salute dei ghiacciai. “È alla fine dell’estate che si fanno i rilievi per determinare la fusione e l’arretramento dei ghiacciai, per comprendere quanto è stata negativa l’annata”, racconta Giovanni Baccolo, ricercatore che si occupa di Glaciologia e scienze della Terra negli ambienti freddi presso l’Università degli Studi di Roma Tre, divulgatore sul blog Storie minerali e autore del libro “I ghiacciai raccontano”, pubblicato da People in collaborazione con L’Altramontagna, il quotidiano online che approfondisce i temi ambientali e sociali delle Terre alte.

    Questo, racconta Baccolo, è quel momento dell’anno in cui i ghiacciai ottengono la maggiore visibilità, anche grazie alla Carovana dei ghiacciai, promossa da Legambiente insieme al Comitato glaciologico italiano, di cui il ricercatore fa parte. Nel 2024, ad esempio, la Carovana ha certificato l’estinzione del ghiacciaio di Flua, sul Monte Rosa, e preconizzato che quello della Marmolada non esisterà più nel 2040.

    Baccolo, oggi dice “quanto è stata negativa l’annata”, ma fino a cinquant’anni fa non era così, vero?
    GB Il 2001 è stato l’ultimo periodo in cui c’è stato, per i ghiacciai alpini, quelli che interessano più da vicino il nostro Paese, un leggerissimo bilancio positivo. Prima di allora, lo stesso era successo in una manciata di annate, nel corso degli anni Settanta del secolo scorso. Dal 2001, però, è assolutamente sicuro che il bilancio sarà negativo. L’unica speranza che nutriamo, da glaciologi, è che i dati lo siano il meno possibile.

    Nel libro scrive che i ghiacciai alpini “sono oggi immersi in un clima che è incompatibile con la loro esistenza”.
    GB È così, per fortuna ancora non riguarda tutti i ghiacciai dell’arco alpino, ma solo quelli al di sotto dei 3.500 metri sul livello del mare. Ed è questo il motivo per cui è ancora possibile, in alcuni casi, avere dei bilanci positivi o neutri. Il tema reale, emerso, è che non c’è più un dialogo costruttivo tra i ghiacciai e il clima, per cui quelli al di sotto dei 3.500 metri non sono più capaci di conservare la neve e inevitabilmente hanno bilanci negativi, non producendo nuovo ghiaccio. Questo significa che un ghiacciaio scompare lentamente e anche che esiste solo per inerzia, perché dal punto di vista climatico non dovrebbe più esistere.

    Eccoci allora di fronte, come scrive nel libro, alla scomparsa di un ecosistema naturale.
    GB Quando ci allarmiamo per le notizie legate alla deforestazione, a causa dell’aumento delle superfici coltivate, che sconvolgono ecosistemi e ambienti naturali, non teniamo in considerazione che questi episodi riguardano solo una frazione di quell’ecosistema. Per i ghiacciai, invece, non è così, perché li stiamo perdendo integralmente. E i ghiacciai non sono solo ammassi di ghiaccio ma rappresentano un habitat ancora poco studiato e poco conosciuto, che sta scomparendo in toto proprio mentre stiamo imparando a conoscerlo.

    Questa conoscenza, spiega il tuo libro, è anche una delle fotografie più accurate del clima passato. Per quale motivo?
    GB I ghiacciai, per come si formano, sono in grado di raccogliere e accumulare e conservare un sacco di informazioni metereologiche e climatiche, ma non solo. Gli strati di ghiaccio, grazie a segnali di tipo fisico e chimico, ci offrono informazioni su quanto avvenuto in passato. Oggi conosciamo il sistema climatico meglio di alcuni decenni fa e molte informazioni sono arrivate dai ghiacciai, in particolare da quelli polari che ci hanno permesso di studiare le cose andando più indietro nel tempo, avendo cumulato neve per millenni. Le carote di ghiaccio, racconto, permettono veri e propri viaggi nel tempo. Anche i ghiacciai alpini, però, sono importanti, perché trattengono storie locali, magari più circoscritte nel tempo ma dettagliate: ad esempio, abbiamo potuto ricostruire la storia dell’inquinamento atmosferico in Europa negli ultimi secoli e le variazioni del clima negli ultimi millenni e anche l’impatto delle attività umane sulla chimica del ghiaccio.

    Alcuni capitoli del libro sono dedicati ad Antartide, Artico e Groenlandia, per certi versi i veri osservati speciali quando si temono gli effetti più negativi della fusione dei ghiacciai.
    GB Per motivi geografici, riceviamo notizie relative ai ghiacciai alpini, anche grazie a iniziative come la Carovana: anche se per noi addetti ai lavori è scontato che arrivino questi dati così negativi, il lavoro di divulgazione è fondamentale. Senz’altro, però, il ritiro dei ghiacciai alpini, un glacialismo limitato, produce effetti localizzati, relativi a problemi di disponibilità idrica o di riempimento degli invasi, per la tenuta di singoli versanti. Quando si parla di Groenlandia o di Antartide occidentale, il riferimento è ad altri ordini di grandezza: in questo caso, il cambiamento climatico produce trasformazioni che hanno impatti globali, come l’innalzamento del livello del mare, che è guidato dal ritiro dei ghiacciai polari. La sola scomparsa dalla calotta antartica occidentale porterebbe a un innalzamento di cinque metri delle acque. Ci sono, cioè, centinaia di milioni di persone il cui futuro dipende da come si comporteranno questi giganteschi ghiacciai nei prossimi decenni, per questo è fondamentale limitare l’aumento delle temperature.

    Stiamo affrontando stagioni molto siccitose. Perché la fusione dei ghiacciai non è una risposta possibile e sensata alla carenza d’acqua?
    GB Quando i ghiacciai si ritirano in modo vistoso, come negli ultimi anni, ovviamente ci troviamo con una disponibilità maggiore di acqua glaciale e questo potrebbe oscurare problemi di siccità o scarsità di neve. Si tratta però di un tampone temporaneo, che sfrutta riserve che hanno occupato secoli e millenni per formarsi. Quell’acqua non tornerà più, non è una risorsa rinnovabile. Se tutto andasse in modo naturale, invece, lo sarebbe. A causa del nostro intervento, però, quell’elemento sta andando perduto completamente. Quello che accade sull’arco alpino è molto indicativo: se cade pioggia, se ne va molto più velocemente; se cade neve, si trasforma in ghiaccio ed è una riserva molto più disponibile, che viene rilasciata in estate, quando c’è un problema effettivo ed è un effetto tampone che sta andando completamente perduto.

    Ad amplificare questa dinamica, anche il fatto che gli ambienti molto freddi sono più esposti di quelli “temperati” al riscaldamento globale.
    GB Una caratteristica degli ambienti che ospitano ghiacciai è quella di essere molto più sensibile, a parità di perturbazione sul clima, all’aumento delle temperature, che è più alto rispetto alla media globale. Questo vale sulle Alpi e anche nell’Artico, un contesto che presenta determinate caratteristiche, ad esempio la maggior importanza del ghiaccio marino rispetto a quello terrestre, che caratterizza l’Antartide. Dove oggi esistono ghiacciai, i cambiamenti possono essere amplificati.

    Eppure c’è chi ancora nega i riflessi dei cambiamenti climatici sui ghiacciai, come il ministro delle Infrastrutture e dei trasporti Matteo Salvini che lo scorso anno nel corso di un comizio si espresse così: “Io adoro la montagna. E quando vai sull’Adamello e sul Tonale e vedi i ghiacciai che si ritirano anno dopo anno ti fermi a pensare, poi studi la storia e vedi che sono cicli”. Perché, a tuo avviso, accade?
    GB Da una parte agisce la propensione a non credere al mondo scientifico e a quello che da decenni ci segnala, dinamiche che nelle singole persone può dipendere dalla difficoltà di accettare un cambiamento così importante, ma anche pigrizia, perché per contrastare questa situazione e attuare uno stile di vita più sostenibile dobbiamo fare sacrifici, rinunce e mettere in discussione un certo stile di vita. C’è poi un negazionismo che fa breccia nel mondo politico o dirigenziale, guidato dagli interessi economici che stanno dietro alla transizione energetica, all’esigenza di un ripensamento del sistema economico globale. Dal punto di vista elettorale, poi, i cittadini sono più contenti quando si sentono dire dai politici che va tutto bene e che non c’è bisogno di trasformazioni.

    https://altreconomia.it/il-dialogo-spezzato-tra-i-ghiacciai-alpini-e-il-clima-e-chi-fa-finta-di
    #glaciers #montagne #Alpes #disparition #climat #changement_climatique #extinction #Giovanni_Baccolo

    • I GHIACCIAI RACCONTANO

      Siamo abituati a ricevere, al termine dell’estate, tristi notizie che arrivano dal mondo dei ghiacciai. Ritiri, crolli, scomparse. Non c’è da sorprendersi: su una Terra sempre più calda a causa della nostra influenza sul clima, lo spazio destinato ai ghiacciai è inesorabilmente destinato a ridursi. Negli ultimi anni abbiamo imparato a identificarli come vittime iconiche del cambiamento climatico, spesso dimentichiamo però che i ghiacciai sanno fare molto di più che fondere, arretrare e scomparire. Non sono soltanto un affascinante fenomeno che impreziosisce i paesaggi montani: ogni ghiacciaio è un piccolo mondo che comunica con l’ambiente in cui è immerso. Raccontare alcune delle storie custodite al suo interno è il fine di queste pagine. Perché per comprendere la portata dell’epocale cambiamento provocato dal nostro impatto sul clima, è bene conoscere quanto stiamo perdendo, insieme al ghiaccio che fonde. Vittima, strumento di conoscenza e fonte di impatto. I ghiacciai sono il simbolo più completo del cambiamento climatico, il simbolo eccellente.

      «Fino a qualche decennio fa, le oscillazioni dei ghiacciai danzavano insieme alla naturale variabilità climatica del pianeta. Come in un valzer, uno andava dietro all’altro e, come succede con le coppie più affiatate, non era facile capire chi stesse guidando i movimenti. Oggi l’armonia è però rotta. Il clima conduce una marcia forzata che ha per meta un luogo poco adatto per l’esistenza dei ghiacciai.»

      https://www.peoplepub.it/pagina-prodotto/i-ghiacciai-raccontano
      #livre