• La Corte europea condanna l’Italia a pagare per i maltrattamenti ai migranti : costretti a denudarsi, privati della libertà e malnutriti

    La causa avviata da quattro esuli sudanesi: dovranno ricevere in tutto 36 mila euro dallo Stato

    VENTIMIGLIA. Spogliati «senza alcuna ragione convincente». Maltrattati e «arbitrariamente privati della libertà». Ecco perché, la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia a risarcire quattro migranti sudanesi con cifre che vanno dagli 8 ai diecimila euro ciascuno. La sentenza della prima sezione della Corte (presieduta da Marko Bošnjak) è datata 16 novembre, ma riguarda episodi accaduti nell’estate del 2016. Dopo aver avviato le pratiche per far attribuire ai loro clienti lo status di rifugiato, nel febbraio 2017 gli avvocati (Nicoletta Masuelli, Gianluca Vitale e Donatella Bava, tutti di Torino) avevano deciso di rivolgersi alla Corte di Strasburgo.
    I quattro erano arrivati in Italia in momenti diversi: due «in un giorno imprecisato di luglio» del 2016 a Cagliari, un altro il 14 luglio a Reggio Calabria, uno il 6 agosto sempre a Reggio Calabria e l’ultimo l’8 agosto «in un luogo imprecisato della costa siciliana». Il più giovane ha 30 anni, il più vecchio 43.

    In comune, i quattro hanno che sono stati tutti trasferiti nello stesso centro di accoglienza gestito dalla Croce Rossa a Ventimiglia. Sono stati «costretti a salire su un furgone della polizia», trasportati in una caserma dove sono stati «perquisiti», obbligati a consegnare «i telefoni, i lacci delle scarpe e le cinture» e poi «è stato chiesto loro di spogliarsi». Sono rimasti nudi dieci minuti, in attesa che gli agenti rilevassero le loro impronte digitali.
    Concluse le procedure, la polizia ha fatto salire i quattro (assieme a una ventina di connazionali) su un pullman. Destinazione: l’hotspot di Taranto. Secondo quanto ricostruito nella sentenza, i migranti sono stati «costretti a rimanere seduti per l’intero viaggio» e potevano andare in bagno soltanto scortati e lasciando la porta spalancata, rimanendo «esposti alla vista degli agenti e degli altri migranti».
    Il 23 agosto, i quattro (con un gruppo di compatrioti) sono risaliti su un pullman diretti a Ventimiglia, dove hanno incontrato un rappresentante del governo sudanese che li ha riconosciuti come cittadini del suo Paese. A quel punto, è stata avviata la procedura per il rimpatrio. In aereo, dall’aeroporto di Torino Caselle. Ma sul velivolo c’era posto soltanto per sette migranti, così il questore aveva firmato un provvedimento di trattenimento e i quattro sono stati accompagnati al Centro di identificazione ed espulsione di Torino.
    Uno, però, è stato prelevato pochi giorni dopo dalla polizia. Per lui, era pronto un posto sull’aereo per il rimpatrio. Lui non voleva, arrivato a bordo ha incominciato a dare in escandescenze assieme a un altro migrante finché il comandante del velivolo ha deciso di chiedere alla polizia di farli sbarcare entrambi, per problemi di sicurezza. Appena rientrato al Cie, l’uomo ha ribadito la sua intenzione di ottenere la protezione internazionale. Lo stesso hanno fatto gli altri tre. Tutti hanno ottenuto lo status di rifugiato.

    La sentenza della Corte condanna l’Italia a pagare per varie violazioni. Una riguarda «la procedura di spogliazione forzata da parte della polizia», che «può costituire una misura talmente invasiva e potenzialmente degradante da non poter essere applicata senza un motivo imperativo». E per i giudici di Strasburgo «il governo non ha fornito alcuna ragione convincente» per giustificare quel comportamento. Poi, ci sono le accuse dei quattro di essere rimasti senz’acqua e cibo nel trasferimento Ventimiglia-Taranto e ritorno. Il governo aveva ribattuto fornendo «le copie delle richieste della questura di Imperia a una società di catering», che però «riguardavano altri migranti». Per la Corte, quella situazione «esaminata nel contesto generale degli eventi era chiaramente di natura tale da provocare stress mentale». E ancora, le condizioni vissute in quei giorni «hanno causato ai ricorrenti un notevole disagio e un sentimento di umiliazione a un livello tale da equivalere a un trattamento degradante», vietato dalla legge. I giudici di Strasburgo ritengono, poi, che i quattro siano «stati arbitrariamente privati della libertà», pur se in una situazione di «vuoto legislativo dovuto alla mancanza di una normativa specifica in materia di hotspot», già denunciata nel 2016 dal garante nazionale dei detenuti.

    Per la Corte, ce n’è abbastanza per condannate l’Italia a risarcire i quattro: uno dovrà ricevere 8 mila euro, un altro 9 mila e altri due diecimila «a titolo di danno morale».

    https://www.lastampa.it/cronaca/2023/11/18/news/litalia_condannata_a_pagare_per_i_maltrattamenti_ai_migranti-13871399

    Le périple des 4 Soudanais en résumé :
    – 4 personnes concernées, ressortissants soudanais
    – 2 arrivés à Cagliari en juillet 2016, un le 14 juillet à Reggio Calabria, un le 16 août 2016
    – Transfert des 4 au centre d’accueil de la Croix-Rouge à Vintimille avec un fourgon de la police —> dénudés, humiliés
    – Transfert (avec 20 autres) vers l’hotspot de Taranto
    – 23 août —> transfert à Vintimille par bus, RV avec un représentant du gouvernement soudanais qui a reconnu leur nationalité soudanaise, début procédure de renvoi vers Soudan en avion
    – Transfert à l’aéroport de Torino Caselle, mais pas de place pour les 4 dans l’avion
    – Transfert au centre de rétention de Turin
    – Personne ne part, les 4 arrivent à demander l’asile et obtenir le statut de réfugié
    – Novembre 2023 : Italie condamnée par la Cour européenne des droits de l’homme

    #justice #condamnation #Italie #frontières #frontière_sud-alpine #CEDH #cour_européenne_des_droits_de_l'homme #mauvais_traitements #privation_de_liberté #nudité #violences_policières #Taranto #hotspot #CPR #rétention #détention_administrative #réfugiés_soudanais #Turin #migrerrance #humiliation

    voir aussi ce fil de discussion sur les transferts frontière_sud-alpine - hotspot de Taranto :
    Migranti come (costosi) pacchi postali


    https://seenthis.net/messages/613202

    • Denudati, maltrattati e privati della libertà: la CEDU condanna nuovamente l’Italia

      Le persone migranti denunciarono i rastrellamenti avvenuti a Ventimiglia nell’estate 2016

      La Corte Europea per i Diritti dell’Uomo (CEDU) ha nuovamente condannato l’Italia a risarcire con un totale di 27mila euro (più 4.000 euro di costi e spese legali) quattro cittadini sudanesi per averli denudati, maltrattati e privati della libertà nell’estate 2016 durante le cosiddette operazioni per “alleggerire la pressione alla frontiera” di Ventimiglia, quando centinaia di persone migranti venivano coattivamente trasferite negli hotspot del sud Italia 1 e, in alcuni casi, trasferiti nei CIE e quindi rimpatriati nel paese di origine 2.

      C’è da dire che la Corte avrebbe potuto condannare l’Italia con maggiore severità, soprattutto per quanto riguarda le deportazioni in un paese non sicuro come il Sudan. Tuttavia, si tratta dell’ennesima conferma che l’Italia nega i diritti fondamentali alle persone migranti e che i governi portano avanti operazioni nei quali gli abusi e i maltrattamenti delle forze dell’ordine non sono delle eccezioni o degli eccessi di un singolo agente, ma qualcosa di strutturale e quindi sistemico. E quando queste violazioni sono denunciate, nemmeno vengono condotte indagini per fare luce sulle responsabilità e indagare i colpevoli.

      La sentenza della CEDU pubblicata il 16 novembre 3 riguarda nove cittadini sudanesi arrivati in Italia nell’estate del 2016 i quali hanno denunciato diversi abusi subiti dalle autorità italiane, un tentativo di rimpatrio forzato e uno portato a termine.

      Nel primo caso i ricorrenti hanno avanzato denunce in merito al loro arresto, trasporto e detenzione in Italia, uno di loro ha anche affermato di essere stato maltrattato.

      I quattro ricorrenti del primo caso hanno ottenuto la protezione internazionale, mentre i cinque ricorrenti del secondo caso hanno affermato di aver fatto parte di un gruppo di 40 persone migranti che erano state espulse subito dopo il loro arrivo in Italia.

      Le persone sono state difese dall’avv. Gianluca Vitale e dell’avv.te Nicoletta Masuelli e Donatella Bava, tutte del foro di Torino.
      I fatti riportati nella sintesi

      I quattro ricorrenti nel primo caso sono nati tra il 1980 e il 1994. Vivono tutti a Torino, tranne uno che vive in Germania. I ricorrenti nel secondo caso sono nati tra il 1989 e il 1996. Uno vive in Egitto, uno in Niger e tre in Sudan.

      Tutti e nove i richiedenti sono arrivati in Italia nell’estate del 2016. I primi quattro hanno raggiunto le coste italiane in barca, mentre gli altri cinque sono stati salvati in mare dalla Marina italiana. Alcuni sono transitati attraverso vari hotspot e tutti sono finiti a Ventimiglia presso il centro della Croce Rossa.

      Secondo i ricorrenti nel primo caso, il 17 e il 19 agosto 2016 sono stati arrestati, costretti a salire su un furgone della polizia e portati in quella che hanno capito essere una stazione di polizia. Sono stati perquisiti, è stato chiesto loro di spogliarsi e sono stati lasciati nudi per circa dieci minuti prima che venissero prese le loro impronte digitali.

      Sono stati poi costretti a salire su un autobus, scortati da numerosi agenti di polizia, senza conoscere la loro destinazione e senza ricevere alcun documento sulle ragioni del loro trasferimento o della loro privazione di libertà. In seguito hanno scoperto di essere stati trasferiti da Ventimiglia all’hotspot di Taranto.

      Nell’hotspot di Taranto, dal quale non avrebbero potuto uscire, sostengono di aver ricevuto un provvedimento di respingimento il 22 agosto 2016. Il giorno successivo sono stati riportati a Ventimiglia in autobus.

      Secondo i ricorrenti, le condizioni all’hotspot erano difficili come lo erano durante ciascuno dei trasferimenti in autobus durati 15 ore. Erano sotto il costante controllo della polizia, in un clima di violenza e minacce, senza cibo o acqua sufficienti in piena estate.

      Sostengono di non aver incontrato un avvocato o un giudice durante quel periodo e di non aver capito cosa stesse succedendo. Il 24 agosto 2016 sono stati trasferiti da Ventimiglia all’aeroporto di Torino per essere imbarcati su un volo per il Sudan. Poiché non c’erano abbastanza posti sull’aereo, il loro trasferimento è stato posticipato. Sono stati quindi trasferiti al CIE (Centro di identificazione ed espulsione) di Torino e il Questore ha emesso per ciascuno di loro un provvedimento di trattenimento.

      Uno dei ricorrenti (T.B.) sostiene che le autorità hanno tentato di espellerlo nuovamente il 1° settembre 2016. Ha protestato e la polizia lo ha colpito al volto e allo stomaco. Lo hanno poi costretto a salire sull’aereo e lo hanno legato. Tuttavia, il pilota si è rifiutato di decollare a causa del suo stato di agitazione. È stato riportato al CIE di Torino.

      Tutti e quattro i richiedenti hanno ottenuto la protezione internazionale, essenzialmente sulla base della loro storia personale in Sudan e del conseguente rischio di vita in caso di rimpatrio.

      Secondo i ricorrenti del secondo caso, invece, non sono mai stati informati in nessun momento della possibilità di chiedere protezione internazionale. Sostengono inoltre di aver fatto parte di un gruppo di circa 40 migranti per i quali è stato trovato posto sul volo in partenza il 24 agosto 2016 e di essere stati rimpatriati a Khartoum lo stesso giorno.

      Il governo italiano ha contestato tale affermazione, sostenendo che i ricorrenti non sono mai stati sul territorio italiano. Hanno fornito alla Corte le fotografie identificative delle persone rimpatriate in Sudan il 24 agosto 2016, sostenendo che non presentavano una stretta somiglianza con i ricorrenti. Ha sostenuto inoltre che i nomi delle persone allontanate non corrispondevano a quelli dei ricorrenti. In considerazione del disaccordo delle parti, la Corte ha nominato un esperto di comparazione facciale della polizia belga (articolo A1, paragrafi 1 e 2, del Regolamento della Corte – atti istruttori) che, il 5 ottobre 2022, ha presentato una relazione per valutare se le persone rappresentate nelle fotografie e nei filmati forniti dai rappresentanti dei ricorrenti corrispondessero a quelle raffigurate nelle fotografie identificative presentate dal Governo.

      Il rapporto ha concluso, per quanto riguarda uno dei ricorrenti nel caso, W.A., che i due individui raffigurati in tali fonti corrispondevano al massimo livello di affidabilità. Per quanto riguarda gli altri quattro richiedenti, non vi era alcuna corrispondenza affidabile.
      La decisione della Corte

      Le sentenze sono state emesse da una Camera di sette giudici, composta da: Marko Bošnjak (Slovenia), Presidente, Alena Poláčková (Slovacchia), Krzysztof Wojtyczek (Polonia), Péter Paczolay (Ungheria), Ivana Jelić (Montenegro), Erik Wennerström (Svezia), Raffaele Sabato (Italia), e anche Liv Tigerstedt, Vice Cancelliere di Sezione.

      La Corte, ha ritenuto, all’unanimità, che vi è stata:

      1) una violazione dell’articolo 3 per quanto riguarda l’assenza di una ragione sufficientemente convincente per giustificare il fatto che i ricorrenti siano stati lasciati nudi insieme a molti altri migranti, senza privacy e sorvegliati dalla polizia e le condizioni dei loro successivi trasferimenti in autobus da e verso un hotspot, sotto il costante controllo della polizia, senza sapere dove stessero andando;

      2) una violazione dell’articolo 3, in quanto non è stata svolta alcuna indagine in merito alle accuse del ricorrente di essere stato picchiato da agenti di polizia durante un tentativo di rimpatrio;

      3) la violazione dell’articolo 5, paragrafi 1, 2 e 4 (diritto alla libertà e alla sicurezza) per quanto riguarda tre dei quattro ricorrenti in relazione al loro fermo, trasporto e detenzione arbitrari.

      La Corte ha stabilito che l’Italia deve pagare ai ricorrenti nel caso A.E. e T.B. contro Italia 27.000 euro per danni morali e 4.000 euro, congiuntamente, per costi e spese.

      In particolare:

      Per quanto riguarda i restanti reclami dei ricorrenti in A.E. e T.B. contro l’Italia, la Corte ha riscontrato che le condizioni del loro arresto e del trasferimento in autobus, considerate nel loro insieme, devono aver causato un notevole disagio e umiliazione, equivalenti a un trattamento degradante, in violazione dell’Articolo 3.

      Inoltre, i successivi lunghi trasferimenti in autobus dei ricorrenti sono avvenuti in un breve lasso di tempo e in un periodo dell’anno molto caldo, senza cibo o acqua sufficienti e senza che sapessero dove erano diretti o perché. Erano sotto il costante controllo della polizia, in un clima di violenza e di minacce. Queste condizioni, nel complesso, devono essere state fonte di angoscia.

      Infine, la Corte ha riscontrato una violazione dell’Articolo 3 per quanto riguarda il richiedente (T.B.) che ha affermato di essere stato picchiato durante un altro tentativo di allontanamento. Due degli altri richiedenti hanno confermato il suo racconto durante i colloqui relativi alle loro richieste di protezione internazionale; uno ha dichiarato in particolare di aver visto un altro migrante che veniva riportato dalla polizia dall’aeroporto con il volto tumefatto. Anche se T.B. aveva detto, durante un colloquio con le autorità, di essere in grado di identificare i tre agenti di polizia responsabili dei suoi maltrattamenti, non è stata condotta alcuna indagine.

      La Corte ha notato che il Governo le aveva fornito una copia di un’ordinanza di refusal-of-entry nei confronti di uno dei richiedenti, A.E., datata 1 agosto 2016, e la Corte ha quindi dichiarato inammissibile il suo reclamo sulla sua detenzione. D’altra parte, ha rilevato che gli altri tre ricorrenti nel caso, ai quali non erano stati notificati ordini di refusal-of-entry fino al 22 agosto 2016, erano stati arrestati e trasferiti senza alcuna documentazione e senza che potessero lasciare l’hotspot di Taranto. Ciò ha comportato una privazione arbitraria della loro libertà, in violazione dell’Articolo 5 § 1.

      Inoltre, era assente una legislazione chiara e accessibile relativa agli hotspot e la Corte non ha avuto alcuna prova di come le autorità avrebbero potuto informare i richiedenti delle ragioni legali della loro privazione di libertà o dare loro l’opportunità di contestare in tribunale i motivi della loro detenzione de facto.

      La Corte ha però respinto come inammissibili tutti i reclami dei nove ricorrenti, tranne uno, in merito al fatto che le autorità italiane non avevano preso in considerazione il rischio di trattamenti inumani se fossero stati rimpatriati in Sudan. In A.E. e T.B. contro Italia, i richiedenti, che avevano ottenuto la protezione internazionale, non erano più a rischio di deportazione e non potevano quindi affermare di essere vittime di una violazione dell’Articolo 3. In W.A. e altri c. Italia, la Corte ha ritenuto che quattro dei cinque ricorrenti, per i quali il rapporto della polizia belga del 2022 non aveva stabilito una corrispondenza affidabile tra le fotografie fornite dalle parti, non avessero sufficientemente motivato i loro reclami.

      La Corte ha dichiarato ammissibile il reclamo del ricorrente, W.A.. Ha osservato che i documenti disponibili erano sufficienti per concludere che si trattava di una delle persone indicate nelle fotografie identificative fornite dal Governo. Ha quindi ritenuto che fosse tra i cittadini sudanesi allontanati in Sudan il 24 agosto 2016. Tuttavia, la Corte ha continuato a ritenere che non vi fosse stata alcuna violazione dell’Articolo 3 nel caso di W.A. .

      In particolare, ha notato che c’erano state delle imprecisioni nel suo modulo di richiesta alla Corte e che, sebbene fosse stato assistito da un avvocato in diversi momenti della procedura di espulsione, aveva esplicitamente dichiarato di non voler chiedere la protezione internazionale e di essere semplicemente in transito in Italia. Inoltre, a differenza dei richiedenti nel caso A.E. e T.B. contro l’Italia, che avevano ottenuto la protezione internazionale sulla base delle loro esperienze personali, W.A. aveva sostenuto di appartenere a una tribù perseguitata dal Governo sudanese solo dopo aver presentato la domanda alla Corte europea. Questa informazione non era quindi disponibile per le autorità italiane al momento rilevante e la Corte ha concluso che il Governo italiano non ha violato il suo dovere di fornire garanzie effettive per proteggere W.A. dal respingimento arbitrario nel suo Paese d’origine.

      – Guerra al desiderio migrante. Deportazioni da Ventimiglia e Como verso gli hotspot, di Francesco Ferri (https://www.meltingpot.org/2016/08/guerra-al-desiderio-migrante-deportazioni-da-ventimiglia-e-como-verso-gl) – 17 agosto 2026
      – Rimpatrio forzato dei cittadini sudanesi: l’Italia ha violato i diritti. Rapporto giuridico sul memorandum d’intesa Italia-Sudan a cura della Clinica Dipartimento di Giurisprudenza di Torino (https://www.meltingpot.org/2017/10/rimpatrio-forzato-dei-cittadini-sudanesi-litalia-ha-violato-i-diritti-um) – 31 ottobre 2017.
      - The cases of A.E. and T.B. v. Italy (application nos. 18911/17, 18941/17, and 18959/17, https://hudoc.echr.coe.int/?i=001-228836) and W.A. and Others v. Italy (no. 18787/17, https://hudoc.echr.coe.int/?i=001-228835)

      https://www.meltingpot.org/2023/11/denudati-maltrattati-e-privati-della-liberta-la-cedu-condanna-nuovamente

  • VICTOIRE DE LA CAMPAGNE BDS SUR LE BOYCOTT DES PRODUITS ISRAÉLIENS : LA FRANCE CONDAMNEE PAR LA CEDH
    La Campagne BDS France, le 11 juin 2020
    https://www.bdsfrance.org/victoire-de-la-campagne-bds-sur-le-boycott-des-produits-israeliens-la-fra

    Condamnation des autorités françaises : selon la CEDH, l’appel au boycott des produits israéliens est protégé par la liberté d’expression.

    La campagne BDS France se réjouit de l’arrêt de la Cour européenne des droits humains (affaire Baldassi et autres c. France, requêtes n°15271/16 et autres) rendu le 11 juin 2020 qui condamne la France pour avoir violé le droit à la liberté d’expression de militant-e-s associatif-ve ayant appelé au boycott de produits israéliens dans des magasins.

    L’article 10 protège la liberté d’expression, qui peut être restreinte à certaines conditions. Les militant-e-s BDS affirmaient que ces conditions n’étaient pas remplies et que leur liberté d’expression avait été bafouée par la France. A l’unanimité, la CEDH dit que la France a violé l’article 10 de la Convention.

    La France est donc condamnée pour violation de l’article 10 de la CEDH (qui protège la liberté d’expression) : elle doit verser dans les trois mois 7 380 euros personnellement à chaque militant et 20 000 euros en plus à eux tous en commun.

    La campagne BDS France relève également que la Cour a bien pris en compte les spécificités des appels au boycott des produits israéliens lancés par les militant-e-s associatif-ve-s engagé-e-s contre l’apartheid israélien. L’arrêt énonce que « les propos reprochés aux requérants concernaient un sujet d’intérêt général, celui du respect du droit international public par l’État d’Israël et de la situation des droits humains dans les territoires palestiniens occupés, et s’inscrivaient dans un débat contemporain, ouvert en France comme dans toute la communauté internationale » (§78).

    Ces propos relèvent de la liberté d’expression dans un régime démocratique et sont ainsi protégés. L’appel au boycott des produits d’un régime d’apartheid est bien un droit pour les mouvements mobilisés en faveur du respect du droit international, droit qui avait été exercé par les mouvements pacifiques qui ont lutté en Inde, aux Etats-Unis et en Afrique du Sud contre le colonialisme et la discrimination.

    L’arrêt de la Cour européenne des droits humains prouve, comme nous l’avons toujours dit, que les autorités françaises ont eu tort de vouloir criminaliser un mouvement non violent et responsable comme le nôtre, qui, tout en condamnant toute forme de racisme dont l’antisémitisme, réclame des mesures de boycott contre le régime israélien, ses entreprises et ses institutions, tant que cet Etat ne respecte pas le droit international. Cet arrêt met en lumière le caractère faux et malhonnête des tentatives de diffamation menées contre la campagne BDS, tentatives visant à museler celles et ceux qui demandent à agir contre l’apartheid israélien.

    Conséquemment à l’arrêt de la CEDH, nous demandons aux autorités françaises d’abroger immédiatement les circulaires Alliot-Marie et Mercier afin de reconnaître la légalité et la légitimité de nos modes d’actions non violents et d’entamer un dialogue avec nous afin de contribuer ensemble à exercer une pression sur l’Etat d’Israël en vue d’obtenir que le droit international soit respecté.

    Nous invitons les entreprises françaises à désinvestir d’Israël et aux institutions françaises à cesser toute collaboration avec les institutions publiques israéliennes.

    Nous sommes déterminé-e-s à continuer les actions de boycott des produits israéliens et des entreprises internationales complices de l’apartheid israélien. Nous réclamons également un boycott des universités et des institutions israéliennes complices, ainsi que des manifestations culturelles et sportives faisant la promotion de l’apartheid israélien.

    Israël, pays de l’apartheid, ne pourra pas indéfiniment empêcher la justice et la liberté pour le peuple palestinien de triompher !

    Nous invitons tou-te-s les citoyen-ne-s de bonne volonté et toutes les mouvements attachés au respect des droits humains et de la légalité internationale à rejoindre la campagne BDS. Notre mobilisation est plus que jamais légitime et indispensable au moment où les autorités israéliennes envisagent, en violation du droit international, d’annexer une partie de la Cisjordanie, poursuivant ainsi la dépossession du peuple autochtone palestinien, entérinée par le plan Trump.

    BDS pour la justice, la dignité et l’égalité !

    #France #BDS #Boycott #Palestine #Justice #Criminalisation_des_militants #Liberté_d'expression #CEDH #Cour_européenne_des_droits_humains

    • #MH17 à la CEDH, la plainte visant l’Ukraine pour la non fermeture de son espace aérien est toujours en attente : toujours pas de décision sur sa recevabilité…

      l’article original
      MH17 : Der EGMR drückt sich vor einer Entscheidung | Telepolis
      https://www.heise.de/tp/features/MH17-Der-EGMR-drueckt-sich-vor-einer-Entscheidung-4401994.html

      Im Namen von Angehörigen hat der deutsche Experte für das Luftfahrtrecht, Elmar Giemulla, die Ukraine bezichtigt, den Luftraum fahrlässig nicht gesperrt zu haben. Die Klage wurde bis zum heutigen Tag weder abgewiesen noch angenommen

    • Sur le site de la CEDH, la recherche de « MH-17 » ne me retourne qu’une décision toute récente (04/04/19) de transmission à la Russie des plaintes la visant. Trois ans après le dépôt de la première.

      Communication Ayley and Others v. Russia and Angline and Others v. Russia - downing of flight MH-17
      https://hudoc.echr.coe.int/eng-press#{"itemid" :["003-6376180-8356050"]}

      The European Court of Human Rights decided on 3 April to communicate to the Government of Russia the applications Ayley and Others v. Russia (application no. 25714/16) and Angline and Others v. Russia (no. 56328/18), and requested it to submit observations.

      The applications were lodged by the relatives of people who were killed in the downing on 17 July 2014 of flight MH-17 over the territory of eastern Ukraine.

      They allege in particular that the Russian Federation was directly or indirectly responsible for the destruction of the plane and failed to investigate the disaster properly or cooperate with other investigations.

      Russia has repeatedly denied any involvement in the destruction of the aircraft.

      A statement of facts submitted to the parties, with questions from the Court, is available in English on the Court’s website. The Court’s ruling in the case will be made at a later stage.

  • https://www.francetvinfo.fr/france/hauts-de-france/migrants-a-calais/jungle-de-calais-la-cour-europeenne-des-droits-de-l-homme-condamne-la-f

    La Cour européenne des droits de l’homme a condamné, jeudi 28 février, la France pour traitements dégradants à l’égard d’un jeune Afghan de 12 ans qui avait passé six mois dans la « jungle » de Calais sans être pris en charge par les services sociaux. La France est condamnée à verser 15 000 euros à l’enfant, devenu adolescent, au titre du dommage moral.

    [L]a Cour de Strasbourg [...] dit n’être « pas convaincue que les autorités (…) ont fait tout ce que l’on pouvait raisonnablement attendre d’elles pour répondre à l’obligation de prise en charge et de protection qui pesait sur l’État défendeur s’agissant d’un mineur isolé étranger en situation irrégulière âgé de douze ans, c’est-à-dire d’un individu relevant de la catégorie des personnes les plus vulnérables de la société. » L’arrêt a été rendu à l’unanimité des juges.

    #noborder #justice #hypocrite #hollande #valls #calais #jungle #ghetto

    • Migrants : comment un mineur afghan a fait condamner la France par la justice européenne ?

      La France a été reconnue jeudi coupable de traitements dégradants à l’égard d’un jeune Afghan qui a vécu six mois dans la jungle de Calais alors qu’il n’avait que douze ans. La Cour européenne des droits de l’Homme a estimé que Paris n’avait respecté ni le droit français, ni le droit international relatif à la protection de l’enfance.

      Jamil Khan avait déposé une requête contre le gouvernement français devant la Cour européenne des droits de l’Homme (CEDH) en mars 2016. Arrivé seul en France alors qu’il n’avait que 11 ans, il avait vécu pendant six mois dans la jungle de la Lande de Calais. Dans sa requête, il dénonçait le manque de protection et de prise en charge de la France envers « les mineurs isolés étrangers qui, comme lui, se trouvaient sur le site de la Lande de Calais », rappelle la CEDH dans son arrêt rendu public jeudi 28 février.

      Le jeune Afghan, aujourd’hui âgé de 15 ans et installé dans un foyer à Birmingham (Royaume-Uni), a obtenu gain de cause. La cour a condamné la France à lui verser 15 000 euros. Les juges ont estimé que la France n’a respecté ni son droit interne, ni le droit international relatif à la protection de l’enfance, en laissant ce mineur vivre « durant plusieurs mois (...) dans un environnement totalement inadapté à sa condition d’enfant, que ce soit en termes de sécurité, de logement, d’hygiène ou d’accès à la nourriture et aux soins ».

      Six mois dans la jungle

      Né en 2004 en Afghanistan, Jamil Khan a indiqué avoir quitté son pays à la mort de son père. Il souhaitait se rendre au Royaume-Uni pour y demander l’asile et s’était retrouvé à Calais « en suivant des exilés rencontrés sur la route, dans l’espoir d’y trouver un moyen de passer au Royaume-Uni ».

      Installé avec les autres migrants dans la jungle de la Lande à Calais, Jamil Khan a vécu pendant plusieurs mois au milieu d’adultes, dans une cabane de fortune, sans scolarisation.

      La CEDH note qu’il a fallu attendre le 22 février 2016 pour qu’un juge, saisi par une ONG, ordonne la prise en charge de l’adolescent alors âgé de 12 ans, alors que sa cabane venait d’être détruite dans le démantèlement de la zone sud du campement sauvage de migrants à Calais.

      Le gouvernement s’est défendu en affirmant que ni le jeune homme, ni son représentant ad hoc, ni son avocate ne s’était présenté aux services sociaux. Par ailleurs, l’adolescent a définitivement quitté la France environ un mois plus tard, en mars 2016, pour entrer clandestinement au Royaume-Uni où il a été recueilli par les services britanniques de l’aide à l’enfance, détaille la cour dans son arrêt.

      Mais la cour a fait savoir qu’elle n’était pas convaincue que les autorités françaises aient fait tout ce qui était en leur pouvoir pour offrir protection et prise en charge à l’adolescent.

      « La France viole le droit tous les jours en matière d’accueil des étrangers »

      « Avec cet arrêt, on pourra forcer un peu plus les autorités françaises à faire davantage pour les personnes vulnérables en situation d’exil », a estimé Me Lionel Crusoé, coreprésentant de Je Jamil Khan auprès de la CEDH.

      Car au-delà de ce cas précis, c’est l’obligation de prise en charge des mineurs isolés étrangers, « individu(s) relevant de la catégorie des personnes les plus vulnérables de la société », qui est rappelée par la CEDH à la France et plus généralement à l’Europe.

      « La France viole le droit tous les jours en matière d’accueil des étrangers », a réagi auprès de l’AFP François Guennoc, de l’Auberge des Migrants à Calais, qui s’attend à ce que le pays « s’assoie sur cette condamnation, comme d’habitude ».

      Didier Degrémont, président départemental du Secours catholique dans le Pas-de-Calais, met de son côté en garde : « Le problème existe encore aujourd’hui, avec un nombre important de mineurs non accompagnés qui dorment dehors ».

      Par ailleurs, une vingtaine d’associations emmenées par l’Unicef ont saisi jeudi le Conseil d’État contre le très controversé fichier des mineurs isolés étrangers, qu’elles accusent de servir la lutte contre l’immigration irrégulière au détriment de la protection de l’enfance.

      Les 19 requérants ont déposé un référé et une requête en annulation contre le décret du 31 janvier créant ce fichier biométrique. L’objectif est d’"obtenir rapidement la suspension de ce texte et à terme, son annulation", expliquent dans un communiqué ces associations, parmi lesquels l’Armée du salut, Médecins du monde, la Cimade et la Fédération des acteurs de la solidarité (FAS, qui revendique 850 associations).

      https://www.infomigrants.net/fr/post/15456/migrants-comment-un-mineur-afghan-a-fait-condamner-la-france-par-la-ju

    • Le jeune Afghan, aujourd’hui âgé de 15 ans et installé dans un foyer à Birmingham (Royaume-Uni), a obtenu gain de cause. La cour a condamné la France à lui verser 15 000 euros. Les juges ont estimé que la France n’a respecté ni son droit interne, ni le droit international relatif à la protection de l’enfance, en laissant ce mineur vivre « durant plusieurs mois (...) dans un environnement totalement inadapté à sa condition d’enfant, que ce soit en termes de sécurité, de logement, d’hygiène ou d’accès à la nourriture et aux soins ».

      Je parlerais plutôt d’un « un environnement totalement inadapté à sa condition d’humain »

    • Aujourd’hui en France, il faut donc aller jusqu’à saisir une juridiction internationale pour faire sanctionner des violations aussi graves et flagrantes du droit, commises régulièrement par l’administration. Et si un enfant maltraité a obtenu, cette fois, une réparation pécuniaire, qu’en est-il de toutes celles et ceux, expulsé·e·s de la même manière depuis 2016 et aujourd’hui quotidiennement à Calais, Grande-Synthe et sur le littoral, qui continuent de subir des traitements inhumains et dégradants ?

      https://www.gisti.org/spip.php?article6099
      #Gisti

  • Crimes sexuels & protection de la victime alléguée : La CEDH décide d’examiner une affaire relative aux conditions dans lesquelles six hommes jugés pour viol collectif ont été acquittés.
    https://hudoc.echr.coe.int/fre#{"itemid" :["001-181092"]}

    OBJET DE L’AFFAIRE

    En 2008, la requérante dénonça avoir été victime d’un viol collectif perpétré par six hommes, alors qu’elle était, au moment des faits, sous l’influence de l’alcool. Le tribunal de première instance, ayant considéré que la requérante se trouvait au moment des faits dans une condition de vulnérabilité physique et psychique à cause des effets de l’alcool, condamna les six hommes pour le délit de viol en réunion commis sur personne vulnérable.

    Par la suite, la cour d’appel de Florence renversa le verdict et acquitta les inculpés. La requérante se plaint d’avoir fait l’objet d’une « nouvelle victimisation » au cours de la procédure pénale contre ses agresseurs, dans la mesure où les juges auraient finalement exclu l’existence du viol en raison de considérations ayant trait à sa situation familiale, à son style de vie et à ses habitudes sexuelles, dépourvues de toute pertinence juridique et portant atteinte à sa dignité et à sa vie privée. Elle invoque les articles 8 et 14 de la Convention.

    QUESTIONS AUX PARTIES

    1. L’État défendeur a-t-il respecté ses obligations positives, découlant de l’article 8 de la Convention, de mener une enquête effective afin d’identifier et de punir les auteurs de la violence sexuelle alléguée par la requérante (voir, parmi d’autres, M.C. v. Bulgaria, no. 39272/98, §§ 153, 166 and 184, ECHR 2003‑XII) ?

    2. La démarche adoptée par les juges et les magistrats de l’affaire a-t-elle été respectueuse du droit au respect de la vie privée et de l’intégrité personnelle de la requérante protégés par l’article 8 de la Convention (voir, mutatis mutandis, Y. c. Slovénie, no 41107/10, CEDH 2015 (extraits) ? Les autorités ont-elles pris toutes les mesures nécessaires pour éviter, dans la mesure du possible, que la requérante soit exposée à une « nouvelle victimisation » dans le cadre de la procédure pénale menée contre ses prétendus agresseurs ?

    3. La requérante a-t-elle été victime d’une discrimination fondée sur le sexe, contraire à l’article 14 de la Convention combiné avec l’article 8 (voir, entre autres, Eremia c. République de Moldova, no 3564/11, §§ 80 et ss, 28 mai 2013 ; Talpis c. Italie, no 41237/14, §§ 141 et ss, 2 mars 2017) ?

    • Cette histoire est d’une telle violence ! Je ne sais pas, c’est totalement indescriptible… Même le droit ultime d’enterrer dignement ses morts, on ne peut pas l’avoir quand on est migrant ? « Like a dog » effectivement.

    • «Care #Divany e #Medina, scusateci»

      Avevano 3 e 6 anni, sono morte rispettivamente il 6 e il 21 novembre nel mar Mediterraneo e sulla ferrovia alla frontiera tra Croazia e Serbia. La mamma di Divany la ricorda a Scicli con una corona di fiori, i genitori di Medina non si danno pace. Attorno a loro volontari e operatori che condividono il dolore e denunciano la disumanità delle frontiere chiuse: ecco la lettera-monito di Silvia Maraone di Ipsia che era con la bimba afgana pochi giorni prima della tragedia

      http://www.vita.it/it/article/2017/12/12/care-divany-e-medina-scusateci/145422

    • Morire di Europa a sei anni.

      Numeri.

      L’altra sera mi trovavo a Milano e leggevo i numeri delle migrazioni negli ultimi quattro anni. Oltre ai diversi ingressi registrati, c’è un’altra statistica che viene citata poco. Il numero delle persone morte nel tentativo di arrivare da noi, in Europa. Sono stime, perchè di tante persone non conosceremo mai veramente il destino. Chi annega in mare e viene sommerso dai flutti. Chi muore di sete e di caldo nel deserto e sparisce ingoiato dalla sabbia rovente. Chi congela nei fiumi e tra le montagne dei Balcani e viene divorato dagli animali selvatici. Sono in media quattromila all’anno le persone che spariscono così. Seppellite in fosse comuni, lontane dalle proprie famiglie e dalle proprie case. Noi li vediamo come una massa indistinta, fatta di numeri. E non ci sconvolge.

      Viviamo tra i morti, nuotiamo tra i cadaveri nel Mediterraneo. E non ci pensiamo, se non quando magari una foto più di un’altra non ci colpisce. Ci fu il caso di Aylan nel 2015, con la sua maglietta rossa, riverso a faccia in giù sulla riva del mare, che ci fece trattenere per un attimo il fiato e che spalancò di colpo le porte del sogno EU a quasi un milione di persone. Dopodichè, quel quasi milione di persone divenne troppo da gestire e firmammo un accordo a Marzo 2016, per chiudere la rotta balcanica, lasciando quasi 80.000 persone ferme tra la Grecia, la Macedonia e la Serbia.

      Di loro, dei quasi settemila bloccati in Serbia, la maggioranza Afghani, ci siamo dimenticati in fretta. Sono stati sistemati tutti quanti nei 18 campi profughi aperti dal governo con il finanziamento dell’UE. I siriani sono rimasti in Grecia, prima o poi verranno ricollocati. E quasi quattro milioni sono in Turchia, bloccati dopo l’accordo di cui sopra.

      In questi mesi, da Maggio, quando sono arrivata in Serbia, ho conosciuto diverse centinaia di persone. Famiglie sopratutto, ragazzi, uomini. Sono in viaggio da due anni, per lo più. Hanno già conosciuto la durezza del cammino, la paura dell’acqua, il dolore dei colpi dati dal manganello. Uomini, donne, bambini.

      Quando ho cominciato a fare volontariato vent’anni fa nei campi profughi in Slovenia, erano sopratutto loro, i bambini, l’energia in più che faceva sembrare meno brutta la vita in quel limbo. Con loro era facile dimenticare dove ti trovavi, la durezza e la noia della vita nel campo, l’incertezza del futuro. Quei pensieri consumavano e consumano sopratutto gli adulti, coloro che sanno quanti soldi hanno già speso e quanto ancora devono indebitarsi per andare avanti nel game. Quanto costerà provare ad attraversare la Croazia o l’Ungheria con i trafficanti.

      Negli ultimi mesi molti hanno cominciato a tentare di attraversare i boschi tra la Serbia e la Croazia da soli, con le mappe di Google. L’Ungheria è più difficile da attraversare, lì il confine è più sorvegliato, ci sono fili spinati doppi con lame di rasoio in cima, ci sono i cani, ci sono i sensori di rilevamento termico e le telecamere a infrarossi. E poi ci sono i manganelli, gli ungheresi prima di cacciarti ti pestano, così forse non proverai più la prossima volta. E’ così che rimandano in Serbia brandelli di umanità, feriti nello spirito e nel corpo. La Croazia invece da quest’estate sembrava più porosa, sembrava quasi si riuscisse a passare e poi se proprio non si riusciva ad andare più in là, verso Austria o Ungheria, si poteva chiedere l’asilo. Non sarà Shengen, ma è pur sempre EU.

      Da novembre, osserviamo impotenti i tentativi che le persone fanno di andare di là, a Nord dalle parti di Šid. Dal nostro campo decine di persone sono partite e le abbiamo viste ritornare.

      Una di queste famiglie non è tornata intera. Avevano lasciato il nostro campo ad Agosto e passato un paio di mesi tra Tutin e Belgrado, fino a quando non hanno provato ad attraversare il confine.

      Di Madina ricordo che aveva gli occhi grandi, i capelli neri e folti, uno sguardo vispo e un sorriso furbo. Era piccolina e si confondeva in mezzo ai suoi fratelli e sorelle. Una mattina di Maggio, ero da poco arrivata in Serbia, arrivo al campo e sento i bambini che urlano e corrono verso di me: “cats, cats”! Madina mi prende per mano e mi porta a un grande vaso in cemento, dentro il quale ci sono due gattini neri di meno di un mese, terrorizzati. I bambini sono eccitati e contenti, giocano coi gatti, senza pensare a quanto siano spaventati. Prendo i gatti, li metto in una scatola e li porto in auto. I gatti, avranno molta più fortuna dei profughi bloccati da anni nel limbo migratorio, loro sono a Milano e vivono pasciuti e felici in una bella famiglia, con documento di identità e regolarmente registrati in Comune.

      Madina era così, curiosa, sorridente, chiacchierona. Anche se non parlava così bene inglese riusciva a farsi capire e ti saltellava intorno.

      Mi immagino come sia stato faticoso per lei, con le sue gambette corte, attraversare la “jungle” tra la Serbia e la Croazia, di notte, tra i fili spinati e le pattuglie della polizia, senza probabilmente capire cosa stava succedendo. Così come non avrà capito cosa è successo, quanto un treno l’ha travolta, uccidendola e lasciando il suo corpo insanguinato al buio, vicino ai binari, mentre gli altri della sua famiglia cercavano di capire al buio dove fosse finita la piccola. L’ha trovata Rashid, suo fratello. Un ragazzo alto e gentile, taciturno, sempre disponibile e attento ai piccoli della famiglia. Mi immagino le urla di Nilab, la sorella maggiore con cui giocavo a pallavolo e con cui parlavamo dei sogni di arrivare in Europa e poter vivere liberamente, in Germania.

      La versione ufficiale della polizia croata è che abbiano assistito con i visori infrarossi ai movimenti di un gruppo di persone lungo la ferrovia, dal lato serbo del confine e di come sia passato il treno, a seguito di questo parte del gruppo è andata di corsa verso le pattuglie portando in braccio il corpo di una bambina. La polizia afferma che stavano compiendo i loro compiti routinari di difesa delle frontiere, così come previsto dalle leggi del’UE, applicando i respingimenti forzati.

      La versione della famiglia, supportata da organizzazioni umanitarie (tra cui MSF) e gruppi di attivisti e volontari è che la famiglia avesse invece già raggiunto la Croazia e che sia stata respinta verso la Serbia, ricevendo come indicazioni di seguire la ferrovia, senza essere avvisati del potenziale pericolo del passaggio dei treni anche di notte e rifiutando la richiesta della madre stremata che chiedeva solo di poter riposare un po’ con i figli, stanchi, affamati e infreddoliti. Oltre a questo, in nessun modo la famiglia ha avuto alcun aiuto da parte né dei croati, né tantomeno dei serbi, che per alcuni giorni non hanno nemmeno dato il corpo alla famiglia e hanno loro imposto un funerale senza rispettare le usanze musulmane. E’ così che la piccola Madina ora si trova sepolta a pochi chilometri dal luogo in cui è stata uccisa, lontana dalla sua casa, dalla sua famiglia. Era la notte tra il 20 e il 21 Novembre.

      Questa notizia all’inizio era passata in silenzio, diffusa tra i social, twittata da alcuni organizzazioni, sino a quando Al Jazeera non l’ha ripresa, seguita dal Guardian e anche dal nostro Corsera. Le parole di Nilab, che Madina non venga dimenticata, sono state ascoltate.

      E noi, cosa possiamo fare? Come si può restare indifferenti alla morte di Madina e delle migliaia di innocenti che cercano solamente un futuro migliore, mettendo in gioco tutto ciò che hanno, cioè la loro vita?

      Io li vedo questi confini insaguinati e queste vite miserabili. Ero in Croazia il giorno dopo che Madina era morta, lungo la strada che passa dietro il confine. Ho visto le pattuglie, i cani, la caccia all’uomo. Ho visto la polizia croata. E ho visto la polizia ungherese e la caccia all’uomo da quella parte del confine. Ho visto il filo spinato, ho respirato la paura, il buio e il freddo. Ho visto i fuocherelli accesi nella notte da chi parte per il game, le immondizie abbandonate dietro di sé, le scarpe spaiate, le coperte grigie dell’UNHCR. Ho sentito i racconti di bambini di sei-sette anni, di come dopo aver camminato per tanti chilometri non riuscivano più a fare un passo e si addormentavano ogni volta che si dovevano abbassare per sfuggire alle vedette. Mi hanno parlato del freddo, della sete, della fame. Della paura.

      E no, bambini, non è questo il game. Non è giusto che il gioco sia questo. Io ho avuto fortuna, sono stata una bambina amata e cresciuta in una grande città, dove andavo a scuola, giocavo coi compagni, ho fatto gli scout, sport e volontariato. Dopo la Slovenia, sono stata in Bosnia e in Kosovo e ora qua in Serbia, e provo a portare sorrisi e giocare, a dimenticare, a ricordare che siete solo bambini e che avete diritto alla felicità e alla spensieratezza, ad andare a scuola, avere vestiti caldi e puliti, pupazzi e giocattoli, dei nonni che vi coccolino e vi vizino, dei genitori che si preoccupino per voi.

      E no, non posso dimenticare Madina, non posso dimenticare il suo entusiasmo per i gattini, il modo in cui ballava “tutte le scimmiette in fila per sette”. Non posso dimenticare lei, la sua famiglia e tutte le persone incontrate in questi anni di Balkan route, accampate a Idomeni, a Hotel Hara, a Eko station, al campo profughi di Sounio, a Helliniko, a Horgos e Kelebija, nelle barracks di Belgrado, nell’Afghan park e il modo in cui nonostante tutto, i bambini riescano a giocare. Non posso.

      E se vi chiedete come si fa, non lo so nemmeno io come si fa, so solo che quando vedo mia nipote Anna che ha 4 anni e dei ricci bellissimi e le ho appena regalato un pigiama con Elsa di Frozen, penso solo che lei è fortunata e le auguro che la vita non le dia mai quello che sta dando a queste migliaia di Madina in giro per il mondo alla ricerca di fortuna.

      Tra poco è Natale, spenderemo un sacco di soldi per cibo, regali, luminarie e decorazioni.
      Qualcosa lo potete fare anche voi. Ricordatevi di Madina e di quelli che stanno ancora facendo il game.

      Potete fare un regalo ai bambini di Bogovadja. Non sono giocattoli, non sono dolci e caramelle, sono scarpe e vestiti per l’inverno, dignitosi e caldi, che forse gli serviranno quando dovranno attraversare i boschi al confine.
      http://www.caritasambrosiana.it/emergenze-caritas/emergenze-in-corso/emergenza-freddo-bogavadja

      Ciao, Madina.


      https://nellaterradeicevapi.wordpress.com/2017/12/09/morire-di-europa-a-sei-anni

    • Odvjetnica obitelji #Madine: “Policija me zastrašivala, nisam to nikad doživjela”

      NJEMAČKA javna televizija ARD sinoć je emitirala 45-minutni dokumentarac “Smrt na balkanskoj ruti” koji se bavi smrtnim slučajevima migranata i izbjeglica koji pokušavaju preko područja bivše Jugoslavije doći do Europske unije od 2015. do danas. Dio dokumentarca je posvećen ponašanju hrvatske policije prema migrantima, naročito u slučaju afganistanske djevojčice Madine.

      U ARD-ovom dokumentarcu se hrvatsku policiju optužuje da na granici provodi tzv. push back, tj. ilegalno vraćanje migranata u državu iz koje su ušli, a da im se ne omogućuje traženje azila, što je protiv važećih pravnih propisa Europske unije i Hrvatske. No ističe se i licemjerje njemačkih vlasti koje tvrde da nemaju nikakvih dokaza o takvom postupanju hrvatske policije, iako su “već stotine takvih slučajeva dokumentirane”, navodi se u dokumentarcu. Tj. jasno se kaže da hrvatska policija uz prešutno odobravanje službenog Berlina krši važeće zakone i onemogućava migrantima konzumiranje njihovih ljudskih prava.

      Ilegalna politika “push backa” migranata

      U dokumentarcu su razgovarali i sa SDP-ovim bivšim ministrom unutarnjih poslova Rankom Ostojićem koji kaže da je “push back” postao neslužbena politika EU-a prema migrantima.

      Detaljno se obrađuje i smrt male Madine koja je poginula nakon što su hrvatski policajci na granici Hrvatske i Srbije uhvatili njenu obitelj u ilegalnom prelasku te ih vratili u Srbiju po željezničkoj pruzi unatoč tome što je Madinina majka zatražila azil. Madinu je onda udario vlak, a hrvatska policija je djevojčicu odvela u bolnicu u Hrvatskoj, dok njenoj majci nije dozvolila da ide s njom, nego ju je protjerala opet prema Šidu na srbijanskoj strani granice.

      Odvjetnica Madinine obitelji: “Nešto tako nisam doživjela u svojoj karijeri”

      Odvjetnica Madinine obitelji Sanja Jelavić u dokumentarcu ARD-a svjedoči o tome kako je hrvatska policija dolazila u njen ured i pokušala je zastrašiti, kao i da joj nisu dozvoljavali da kontaktira svoje klijente. “Nešto tako nisam još doživjela u svojoj karijeri”, kaže Jelavić te dodaje da je to ipak nije pokolebalo u zastupanju klijenata.

      Pučka pravobraniteljica pak proziva hrvatsku policiju zbog toga što je misteriozno nestala toplotna snimka protjerivanja Madinine obitelji u Srbiju te ističe da postoje toplotne snimke tog dana i prije i poslije tog incidenta. Ni sama ne vjeruje u službeno objašnjenje hrvatske policije da je baš u tom periodu “nestalo struje”, no još više zabrinjava činjenica da nestanak snimke sugerira kako policija zapravo uništava dokaze o vlastitom kršenju zakona.

      Novinari ARD-a uspjeli su nakratko o svemu tome pitati i premijera Andreja Plenkovića koji je Madininu smrt opisao kao nesretan slučaj, no na detaljnija pitanja nije htio odgovarati, ustvrdivši da hrvatska policija sve radi po zakonu.


      https://www.index.hr/vijesti/clanak/odvjetnica-obitelji-madine-policija-me-zastrasivala-nisam-to-nikad-dozivjela/2073807.aspx

    • Two years ago, because of the violence and the illegal actions of Croatian police officers, a young Afghan girl lost her life: her name was Madina, and she died hit by a train after being pushed back during a cold night of November 2017. A date that activists in the region remember with great sadness and concern. Welcome! Initiative decided to commemorate this date remembering Madina and the square that was named like her one year ago - on our facebook event you can see how several people took some time to remember Madina and her family, by taking pictures with the panel writing the real name of that square: Trg Madina Hussiny (https://www.facebook.com/events/2425274427693693). “the square with her name as a lasting reminder that no one and no nation-state, government, military force, economy or political regime has the right to determine whose life is worth living and who is not”. H-alter wrote more about today’s date in this article: https://www.h-alter.org/vijesti/pravda-za-madinu-hussiny-ldquomadina-dobrodosla-u-srediste-zagrebardquo

      Because of the work of several individuals, activists and organizations on the tragic event of Madina, and the decision of the family to file a legal complaint against Croatia to the European Court of Human Rights, a lot of measures of criminalization of solidarity and intimidation started, towards the same lawyers, individuals and organizations that supported the family in their request for justice. Today, Centre for Peace Studies and Are You Syrious talked about it at the European Parliament (https://www.greens-efa.eu/en/article/event/shrinking-spaces), bringing the Madina’s memory there and firmly asking the European politicians to do everything in their power to stop the violence at the borders and the human rights violations against refugees and whoever decides to support them.

      Reçu via Inicijativa Dobrodosli, mail du 27.11.2019.

    • Finally, justice for Madina!

      This week, The European Court of Human Rights has rejected Croatia’s request to reconsider the decision in the case of little Madina’s death. In fact last year, Croatia has been found guilty, and Madina Hussiny and her family were recognized by the European Court of Human Rights as victims of illegal expulsion by the Republic of Croatia, which resulted in the loss of Madina’s life, a six-year-old girl, on November 21, 2017. In addition, the judgment showed that the Republic of Croatia treated children inhumanely by keeping them in detention, illegally deprived the whole family of their liberty, collectively expelled part of the family from Croatia and, after all, denied them access to lawyer precisely with the aim of preventing this case from reaching the European Court of Human Rights. The verdict, which confirms that Croatia has violated her right to life, has become final. An effective investigation in this case was never conducted. Centre for Peace Studies in their press release (https://www.cms.hr/en/azil-i-integracijske-politike/presuda-esljp-a-u-slucaju-obitelji-hussiny-je-konacna-trazimo-hitnu-smjenu-vrha-) declared: “After this strong and final confirmation of the ruling, the Government of the Republic of Croatia and Prime Minister Andrej Plenković can no longer turn their heads, but must urgently dismiss those responsible, led by the Minister of the Interior Davor Božinović. In addition to urgently finding and sanctioning the direct perpetrators, we again demand the immediate dismissal of those with command and political responsibility, namely Chief of Police Nikola Milina and Chief of Border Police and Assistant Chief of Police Zoran Ničeno, as well as Secretary of State Terezija Gras who participated in pressures against human rights defenders and blocking the independent international investigations.”

      In this occasion, to permanently remember and never suppress the truth about the death of Madina Hussiny, several local initiatives together with Welcome! Initiative (Zagreb city-refuge, and Initiative for Madina Hussiny Square Naming), sent to the Committee for the Naming of Settlements, Streets and Squares a proposal for the name Madina Hussiny for inclusion in the Name Fund. Zagreb can and should have Madina Hussiny Square, for her and all the other lives lost because of racist border regimes.

      –-> via Inicijativa Dobrodosli (mailing-list du 08.04.2022)

    • Madina Hussiny

      According to Aleksandra, a volunteer in the refugee camp in Sofia, where Madina Hussiny (Hosseini, Husseni), a girl from Afghanistan who was at most five or six years old when she died on the Croatian-Serbian border during the pushback from Croatia, lived for several months in 2016 with her large family: The biography of someone who hasn’t even lived their life can’t actually be written. The milestones of life’s journey, intimate and socially recognized struggles and achievements, everything that makes up the essence of a biography, are actually the privilege of those who had the opportunity to live, grow up, grow old. Madina had no such chance. Madina was at most five or six years old when she died on the Croatian-Serbian border at the end of 2017.

      The biography that follows covers only the last stops of Madina’s journey from Afghanistan, through Iran and Turkey to Europe. In addition to the summary of events of the night in which she tragically died, the biography contains the impressions she left on employees and volunteers in the facilities for collective accommodation on the peripheries of the European Union. It is based on information from the media, court rulings and reports, as well as interviews conducted in 2021 with Aleksandra, Andrijana, Jovana, Francesca, Katerina, Margarita and Silvia who met Madina in Bulgaria and Serbia, in the camps where, according to the interviews quoted here in italics, bed sheets can be a luxury, and torn furniture comes standard.

      They remember Madina as tiny, really tiny, small, with a big head and large, curious eyes that were something really special. They remember her as very beautiful, very sweet, with a slightly round face, chubby and with a big smile and wonderful eyes, with curly, very curly hair, quite black and quite thick, and a skin that was darker, olive, and with a Sherpa hairstyle, which slowly grew out. They emphasize Madina’s special, sweet voice, similar to the voice of a very small child who does not yet know how to pronounce all the words. They remember her as an extremely cheerful girl who radiated happiness. As summed up by Jovana, who met Madina at the camp in Bogovađa, Serbia: It’s as if she carried some sort of joy. She stood out with that kind of joy, and just by being in a room she changed its atmosphere. Aleksandra specifically remembered how disappointed and unhappy Madina was when she couldn’t go on a trip with the other children from the camp because she was too young. Silvija and Francesca, who saw her every day at the camp in Bogovađa, remember Madina’s pride and happiness when she found some kittens, but also the sadness and disappointment she felt because she could not keep them.

      Aleksandra, as well as Slivia and Francesca to a certain extent, remember that Madina was inseparable from her slightly older sister, and that volunteers and employees often confused them for one another, because the two of them looked alike, with the same hair color, the same hairstyle, similar height and build. Andrijana, who occasionally came to the camp in Bogovađa, primarily remembers Madina in the company of her younger brother, who also looked a lot like her, and they were close in age as well. She remembers how she took him by the hand and imitated the way adults take care of children, she took his hand, then started talking as if she was warning him about something, like she was scolding him.

      Madina, according to our interlocutors’ memories of her, was always in a group of other children of a similar age, with whom, in the words of Jovana, she played around the camp. Sometimes she used to hang out with them in front of the classroom doors or on the windows in the camp in Sofia, waiting for the arrival of volunteers, calling them: Teacher! Teacher! or We are here! We want to go to medresa, medresa! In Bogovađa, they also used to yell out: Caritas! Caritas! because of the words printed on the volunteers’ T-shirts. Silvia jokingly states that Madina was the worst child of all the children there, of all the little rascals, as she called them. She was impossible to deal with and unbearable. She didn’t follow any rules, because she’s very small and very cute, so it goes without saying that she can do whatever she wants. In short, Madina was very active, restless, hyperactive, always running and jumping, she was generally delighted with physical contact, even ready for physical confrontations with other children.

      She always wanted to participate in everything, in all activities in the camp. In addition to some Bulgarian and Serbian, she also learned English, which, as Francesca summed up, she could follow, but of course she didn’t speak very well. Francesca recalls: How she talks to us, a kind of child-like English, but English. The famous photo of Madina shown below was taken after one such activity at the camp in Bogovađa, with her looking straight into our eyes, playfully sticking out her tongue, arms and body in motion. In that photo, Madina is wearing her black Star Wars T-shirt and was photographed by Silvia on a sunny, summer day after a water coloring workshop attended by many children. Francesca recollects how she took them all to wash their hands on the ground floor, to a shared bathroom and toilet. All of them were dirty and I know the photo was taken at the moment when they all came out of that toilet together. Madina, as Silvija remembers, simply ran out, along with two other children she always spent time with, the same two she was with when she found the kittens.

      In the camp in Sofia, Madina socialized with other children her age every day and in the classroom which was always quite noisy. About twenty children were usually in the classroom, and Margarita and Katerina remember that Madina especially loved the dressing room corner, where she would dress up as a princess. Aleksandra also remembers Madina in that little corner, in a very big princess dress. It wasn’t meant for her age. It was very big. She could barely walk in it. It piled up under her feet, but she was happy and kept on saying: Teacher, teacher. She also mentions that Madina loved dolls. And reading. There was a book, Shark in the Park by the British children’s writer Nick Sharatt, which Aleksandra read to the children every day, and they loved to repeat after her. Madina also liked to listen to her read the book and repeat after her. The classroom was a place for play, drawing, singing. This is where Madina probably drew the colorful hearts on the messages for Bulgarian citizens that Margarita and other volunteers distributed in Sofia on World Refugee Day in 2016.

      Aleksandra remembers Madina in a purple jacket that was big for her, too big for her, always unbuttoned. She was always running around in that jacket that was always unbuttoned. The photos at the beginning of the video about the organization of the camp in Sofia show Madina in such a jacket around the one minute mark, with a hood over her head and a big scarf around her neck, the way she was described in interviews: small, with wide-open eyes full of questions. Jovana, who occasionally came to Bogovađa, also remembers Madina in a cyclamen-colored coat and in general in those kinds of colors she wore. Jovana, however, also remembers that same coat, jacket covered Madina’s dead body when they returned it to her parents just like that, so cruelly, harshly. When Francesca saw Madina for the last time, at the camp in Belgrade where the family was getting ready for the game, Madina was wearing that pink jacket, like in that photo that you sometimes see on the Internet. I think it might be the last photo of her, Francesca concludes.

      Madina went on the game on November 21, 2017, with her mother and five siblings. An hour after they clandestinely crossed the border between Serbia and Croatia in the afternoon, they were intercepted by the police. Madina’s mother, as she stated in the complaint she sent to the ombudswoman through Doctors Without Borders, asked the Croatian police for asylum for herself and her underage children. However, they told her that they had to return to Serbia. They told them to come to Croatia again next month. The mother then started begging the policemen to let them at least spend the night in Croatia, because the children were exhausted, but they ignored her pleas. After some time, a police vehicle arrived and transported them to the border, to a place next to the railway line near Tovarnik, which at the time was already known as the place where the Croatian police bring people they pushed back to Serbia. The policemen then ordered them to go back to Serbia, to Šid by following the railway line. Shortly thereafter, the train that knocked Madina down came. The ambulance doctors who arrived at the railway station in Tovarnik, where the police brought Madina after the accident, could only declare Madina’s death at twenty-one hours and ten minutes. Madina’s body was kept in Croatia, while the family was deported to Serbia the same night. The body was subsequently sent to Serbia and handed over to the family. Madina was buried in Šid, where she still rests to this day.

      The responsibility for Madina’s death was investigated by the Ombudswoman, the State Attorney Office, at the Municipal Court in Vukovar, the County Court in Osijek, the Constitutional Court of the Republic of Croatia and, finally, at the European Court of Human Rights. However, justice for Madina has not been served to this day. Those responsible for her death have not been identified nor punished.

      Madina has become a symbol of harsh migrant routes going through Croatia and neighbouring countries, a symbol of border deaths, but also of resistance to policies that imply and produce such deaths. The first anniversary of Madina’s death was marked by the renaming of Republic of Croatia Square in Zagreb to Madina Hussiny Square. This action, as well as other counter-memorialization actions in the following years, was aimed at determining who is responsible for Madina’s death and for all those who were persecuted and died at the borders and in the name of borders. The renaming was used to demand, as stated in the leaflets, swift responsibility for the committed act, for the irretrievably lost life and the system that produces such deaths (cf. grief activism). The third anniversary of Madina’s death was commemorated by a giant graphic novel titled Madina by Ena Jurov, exhibited at the Square of the Victims of Fascism in Zagreb, and on the fourth anniversary, the Zagreb Sanctuary City Initiative submitted a request to the city authority and the Committee for Naming Neighborhoods, Streets and Squares of the Zagreb City Assembly to have the name Madina Hussiny included in the pool of names from which public areas for the area of the City of Zagreb are named.

      https://e-erim.ief.hr/pojam/p-madina-hussiny-p?locale=en

      #toponymie #toponymie_migrante #commémoration

  • La CEDH condamne la #Russie pour sa loi réprimant la « propagande » homosexuelle envers les mineurs
    http://www.lemonde.fr/europe/article/2017/06/20/la-cedh-condamne-la-russie-pour-sa-loi-reprimant-la-propagande-homosexuelle-

    La Cour européenne des droits de l’homme (CEDH) a condamné mardi 20 juin la Russie pour sa loi de 2013 punissant d’amendes et de peines de prison toute « propagande » homosexuelle devant des mineurs.

    Cette législation, qui réprime la « promotion des relations sexuelles non traditionnelles auprès des mineurs », a « renforcé la stigmatisation » des homosexuels et « encouragé l’#homophobie, qui est incompatible avec les valeurs d’une société démocratique », ont estimé les magistrats européens.

    La décision de la #CEDH n°67667/09 Bayev et autres contre Russie : http://hudoc.echr.coe.int/eng#{%22itemid%22 :[%22001-174422%22]}

  • #Sadio v. Italy and two other applications (nos. 3571/17, 3610/17 and 3963/17), communicated on 2 February 2017

    On 2 February 2017, the European Court of Human Rights communicated the case of Sadio et al v. Italy (nos. 3571/17, 3610/17 and 3963/17), which relates to the reception conditions of an adult man and four unaccompanied minors in the reception center of Cona.

    Relying on Article 3 of the Convention, the first applicant complains that the conditions of his accommodation in the #Cona reception center exposed him to inhuman and degrading treatment. He refers in particular to the overcrowding of the center, the lack of heating (the temperature in the dormitory was slightly above zero degrees) and the poor hygiene conditions. Under Article 3 of the Convention, the minor applicants complained that they had been subjected to inhuman and degrading treatment because of their placement in the center of Cona until 15 January 2016, the date of their transfer to other centers. Under Articles 3 and 8 of the Convention, the applicants also complain that there is no protection by the competent authorities with regard to their status as unaccompanied minors.

    http://us1.campaign-archive1.com/?u=8e3ebd297b1510becc6d6d690&id=bcb5da7db9&e=ae0fb9f55e#5
    #accueil #hébergement #logement #CEDH #mineurs_non_accompagnés #Italie #MNA

    • La protesta dei profughi a Cona. «Ore in fila sotto il sole per mangiare»

      CONA (VENEZIA) Non parlano una parola di italiano ma si fanno capire benissimo i profughi trincerati dietro i cancelli del centro di accoglienza di Cona: «Very bad problem. La notte scorsa sono arrivati gli autobus con 100 nuove persone, volevano portarli qui dentro nella base: abbiamo detto che non sarebbero entrati e non sarebbe entrato nessuno del personale». I profughi bloccati nei pullman a Cona e rispediti in altri centri di accoglienza del Veneto non erano 100 ma 23, ma l’esagerazione è tipica di chi è sempre più esasperato, come gli ospiti del centro di accoglienza di Cona che sono arrivati al limite di sopportazione. «Abbiamo bisogno di essere trasferiti, siamo troppi. La prefettura ha detto che porteranno da un’altra parte dieci di noi ogni settimana. Io non me ne vado, sto qui. Neanche nei prossimi sei mesi me ne vado, ci sono molte persone prima di me, la lista è lunga. Qui la gente sta per molto tempo, c’è chi ci sta da oltre un anno. We need transfer».

      http://corrieredelveneto.corriere.it/veneto/notizie/cronaca/2017/1-luglio-2017/protesta-profughi-cona-ore-fila-sotto-sole-mangiare-24017
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