• The Jihadi-Backed Salvation Government and Covid-19 in Northwest Syria - ISPI Online

    While many that research jihadism have focused on how the Islamic State (IS) has responded to the coronavirus pandemic, IS no longer actually controls territory in Iraq or Syria. Therefore, at best all they can do is provide guidance. In contrast, the jihadi group Hayat Tahrir al-Sham (HTS), which backs the local Salvation Government (SG) in parts of northern Idlib and western Aleppo, has to actually deal with the consequences of the pandemic since there are more than 4 million people living under its control, with more than two million of them being IDPs (internally displaced people). It also provides a unique window into the alternative type of governing style HTS has compared to IS’s totalitarian vision. Even if the SG has attempted to do something to prevent coronavirus from overtaking the population in its area of control, problems related to a devastated health system and inability to truly implement measures that would limit the spread of the disease makes the prospects extremely dire when the coronavirus hits the vulnerable civilian population.

    #Covid-19#Syrie#Politique_locale#Gouvernementalité#Islamisme#IDP#Idlib#migration#quarantaine

    https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/jihadi-backed-salvation-government-and-covid-19-northwest-syria-26152

  • Le 2 novembre 2019, l’#accord de #2017 entre #Italie et #Libye se renouvellera automatiquement...

    Des ONG en Italie essaie de l’arrêter...
    NO al rinnovo del #Memorandum Italia – Libia

    INTERSOS chiede programma di ricerca e salvataggio europeo e canali di ingresso regolari
    Il 2 novembre, in mancanza di un intervento del Governo, scatterà la proroga automatica del memorandum d’intesa siglato nel febbraio del 2017 con la Libia. Accordo sulla base del quale, l’Italia continua a sostenere con milioni di euro la cosiddetta Guardia Costiera libica e i centri di detenzione in Libia.
    Come organizzazione umanitaria operativa a Tripoli e nel Sud della Libia con programmi di aiuto e protezione per i minori, chiediamo con forza che il Governo italiano annulli il memorandum del 2017 e i precedenti accordi con il Governo libico e che, fatti salvi gli interventi di natura umanitaria, non vengano rifinanziati quelli di supporto alle autorità libiche nella gestione e controllo dei flussi migratori.
    Nelle relazioni con la Libia per la gestione dei flussi migratori è il momento della discontinuità. Occorre un nuovo inizio, che rimetta al centro la ricerca di soluzioni finalizzate alla tutela della vita delle persone e del diritto internazionale che ne è garanzia. Chiediamo che si stabilisca un programma efficace di ricerca e salvataggio in mare a livello europeo e che si prevedano canali di ingresso regolari, in modo che le persone non siano più costrette ad affidarsi ai trafficanti.
    Quanto accaduto in questi anni non può non essere preso in considerazione. È dimostrato come i finanziamenti italiani siano andati a sostegno anche di veri e propri criminali, come il trafficante di esseri umani Bija, sottoposto a sanzioni dal Consiglio di Sicurezza ONU per i crimini contro l’umanità su cui indaga la Corte penale internazionale.
    È dimostrato come i migranti intercettati in mare dalla Guardia Costiera libica e riportati forzatamente in Libia vengano rinchiusi nei centri di detenzione, in condizioni disumane, e siano sistematicamente sottoposti a torture, stupri e violenze. Quando tentano di opporsi al ritorno in Libia, gli ufficiali libici non esitano a sparare e a uccidere.
    Come dichiarato dalle Nazioni Unite, dal Consiglio d’Europa e dalla Commissione europea nonché dalla stessa magistratura italiana, la Libia non può in alcun modo essere considerato un Paese sicuro e dunque le persone che tentano di fuggire non possono essere rimandate in quel Paese. Lo vietano il diritto internazionale e la nostra Costituzione. I respingimenti “delegati” dalle autorità italiane alla Guardia costiera libica comportano esattamente le stesse violazioni per le quali l’Italia è già stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel 2012.

    https://www.intersos.org/intersos-no-al-rinnovo-del-memorandum-italia-libia

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    Plus d’informations sur le memorandum de 2017 sur ce fil :
    https://seenthis.net/messages/600874

    Et plus en général sur l’#externalisation_des_frontières en Libye :
    https://seenthis.net/messages/705401

    #externalisation #asile #migrations #réfugiés #frontières #Méditerranée

    ping @isskein

    • Memorandum. Accordo Italia-Libia sui migranti: il mistero dei 5 miliardi (per Tripoli)

      Equipaggiamenti, elicotteri, gommoni, milizie.... Nessuno sa quanti soldi siano partiti dalle cancellerie europee verso Tripoli, né quanti altri prenderanno la stessa via. Un segreto ben custodito.

      È il segreto meglio custodito sui rapporti con la Libia. Nessuno sa esattamente quanti soldi siano partiti dalle cancellerie europee verso Tripoli, ne quanti altri prenderanno la via del deserto libico. Perciò, fermare il rinnovo automatico del Memorandum italo-libico significa anche rischiare di mettere a nudo una contabilità da svariati miliardi di euro.

      Nel corso del colloquio con Avvenire il guardacoste e presunto trafficante Abdurahman al Milad, nome di battaglia Bija, aveva accennato a una «trattativa di anni» tra Italia e Tripoli poi approfondita nella lunga intervista a «l’Espresso». Bija sapeva quel che diceva. Proprio nel 2008, infatti, il trattato di amicizia firmato da Gheddafi e Berlusconi prevedeva che l’Italia impiegasse cinque miliardi di dollari in aiuti. Un impegno mai rimangiato. In cambio, Tripoli si sarebbe impegnata a intensificare i pattugliamenti in mare e via terra per fermare i migranti.

      Nonostante tutte le accertate violazioni dei diritti umani, nel 2012 l’Italia aveva rinnovato l’accordo con Tripoli, ribadito poi con il Memorandum del 2017 e che verrà prorogato per altri tre anni senza condizioni. Di certo c’è che negli ultimi anni Roma ha elargito ai libici almeno 150 milioni solo per la cosiddetta Guardia costiera e per “migliorare” le condizioni dei diritti umani. Risultato: per l’Onu e per l’Ue i campi di prigionia sono irriformabili, e vanno tutti chiusi. Milioni di euro degli italiani letteralmente spariti tra le dune, non meno di quanto non avvenga con i fondi europei. A Tripoli sanno di impugnare il coltello dalla parte del manico.

      Il 20 marzo del 2017 il premier libico al Sarraj ha presentato una lista della spesa mai ritoccata. Valore, oltre 800 milioni di euro: 10 navi, 10 motovedette, 4 elicotteri, 24 gommoni, 10 ambulanze, 30 fuoristrada, 15 automobili accessoriate, almeno 30 telefoni satellitari ed equipaggiamento militare non sottoposto all’embargo sulle armi votato dall’Onu. Nello stesso periodo il governo italiano assicurava che entro il 2020 sarebbero stati investiti oltre 280 milioni solo per le autorità marittime.

      C’è poi il capitolo milizie. Un contratto, visionato da «Avvenire», riporta l’accordo tra il governo riconosciuto dall’Onu e le principali milizie anti Haftar. Ci sono poi benefit a costo zero. L’Europa ha ritirato gli assetti navali dell’operazione Sophia, così proprio da Zawyah - ha rivelato ieri Euronews – continuano a operare senza alcun rischio di ispezione le 236 navi sospettate di essere coinvolte nel traffico di carburante.

      https://www.avvenire.it/attualita/pagine/i-soldi-a-tripoli-accordo-migranti

    • Italy to renew anti-migration deal with Libya

      Foreign minister says deal has reduced number of arrivals and deaths at sea

      Italy is to renew its deal with the UN-backed government in Libya under which the Libyan coastguard stops migrant boats at sea and sends their passengers back to the north African country, where aid agencies say they face torture and abuse.

      The foreign minister, Luigi Di Maio, told the lower house of parliament it would be “unwise for Italy to break off its agreement with Libya on handling asylum seekers and combating human trafficking”.

      The deal was agreed in February 2017 in an attempt to stem the flow of refugees and migrants to Sicily’s shores. Italy agreed to train, equip and finance the Libyan coastguard, including providing four patrol vessels.

      The deal, due to expire on Saturday, will be renewed automatically unless one of the parties opts out. Di Maio said: “The document can be amended but it is undeniable that it has reduced the number of arrivals and deaths at sea.”

      Sources close to the Italian government said amendments should include evacuation programmes to resettle asylum seekers and measures to ensure the presence of humanitarian organisations in Libyan detention centres. It is not clear whether Tripoli would agree to such changes.

      Médecins Sans Frontières said the proposed changes would serve only to “perpetuate policies of rejection and detention” in Libya.

      “The only possible solution is to completely overcome the arbitrary detention system and end the support offered to the Libyan authorities that feed suffering, violations of international law and the odious work of smugglers,” said Marco Bertotto, MSF’s head of advocacy.

      Early in October the Italian newspaper Avvenire revealed that a man described as one of the world’s most notorious human traffickers attended a series of meetings in Italy in May 2017 between Italian officials and a Libyan delegation to discuss controls on migration flows from north Africa. The alleged trafficker, Abd al-Rahman Milad, nicknamed Bija, is a captain of the Libyan coastguard.

      https://www.theguardian.com/world/2019/oct/31/italy-to-renew-anti-migration-deal-with-libya

    • L’Italie renouvelle son accord controversé sur les garde-côtes libyens

      Malgré de nombreuses critiques, l’accord controversé signé en 2017 entre l’Italie et la Libye a été renouvelé mercredi 30 octobre par le chef de la diplomatie italienne. Soutenu par l’Union européenne, le texte prévoit une aide financière et la formation des garde-côtes libyens pour bloquer les départs de migrants.

      L’annonce a été faite au Parlement mercredi 30 octobre par le chef de la diplomatie italienne Luigi di Maio. L’Italie renouvelle l’accord controversé signé avec la Libye en 2017 afin de stopper les départs de migrants depuis les côtes libyennes. Le texte prévoit, une nouvelle fois, une aide financière et la formation des garde-côtes libyens.

      « Une réduction de l’assistance italienne [à la Libye] pourrait se traduire par une suspension de l’activité des garde-côtes libyens, avec pour conséquence : davantage de départs, des tragédies en mer et une détérioration des conditions des migrants dans les centres d’accueil », a justifié le ministre des Affaires étrangères. « Le texte fonctionne » et « personne ne peut nier qu’il a permis de passer de 170 000 débarquement [de migrants en 2016] à 2 200 en seulement deux ans ».

      L’accord est ainsi prolongé pour trois ans à partir du 2 novembre.

      Face aux critiques, Luigi di Maio a promis que le gouvernement « travaille pour améliorer » les termes de l’accord : selon le chef de la diplomatie, Rome va chercher à « impliquer davantage les Nations unies et la société civile dans l’amélioration de l’assistance aux migrants » en élargissant l’accès des ONG aux centres de détention libyens, à augmenter les fonds pour le rapatriement vers les pays d’origine quand ils sont considérés comme sûrs comme la Tunisie et pour financer des projets de coopération.

      « La seule solution humanitaire possible est de mettre un terme au système de détention arbitraire »

      Médecins sans frontières (MSF) ne croit pas en ces « modifications envisagées ». C’est du « maquillage humanitaire » car elles sont « difficilement réalisables » estime Marco Bertollo de MSF/Italie dans un communiqué. Le gouvernement italien dit « vouloir améliorer la situation mais en réalité, on perpétue des politiques de renvoi et de détention », a-t-il encore insisté.

      MSF a ainsi demandé à l’Italie et à la communauté internationale de « cesser d’apporter un soutien aux autorités et aux garde-côtes libyens qui ne fait qu’alimenter les souffrances, les violations des droits de l’Homme et l’odieuse activité des trafiquants d’êtres humains, à terre et en mer ».

      L’ONG est présente en Libye et fournit une assistance médico-humanitaire aux migrants présents dans les centres de détention. « La seule solution possible est de mettre un terme au système de détention arbitraire », et d’évacuer les migrants et réfugiés, a ajouté MSF, soulignant que le Haut-commissariat des Nations unies aux réfugiés (HCR).
      L’accord italo-libyen avait été négocié par Marco Minniti, un ancien communiste passé par les services secrets, et devenu ministre de l’Intérieur en décembre 2016, du gouvernement de Paolo Gentiloni (en place jusqu’au printemps 2018). Fort de vieux contacts en Libye, il avait signé un « mémorandum » avec les autorités de Tripoli mais aussi avec des milices pour bloquer les migrants.

      https://www.infomigrants.net/fr/post/20545/l-italie-renouvelle-son-accord-controverse-sur-les-garde-cotes-libyens

    • Italy’s Libyan Conundrum: The Risks of Short-Term Thinking

      In early November, Italy decided not to withdraw from the memorandum of understanding (MoU) it signed with Libya’s UN-backed Government of National Accord (GNA) in February 2017. The MoU established a framework for cooperation between Libya and Italy “in the development sector, combating illegal immigration, human trafficking and contraband, and strengthening border security”. Although it covers several topics, the agreement is widely interpreted as having been negotiated with a single aim: to reduce the number of irregular migrants travelling from Libya to Europe. But the MoU also includes political commitments that have often been overlooked.

      On migration, the agreement committed Italy to provide training and equipment to the Libyan Coast Guard, as well as to co-fund projects (with the European Union) to improve conditions in Libya’s migrant detention centres, which currently hold an estimated 4,400 people. The debate on the MoU has revolved around these practical implications of the arrangement more than anything else.

      However, despite much fanfare, the MoU is largely a political symbol – and should be treated as such. Aside from prompting Italy to hand several ships over to the Libyan Coast Guard, the MoU had few practical consequences. Indeed, the Italian authorities began to empower the coast guard long before the MoU was signed: the force intercepted roughly the same number of migrants – 15,000 – and brought them back to Libya in 2016 and 2017, the year the MoU was signed. Although there was a sudden drop in migrant departures from Libya in mid-July 2017, this was primarily due to many Libyan militias’ decision to hold migrants in formal and informal detention centres for longer periods.

      Overall, independently from the MoU, the strategy put in place by Italy and the EU since 2016 has been effective at convincing Libyan militias to stop or defer migrant departures. These departures fell by 80 percent in the first year of the strategy and are now down by 95 percent since 2016. Thus, the decline in departures has persisted throughout 2019 even as Libya spiralled into civil war again, with the forces of general Khalifa Haftar directly attacking the Libyan capital.

      Yet the fact that European cooperation with militias has achieved its main aim should not obscure two important facts. Firstly, the deals Italy and the EU have struck with militias may have both reduced the flow of irregular migrants and protected energy infrastructure – including the GreenStream natural gas pipeline, which connects Italy to Libyan oil and natural gas facilities – but they have not co-opted the groups at the political level. As such, the militias do not operate under any kind of national reconciliation plan or a disarmament, demobilisation, and reintegration process, but have gained the upper hand over their European partners. They do not appear to be willing to engage in talks designed to bring them back under state control.

      Secondly, in dealing with militias as potential political actors, Italy and the EU have failed to make them more responsive to requests that they protect the human rights and dignity of people they hold in detention. Despite engaging in intensive contact and frequent training and capacity-building activities with the militias, Italy and the EU have failed to convince these groups to change the way in which they conduct interceptions at sea or manage detention centres. Crucially, the militias have been unwilling or unable to sideline some of their most brutal members.

      By prioritising short-term gains in irregular migration and energy security, Italy and the EU have helped create an unsustainable security and political situation. This could jeopardise the progress they have made, as the volatile situation in Libya requires constant European monitoring (and, sometimes, action). It is hard for Italy and the EU to create a sustainable solution to a single policy problem when they decouple it from broader efforts to restore stable political and security conditions in Libya.

      While their attempts to co-opt militias are not inherently wrong, Italy and the EU should have approached the task very differently. They should have worked to support Libya’s central authorities, providing them with the tools they needed to negotiate with strong militias while keeping them in check. Instead, European deals with militiamen have speeded up the process but have also helped strengthen already powerful local actors relative to the central government. In this way, Italy and the EU have inadvertently delegitimised the GNA.

      Meanwhile, instead of protecting vulnerable people from abuse, European support has empowered non-state actors to subject them to further human rights violations. Renewed conflict in Libya has made it even more difficult for international institutions – particularly the International Organization for Migration (IOM) and the United Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR) – to return to work safely in the Tripolitania or Fezzan regions.

      The evidence suggests that Rome is abandoning its attempts to play a constructive, visible role in Libya. For example, it appears to have chosen to talk with Haftar more closely. The Italian government had a muted response to Haftar’s recent launch of several airstrikes on Misrata airport (where an Italian military hospital is located), suggesting that its relationship with the general is becoming more ambiguous. Similarly, when Haftar’s forces allegedly bombed a detention centre in Tajoura, in Tripoli, in early July – killing at least 60 migrants there – Rome mildly condemned the attack and took no action against its perpetrators.

      This apparent rapprochement between Italy and Haftar is taking place long after other international actors – such as Egypt, Russia, the United Arab Emirates, and especially France – developed a privileged relationship with the general. In this way, Italy risks losing credibility among both those who support the general and the remaining international allies of president Fayez al-Sarraj’s GNA. Indeed, most observers appear to have interpreted Rome’s willingness to talk with Haftar’s supporters as a tacit admission that its earlier strategy – of supporting Sarraj and the UN mission in Libya – was failing.

      To remedy the situation, Italy should seize on discussions on the MoU to establish much clearer political guidelines for its Libya strategy. Rome should use the renegotiation of the MoU to foster national dialogue and reconciliation, demonstrating that it still supports the GNA. And, if Italy really wants to improve its relations with Haftar, it should use the MoU talks to do so within a larger diplomatic context.

      Italy should use its support for Sarraj’s government to push for much more credible commitments to human rights protections in Libya. Rome has been at the forefront of the European effort to help migrants stuck in Libya, working consistently with international organisations to establish humanitarian corridors to Europe, emergency evacuations to Niger and Rwanda, and assisted voluntary returns to countries of origin. Italy should pursue such efforts within a broader EU framework, systematically involving other European partners and the Libyan authorities.

      Finally, Italy and the EU need to continue to look for long-term political solutions in Libya. For several years, policy experts have advocated for a pragmatic national dialogue in the country. This dialogue should include pivotal actors such as militias, despite their involvement in human rights abuses. It is imperative that Italy and the EU communicate the need for this kind of realistic approach to European voters. However, they should also ensure that their attempts to involve militias in national reconciliation come with conditions that contribute to the goal of disarming these groups and turning them into exclusively political actors.

      It is in Italy’s national interest to bring peace and stability to Libya. But it should do so with a set of clear goals in mind. Italy should focus on long-term stability, not short-term gains. It should not necessarily shy away from controversial decisions, but acknowledge that experts’ criticism of its approach has often been accurate. And Italy should make its utmost efforts to ensure that, during this painstaking and complex process, civilians in Libya do not pay for its mistakes.

      https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/italys-libyan-conundrum-risks-short-term-thinking-24469

    • Proposition pour un nouveau accord Italie-Libye :

      https://www.avvenire.it/c/attualita/Documents/Avvenire-%20memorandum.pdf

      Commentaire de Sara Prestianni via la mailing-list Migreurop :

      Pas beaucoup de nouveautés par rapport a celui de 2017, entre autres:
      – continuité dans la collaboration avec le “gardes cotes libyennes”
      – dangereuse référence à l’art 19 du #MoU de 2008, qui prévoyait l’installation d’un système de contrôle à la frontière sud «Sempre in tema di lotta all’immigrazione clandestina, le due Partì promuovono la realizzazione di un sistema di controllo delle frontiere terrestri libiche, da affidare a società italiane in possesso delle necessarie competenze tecnologiche. Il Governo italiano sosterrà il 50% dei costi, mentre per il restante 50% le due Parti chiederanno all’Unione Europea di farsene carico, tenuto conto delle Intese a suo tempo intervenute tra la #Grande Giamahiria e la ’Commissione Europea.»
      – nommer les camps d’enfermement libyens “centres d’accueil”

      #memorandum_of_understanding #contrôles_frontaliers #frontières #privatisation #Gran_Giamahiria_Araba_Libica_Popolare_Socialista #Jamahiriya_arabe_libyenne

    • La Commissaire appelle l’Italie à suspendre ses activités de coopération avec les garde-côtes libyens et à intégrer des mesures de protection des droits de l’homme dans la future coopération relative aux migrations

      Dans une lettre adressée au ministre des Affaires étrangères de l’Italie, Luigi Di Maio, rendue publique aujourd’hui, la Commissaire appelle le Gouvernement italien à intégrer des garanties en matière de droits de l’homme dans le mémorandum d’entente entre l’Italie et la Libye.

      Tout en prenant note des discussions en cours qui visent à améliorer le respect des droits de l’homme dans l’avenir, la Commissaire appelle l’Italie à tenir compte de la réalité qui prévaut actuellement sur le terrain en Libye et à suspendre ses activités de coopération avec les garde-côtes libyens qui entraînent le renvoi en Libye des personnes interceptées en mer.

      Dans ce contexte, la Commissaire attire l’attention du gouvernement sur les principales garanties dont doit être assortie toute coopération avec des pays tiers dans le domaine migratoire pour que les droits de l’homme soient effectivement respectés. Rappelant sa recommandation intitulée « Sauver des vies. Protéger les droits. Combler le manque de protection des réfugiés et des migrants en Méditerranée » (recommandation en Italien),

      elle souligne la nécessité d’évaluer les risques d’atteinte aux droits des migrants et des demandeurs d’asile que présente toute activité de coopération relative aux migrations, de concevoir des stratégies d’atténuation de ces risques, de mettre en place des mécanismes de suivi indépendants et d’établir un système de recours effectif.

      Dans sa lettre, la Commissaire indique aussi qu’elle continuera à appeler les États membres du Conseil de l’Europe à se montrer plus solidaires avec les pays qui, comme l’Italie, sont en première ligne face aux mouvements migratoires dirigés vers l’Europe, et à mieux coopérer pour préserver la vie et protéger les droits de l’homme des personnes en mer, y compris en prenant leur part de responsabilité pour assurer des moyens de sauvetage suffisants et un débarquement rapide des personnes secourues.

      https://www.coe.int/fr/web/commissioner/-/commissioner-urges-italy-to-suspend-co-operation-activities-with-libyan-coast-g

    • Memorandum Italia-Libia prorogato: una vergogna
      Rinnovato dal 2 febbraio. Assenti le modifiche annunciate

      Domenica 2 febbraio il #memorandum Italia-Libia, firmato nel 2017, è stato prorogato automaticamente alle stesse condizioni, per altri tre anni.

      Si tratta del memorandum stipulato durante il governo Gentiloni, e che i successivi governi Conte hanno mantenuto finora: esso ha ‘regolato’ la politica tra i due Paesi in tema di immigrazione, stabilendo una stretta collaborazione con la Guardia costiera libica, i cui membri sono stati accusati ripetutamente dalle agenzie Onu di traffico e detenzione di esseri umani.
      Lo stesso memorandum, negli stessi tre anni, è stato condannato dalle organizzazioni e dalle agenzie internazionali per i diritti umani per le accertate condizioni disumane e di tortura ai danni delle persone migranti. Nei giorni scorsi in tanti, noi compresi, avevamo chiesto di sospendere il Memorandum e di smettere la complicità con un Paese colpevole di simili trattamenti.

      Il governo rassicura: il rinnovo automatico non preclude l’avvio dei negoziati con Tripoli, preannunciati l’11 novembre dal premier Conte alle controparti libiche, ma le preoccupazioni sono evidenti per lo stato di guerra in Libia e per il tempo assolutamente improduttivo trascorso fino a oggi.

      E nel frattempo la Libia, come sottolinea la decisione dell’Unhcr di sospendere le attività, è precipitata in una situazione di totale instabilità: dopo lo scoppio della guerra, dal 4 aprile scorso, in un Paese di 5 milioni di abitanti, ci sono stati quasi 350mila sfollati. I più vulnerabili sono i rifugiati e i migranti presenti nel Paese nordafricano: circa 3200 rifugiati e migranti si trovano nei centri di detenzione gestiti dal Dipartimento per il contrasto all’immigrazione illegale (Ministero dell’Interno) e dalle milizie. Tra loro circa 2mila si trovano in aree esposte ai combattimenti (soprattutto a Tripoli e nei dintorni).

      L’Italia, ignorando i numerosi appelli, si avvia all’investimento di ingenti risorse di cui non è possibile verificare l’impiego.

      https://www.arci.it/memorandum-italia-libia-prorogato-una-vergogna
      #renouvellement

  • Italy presents plan to accelerate expulsion of migrants

    Italy presented a scheme on Friday to accelerate the expulsion of migrants who have no right to stay in the country, cutting the time it takes to decide on whether an asylum seeker must return home.

    Immigration flows helped fuel the rise of Italy’s far-right League party, whose leader Matteo Salvini imposed a crackdown on arrivals while he was interior minister until August.

    Salvini closed Italy’s ports to migrant rescue ships, threatening the charities operating them with fines of up to 1 million euros ($1.10 million) if they tried to dock.

    After the League unexpectedly quit the government in a failed bid to trigger an early election, its former ally the 5-Star Movement formed a coalition with the center-left Democratic Party, ushering in a less aggressive approach to immigration.

    The new government has already agreed with four other EU states a scheme to distribute people saved in the Mediterranean, and it hopes its plan to send back those already in Italy will defuse accusations by Salvini that it is soft on immigration.

    “I do not believe that redistributing migrants to other European countries is the final solution”, 5-Star leader and Foreign Minister Luigi Di Maio told a news conference.

    Under the new decree, the time to examine asylum requests of migrants who come from a list of 13 “safe” European and African countries, including Tunisia and Albania, will be reduced from two years to four months.

    If the request is rejected, the expulsion procedure will be immediately triggered.

    “More than one third of those who arrived in Italy in 2019 comes from these countries,” Di Maio said.

    Fewer than 8,000 migrants came to Italy by sea in 2019, down 62% from 2018 and down 92% compared to 2017, official data show. However, expulsions fell far short of Salvini’s electoral promises.

    The League leader said he would repatriate 100,000 migrants in his first year in power, followed by another 400,000 during the rest of his five-year term in office, but Interior Minister Luciana Lamorgese told parliament this month that only 5,244 people had been repatriated this year up to Sept 22.

    Prime Minister Giuseppe Conte welcomed the new plan as “a great step forward” and said he was confident it would produce more rapid repatriations.

    “Italy has always been inefficient in this,” Conte said.

    https://www.reuters.com/article/us-europe-migrants-italy-expulsion/italy-presents-plan-to-accelerate-expulsion-of-migrants-idUSKBN1WJ1YH
    #Italie #expulsions #migrations #réfugiés #machine_à_expulser #sans-papiers #déboutés #renvois

    • Analyse de Matteo Villa sur twitter

      Oggi l’Italia ha varato una lista di 13 paesi considerati sicuri.

      Non significa che sarà più semplice rimpatriare, ma che aumenteranno ulteriormente gli stranieri irregolari presenti in Italia.

      Seguitemi, ve lo spiego.

      Cos’è successo.

      Con un decreto interministeriale è stata varata una lista di 13 paesi (NON “porti”, come è stato detto) considerati sicuri.

      L’azione è consentita dal #DecretoSicurezza (oggi legge), varato dal precedente Governo a ottobre dell’anno scorso.

      Quali sono i 13 paesi che sono stati designati come “sicuri”?

      Tutti quelli dei Balcani occidentali, l’Ucraina, e alcuni paesi dell’Africa settentrionale e subsahariana.

      Li trovate in arancione su questa mappa (il giallo ve lo spiego tra poco).

      Tra i paesi dell’Unione europea, altri 12 hanno una loro lista di “paesi sicuri”.
      Li trovate in blu scuro in questa carta.

      Oggi, il tredicesimo diventa l’Italia.

      Insomma, siamo in buona compagnia.

      Tornando alla carta del mondo, in arancione ho indicato i 13 paesi extra-europei designati come sicuri dall’Italia.

      In giallo, invece, trovate tutti i paesi designati come sicuri da almeno un altro paese UE, ma non da noi.

      Poteva andare molto peggio (Turchia, Nigeria, Etiopia).

      Cosa succede se designi un paese come sicuro?

      Chi chiede asilo in Italia possedendo la nazionalità di uno dei «paesi sicuri» avrà davanti a sé molti più ostacoli.

      Di fatto, aumenterà ulteriormente il tasso di diniego delle protezioni.

      La conseguenza? Aumentano gli irregolari.

      L’aumento degli irregolari sarà probabilmente piccolo rispetto all’effetto dell’abolizione della protezione umanitaria nel 2018.

      Ma andrà a complicare una situazione già molto precaria, anziché regolarizzare parte di chi oggi è qui e qui resterà.

      https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/i-nuovi-irregolari-italia-21812

      Sì, ma i rimpatri?

      Sul fronte dei rimpatri, designare un paese come sicuro non cambia nulla.

      Se un paese terzo già collaborava con noi (per es.,
      🇹🇳
      Tunisia), continuerà a farlo.

      Se un paese terzo non collaborava (per es.,
      🇬🇭
      Ghana), continuerà a non farlo.

      Del resto, se c’entrassero in qualche modo i rimpatri sorgerebbe spontanea una domanda: perché includere nella lista dei «sicuri» paesi che, in media, hanno già un tasso di rimpatrio superiore rispetto a quelli esclusi dalla lista?

      La realtà è una: convincere i paesi dell’Africa subsahariana a collaborare sui rimpatri è difficile.

      L’Italia ha tassi in linea con quelli di altri grandi paesi, come Francia e Germania, che hanno «leve» (legami post-coloniali, commercio, aiuti) ben maggiori delle nostre.

      CONCLUSIONE.

      La lista di «paesi sicuri»:

      ☑️
      è consentita da un decreto adottato dal precedente governo;
      ☑️
      aumenterà il numero degli stranieri irregolari presenti in Italia;
      ☑️
      non avrà alcun effetto sui rimpatri.

      https://twitter.com/emmevilla/status/1180135437358243840?s=19
      #cartographie #visualisation #pays_sûrs #clandestinisation #illégalisation #statistiques #chiffres #Matteo_Villa

  • Niger : Has Securitisation Stopped Traffickers ?

    In the past five years there has been an increase in border controls and foreign military presence in Niger; paradoxically this has only diversified and professionalised the criminal networks operating there. In fact, this development was to be expected. Sustained law enforcement against smugglers removes the weaker players while allowing those with greater means and connexions to adapt, evolve and in some cases even monopolise criminal markets. As such, although Western-supported goals of curtailing irregular migration in Niger have been reached in the short term, criminal networks continue to thrive with devastating consequences for the wider Sahel region. Recorded migrant deaths in northern Niger have hit record highs and illicit flows of drugs and arms through the country continue to fuel conflicts. To address the country’s chronic lack of security and underdevelopment, innovative approaches that prioritise the fight against criminal networks while considering the negative socio-economic impacts of interventions must be developed.

    The economic, social and security landscape of Niger has undergone four milestone events, which have all led to changes in the country’s criminal networks. These included the criminalisation of the migration industry in May 2015; the clampdown on the Djado goldfield in February 2017; the ensuing multiplication of armed actors and growing banditry, which had already increased after the outbreak of the conflicts in Libya in 2011 and northern Mali in 2012; and the militarisation of Niger since 2014.

    The EU-backed enforcement of law 2015-036 criminalising migrant smuggling in mid-2016 delivered a first, considerable blow to northern Niger’s informal economy. Transporting foreign migrants to Libya, a practice that had become a source of livelihood for thousands of people in northern Niger, was outlawed overnight. Dozens of passeurs (migrant smugglers) and coxeurs (middlemen who gather migrants for passeurs) were arrested and hundreds of vehicles were seized in a crackdown that shocked the system.

    The second blow, which was closely linked to the first, was the closure of the Djado goldfield in February 2017. Up until its closure, the gold economy had been a vital back-up for ex-passeurs. Many had repurposed their activities towards the transport of artisanal miners to and from northern Niger’s gold mines to compensate for lost revenue from the outlawing of migrant smuggling. Many passeurs also invested in artisanal gold extraction. The goldfield was officially shut down for security reasons, as it had become a key hub for the operations of armed bandits. However, the fact that it was also a key stopover location for migrants travelling north was perhaps more influential in the government’s decision-making.

    Many analysts have attributed the rise in banditry and convoy hijackings over the past two years to these two economic blows. While it is difficult to determine whether the actors involved in these attacks are the same as those previously involved in the migration industry, it is clear that the lack of economic opportunities have pushed some to seek alternative sources of revenue.

    Although the migration industry initially shrank, it has now partially recovered (albeit still very far from 2015/2016 levels) with the transport of Nigerien migrants who are increasingly seeking seasonal work in Libya. But although a majority of passeurs have repurposed their activities towards the tolerated practice of transporting Nigeriens to Libya, many passeurs are still ready to transport foreign migrants, who pay up to eight times what local Nigeriens pay. To do so, smuggling networks have become both more professional and clandestine. Passeurs also take more dangerous and remote routes through the desert that avoid security forces. This has posed a significant risk to migrants, who are increasingly vulnerable to death from unexpected breakdowns in the desert. The number of recorded migrant deaths increased from 71 in 2015 to 427 in 2017.

    Currently, the number of active drivers is close to that before the peak of migration in 2015/2016. But the number of migrants who can afford the journey has lessened. In some reported cases, the price for the Agadez-Sebha journey has increased five-fold since 2016. Passeurs incur higher costs primarily as a result of longer, more clandestine routes that require more fuel. They must also pay higher fees to coxeurs, whose role in gathering migrants for passeurs has become central since migrants have been more difficult to find in Agadez. Prior to 2016, migrants could easily reach the town with commercial bus companies. Today, these undergo stringent checks by Nigerien police. Even migrants from the Economic Community of West African States (ECOWAS), who have the right to visa-free travel to Niger with valid documentation, are having to pay higher bribes to security forces to reach Agadez through commercial transportation.

    To compensate for this lack of more lucrative foreign migrants, many passeurs have turned to the smuggling of synthetic opioids (especially Tramadol), the demand for which has boomed across the Sahel-Sahara in recent years.[1] Smugglers can sell Tramadol purchased from Nigeria for up to 15 times the price in Libya, transporting the drugs along the Chadian border through Niger.

    These developments have mostly been undeterred by the increased militarisation of Niger since 2014, which saw the posting of French and American security forces in key strategic locations in the north (with bases in Madama, Dirkou, Agadez, Aguelal) and south (in the Tillabéri and Diffa regions). While their primary concern has been the fight against terrorist networks in the Sahel, French security forces in Madama have also specifically targeted arms and high-value narcotics trafficking (albeit prioritising those suspected of having links to terrorist networks). The increased scrutiny of French troops on key trafficking crossroads is seen as a key factor in making the trans-Sahelian cocaine route less attractive for conveying drugs from Latin America to destination markets in Europe and the Middle East, with traffickers increasingly favouring maritime routes instead.

    The increased targeting of drug convoys by armed groups is also a key factor behind the reduced use of the trans-Sahel cocaine route. These groups, which have multiplied in northern Mali, southern Libya and north-western Chad since the Libyan revolution in 2011 and Malian rebellion in 2012, have increasingly shifted their business model towards armed robbery and the hijacking of convoys that transit northern Niger. One such group includes armed men mostly composed of Chadian military defectors, who have used the Djado area (600 km north-east of Agadez) as a base to target convoys trafficking drugs, arms and goods but also artisanal miners traveling to and from gold mines (such as the Tchibarakaten goldfield).[2] The Forces Armées Nigériennes, whose capacity is limited in northern Niger’s difficult terrain, have so far failed to overrun the group.

    Nevertheless, recent cocaine seizures, including a record seizure of 789 kilograms of cocaine in March 2019 in Guinea-Bissau, suggest that the route is still being used, boosted by increasing cocaine production in Colombia in recent years. In fact, trafficking routes seem to have simply pushed outwards to areas bordering Algeria and Chad, avoiding the patrolling and surveillance activity taking place out of the French outpost of Madama.[3] However, this route shift may be temporary. France’s withdrawal from its temporary base in Madama since May (although officially announced in July) has reduced its oversight over the Toummo crossing and Salvador Pass, both key trafficking gateways to Libya. In reaction to France’s withdrawal from Madama, one passeur interviewed by phone boasted: ‘maintenant on opère comme des rois [now we operate like kings]’.[4]

    Niger’s stability relies on a fragile economic, political and social equilibrium that is threatened by the current approaches to achieving Western priorities of reduced terrorism and irregular migration. The EU and its member states successfully addressed the latter by disrupting the business model of passeurs and raising the costs of migration. But while the EU must be commended for initiating projects to compensate for passeurs’ lost income, these have not yielded the results that had been hoped for. Many passeurs accuse the local non-governmental organisation in charge of dispensing funds of having been nepotistic in its fund allocation. Only a fraction of passeurs received EU support, leaving many to be forced back into their old activities.

    If support is not effectively delivered in the long term, current approaches to reducing irregular migration and terrorism may be undermined: poverty and unemployment fuel the very elements that securitisation hopes to tackle.

    Currently, strategies to tackle smuggling and illicit flows have targeted easily-replaceable low-level actors in criminal economies. Yet to have a longer-lasting impact, actors higher up in the value chain would need to be targeted. Criminal culture in Niger is as much a top-down issue as it is a bottom-up one. The participation of the Nigerien political elite in trans-Sahelian illicit economies is strong. Their business interests are as much a catalyst of flows as the widespread poverty and lack of economic opportunities that push so many into criminal endeavours. This involvement is well-known and recognised by international partners behind the scenes, yet it is not prioritised, perhaps for fear of impeding on strategic counterterrorism and anti-irregular migration goals. Meanwhile, the illicit flows of arms, drugs, goods, and people continue to foster instability in the wider region.

    References

    [1] Micallef, M. Horsley R. & Bish, A. (2019) The Human Conveyor Belt Broken – assessing the collapse of the human-smuggling industry in Libya and the central Sahel, The Global Initiative Against Transnational Organized Crime, March 2019.

    [2] Micallef, M., Farrah, R. & Bish, A. (forthcoming) After the Storm, Organized Crime across the Sahel-Sahara following the Libyan Revolution and Malian Rebellion, Global Initiative against Transnational Organized Crime.

    [3] Micallef, M., Farrah, R. & Bish, A. (forthcoming) After the Storm, Organized crime across the Sahel-Sahara following the Libyan Revolution and Malian rebellion, Global Initiative against Transnational Organized Crime.

    [4] Telephone interview with Tebu passeur based in Dirkou, July 2019.

    https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/niger-has-securitisation-stopped-traffickers-23838
    #Niger #trafiquants #frontières #fermeture_des_frontières #smugglers #smuggling #migrations #réseaux_criminels #asile #réfugiés #criminalisation #économie #économie_informelle #passeurs #saisonniers_nigériens #prix #Sebha #Agadez #pauvreté #chômage #travail #Tramadol #drogue #trafic_de_drogue
    ping @karine4 @pascaline

  • Turkey’s Policy in the Balkans: More than Neo-Ottomanism

    There is a fundamental misperception with regard to Turkey’s relationship with the Balkans. Turkey is not external to the region, the way Russia is for instance. Its history and geographic location make it a part of southeast Europe. Millions of Turks have their family roots in what was once known as ‘Turkey-in-Europe.’ This includes the founder of the republic, the Salonika-born Mustafa Kemal Atatürk. Ties run deep at the political, economic, and societal levels.

    All those connections have drawn Turkey to the Balkans, especially after the end of the Cold War. The notion that Turks are now coming back does not hold. Closer engagement in the region started under President Turgut Özal in the early 1990s. But back then, Turkey balanced between bilateralism and multilateralism. It invested in economic and security ties with friendly countries such as Albania, Macedonia, Romania and Bulgaria while adhering to NATO as its response to the wars in ex-Yugoslavia. What changed under the Justice and Development (AK) Party, notably over the past decade, is the switch to bilateralism. That is understandable given the cracks in relations between Ankara and the West. All the same, it is concerning since it is coinciding with the push against the EU and NATO by Russia, which leverages history, religious identity and anti-Western rhetoric to legitimize its actions.

    Pundits and politicians often use ‘Neo-Ottomanism’ to describe Turkey’s forays. The label can be often misleading. Yes, Turkish President Recep Erdogan praises the Ottoman Empire and its legacy, domestically and beyond Turkey’s borders. But so did his predecessors in office. Within the country, liberals and Islamist conservatives alike all rediscovered the Ottomans from the 1980s onwards in questioning the Kemalist political order. The government has been reaching out to Balkan Muslims through TIKA, the Turkish developmental agency, and the Directorate of Religious Affairs (Diyanet) for decades.

    Neo-Ottomanism is therefore the packaging, not the substance. Turkey’s objective is not to recreate the Ottoman Empire in the Balkans. That is far beyond the country’s resources and capacity. The region is gravitating in economic, social, institutional and political terms to the West. What we have instead is Erdogan using the Balkans to make a case that he is the leader of the wider (Sunni) Muslim community in Europe and the Middle East. The main audience is his electorate in Turkey and only secondly Muslims abroad. The pre-election rally he held in Sarajevo in the run-up to last year’s presidential and parliamentary elections is a case in point.

    But Turkish policy in the Balkans cannot be reduced to the promotion of Islamic solidarity. Erdogan’s main achievement is the fact that he has built relations with leaders from countries that are majority non-Muslim. In October 2017, for instance, he was welcomed in Serbia by President Aleksandar Vucic. The visit gave some credence to complaints by Bosniaks (Slavic Muslims) that Turkey loves to talk brotherhood in Bosnia but when it comes to investing money it goes for Serbia. Similarly, Erdogan has strong links to Bulgaria’s Prime Minister Boyko Borisov, who hosted the EU-Turkey summit a year ago. Bulgaria and Serbia are interested in hosting an extension of the TurkStream gas pipeline, a joint Russo-Turkish venture. Greece’s Alexis Tsipras also received the red carpet treatment during his latest visit to Turkey where he discussed ideas on decreasing tensions in the Aegean.

    Despite its quest for strategic autonomy, Turkey is still partnering with Western institutions. In addition, Ankara has been supportive of the Prespa Agreement and newly renamed North Macedonia’s accession to NATO, its quarrels with the U.S. and other key members of the Alliance notwithstanding. Collectively, EU members Romania, Bulgaria and Greece account for the bulk of Turkish trade with southeast Europe, with the Western Balkans trailing far behind. Greece and Bulgaria see Turkey as key to stemming the flow of asylum seekers from Syria, Iraq, Afghanistan and further afield. They are highly supportive of the EU-Turkey deal on migration from March 2016, renewed last year.

    Does the authoritarian system built by Erdogan pose an ideological challenge in the Balkans? Perhaps yes. For instance, pressure on governments to close educational institutions and surrender, without due process, members of the Fethullah Gülen community, which is implicated in the coup attempt in July 2016, undermine the rule of law. At the same time, the authoritarian drift observed in the Balkans is an indigenous product. It is not imported from Vladimir Putin’s Russia nor from Turkey under its new ‘sultan’.

    https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/turkeys-policy-balkans-more-neo-ottomanism-22835

    #néo-ottomanisme #Turquie #Balkans

  • Oman’s Boiling Yemeni Border

    The Yemeni province of #Mahra, on the border with Oman, has not been reached by the war so far. However, Saudi Arabia – as Oman used to do to defend its influence – has started to support a large number of Mahari tribes. This has led to large community divisions in local tribal society, for the first time in the history of this eastern province. This support is not limited to the financial domain but also extends to the military. The spread of armed tribal groups has become a new feature in Mahra in light of the indirect Saudi-Emirati-Omani competition for regional leverage.

    In 2015, Yemen’s president, Abdurabo Mansour Hadi, fled to the Yemen-Oman border when the Houthis, along with their former ally Ali Abdullah Saleh, decided to invade Aden to arrest him. The president traveled to the remote provinces of the desert until he arrived in Mahra, through which he crossed the border into Oman. In the meantime, the Saudi-led coalition began its military operations to restore the legitimacy that the Houthis had gained.

    The border strip between Mahra and the Omani province of Dhofar is 288 kilometers long, starting from the coast of Haof district and ending in the heart of the desert at the border triangle between Yemen, Oman and Saudi Arabia: beyond the desert, there are few agricultural zones and the population lives along the border strip. Although the border area is divided between the two countries, the frontier communities in Mahra and Dhofar appear to be an ecosystem: tribes descend from a single tribe and share many historical, social and cultural constituents. In addition, they speak another language beside Arabic, namely “Mahriya” or “Jabali”, which is a Semitic language not spoken by the rest of Yemenis.

    This social cohesion in border areas has led Oman to deal with this ecosystem as a first line of defense to protect its security from any break-in. To this end, Oman has strengthened its relationships with Mahra society and provided Omani citizenship for many personalities in the area, especially after signing the border agreement with Yemen in 1992. It has also made it easier for those who do not have Omani citizenship to move to Oman. Despite Yemen’s upheavals since 2011, Mahra province has not been affected economically because it relied on Omani markets to obtain fuel and food, depending especially on a major shared market, the Al-Mazyounah, which is a few kilometers from Yemen’s Shihen border-crossing. This explains why Mahra province managed to remain economically autonomous from the other provinces. At the same time, this contributed to protecting the Omani border from any security breakthrough by extremist groups: most tribes are also grateful to the Omani state for this status quo. This does not mean that illegal activities are absent from this area: the smuggling of goods and vehiclesis widespread and recently many human trafficking cases in Dhofar were also recorded, but all the people involved in such activities are Mahris.

    However, the consequences of the war have extended to the border of Mahra province since mid-2015. The Houthis reduced the financial allowances of Mahra employees to a quarter of the amount required for the province, causing non-payment of salaries for many civil and military employees: many of them, especially non-Mahris, had to leave and return to their areas. This provoked a severe shortage of employees in security and service institutions: as a result, the then governor of Mahra handed out Mahra crossings to the tribes, surrounding the areas to take over the management of ports at a governorate level and transfer customs fees to the province’s account. Moreover, Oman provided the necessary fuel for the service facilities and distributed regular food aid to the population. In 2017, the tribes of Zabanout and Ra’feet began to quarrel over control of the Shihen crossing, each tribe claiming the port as part of its tribal area.

    The United Arab Emirates (UAE) began to be present in the province of Mahra a few months later at the beginning of the military intervention in Yemen. In 2015 the UAE trained about 2,500 new recruits from among Mahra inhabitants, although they reportedly did not create an elite force due to tribal refusal, while providing a lot of assistance to rebuild the local police and existing security services. It also distributed food baskets and humanitarian aid to the residents of Mahra districts through the UAE Red Crescent Society.

    In the eyes of the sultanate, the UAE presence at its Yemeni border is perceived as unjustified: the two countries have disputes on several issues, most notably the border, especially after Oman accused Abu Dhabi of planning a coup in 2011 to overthrow Sultan Qaboos, which the UAE denied.

    The collapse of Yemeni state institutions and the military intervention of the Saudi-led coalition stunned Muscat, which found itself having to cope with new dynamics and a no more effective border strategy: these concerns have turned into reality. In January 2016 the Omani authorities closed the ports in the Shihen and Surfeet areas, and a few months later al-Qaeda in the Arabian Peninsula (AQAP) seized control of the city of Mukalla, the capital of Mahra’s neighboring region of Hadramout. The stated rationale for Oman’s move was to protect its border security from any breakthrough of extremist groups. It is here worth noting that AQAP has never been close to Mahra or its border areas, due to local society, strongly attached to traditional Sufism, which has never accepted al-Qaeda’s ideology. In late 2017, when a group of Saudi-backed Salafists tried to establish a religious education center in Mahra’s Qashan, protests were held against them because locals reject this type of religious belief.

    However, observers believe that the real reason for the temporary closure of the ports was the result of political choices made by president Hadi and Khaled Bah’hah, the prime minister at the time: leaders of security and military services in Mahra were replaced by new leaders and the sultanate was uncertain regarding the future political direction of these appointments. It should be noted that, over the past few years, tensions have arisen between Saudi Arabia and the UAE on the one hand, and Oman on the other, because the sultanate adopted political attitudes not aligned with the Saudi-UAE politics in the region, especially in relation to Qatar and Iran.

    Oman was also accused by Riyadh and Abu Dhabi of providing access to arms and communications devices to be delivered to the Houthis. In August 2015 Marib province authorities seized a shipment of arms and ammunition for the Houthis at one of its checkpoints. In October 2015, the governor of Marib declared that military forces took possession of Iranian military equipment (including advanced communications equipment) in the province: according to their statement, this shipment was coming by land from the Sultanate of Oman. In November 2015, the Yemeni army dismantled an informal network involved in the smuggling of arms and explosives, as well as of military communications equipment, which entered through Mahra ports, said the army. In October 2016, Western and Iranian officials stated that Iran had stepped up arms transfer to the Houthis, and most of the smuggling crossed Oman and its Yemeni frontier, including by land routes. This was denied by the Sultanate of Oman in a statement from the Ministry of Foreign Affairs, arguing that “the news of arms smuggling through Oman is baseless and no arms are passing through the lands of Sultanate”.

    Despite these allegations, there are smuggling routes towards Yemen that seem easier than passing through the sultanate’s borders. The Yemeni coastal strip on the Arabian Sea extends over 1,000 kilometers: this is a security vacuum area and is closer in terms of distance to the Houthis’ strongholds. In any case, smuggled arms or goods cannot reach the Houthis in northern Yemen without the help of smuggling networks operating in areas controlled by the legitimate government forces.

    In October 2017 the Southern Transitional Council (STC), a UAE-backed faction of the Southern Movement seeking independence for southern Yemen, tried to convince the former governor, Abdullah Kedda, to join the council, but he refused, asserting that he supports the authority of the legitimate government led by president Hadi. This disappointed the Saudi-led coalition, especially the UAE, which intends to promote the STC as the only entity representing the Southern Movement: the STC embraced the UAE’s agenda in the south.

    The Omani influence on the tribes of Mahra was a major motivation for Saudi Arabia’s military reinforcement in the region. In November 2017 Saudi forces entered the province and took over its vital facilities, including al-Ghaidha airport, Nashton port and the ports of Srfeet and Shihen on the border with Oman. The Saudis also deployed their forces in more than 12 locations along the coast of Mahra, and dismissed the airport employees.

    These developments worried Mahra inhabitants,pushing thousands into the streets in April 2018: they staged an open protest in the city of Ghaidha, demanding that Saudi forces to leave the facilities and institutions, handing them over to local authorities. Even famous Mahris such as Shiekh Ali Harizi, Shikh Al Afrar and Ahmed Qahtant, described the Saudis as an "occupation power"seeking to seize the resources of the province.

    Therefore, the war in Yemen has opened a subtle but acute season of popular discontent and regional rivalry in Mahra, stuck in a three-players game among Saudis, Emiratis and Omanis.


    https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/omans-boiling-yemeni-border-22588
    #Yémen #Oman #frontières #conflit #guerre

  • I rimpatri restano al palo

    I RIMPATRI RESTANO AL PALO. A dispetto delle promesse, il numero di rimpatri mensili non aumenta: anzi, nei primi sei mesi di questo Governo è calato del 20%. Elemento essenziale per calcolare il numero di nuovi irregolari previsti in Italia entro il 2020.

    sources :
    Migranti, Salvini : « Dal 1° giugno rimpatriati 2.774 irregolari »
    http://www.affaritaliani.it/coffee/video/politica/migranti-salvini-dal-1-giugno-rimpatriati-2774-irregolari.html
    Migranti, Salvini : « Dal 1° giugno rimpatriati 2.774 irregolari »
    https://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2018-09-27/migranti-flop-rimpatri-2018-minniti-piu-duro-salvini-072611.shtml?uuid=

    #statistiques #renvois #expulsions #asile #migrations #réfugiés #chiffres #Italie #2018

    Les #promesses de #Salvini restent des promesses sans fondement...
    (heureusement vu qu’il s’agit de renvois)

    Résultat : encore plus de #sans-papiers sont créés par ce système délétère...

    #clandestinisation #efficacité #inefficacité

    • I nuovi irregolari in Italia

      Tra giugno 2018 e dicembre 2020, il numero degli irregolari in Italia aumenterà di almeno 140.000 unità. Parte di questo aumento (circa 25.000 unità) è già accaduta nei mesi passati. Ma l’aumento maggiore verrà registrato tra oggi e la fine del 2020.

      Nello “scenario base”, quello in cui l’Italia avrebbe mantenuto tutti e tre i livelli di protezione internazionale (status di rifugiato, protezione sussidiaria e protezione umanitaria), gli irregolari in Italia sarebbero aumentati di circa 60.000 unità. Ma il decreto-legge dello scorso ottobre (da poco convertito in legge) potrebbe aggiungere al numero dei nuovi irregolari previsti dallo scenario base ulteriori 70.000 irregolari, più che raddoppiando i nuovi irregolari presenti in Italia. Ai ritmi attuali, i rimpatri dei migranti irregolari nei loro paesi di origine avranno un effetto solo marginale: per rimpatriarli tutti sarebbero necessari 90 anni, e solo a condizione che nel prossimo secolo non arrivi più nessun irregolare.

      In totale, entro il 2020 il numero di migranti irregolari presenti in Italia potrebbe superare quota 670.000. Si tratta di un numero più che doppio rispetto ad appena cinque anni fa, quando i migranti irregolari stimati erano meno di 300.000. Sarebbe anche il record di sempre se si esclude il 2002, quando in Italia si stimavano presenti 750.000 irregolari.

      Ecco un rapido riassunto grafico:

      https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/i-nuovi-irregolari-italia-21812

  • Italy’s closure to rescue ships drives up sea deaths: think tank | Reuters
    https://www.reuters.com/article/us-europe-migrants-italy/italys-closure-to-rescue-ships-drives-up-sea-deaths-think-tank-idUSKCN1MB35

    Italy’s closing of its ports to rescued migrants is driving up deaths at sea, an Italian think tank said on Monday, using calculations based on numbers collected by U.N. agencies.

    Since taking power in June, Interior Minister Matteo Salvini, who heads the far-right League party, has refused to allow charity rescue ships to dock in Italy, a policy that has broad popular support after the arrival of almost 650,000 people from North Africa since 2014.

    Though arrivals are down 80 percent from last year, Salvini’s hardline on immigration has helped more than double support for his party since the March national election.

    But International Organization for Migration (IOM) estimates of the number of dead or missing at sea suggest there are dire consequences to this policy, according to Matteo Villa, a researcher at Italy’s ISPI think tank.

    In the four months since Salvini took power, the average number of deaths per day has risen to 8, compared with 3.2 in the period between July 16, 2017 and May 31, 2018, when the previous government was in charge, Villa’s calculations show.

    The death rate in September was 19 percent, so about one in five migrants who attempted to reach Italy from North Africa perished. That’s the highest monthly death rate recorded since at least 2012, when reliable data began to be collected, Villa said.

    These data show there’s a problem,” Villa told Reuters, adding that the lack of civilian ships at sea also likely means recent estimates of dead are too low because there are no witnesses.

  • The Georgia War, Ten Years On

    The year 2018 marks the 10th anniversary of the so-called “#five-day_war” or “#August_war”, namely the conflict between Georgia, Russia and the Russian-backed, self-proclaimed republics of South Ossetia and Abkhazia. According to Ghia Nodia, the August war was a “moment of truth” for Georgia and for the region, but even for the broader international system’s equilibrium. As such, the conflict’s consequences stretched far beyond the geographic boundaries of the actors involved, having a huge impact on the whole post-Soviet region, the European Union and on warfare in general, as it marked the first use of cyber attacks in support of kinetic operations. This dossier collects a number of different views on the conflict’s consequences on Georgian politics and the region generally. On the one hand, the dossier analyses the implications of the conflict for EU foreign policy and Russia-EU relations. On the other, it also takes stock of Georgia’s political changes and, particularly, its process of integration with the EU and NATO.

    https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/georgia-war-ten-years-21096

    #Géorgie #guerre #conflits #rapport #Ossétie_du_Sud #Russie #Abkhazie #post-soviétisme
    cc @reka

  • Calo degli arrivi: il sistema d’asilo è più sostenibile?

    Il numero di richieste d’asilo in Italia è aumentato molto dal 2014 fino alla prima metà del 2017, mettendo sotto forte pressione il sistema d’asilo del nostro paese. Dalla seconda metà del 2017, invece, il gap tra le richieste d’asilo presentate e quelle esaminate ha iniziato a chiudersi. Ciò tuttavia non è dovuto a una maggior numero di richieste esaminate, fermo a circa 7.000 al mese da metà 2015, bensì a un netto calo delle domande d’asilo presentate (collegato al calo degli sbarchi avvenuto nello stesso periodo).

    Inoltre, i costanti deficit mensili tra domande presentate ed esaminate hanno portato a un significativo accumulo delle richieste d’asilo ancora da evadere: se a gennaio 2014 queste ultime erano meno di 15.000, a inizio 2018 sfioravano le 150.000.

    Continuando a esaminare le richieste agli stessi ritmi del 2017, l’Italia avrebbe bisogno di più di un anno e mezzo senza sbarchi per dare una risposta a tutti i richiedenti asilo. E se all’apparenza la situazione potrebbe sembrare simile a quella che sta vivendo la Germania, che nel 2017 impiegava in media 15 mesi per valutare le richieste d’asilo, in realtà la situazione tra i due paesi è completamente diversa. Ogni mese, infatti, il sistema d’asilo tedesco riesce a valutare ben 50.000 domande d’asilo rispetto alle 7.000 italiane.

    https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/fact-checking-migrazioni-2018-20415
    #procédure_d'asile #durée #asile #migrations #réfugiés #Italie #statistiques #chiffres

  • Accoglienza : un sistema ancora in emergenza ?

    Negli ultimi quattro anni gli sbarchi in Italia sono aumentati e, di conseguenza, altrettanto hanno fatto le richieste d’asilo. Il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR) è stato creato già 16 anni fa con lo scopo di offrire “progetti di accoglienza integrata”, gestiti dalle associazioni del terzo settore in collaborazione con gli enti locali.

    Sempre più spesso (da ultimo nel Piano Nazionale d’Integrazione) il Governo ribadisce l’obiettivo di rendere lo SPRAR l’unico sistema per gestire la seconda accoglienza (ovvero dopo la prima accoglienza al momento dello sbarco), rimpiazzando i posti dei Centri di accoglienza straordinaria (CAS) amministrati a livello nazionale. La ratio è quella di fornire servizi il più possibile tagliati su misura della persona e vicini al territorio, così da massimizzare le opportunità di integrazione.

    Nel corso degli anni i posti a disposizione del sistema SPRAR sono effettivamente aumentati, e in misura consistente: da meno di 4.000 nel 2012 a circa 25.000 nel 2017. Tuttavia in termini assoluti il sistema è ancora lontano dall’offrire un numero sufficiente di posti rispetto alle richieste d’asilo. Nel 2017, infatti, l’86% dei richiedenti asilo e rifugiati accolti dal sistema di emergenza e di prima accoglienza si trovava in strutture non SPRAR.

    Inoltre tra il 2014 e il 2017 il gap tra migranti accolti nei centri temporanei o di emergenza e quelli accolti nella rete SPRAR ha continuato a crescere. Se nel 2014 circa un migrante su 3 era ospitato nelle strutture SPRAR, adesso la proporzione è di uno su 7.

    https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/fact-checking-migrazioni-2018-20415
    #accueil #logement #hébergement #Italie #asile #migrations #réfugiés #SPRAR #CAS #CARA #statistiques #chiffres

    ... utile peut-être pour des recours contre les renvois Dublin... cc @isskein

  • Des #statistiques intéressantes sur l’efficacité (du point de vue de l’UE, évidemment) des renvois...
    On voit notamment que les Albanais qui ont reçu une décision de renvoi sont pratiquement tous renvoyés, contrairement aux Syriens par exemple (oh... va comprendre pourquoi on ne renvoi pas en Syrie)...

    C’est tiré du #rapport #Frontex Annual Risk Analysis 2018 (à partir de la page 25) :


    http://statewatch.org/news/2018/mar/eu-frontex-report-risk-analysis-2018.pdf
    #renvois #expulsions #Europe #efficacité #taux_de_renvoi #asile #migrations #réfugiés #déboutés #chiffres #2017 #OQTF #renvois_effectifs (si on veut utiliser le vocabulaire des autorités européennes)
    cc @isskein

    • Rimpatri degli irregolari: l’Italia ne fa pochi perché è inefficiente?

      I rimpatri dall’Italia sono pochi: tra il 2013 e il 2017 il nostro paese è riuscito a rimpatriare solo il 20% dei migranti a cui è stato intimato di lasciare il territorio, mentre la Germania ne ha rimpatriati molti di più (il 78%). Ma i motivi per cui l’Italia non riesce a rimpatriare gli irregolari che ricevono un decreto di espulsione non sono necessariamente da ricercare nell’inefficienza del sistema o nelle negligenze degli attori coinvolti.

      Uno dei problemi maggiori per l’Italia riguarda la nazionalità delle persone che ricevono l’ordine di tornare nel paese d’origine, molto diversa rispetto a quella riscontrata in paesi “virtuosi” come la Germania.

      Tra il 2013 e il 2017, infatti, in Germania il 36% delle persone raggiunte da un provvedimento di rimpatrio proveniva da paesi balcanici come Albania e Serbia, che Berlino considera in gran parte “sicuri” e con i quali esistono accordi di rimpatrio. Questi paesi hanno inoltre tutto l’interesse a cooperare con le cancellerie europee, anche in vista di un loro possibile futuro ingresso nell’Ue. Sempre in Germania, un ulteriore 9% dei migranti raggiunti da un provvedimento di espulsione proveniva da Afghanistan e Pakistan: anche con questi paesi la Germania ha in vigore accordi che le hanno permesso di aumentare i rimpatri, pur suscitando molte polemiche.

      All’opposto, l’Italia ha emesso decreti di espulsione in massima misura nei confronti di persone con nazionalità africana (49% Nordafrica; 18% Africa subsahariana). Roma è riuscita a sottoscrivere solo pochi accordi di riammissione con molti dei paesi africani e, anche laddove questi esistono, la loro applicazione da parte di governi e autorità locali è discontinua e disomogenea.


      https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/fact-checking-migrazioni-2018-20415
      #Italie

  • ITALIE ISOLÉE DANS LA TEMPÊTE MIGRATOIRE
    Article de JÉRÔME GAUTHERET

    Sur les 600 000 migrants arrivés en Italie depuis 2014, la plupart ont traversé la #Méditerranée. Des milliers d’autres y ont péri. L’île de #Lampedusa, avant-poste de l’accueil, est débordée par cette crise humanitaire fortement liée au chaos qui règne en #Libye.

    On rejoint le jardin public en poussant les portes d’une grille qui ne ferme plus depuis longtemps. Puis, après une courte promenade au milieu des agaves et des myrtes, on arrive à un étrange réseau de grottes sommairement aménagées à proximité d’un vieux puits. L’endroit est à peine mentionné par les guides de voyage, mais il mérite qu’on s’y arrête : en effet, le vrai cœur de Lampedusa est là, en ces vestiges
    à peine entretenus d’un sanctuaire millénaire, témoignage unique de ce qu’était l’île avant sa colonisation systématique, au début du XIXe siècle.

    LAMPEDUSA, UNE ÎLE AU CENTRE DU MONDE

    Avant de devenir un paradis touristique perdu au milieu de la Méditerranée, à 150 kilomètres des côtes tunisiennes, en même temps que, pour le monde entier, le symbole de l’odyssée des centaines de milliers de migrants qui, chaque année, bravent tous les dangers pour atteindre l’Europe, Lampedusa a été un havre, un lieu de repos pour les marins de toutes origines qui sillonnaient la mer.

    Marchands phéniciens, arabes ou grecs, chevaliers francs revenant de croisade, pirates barbaresques, pêcheurs en détresse : Lampedusa était leur île. Elle appartenait à tous et à personne. Chacun, du roi de France revenant de Terre sainte au plus humble pêcheur, venait s’abriter ici durant les tempêtes, prier ses dieux et reprendre des forces, en attendant l’accalmie. Aujourd’hui, une chapelle dédiée à
    la Vierge a été aménagée dans la pierre, à deux pas de la grotte, et les habitants viennent, de loin en loin, y déposer quelques fleurs ou prier, dans un calme absolu.

    La " porte de l’Europe ", pour reprendre le nom d’une œuvre d’art installée sur une plage faisant face à l’infini, à la pointe sud de Lampedusa, peut bien être présentée comme une des extrémités de l’Union européenne, un bout du monde exotique. Mais, dès que l’on pose le pied sur l’île, on est assailli par le sentiment inverse : celui d’être au centre d’un espace fluide, au sein duquel les populations ont navigué de rive en rive, depuis toujours. L’impression est encore plus
    saisissante lorsqu’on observe, grossièrement sculptées dans la roche, les traces de ce passé enfoui.

    L’homme qui nous conduit dans ce sanctuaire, un matin d’hiver, s’appelle Pietro Bartolo. Il est né sur l’île en 1956, il en est parti à 13 ans et y est revenu au milieu des années 1980, une fois achevées ses études de médecine. C’est lui qui a fondé, un peu à l’écart du bourg, le petit hôpital qui, aujourd’hui encore, constitue le seul lieu d’assistance, sur terre comme sur mer, à plus de 100 milles nautiques (185 km) à la ronde.

    En tant que directeur de l’#hôpital de Lampedusa, il a accueilli, ces dernières années, des dizaines de milliers de candidats à l’exil sur le quai minuscule qui tient lieu de débarcadère, et les a soignés. Il a aussi eu la terrible responsabilité d’ouvrir, du même geste, des centaines et des centaines de ces grands sacs verts dans lesquels on
    ramène à terre les corps des naufragés. Un film documentaire sorti en 2016, nominé pour l’Oscar, Fuocoammare. Par-delà Lampedusa, dans lequel il jouait son propre rôle, lui a valu une notoriété internationale. A sa manière, lui aussi est devenu un symbole.

    Comme c’est courant ici, l’histoire familiale de Pietro Bartolo est africaine autant qu’italienne. A l’exemple de ces milliers de Siciliens poussés par la misère qui, pendant des décennies, ont pris la mer en sens inverse des migrants d’aujourd’hui pour chercher du travail dans les colonies et protectorats d’Afrique du Nord, la famille de sa mère s’était installée un temps en Tunisie. Cette multitude d’odyssées ordinaires, dont le souvenir est entretenu par les histoires familiales, explique une bonne part des différences de perception du phénomène migratoire entre le nord et le sud de l’Italie.

    LE TEMPS DES " TURCS "

    A la tête de ce qui, à l’origine, n’était guère plus qu’un dispensaire, #Pietro_Bartolo s’est trouvé aux premières loges quand tout a changé. " Ça a commencé dans les années 1990. Les migrants, des jeunes hommes venus d’Afrique du Nord, arrivaient directement sur la plage, par leurs propres moyens, avec des barques ou des canots pneumatiques. Sur l’île, on les appelait “#les_Turcs”, se souvient-il. Les habitants accueillent comme ils peuvent les arrivants, qui gagnent ensuite la Sicile puis, pour l’immense majorité, le continent.

    Le gouvernement, lui, ne considère pas encore le phénomène comme préoccupant. D’autant plus que, depuis le début des années 1990, l’#Italie a la tête ailleurs. L’arrivée dans les Pouilles, au printemps et en été 1991, de plusieurs dizaines de milliers d’Albanais fuyant la ruine de leur pays a provoqué un choc terrible. Le 8 août, le #Vlora, un cargo venu du port albanais de Durres, est entré dans celui de Bari avec à son bord 20 000 migrants, bientôt installés dans l’enceinte du stade de la ville. La désorganisation est totale : le maire multiplie les appels aux dons et à la solidarité, tandis qu’à Rome le gouvernement cherche un moyen de renvoyer chez eux ces arrivants illégaux… Rien ne sera plus jamais comme avant.

    A l’aune de ce bouleversement venu des Balkans, qui force l’Italie, pour la première fois de son histoire, à se poser la question de l’accueil et de l’intégration, les arrivées sporadiques à Lampedusa ne sont pas perçues au départ comme beaucoup plus qu’une anecdote. Selon les souvenirs des habitants, les migrants venaient surtout des côtes tunisiennes, ils étaient jeunes et en relative bonne santé. La plupart du temps, la traversée était assurée par des passeurs, payés une fois le but atteint. Bref, la route de la #Méditerranée_centrale vivait à l’heure d’une migration "artisanale".

    Mais au fil du temps, dans les années 2000, le phénomène change de nature et d’échelle. "Il ne s’agit pas seulement de géopolitique. Il s’est produit un changement anthropologique dans la jeunesse africaine il y a une quinzaine d’années", assure le vice-ministre italien des
    affaires étrangères et de la coopération, Mario Giro, qui, avant d’entrer en politique, a consacré de nombreuses années à des missions en Afrique comme responsable des questions internationales de la Communauté de Sant’Egidio. "Avant, il s’agissait de projets collectifs : une famille se cotisait pour envoyer un de ses fils en Europe, dit-il. Désormais, ce sont des #hommes_seuls qui décident de
    partir, parce qu’ils considèrent que partir est un droit. Dans les villes africaines, la famille a subi les mêmes coups de la modernité que partout dans le monde. Ces jeunes gens se sont habitués à penser seuls, en termes individuels. Dans leur choix, il y a une part de vérité – les blocages politiques – et la perception que l’avenir n’est pas dans leur pays. Alors, ils partent."
    #facteurs_push #push-factors

    Des gouvernements européens essaient de passer des accords avec les Etats africains pour qu’ils arrêtent en Afrique les candidats à l’Europe, ce qui a pour effet de criminaliser l’activité des #passeurs. Des réseaux de plus en plus violents et organisés se mettent en place.

    VIE ET MORT DE MOUAMMAR KADHAFI

    Un acteur central du jeu régional comprend très tôt le parti à tirer de ce phénomène, face auquel les pays européens semblent largement démunis. C’est le chef de l’Etat libyen, Mouammar #Kadhafi, qui cherche depuis le début des années 2000 à retrouver une forme de respectabilité internationale, rompant avec la politique de soutien au terrorisme qui avait été la sienne dans les années 1980 et 1990.
    Grâce aux immenses recettes de la rente pétrolière, dont il dispose dans la plus totale opacité, le Guide libyen multiplie les prises de participation en Italie (Fiat, Finmeccanica) et les investissements immobiliers. Il entre même au capital du club de football le plus prestigieux du pays, la Juventus de Turin. En contrepartie, le groupe énergétique ENI, privatisé à la fin des années 1990 mais dans lequel l’Etat italien garde une participation importante, conserve le statut d’Etat dans l’Etat dont il jouit en Libye depuis la période coloniale (1911-1942).

    Bientôt, la maîtrise des flux migratoires devient un aspect supplémentaire dans la très complexe relation entre la Libye et l’Italie. " De temps en temps, tous les deux ou trois ans, Kadhafi réclamait de l’argent pour la période coloniale. Et quand ça n’allait pas assez bien pour lui, il faisait partir des bateaux pour se rappeler à nous. C’était devenu pour lui un moyen de pression de plus, et ça signifie également qu’en Libye, des réseaux étaient déjà en place", se souvient Mario Giro.
    #chantage

    Entamées à l’époque du deuxième gouvernement Prodi (2006-2008), et émaillées de moments hauts en couleur – comme cette visite privée à Tripoli du ministre des affaires étrangères italien Massimo D’Alema, un week-end de Pâques 2007, au terme de laquelle Kadhafi a affirmé que l’Italie lui avait promis de construire une autoroute traversant le pays d’est en ouest –, les négociations sont poursuivies par le gouvernement de Silvio Berlusconi, revenu aux affaires au printemps 2008. Elles débouchent sur la signature d’un accord, le 30 août de la même année. En échange de 5 milliards d’euros d’investissements sur vingt-cinq ans et d’#excuses_officielles de l’Italie pour la #colonisation, le dirigeant libyen s’engage à cesser ses reproches, mais surtout à empêcher les départs de migrants depuis ses côtes. Plus encore, les migrants secourus dans les eaux internationales seront ramenés en Libye, même contre leur gré et au mépris du droit de la mer.
    #accord_d'amitié

    L’Eglise et plusieurs ONG humanitaires peuvent bien chercher à alerter l’opinion sur les conditions dans lesquelles sont ramenés à terre les candidats à la traversée, ainsi que sur les innombrables violations des droits de l’homme en Libye, elles restent largement inaudibles. Le colonel Kadhafi peut même se permettre de pittoresques provocations, comme ses visites officielles à Rome en 2009 et 2010, où il appelle publiquement à l’islamisation de l’Europe. Le gouvernement Berlusconi, embarrassé, n’a d’autre solution que de regarder ailleurs.

    L’irruption des "#printemps_arabe s", début 2011, va faire voler en éclats ce fragile équilibre. Le soulèvement libyen, en février 2011, un mois après la chute du président tunisien Ben Ali, est accueilli avec sympathie par les chancelleries occidentales. Mais en Italie, on l’observe avec préoccupation. "Bien sûr, l’Etat libyen de Kadhafi n’était pas parfait, concède #Mario_Giro. Mais il y avait un Etat… Dans les premiers mois de 2011 – je travaillais encore pour Sant’Egidio –, alors que la France semblait déjà décidée à intervenir en Libye, le ministre des affaires étrangères du Niger m’a demandé d’organiser une entrevue avec son homologue italien, Frattini. Nous étions trois, dans un bureau du ministère, et il nous a expliqué point par point ce qu’il se passerait en cas de chute de Kadhafi. Le chaos en Méditerranée, les armes dans tout le Sahel… Tout s’est passé exactement comme il l’a dit. Mais personne n’a voulu l’écouter". Il faut dire qu’en ce début d’année 2011, le prestige international de l’Italie est au plus bas. Très affaiblie économiquement et victime du discrédit personnel d’un Silvio Berlusconi empêtré dans les scandales, l’Italie est tout simplement inaudible.

    En mai 2011, les membres du G8, réunis à Deauville, appellent Mouammar Kadhafi à quitter le pouvoir. "Lors de ce sommet, Silvio Berlusconi a plusieurs fois tenté de prendre la défense du Guide libyen, mettant en avant son aide sur le dossier des migrants et le fait qu’il s’était amendé et avait tourné le dos au terrorisme", se souvient un diplomate français, témoin des discussions. "Mais
    personne n’en a tenu compte." Le chef libyen, chassé de Tripoli en août, mourra le 20 octobre, à Syrte. Quatre semaines plus tard, le gouvernement Berlusconi 4 cessait d’exister.

    Sur le moment, entre l’euphorie de la chute de la dictature et le changement d’ère politique en Italie, ces tensions entre puissances semblent négligeables. Il n’en est rien. Au contraire, elles ne cesseront de resurgir dans le débat, nourrissant en Italie un procès durable contre la #France, accusée d’avoir déstabilisé la situation en Méditerranée pour mieux laisser l’Italie en subir, seule, les conséquences.

    CHAOS EN MÉDITERRANÉE

    Car dans le même temps, les "printemps arabes" provoquent un bouleversement de la situation en Méditerranée. Une fois de plus, c’est à Lampedusa que les premiers signes de la tempête apparaissent. Sur cette île minuscule, en hiver, on compte à peine 5 000 habitants d’ordinaire. Là, ce sont plus de 7 000 personnes venues de #Tunisie qui y débarquent en quelques jours, entre février et mars 2011. La population les accueille avec les moyens du bord, dans des conditions très précaires. Des "permis temporaires de séjours" de trois mois
    sont délivrés aux arrivants par les autorités italiennes. Ainsi, les candidats à l’exil pourront-ils circuler aisément dans tout l’espace Schengen. Plus de 60 000 migrants débarqueront en 2011 ; la grande majorité d’entre eux ne resteront pas en Italie.
    #migrants_tunisiens

    Passé les mois de désorganisation ayant suivi la chute du président tunisien #Ben_Ali, Rome et Tunis concluent en 2012 un #accord_de_réadmission, formalisant le retour au pays des migrants d’origine tunisienne expulsés d’Italie. Assez vite, se met en place une coopération qui, de l’avis de nos interlocuteurs dans les deux pays, fonctionne plutôt harmonieusement.

    En revanche, en Libye, du fait de la déliquescence du pouvoir central, Rome n’a pas d’interlocuteur. Dans un pays livré aux milices et à l’anarchie, des réseaux de trafiquants d’êtres humains s’organisent à ciel ouvert. Jusqu’à la catastrophe, qui se produit dans la nuit du 2 au #3_octobre_2013. "J’ai été réveillé à 6 heures du matin par un appel des autorités maritimes, se souvient Enrico Letta, alors chef du gouvernement italien. En quelques minutes, nous avons compris que le #naufrage qui venait d’avoir lieu près de Lampedusa était une tragédie sans précédent – le bilan sera de 366 morts. Il fallait trouver des cercueils, s’occuper des orphelins… J’ai dû presque forcer le président de la Commission européenne - José Manuel Barroso - à m’accompagner sur l’île. Quelques jours plus tard, il y a eu un autre naufrage, tout aussi meurtrier, au large de Malte. Alors que nous demandions l’aide de l’Europe, j’ai vite compris que nous n’aurions rien. Donc, nous avons décidé de nous en occuper nous-mêmes. L’émotion était si forte que l’opinion nous a suivis."

    En une dizaine de jours, l’opération "#Mare_Nostrum" est mise sur pied. Concrètement, il s’agit d’une opération navale, à la fois militaire et humanitaire, visant à lutter contre les réseaux de passeurs, tout en évitant la survenue de nouveaux drames. Ses effets sont immédiats : en moins d’un an, plus de 100 000 migrants sont secourus et le nombre de morts diminue spectaculairement. Pourtant, le gouvernement Renzi, qui succède à Letta un an plus tard, décide d’y mettre un terme, à l’automne 2014. "Ça ne coûtait pas très cher, environ 8 millions d’euros par mois, et nous avons sauvé des centaines de vie avec ce dispositif, tout en arrêtant de nombreux trafiquants, avance Enrico Letta pour défendre son initiative. Mais très vite, Mare Nostrum a été accusée de provoquer un #appel_d'air… "

    De fait, en quelques mois, le nombre de départs des côtes africaines a explosé. Surtout, une évolution capitale se produit : peu à peu, les passeurs changent de stratégie. Pour ne pas voir leurs bateaux saisis, plutôt que de chercher à gagner un port italien, ils se contentent, une fois arrivés à proximité des eaux italiennes, de débarquer les migrants à bord de petites embarcations, les laissant ensuite dériver
    jusqu’à l’arrivée des secours. La marine italienne, trouvant les migrants en situation de détresse, n’a alors d’autre choix que d’appliquer les règles immuables du #droit_de_la_mer et de les conduire en lieu sûr.

    La suppression de Mare Nostrum par le gouvernement Renzi vise à sortir de cet engrenage. En novembre 2014, est annoncée l’entrée en vigueur de l’opération "#Triton", coordonnée par l’agence européenne #Frontex. Un dispositif de moindre envergure, financé par l’Union européenne, et dans lequel la dimension humanitaire passe au second plan. Las, le nombre de départs des côtes libyennes ne diminue pas. Au contraire, en 2015, plus de 150’000 personnes sont secourues en mer. En 2016, elles seront 181’000. Et pour suppléer à la fin de Mare Nostrum, de nouveaux acteurs apparaissent en 2015 au large des côtes libyennes : des navires affrétés par des #ONG humanitaires, aussitôt
    accusés, eux aussi, de former par leur présence une sorte d’appel d’air facilitant le travail des trafiquants d’êtres humains.

    L’ITALIE PRISE AU PIÈGE

    Pour Rome, les chiffres des secours en mer sont bien sûr préoccupants. Mais ils ne disent pas tout du problème. L’essentiel est ailleurs : depuis la fin de 2013, les pays limitrophes de l’Italie (#France et #Autriche) ont rétabli les contrôles à leurs frontières. Là où, jusqu’alors, l’écrasante majorité des migrants empruntant la route de la Méditerranée centrale ne faisaient que traverser le pays en direction du nord de l’Europe, ils se trouvent désormais bloqués sur le sol italien, provoquant en quelques années l’engorgement de toutes les structures d’accueil. Et les appels répétés à la solidarité européenne se heurtent à l’indifférence des partenaires de l’Italie, qui eux-mêmes doivent composer avec leurs opinions publiques, devenues très hostiles aux migrants.
    #frontière_sud-alpine

    Considéré jusque-là comme un impératif moral par une large part de la population, l’accueil des demandeurs d’asile est l’objet de critiques croissantes. En 2015, en marge du scandale "#Mafia_capitale ", qui secoue l’administration de la commune de Rome, l’Italie découvre que plusieurs coopératives chargées de nourrir et d’héberger les migrants se sont indûment enrichies. S’installe dans les esprits une l’idée dévastatrice : l’#accueil des réfugiés est un "#business " juteux plus qu’une œuvre humanitaire.
    #mafia

    Deux ans plus tard, une série de procédures à l’initiative de magistrats de Sicile en vient à semer le doute sur les activités des ONG opérant en Méditerranée. Le premier à lancer ces accusations est le procureur de Catane, Carmelo #Zuccaro, qui dénonce en avril 2017 – tout en admettant qu’il n’a "pas les preuves" de ce qu’il avance – les ONG de collusion avec les trafiquants. Après trois mois de rumeurs et de fuites organisées dans la presse, début août 2017, le navire de l’ONG allemande #Jugend_Rettet, #Iuventa, est placé sous séquestre, tandis qu’il a été enjoint aux diverses organisations de signer un "code de bonne conduite", sous le patronage du ministre de l’intérieur, Marco #Minniti, visant à encadrer leurs activités en mer. La plupart des ONG, dont Médecins sans frontières, quitteront la zone à l’été 2017.
    #code_de_conduite

    Tandis que le monde entier a les yeux tournés vers la Méditerranée, c’est en réalité en Libye que se produit, mi-juillet, une rupture majeure. En quelques jours, les départs connaissent une chute spectaculaire. Moins de 4000 personnes sont secourues en mer en août, contre 21’000 un an plus tôt, à la même période. La cause de ce coup d’arrêt ? Le soutien et l’équipement, par Rome, des unités libyennes
    de #gardes-côtes, qui traquent les migrants jusque dans les eaux internationales, au mépris du droit de la mer, pour les reconduire dans des camps de détention libyens. Le gouvernement italien conclut une série d’accords très controversés avec différents acteurs locaux en
    Libye.
    #accord #gardes-côtes_libyens
    v. aussi : http://seen.li/cvmy

    Interrogé sur les zones d’ombre entourant ces négociations, et les témoignages venus de Libye même affirmant que l’Italie a traité avec les trafiquants, Marco Minniti nie la moindre entente directe avec les réseaux criminels, tout en mettant en avant l’intérêt supérieur du pays, qui n’arrivait plus, selon lui, à faire face seul aux arrivées. "A un moment, confiait-il fin août 2017 à des journalistes italiens, j’ai eu peur pour la santé de notre démocratie."

    De fait, l’accueil de 600’000 migrants depuis 2014 et l’attitude des partenaires européens de l’Italie, qui ont poussé à l’ouverture de "#hotspots" (centres d’enregistrement des migrants) en Sicile et dans le sud de la Péninsule, sans tenir leurs engagements en matière de #relocalisation (à peine 30 000 réfugiés arrivés en Italie et en Grèce concernés à l’automne 2017, contre un objectif initial de 160’000), a nourri le rejet de la majorité de centre-gauche au pouvoir. Il a alimenté le discours xénophobe de la Ligue du Nord de Matteo Salvini et la montée des eurosceptiques du Mouvement 5 étoiles. A quelques jours des élections du 4 mars, celui-ci est au plus haut dans les sondages.

    Depuis l’été, les départs des côtes africaines se poursuivent
    sporadiquement, au gré de la complexe situation régnant sur les côtes libyennes. Resteque des centaines de milliers de candidats à l’exil – ils seraient de 300’000 à 700’000, selon les sources – sont actuellement bloqués en Libye dans des conditions humanitaires effroyables. Pour le juriste sicilien Fulvio Vassallo, infatigable défenseur des demandeurs d’asile, cette politique est vouée à l’échec, car il ne s’agit pas d’une crise migratoire, mais d’un mouvement de fond. "Pour l’heure, l’Europe affronte le problème avec
    la seule perspective de fermer les frontières, explique-t-il. Et ça, l’histoire des vingt dernières années nous démontre que c’est sans espoir. Ça n’a pas d’autre effet que d’augmenter le nombre de morts en mer."

    Depuis 2014, selon les chiffres du Haut-Commissariat des Nations unies pour les réfugiés, 13’500 personnes au moins ont trouvé la mort en mer, sur la route de la Méditerranée centrale. Sans compter la multitude de ceux, avalés par les eaux, dont on n’a jamais retrouvé la trace.


    http://www.lemonde.fr/international/article/2018/02/23/l-italie-seule-dans-la-tempete-migratoire_5261553_3210.html

    Un nouveau mot pour la collection de @sinehebdo sur les mots de la migration : #Les_Turcs

    A la tête de ce qui, à l’origine, n’était guère plus qu’un dispensaire, Pietro Bartolo s’est trouvé aux premières loges quand tout a changé. " Ça a commencé dans les années 1990. Les migrants, des jeunes hommes venus d’Afrique du Nord, arrivaient directement sur la plage, par leurs propres moyens, avec des barques ou des canots pneumatiques. Sur l’île, on les appelait “#les_Turcs”, se souvient-il. Les habitants accueillent comme ils peuvent les arrivants, qui gagnent ensuite la Sicile puis, pour l’immense majorité, le continent.

    #histoire

    #abandon de l’Italie :

    Jusqu’à la catastrophe, qui se produit dans la nuit du 2 au #3_octobre_2013. « J’ai été réveillé à 6 heures du matin par un appel des autorités maritimes, se souvient Enrico Letta, alors chef du gouvernement italien. En quelques minutes, nous avons compris que le #naufrage qui venait d’avoir lieu près de Lampedusa était une tragédie sans précédent – le bilan sera de 366 morts. Il fallait trouver des cercueils, s’occuper des orphelins… J’ai dû presque forcer le président de la Commission européenne - José Manuel Barroso - à m’accompagner sur l’île. Quelques jours plus tard, il y a eu un autre naufrage, tout aussi meurtrier, au large de Malte. Alors que nous demandions l’aide de l’Europe, j’ai vite compris que nous n’aurions rien. Donc, nous avons décidé de nous en occuper nous-mêmes. L’émotion était si forte que l’opinion nous a suivis. »

    #asile #migrations #réfugiés #mourir_en_mer #frontières

    • C’est une manière de classer les étrangers en mouvement ou en attente de statut par le pays d’accueil.
      Migrants pour étrangers en mouvement. Immigrés pour étrangers sur le territoire national quelque soit leur statut.
      Demandeur d’Asile pour ceux qui font une demande de protection.
      Réfugiés pour ceux qui ont obtenu cette protection.
      Sans papiers pour ceux qui n’ont pas encore obtenu un statut qu’ils aient fait la demande ou non. Le terme administratif en France est ESI, étranger en situation irrégulière.
      Exilés pour ceux qui ont quitté leur pays d’une manière volontaire ou involontaire avec ce qui implique de difficultés et de sentiment d’éloignement de son pays.

    • Solidarietà Ue: gli altri paesi ci hanno lasciati da soli?

      Tra settembre 2015 e aprile 2018 in Italia sono sbarcate quasi 350.000 persone. A fronte di ciò, i piani di ricollocamento d’emergenza avviati dall’Unione europea prevedevano di ricollocare circa 35.000 richiedenti asilo dall’Italia verso altri paesi Ue: già così si sarebbe dunque trattato solo del 10% del totale degli arrivi. Inoltre i governi europei avevano imposto condizioni stringenti per i ricollocamenti: si sarebbero potuti ricollocare solo i migranti appartenenti a nazionalità con un tasso di riconoscimento di protezione internazionale superiore al 75%, il che per l’Italia equivale soltanto a eritrei, somali e siriani. Tra settembre 2015 e settembre 2017 hanno fatto richiesta d’asilo in Italia meno di 21.000 persone provenienti da questi paesi, restringendo ulteriormente il numero di persone ricollocabili. Oltre a queste limitazioni, gli altri paesi europei hanno accettato il ricollocamento di meno di 13.000 richiedenti asilo. La solidarietà europea sul fronte dei ricollocamenti “vale” oggi dunque solo il 4% degli sforzi italiani e, anche se si fossero mantenute le promesse, più di 9 migranti sbarcati su 10 sarebbero rimasti responsabilità dell’Italia.

      Oltre al fallimento dei ricollocamenti, neppure le risorse finanziarie destinate dall’Europa all’Italia per far fronte all’emergenza hanno raggiunto un livello significativo. Al contrario, gli aiuti europei coprono solo una minima parte delle spese italiane: nel 2017, per esempio, gli aiuti Ue ammontavano a meno del 2% dei costi incorsi dallo Stato italiano per gestire il fenomeno migratorio.

      https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/fact-checking-migrazioni-2018-20415
      #aide_financière

  • SBARCHI, I DATI 2017. 120mila migranti giunti lo scorso anno in Italia

    Sono stati complessivamente poco più di 171mila nel 2017 i migranti giunti via mare sulle coste dei Paesi del Mediterraneo. Si tratta del numero più basso da quando ha avuto inizio nel 2014 il significativo flusso di ingressi via mare verso l’Europa. Il principale Paese di approdo nel Mediterraneo nel 2017 è stato l’Italia con quasi 120mila migranti sbarcati, il 70% di tutti gli arrivi via mare in Europa. Il 2015 fu invece l’anno della Grecia, che raccolse l’84% degli arrivi, mentre nel 2016 gli sbarchi sulle isole greche subirono un significativo ridimensionamento: Italia e Grecia accolsero rispettivamente 181mila (50%) e 174mila (48%) migranti. I dati emergono da un’analisi della Fondazione Ismu, Iniziative e studi sulla multietnicità di Milano.
    Il Paese del Mediterraneo che ha visto aumentare in modo rilevante gli arrivi nel 2017 è stato la Spagna, sulle cui coste sono approdati circa 21mila migranti, con un aumento del 160% rispetto al 2016. Per quanto riguarda la provenienza dei migranti arrivati via mare, tra le nazionalità dichiarate al momento dello sbarco in Italia nel 2017 hanno prevalso Nigeria, Guinea, Costa d’Avorio e Bangladesh. In Grecia sono giunti soprattutto siriani, iracheni e afghani. In Spagna, via mare e via terra, sono arrivati soprattutto migranti dal Marocco, dall’Algeria, dalla Costa d’Avorio e dalla Guinea.
    Anche nel 2017 è rimasto significativo il numero di persone che hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere l’Europa via mare: si stimano 3.116 migranti morti o dispersi nelle acque del Mediterraneo e principalmente nella più pericolosa rotta del Mediterraneo Centrale dal Nord Africa-Libia all’Italia.

    Il quadro italiano
    Sono quasi 120mila i migranti sbarcati nel 2017 sulle coste italiane, di cui 15.731 minori stranieri non accompagnati. Rispetto all’anno precedente, quando sono stati registrati 181.436 sbarchi, v’è stato un calo del 34,2%. Le richieste d’asilo nel 2017 sono state 130mila, con un lieve aumento rispetto all’anno precedente (+5,4%); le istanze sono state presentate soprattutto da nigeriani, bangladesi, pakistani, gambiani e ivoriani. Le domande d’asilo esaminate sono state oltre 80mila, 10mila meno rispetto al 2016. Al 60% (47.839 casi) del totale richiedenti asilo non è stata riconosciuta alcuna forma di protezione. È cresciuto il numero di coloro che hanno ottenuto lo status di rifugiato, che nel 2017 ha costituito l’8,5% degli esiti, mentre si è fortemente ridimensionata la protezione sussidiaria, concessa nel 2016 a oltre 11mila migranti e nel 2017 a 5.800. Una domanda su quattro ha avuto come esito la protezione umanitaria.
    Al 31 dicembre 2017 sono stati trasferiti dall’Italia in un altro Paese UE 11.464 richiedenti protezione internazionale. I Paesi dove sono stati trasferiti sono Germania (dove è stato ricollocato il 43% dei migranti), Svezia (10,6%) e Svizzera (7,8%).

    http://www.cinformi.it/index.php/it/news_ed_eventi/archivio_news/anno_2018/sbarchi_i_dati_2017/(offset)/0/(limit)/4/(sb)/312
    #arrivées #statistiques #asile #migrations #Italie #chiffres #Méditerranée #Italie #2017

    v. aussi pour les mois/années précédents: http://seen.li/d6bt

    • Un tweet intéressant de l’#OIM / #IOM, 02.03.2018 :

      Migrant arrivals by #Mediterranean sea in Italy in 2018 are the lowest in 5 years, our @MillmanIOM says:

      https://twitter.com/UNmigration/status/969701973736947712

      La personne qui commente les chiffres dit que jamais les arrivées ont été si peu nombreuses... voici ce qu’il dit, je transcrit :

      “This is the lowest we have seen in the five years we have been compiling this data month by month with the Italian Ministry of Iterior. I can just tell you that in 2014, in the first two months almost 7700 people arrived. In 2015, in the first two months almost 7900. Over 9000 in 2016, over 13’000 in 2017. It’s pretty important I think, because Italians will vote this weekend. Immigration is a huge issue obviously, and to be able to report that arrivals are less than half of last year’s at this time and the lowest in five years I think it’s rather important. Our total for the year so far is 3’730. This week we took migrants back to #Benin, #Mali and #Niger. As I understood it we’ve done a total of 26 countries that we’ve returned from Libya this year, so I think that has had some impact on the flows to Italy.”

      (By the way, peut-être qu’un bref rappel des morts en Méditerranée et des conditions dégradantes en Libye auraient aussi été une bonne chose à rappeler... Mais mieux vaut se vanter des « #retours_volontaires » vers les pays d’origine)

      #renvois #expulsions #retour_volontaire

      cc @isskein

    • Demandes d’asile dans les États membres de l’UE - 650 000 primo-demandeurs d’asile enregistrés en 2017 - Syriens, Irakiens et Afghans demeurent les principaux demandeurs

      En 2017, 650 000 primo-demandeurs d’asile ont introduit une demande de protection internationale dans les États membres de l’Union européenne (UE), soit quasiment deux fois moins qu’en 2016, quand 1 206 500 primo-demandeurs d’asile ont été enregistrés, et à un niveau comparable à celui enregistré en 2014, avant les pics de 2015 et 2016.


      http://ec.europa.eu/eurostat/documents/2995521/8754398/3-20032018-AP-FR.pdf/f7bca4e4-ab6d-40cb-ae35-1b2e9e71017c

      Les statistiques dans le document pdf d’Eurostat :
      http://ec.europa.eu/eurostat/documents/2995521/8754398/3-20032018-AP-FR.pdf/f7bca4e4-ab6d-40cb-ae35-1b2e9e71017c

    • Commissione parlamentare di inchiesta sul sistema di accoglienza, di identificazione ed espulsione, nonchè sulle condizioni di trattamento dei migranti e sulle risorse pubbliche impegnate


      #nationalités #2016 #2017


      #régions

      #hotspots:

      #MNA #mineurs_non_accompagnés

      J’ai reçu ce rapport via email, que je ne trouve pas sur internet... mais j’ai fait des copies d’écran des graphiques.

    • « Voyages du désespoir », un rapport du HCR sur les mouvements de réfugiés en Europe

      Malgré la diminution globale du nombre de réfugiés et de migrants arrivés en Europe l’année dernière, les dangers auxquels nombreux d’entre eux sont confrontés dans certaines situations ont augmenté comme l’indique un nouveau rapport du HCR, l’Agence des Nations Unies pour les réfugiés, qui décrit l’évolution des tendances dans leurs déplacements.

      Selon le rapport « Voyages du désespoir », le nombre d’arrivées en Italie par la mer, principalement en provenance de la Libye, a considérablement diminué depuis juillet 2017. Cette tendance s’est poursuivie au cours du premier trimestre 2018, avec une baisse de 74 pour cent par rapport à l’année dernière.

      La traversée vers l’Italie s’est par contre révélée de plus en plus dangereuse et le taux de mortalité des candidats à la traversée depuis la Libye a grimpé à 1 personne sur 14 au cours du premier trimestre 2018, alors qu’il était de 1 sur 29 au cours de la même période en 2017.

      Par ailleurs, on a également observé au cours des derniers mois une détérioration très préoccupante de la santé des nouveaux arrivants en provenance de la Libye, avec un nombre plus important de personnes dans un état de grande faiblesse, amaigries et globalement en mauvais état de santé.

      Si le nombre total des traversées de la Méditerranée est resté bien en deçà de celui de 2016, le HCR a également constaté une recrudescence des arrivées en Espagne et en Grèce sur la fin de l’année 2017.

      En 2017, l’Espagne a observé une augmentation de 101 pour cent par rapport à 2016 et a recensé 28 000 nouveaux arrivants. Les premiers mois de 2018 indiquent une tendance similaire, avec une augmentation de 13 pour cent des arrivées par rapport à l’année dernière. Les Marocains et les Algériens constituent désormais les deux principales nationalités, mais les Syriens forment toujours l’essentiel des arrivées par les frontières terrestres de l’Espagne.

      En Grèce, le nombre total d’arrivées par la mer a diminué par rapport à 2016, mais on a cependant observé une recrudescence de 33 pour cent entre mai et décembre de l’année dernière, avec 24 600 arrivants par rapport à 18 300 au cours de la même période en 2016. La majorité d’entre eux étaient originaires de Syrie, d’Irak et d’Afghanistan, et comprenait un grand nombre de familles avec des enfants. Les demandeurs d’asile arrivés en Grèce par la mer ont vécu de longues périodes d’attente sur les îles grecques, dans des conditions de surpeuplement difficiles.

      Le renforcement des restrictions en Hongrie a poussé de nombreux réfugiés et migrants à emprunter d’autres routes pour traverser l’Europe, indique le rapport. Ainsi, certains passent de Serbie en Roumanie tandis que d’autres passent de la Grèce en Albanie, puis au Monténégro et en Bosnie-Herzégovine pour rallier la Croatie.

      « Les voyages des réfugiés et migrants vers l’Europe et à travers celle-ci restent parsemés de dangers », a déclaré Pascale Moreau, la Directrice du bureau du HCR pour l’Europe. On estime que plus de 3 100 personnes ont perdu la vie en mer l’année dernière pendant la traversée vers l’Europe, et ce chiffre était de 5 100 en 2016. Depuis le début de l’année 2018, 501 personnes se sont ajoutées à la liste des morts ou des disparus.

      À ceux qui ont péri en mer, s’ajoutent au moins 75 autres personnes décédées le long des routes terrestres qui suivent les frontières extérieures de l’Europe ou alors qu’elles traversaient l’Europe en 2017, et les rapports sur la poursuite des refoulements sont profondément préoccupants.

      « Il est vital pour les personnes qui nécessitent une protection internationale d’avoir accès au territoire ainsi qu’à des procédures de demande d’asile rapides, justes et efficaces. Gérer ses frontières et offrir une protection aux réfugiés conformément aux obligations internationales des États ne sont pas des objectifs qui s’excluent ou sont incompatibles », a ajouté Pascale Moreau.

      Le rapport du HCR souligne également les abus et les pratiques d’extorsion que subissent les réfugiés et migrants aux mains des trafiquants, des passeurs ou des groupes armés sur les différentes routes vers l’Europe.

      Les femmes, et surtout celles qui voyagent seules, ainsi que les enfants non accompagnés sont particulièrement exposés au risque de subir des violences sexuelles et sexistes sur les routes vers l’Europe, ainsi qu’à certains endroits au sein de l’Europe.

      Plus de 17 000 d’enfants non accompagnés sont arrivés en Europe en 2017. La plupart de ces enfants sont arrivés en Italie par la mer, et 13 pour cent d’entre eux étaient des enfants voyageant seuls, une tendance similaire à celle de 2016.

      Le rapport du HCR signale toutefois des progrès encourageants quant au nombre de personnes réinstallées en Europe l’année dernière, avec une augmentation de 54 pour cent par rapport à 2016. La majorité de ces 26 400 réfugiés étaient des Syriens (84 pour cent) réinstallés depuis la Turquie, le Liban et la Jordanie. Parmi les pays européens, ce sont le Royaume-Uni, la Suède et l’Allemagne qui en ont accueilli le plus grand nombre.

      Un autre développement positif à la fin de l’année dernière a vu le HCR commencer à faciliter l’évacuation de réfugiés vulnérables de la Libye vers le Niger et de la Libye vers l’Italie.

      « Les évacuations depuis la Libye et l’augmentation des opportunités de réinstallation que nous avons observées l’année dernière sont d’excellentes nouvelles. Il subsiste toutefois des obstacles significatifs qui entravent l’accès à des voies sûres et légales, dont le regroupement familial, pour les personnes nécessitant une protection internationale, et nous appelons à une plus grande solidarité », a déclaré Pascale Moreau.

      Le rapport formule également des recommandations supplémentaires quant à la nécessité de renforcer la solidarité entre les États au sein de l’Europe ainsi qu’avec les pays de premier asile et de transit, afin d’améliorer la qualité de l’accueil — tout particulièrement l’accueil des enfants séparés et non accompagnés, et de ceux qui ont survécu à la violence sexuelle et sexiste — et de mieux protéger les enfants.

      http://www.unhcr.org/fr/news/press/2018/4/5acf30b3a/voyages-desespoir-rapport-hcr-mouvements-refugies-europe.html
      #Grèce #Italie #Espagne #mortalité #mourir_aux_frontières #décès #femmes #réinstallation #MNA #mineurs_non_accompagnés #corridors_humanitaires #desperate_journeys

      Lien vers le #rapport :
      https://data2.unhcr.org/en/documents/download/63039


      #parcours_migratoires #routes_migratoires #Albanie #Monténégro #Bosnie

    • Calo degli arrivi: continuerà?

      Nei primi quattro mesi del 2018 sono sbarcati in Italia circa 9.300 migranti, il 75% in meno rispetto allo stesso periodo del 2017. Si tratta di un trend del tutto in linea con il calo verificatosi negli ultimi sei mesi del 2017 (-75% rispetto allo stesso periodo del 2016). I dati relativi ai primi mesi dell’anno (quelli invernali) risultano tuttavia poco indicativi del livello dei flussi nei mesi successivi. Gli sbarchi iniziano a crescere solo da aprile e raggiungono un picco tra giugno e agosto, seguendo un tipico trend stagionale.

      L’andamento degli sbarchi nel mese di aprile può dunque essere considerato un primo segnale di quanti arrivi potrebbero essere registrati nel corso di tutto l’anno. Particolare attenzione meritano, al riguardo, gli avvenimenti di metà aprile, quando in quattro giorni sono sbarcate 1.500 persone.

      È comunque necessaria un’ulteriore dose di prudenza, perché ai trend stagionali si affiancano anche le decisioni e le politiche degli attori coinvolti lungo la rotta. Il 2017 lo dimostra: fino al 15 luglio dell’anno scorso gli sbarchi sulle coste italiane erano stati circa il 30% in più rispetto al 2016, e proprio da metà luglio, nel periodo dell’anno in cui solitamente si registrano più arrivi, è iniziato il calo degli sbarchi che prosegue a tutt’oggi.

      https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/fact-checking-migrazioni-2018-20415

    • Calo degli arrivi: meno morti in mare?

      Il calo delle partenze ha ridotto drasticamente il numero assoluto di persone che perde la vita durante la traversata: se la frequenza delle morti in mare dei primi sette mesi dell’anno scorso fosse rimasta invariata nella restante parte del 2017, a fine anno si sarebbero registrate 4.155 morti – un livello comparabile a quello degli anni precedenti. Al contrario, se la frequenza delle morti in mare nei nove mesi successivi al calo degli sbarchi restasse costante per altri tre mesi, si registrerebbero circa 1.250 morti in un anno: una riduzione del 70%.

      L’Organizzazione mondiale per le migrazioni ha tuttavia fatto notare come, tra gennaio e marzo 2018, il già alto rischio della traversata lungo la rotta del Mediterraneo Centrale sia quasi raddoppiato rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (dal 3,3% al 5,8%). Ma in realtà questo aumento sembra dipendere più dalle condizioni meteorologiche invernali e da singoli casi “eccezionali” che dagli avvenimenti e dalle politiche alla base del calo degli sbarchi. Infatti, estendendo il confronto all’intero periodo del calo degli sbarchi (16 luglio 2017 - 30 aprile 2018) e confrontandolo con lo stesso periodo dell’anno precedente si nota sì un incremento, ma molto meno significativo: dal 2,6% al 3,0%.


      https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/fact-checking-migrazioni-2018-20415
      #mortalité

    • Que cache la baisse des arrivées de personnes migrantes en méditerranée centrale ?

      Les États membres de l’Union européenne se félicitent depuis quelques mois de la baisse des arrivées sur les côtes européennes et de celle du nombre de personnes migrantes mortes ou disparues en Méditerranée. Mais que cache cette chute spectaculaire ?

      https://www.lacimade.org/cache-baisse-arrivees-de-personnes-migrantes-mediterranee-centrale
      #Méditerranée_centrale

  • Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione
    http://www.fondazioneleonemoressa.org/newsite/wp-content/uploads/2017/11/Atti-del-convegno-FLM-2017.pdf
    #statistiques #chiffres #Italie #migrations #économie #réfugiés #asile #rapport

    –-

    ajouté à la métaliste sur le lien entre #économie (et surtout l’#Etat_providence) et la #migration... des arguments pour détruire l’#idée_reçue : « Les migrants profitent (voire : viennent POUR profiter) du système social des pays européens »...
    https://seenthis.net/messages/971875

    • Per la sicurezza conviene garantire un lavoro ai migranti

      La politica del governo sugli immigrati sembra orientata a colpire i bersagli deboli. Ma al di là degli slogan, un rapporto positivo tra immigrazione e sicurezza si costruisce solo promuovendo il lavoro dei migranti nell’economia legale del nostro paese.

      Così si colpiscono i più deboli

      In queste settimane la questione dell’immigrazione continua ad avere un ruolo di primo piano. Appena prima della vicenda della nave Aquarius, c’era stata quella della tragica morte di Sacko Soumali, il giovane maliano sindacalista dei braccianti di San Calogero. Le due questioni sono legate fra loro.

      La controversia sull’Aquarius è molto più che un braccio di ferro sull’onere dell’accoglienza. Rifiutando l’approdo della nave, polemizzando con Malta e poi con la Francia e la Spagna, rilanciando l’allarme sugli sbarchi, il nostro governo ripropone un’impostazione delle relazioni internazionali che guarda al passato. È l’immagine di un mondo di confini di stato almeno apparentemente blindati, di interessi nazionali contrapposti, di bandiere da issare e difendere. Un mondo in cui non c’è posto per i diritti umani universali, ma solo per quelli filtrati dalla sovranità nazionale o dai suoi simulacri.

      Subito dopo aver respinto l’Aquarius, condannando a giorni di navigazione in mare agitato persone già provate da molte vicissitudini, tra cui donne incinte e minori, il governo italiano ha accolto oltre 900 richiedenti asilo salvati dalla marina militare e dalla guardia costiera italiana e altri 40 tratti a bordo dalla marina statunitense. I naufraghi salvati dai militari che innalzano la nostra bandiera sono tollerati e così pure quelli imbarcati dal potente alleato. Il nemico, come nell’Ungheria di Viktor Orban e nella Russia di Vladimir Putin, sono le organizzazioni non governative con base all’estero: i difensori dei diritti umani universali che non arretrano di fronte ai confini nazionali.

      La linea governativa sembra tracciata. Mentre sarà difficile attuare le impegnative promesse elettorali di carattere sociale (reddito di garanzia, sviluppo del Mezzogiorno e controriforma pensionistica), la coalizione a trazione leghista investe su bersagli deboli, e quindi facili da colpire: gli attori umanitari, gli operatori dell’accoglienza e naturalmente i richiedenti asilo, oggetto di un linguaggio ingiusto e irriguardoso.

      Matteo Salvini ha parlato di gente in crociera nel Mediterraneo, malgrado i morti in mare dei recenti naufragi. A quanto risulta dai sondaggi, raccoglie consenso, come in genere avviene a chi eccita sentimenti nazionalisti, ma dà eco ai sentimenti peggiori della pancia del nostro paese e li fomenta. Che i numeri siano drasticamente calati dopo gli accordi con la Libia di Marco Minniti è irrilevante: 15.568 persone sbarcate nel 2018 fino al 15 giugno, contro 65.498 nel 2017 e 55.596 nel 2016 alla stessa data. Gli sbarchi stanno invece crescendo verso Grecia e Spagna, ma anche questo non conta. La retorica della chiusura nazionalista ha bisogno di qualche centinaio di malcapitati a cui chiudere la porta in faccia, additandoli come profittatori e criminalizzando le Ong che li hanno tratti in salvo.

      La tragedia di Sacko Soumali, invece, ha riportato alla ribalta una questione annosa e sempre rimossa, dopo le fiammate di attenzione dovute a qualche drammatico evento: lo sfruttamento degli immigrati nelle campagne meridionali, e non solo. Non necessariamente clandestini, né sbarcati negli ultimi anni, e neppure africani. La periodica ricostruzione delle vergognose baraccopoli mostra un volto inquietante di una componente dell’agricoltura italiana: per reggere sul mercato, ha bisogno di ricorrere al lavoro sottopagato degli immigrati e di farli vivere in condizioni inaccettabili.

      Il lavoro degli immigrati, per fortuna, è anche altro: 2,4 milioni di occupati regolari, tra cui 570 mila titolari di attività economiche. Un gettito fiscale e contributivo che supera ampiamente i costi dell’accoglienza dei rifugiati e dei servizi richiesti dalle famiglie arrivate dall’estero. Ma rimane in gran parte lavoro povero, subalterno. Il lavoro delle “cinque p”: precario, pesante, pericoloso, poco pagato, penalizzato socialmente.

      Tre proposte

      Di tutto questo nel contratto di governo non c’è traccia, come abbiamo già rilevato su lavoce.info. L’immigrazione è declinata soltanto come peso e minaccia per il nostro paese.

      Volendo credere che il confronto con la realtà possa avere la meglio sugli slogan propagandistici, vorrei avanzare tre modeste proposte in tema di immigrazione e lavoro, che investono anche la questione dei rifugiati e richiedenti asilo, pur ricordando che si tratta attualmente di 174 mila persone in accoglienza su 5,5 milioni di immigrati residenti in Italia. Una piccola minoranza, sistematicamente scambiata con l’immigrazione in generale. Senza dimenticare che circa il 40 per cento dei richiedenti riceve una forma di protezione internazionale da parte delle commissioni governative, mentre altri (non si sa quanti, ma si stima circa la metà dei ricorrenti) ottengono ragione in tribunale. Non è vero, quindi, che si tratti per la maggior parte di falsi rifugiati.

      La prima proposta deriva dai fatti di San Calogero: mandare un folto gruppo di ispettori del lavoro, scortati dalle forze dell’ordine, a identificare e denunciare i datori di lavori che sfruttano i braccianti immigrati. Non dovrebbe essere difficile: basta seguire le campagne di raccolta dei prodotti agricoli, vedere dove sorgono le baraccopoli, seguire i pullmini che li portano al lavoro. Eventualmente con i droni. Un governo che promette il carcere agli evasori fiscali dovrebbe dispiegare una severità ancora maggiore con chi calpesta la dignità dei lavoratori.

      La seconda proposta riguarda la riduzione del carico dei richiedenti asilo per le casse dello stato: come in Germania e in Svezia, chi trova un lavoro dovrebbe ricevere un permesso di soggiorno, inizialmente di un anno, ponendo fine alle controversie sulla fondatezza della domanda di asilo. Potrebbe così cominciare una vita autonoma, uscendo dal sistema dell’accoglienza. Non ha senso, come invece avviene oggi, buttare per strada un richiedente asilo che ha trovato lavoro, ma poi si vede negata la domanda di protezione internazionale.

      Infine, per decongestionare il canale dell’asilo e istituire un’alternativa ai rischiosi viaggi attraverso la Libia e poi per mare, oltre a corridoi umanitari più ampi degli attuali, si dovrebbero allargare le possibilità di immigrazione per lavoro stagionale, già previste dalle nostre leggi e dai decreti flussi annuali. Gli Stati Uniti hanno ridotto l’immigrazione non autorizzata dal Messico proprio riaprendo un canale d’immigrazione legale, stagionale, per l’agricoltura. Se le persone potranno entrare, lavorare e tornare al loro paese per ripresentarsi l’anno successivo, saranno meno disposte a rischiare la vita nei viaggi della speranza.
      Al di là degli slogan propagandistici, un rapporto positivo tra immigrazione e sicurezza verrà costruito solo promuovendo il lavoro degli immigrati nell’ambito dell’economia legale del nostro paese.

      http://www.lavoce.info/archives/53685/sicurezza-e-anche-garantire-un-lavoro-legale-ai-migranti

    • Ci rubano il lavoro ? Ecco il rapporto tra immigrazione e occupazione

      La fotografia della situazione in Italia e in Europa nel secondo rapporto annuale dell’Osservatorio sulle migrazioni. I paesi con una forza lavoro più qualificata attraggono anche immigrati con maggiore istruzione. Italia maglia nera. A parità di occupazione il divario salariale è persistente negli anni.

      I paesi con una forza lavoro più qualificata attraggono anche immigrati con maggiore istruzione. Al contrario, paesi come l’Italia, che hanno una forza lavoro autoctona con il tasso di istruzione universitaria tra i più bassi in Europa (19 per cento nel nostro paese), hanno anche il più basso tasso di istruzione universitaria tra gli immigrati fra tutti paesi Ue (14 per cento). A sottolinearlo è il secondo rapporto annuale dell’Osservatorio sulle migrazioni “L’integrazione degli immigrati in Italia e in Europa”, promosso dal centro studi Luca d’Agliano e dal collegio Carlo Alberto. Secondo il report l’Italia oggi non è un Eldorado per chi si muove per motivi di lavoro, e in particolare per chi spera in un’occupazione qualificata.

      Nello specifico, lo studio sottolinea come in Ue l’immigrazione oggi sia ancora un fenomeno fortemente intraeuropeo. Nonostante l’attenzione mediatica, specialmente nel nostro paese, sia focalizzata sugli arrivi via mare, gli immigrati residenti in Europa sono in maggioranza di origine europea. Su 51 milioni totali (il 10 per cento di tutta la popolazione): il 38 per cento è originario di un paese dell’Unione e il 17 per cento di un paese europeo fuori dall’Ue. Mentre il 23 per cento dei migranti è nato in Africa o Medio Oriente, il 12 per cento in Asia e l’11 per cento in America o Oceania.

      l’Italia si contraddistingue anche per altre peculiarità. Innanzitutto il livello di istruzione degli immigrati è il più basso tra quelli riscontrati nei paesi europei, un dato che riflette anche quello dei nativi.

      il divario nel tasso di occupazione tra immigrati e nativi è superiore a 40 punti percentuali per gli immigrati appena arrivati in Italia, ma si azzera entro il sesto anno di residenza. L’assimilazione occupazionale è, dunque, abbastanza rapida. Nonostante questo, però, in media nel 2017, i redditi netti mensili degli immigrati sono inferiori del 26 per cento rispetto a quelli degli italiani, il divario salariale persiste anche a parità di occupazione.

      http://www.redattoresociale.it/Notiziario/Articolo/568293/Ci-rubano-il-lavoro-Ecco-il-rapporto-tra-immigrazione-e-occupazione

      Lien vers le rapport :

      http://dagliano.unimi.it/wp-content/uploads/2018/02/OssMg_2_Report.pdf

      Le rapport contient notamment ces graphiques :


      #statistiques #chiffres #éducation #niveau_d'éducation #marché_du_travail #salaire #inégalités

      Le rapport contient aussi une carte sur la présence de #femmes migrantes en Italie (plus nombreuses que les hommes) :

    • Integrare i rifugiati: è più complesso (e costoso) rispetto agli altri migranti?

      La più recente EU Labour Force Survey (EU LFS), pubblicata nel 2014, mostra che per molti anni dal loro primo ingresso in Europa il tasso di occupazione dei migranti giunti nei paesi europei per motivi umanitari resta molto basso: nei primi cinque anni dall’arrivo quest’ultimo raggiunge appena il 26%. Come è lecito attendersi, invece, i migranti non comunitari giunti in Europa per motivi di lavoro (e che dunque in larga maggioranza hanno già un’offerta di lavoro al loro arrivo) hanno un tasso di occupazione medio del 79% nei primi cinque anni dall’ingresso.

      Con il passare del tempo il tasso di occupazione dei rifugiati tende ad aumentare, convergendo verso quello dei migranti “economici”, ma ci vogliono comunque circa 15 anni prima che superi il 60%. Queste differenze non dipendono solo dalle diverse capacità, qualifiche e predisposizioni dei migranti, ma anche dalle politiche pubbliche dei paesi di arrivo (che spesso pongono limiti legali alla possibilità dei richiedenti asilo di cercare lavoro) e dalla propensione dei datori di lavoro nazionali a utilizzare i richiedenti asilo come manodopera.

      D’altra parte, un migrante umanitario ha diritto a un’accoglienza e a un’assistenza dignitosa, che allo Stato italiano costa circa 11.000 euro l’anno; un costo che prosegue per tutto il periodo di permanenza all’interno del sistema di accoglienza. Anche per questo motivo risulta importante investire in integrazione: diversi studi confermano che il tempo durante il quale un migrante umanitario resta un costo netto per le finanze statali si allunga o si accorcia in funzione della capacità del sistema-paese di integrare gli stranieri legalmente residenti.


      https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/fact-checking-migrazioni-2018-20415
      #intégration #travail #migrants_économiques #réfugiés #taux_d'occupation

    • Macroeconomic evidence suggests that asylum seekers are not a “burden” for Western European countries

      This paper aims to evaluate the economic and fiscal effects of inflows of asylum seekers into Western Europe from 1985 to 2015. It relies on an empirical methodology that is widely used to estimate the macroeconomic effects of structural shocks and policies. It shows that inflows of asylum seekers do not deteriorate host countries’ economic performance or fiscal balance because the increase in public spending induced by asylum seekers is more than compensated for by an increase in tax revenues net of transfers. As asylum seekers become permanent residents, their macroeconomic impacts become positive.

      http://advances.sciencemag.org/content/4/6/eaaq0883.full
      #Europe

    • De l’effet bénéfique des migrations sur l’économie

      Une nouvelle étude macroéconomique révèle que les flux migratoires ont eu un effet positif sur l’économie au cours des trente dernières années en Europe. Plus encore, les demandeurs d’asile ne pèseraient pas sur les finances publiques des pays qui les accueillent. Explications avec l’économiste Hippolyte d’Albis, l’un des auteurs de cette étude.

      https://lejournal.cnrs.fr/articles/de-leffet-benefique-des-migrations-sur-leconomie
      #Europe

    • Rapporto Immigrazione 2017-2018: straniera l’8,5% della popolazione residente

      Ci troviamo di fronte ad una “emergenza culturale” che richiede un intervento strutturato e di lungo periodo. È necessario mettere in campo tutte le risorse educative capaci di stimolare, da un lato, il necessario approfondimento rispetto a temi che sono ormai cruciali, e dall’altro lato di accompagnare le nostre comunità verso l’acquisizione di una nuova “grammatica della comunicazione” che sia innanzitutto aderente ai fatti e rispettosa delle persone. Papa Francesco non ha mancato di sottolineare che «la prevenzione e l’identificazione dei meccanismi della disinformazione richiedono anche un profondo e attento discernimento». In tale contesto “emergenziale” i due organismi della CEI, Caritas Italiana e Fondazione Migrantes, hanno voluto confermare il loro impegno anche attraverso la pubblicazione dell’annuale Rapporto Immigrazione che da oltre 25 anni analizza il fenomeno migratorio nelle sue molteplici dimensioni. L’edizione 2017-2018 presenta molte novità, a partire da una nuova veste grafica che vuole essere più aderente al mutato contesto culturale, in conseguenza del quale la narrazione del fenomeno migratorio è cambiata nello stile e nella forma.

      Italia

      L’Italia, con 5.144.440 immigrati regolarmente residenti sul proprio territorio (8,5% della popolazione totale residente in Italia) si colloca al 5° posto in Europa e all’11° nel mondo. Secondo l’UNHCR tra il 1° gennaio e il 31 agosto 2018 è sbarcato in Italia l’80% di migranti in meno rispetto allo stesso periodo del 2017. Le comunità straniere più consistenti sono quella romena (1.190.091 persone, pari al 23,1% degli immigrati totali), quella albanese (440.465, 8,6% del totale) e quella marocchina (416.531, 8,1%). I cittadini stranieri risultano risiedere soprattutto nel Nord-Ovest della Penisola (33,6%) e a diminuire nel Centro (25,7%), nel Nord-Est (23,8%), nel Sud (12,1%) e nelle Isole (4,8%). Le regioni nelle quali risiede il maggior numero di cittadini stranieri sono la Lombardia (1.153.835 cittadini stranieri residenti, pari all’11,5% della popolazione totale residente), il Lazio (679.474, 11,5%), l’Emilia-Romagna (535.974, 12%), il Veneto (487.893, 10%) e il Piemonte (423.506, 9,7%). Le province nelle quali risiede il maggior numero di cittadini stranieri sono Roma (556.794, 12,8%), Milano (459.109, 14,2%), Torino (220.403, 9,7%), Brescia (156.068, 12,4%) e Napoli (131.757, 4,3%).
      Il lavoro

      Dai microdati Rcfl-ISTAT al primo semestre 2017 la popolazione immigrata in età da lavoro è di 4.100.826 persone con 15 anni di età ed oltre, delle quali il 59,3% sono occupate e il 30,6% inattive. In particolare, gli occupati stranieri risultano 2.430.409, aumentati rispetto al primo semestre 2016 del +0,9%. Di questi, 1.635.300 sono di nazionalità non-UE (67,3% degli occupati stranieri) e 795.100 lavoratori comunitari (32,7% degli occupati stranieri). Gli stranieri in cerca di occupazione sono 415.229 (10,1% del totale degli stranieri), di cui 283.837 di nazionalità non-UE (67,3% del totale degli stranieri in cerca di occupazione) e 131.392 di nazionalità UE (33,1%). Gli inattivi stranieri sono 1.255.187 (30,6% degli occupati stranieri), di cui 897.411 non-UE (71,5% degli inattivi stranieri) e 333.093 UE (28,5%). Se si considera il periodo che va dal primo semestre 2016 al primo semestre 2017, si osserva un aumento dell’occupazione sia tra gli stranieri (+0,9%) sia tra gli italiani (+0,6%). La quota del lavoro non qualificato negli immigrati è del 35,4%, contro l’8,2% negli occupati italiani. Secondo i dati UnionCamere, le imprese di cittadini nati in un Paese extra-UE al 31 dicembre 2016 sono 366.426, in aumento rispetto al 2015 (+3,5%). La regione con il maggior numero di queste imprese è la Lombardia (69.625, 19,0% del totale nazionale), seguita da Lazio (41.849, 11,4%), Toscana (35.891, 9,8%), Campania (32.931, 9,0%) ed Emilia Romagna (32.418, 8,8%). La Campania è la regione nella quale si registra l’aumento più cospicuo (+11,1%).
      La scuola

      Nell’anno scolastico 2016-2017 gli alunni stranieri nelle scuole italiane sono 826.091 (di cui 502.963 nati in Italia, pari al 60,9%), in aumento rispetto all’anno scolastico 2015-2016 di 11.240 unità (+1,4%). Nell’anno scolastico 2016-2017, la scuola primaria accoglie la maggiore quota di alunni stranieri: 302.122, il 36,6% del totale. L’incidenza degli alunni stranieri sul totale della popolazione scolastica varia in modo significativo in ragione del fatto che alcune regioni e province hanno una spiccata capacità attrattiva nei confronti di immigrati che vogliono insediarsi stabilmente con la propria famiglia. Le maggiori incidenze si riscontrano nelle regioni del Nord, con il valore massimo in Emilia Romagna (15,8%), significativamente maggiore del valore nazionale (9,4%), seguita da Lombardia (14,7%) e Umbria (13,8%). Nelle regioni del Centro-Nord il valore non scende al di sotto del 10%, con la sola eccezione del Lazio (9,5%). Decisamente inferiori i dati relativi alle regioni del Sud.
      Famiglia e cittadinanza

      Nel corso del 2016 sono stati celebrati 25.611 matrimoni con almeno uno dei coniugi straniero (12,6% del totale dei matrimoni), in leggero aumento rispetto al 2015 (+0,2%). Nel 56,4% dei casi si tratta dell’unione fra uno sposo italiano e una sposa straniera. A fine 2017 i bambini nati da genitori entrambi stranieri risultano 67.933 (14,8% del totale delle nascite). Diminuisce il numero medio di figli delle cittadine straniere, pur mantenendosi su livelli decisamente più elevati di quelli delle cittadine italiane (1,95 rispetto a 1,27 secondo le stime nel 2017). I dati ISTAT relativi al bilancio demografico nazionale confermano l’aumento dei nuovi cittadini italiani già rilevato negli anni precedenti e che ha condotto l’Italia nel 2015 e nel 2016 ad essere al primo posto tra i Paesi UE per numero di acquisizioni di cittadinanza. Al 31 dicembre 2017, su un totale di 146.605 acquisizioni di cittadinanza di stranieri residenti, il 50,9% riguarda donne. Tali acquisizioni, rispetto alla stessa data del 2016, sono diminuite (-27,3%). Nelle regioni del Nord Italia si registrano tassi di acquisizione di cittadinanza ben al di sopra della media nazionale. Si notino, in particolare, i casi della Valle d’Aosta, del Trentino Alto Adige e del Veneto, ma risulta interessante segnalare tassi di acquisizione superiori alla media nazionale anche in regioni del Centro (Marche) e del Sud (Abruzzo). Riferendosi sempre al 2016, le modalità di accesso alla cittadinanza restano differenti tra uomini e donne. Per gli uomini la modalità più frequente è la residenza (56% dei casi nel 2015), mentre il matrimonio è una modalità residuale (meno del 3%). Nel 2016, diversamente da quanto avveniva in passato, anche per le donne le acquisizioni di cittadinanza per residenza sono state le più numerose (43,9%), superando, seppur di poco, le acquisizioni per trasmissione/elezione (39,3%). Si riduce ulteriormente, anche per le donne, la quota di procedimenti avviati a seguito del matrimonio: nel 2016 questi risultano il 16,8% del totale, mentre nel 2014 risultavano il 25%.
      La religione

      Secondo le più recenti stime della Fondazione ISMU, su un totale di 5.144.440 stranieri residenti in Italia al 1° gennaio 2018, i musulmani sono poco meno di 1 milione e mezzo, pari al 28,2% del totale degli stranieri. I cristiani complessivamente sono il doppio, quasi 3 milioni, in aumento di circa 50 mila unità negli ultimi due anni. Ne consegue che, nel complesso, il 57,7% dei cittadini stranieri residente in Italia è cristiano. Si tratta in maggioranza di ortodossi (1,6 milioni, dei quali quasi 1 milione romeni) e 1,1 milioni di cattolici (tra coloro che migrano dall’Est Europa soprattutto albanesi, una minoranza di romeni e polacchi, filippini tra coloro che migrano dall’Asia, ecuadoriani e peruviani fra i latinoamericani). Fra le nazionalità delle principali comunità religiose locali, il gruppo marocchino è il principale di religione musulmana nelle tre regioni con più cittadini stranieri con tale appartenenza religiosa – Lombardia, Emilia Romagna e Veneto. Per quanto riguarda la nazionalità dei cattolici stranieri, con riferimento alle sole due regioni con oltre 100 mila stranieri residenti con tale appartenenza religiosa – Lombardia e Lazio – al primo posto si collocano i filippini, sia in Lombardia sia nel Lazio, seguiti dai latinoamericani di Perù ed Ecuador in Lombardia e dagli europei comunitari di Romania e Polonia nel Lazio.


      http://www.vita.it/it/article/2018/09/28/rapporto-immigrazione-2017-2018-straniera-l85-della-popolazione-reside/149179
      #école #famille #travail #éducation

      Synthèse du #rapport:
      http://www.caritasitaliana.it/caritasitaliana/allegati/7824/Sintesi%20per%20giornalisti.pdf
      http://www.caritasitaliana.it/pls/caritasitaliana/V3_S2EW_CONSULTAZIONE.mostra_pagina?id_pagina=7824&rifi=guest&rifp=g

    • Hungary builds new high-tech border fence - with few migrants in sight

      A daunting new barrier is beginning to loom over Hungary’s southern border, capable of delivering electric shocks to unwanted migrants and armed with heat sensors, cameras, and loudspeakers that blare in several languages.

      http://uk.reuters.com/article/uk-europe-migrants-hungary-fence-idUKKBN1692M6

    • Une « clôture intelligente » sur une route déserte

      Malgré la baisse du nombre de demandes, le gouvernement hongrois a mis en place, 20 mètres derrière la première clôture, une deuxième série de clôtures. Cette « clôture intelligente » est équipée de capteurs de mouvement, de caméras de surveillance et de capteurs tactiles. Toute personne qui déclenche un signal est clairement avertie, par une bande enregistrée en 10 langues différentes, que traverser la frontière est une infraction pénale. Comme l’a précisé un garde-frontière, la police des frontières peut être sur les lieux en une minute, dès qu’un passage est signalé ou que la clôture est simplement touchée. Vouloir traverser la frontière est pratiquement devenu sans espoir, puisque les patrouilles de police assurent une présence 24 heures sur 24 dans cette zone frontalière.

      https://www.osar.ch/des-faits-plutot-que-des-mythes/articles-2017/une-cloture-intelligente-sur-une-route-deserte.html

    • Vu de Hongrie. L’UE “doit payer” la clôture antimigrants

      Budapest réclame auprès de Bruxelles la moitié des 880 millions d’euros engagés dans la construction de la barrière antiréfugiés s’étendant le long de la frontière serbe. L’offensive de Viktor Orbán partage la presse magyare et détériore les rapports déjà tendus avec l’UE.


      http://www.courrierinternational.com/article/vu-de-hongrie-lue-doit-payer-la-cloture-antimigrants

    • EU rejects Hungary’s demand to finance border fence

      The European Commission rejected Hungarian demands to co-finance its fences along the country’s shared borders with Serbia and Croatia.

      “We are not financing the construction of fences or barriers at the external borders,” EU commission spokesperson, Alexander Winterstein, told reporters in Brussels on Friday (1 September).

      https://euobserver.com/migration/138857

    • Murs hongrois : une faillite de la politique migratoire européenne ?

      En répondant à la crise migratoire par l’érection de murs et de contraintes réglementaires arbitraires, la Hongrie ne fait que révéler un mal plus profond : l’absence de politique migratoire européenne. Cet impensé contribue à attiser les égarements xénophobes dans les pays de l’Union européenne (UE), voire rend possible la faillite du projet d’intégration européenne dans son ensemble.

      http://www.regard-est.com/home/breve_contenu.php?id=1687

    • Il muro dell’Ungheria di Orban, ferita nell’Europa di oggi

      Nell’estate del 2015 l’Ungheria fu fortemente esposta alla crisi dei rifugiati lungo la rotta balcanica. Migliaia di profughi, soprattutto siriani, giunsero alla frontiera serbo-ungherese dopo aver attraversato Turchia, Grecia, Bulgaria e Macedonia. La città di confine di Subotica, in Serbia, divenne un grande parcheggio di anime alla ricerca di una via per l’Europa, e questa via era l’Ungheria.

      Le autorità magiare si trovarono spiazzate, e senza preparazione per fronteggiare la situazione. Permisero il transito lungo quella frontiera e poi sul territorio nazionale, per far sì che quella gente in marcia sconfinasse rapidamente in Austria, paese-ponte per la Germania: la meta più ambita per chi fuggiva e fugge ancora oggi da guerre e povertà.

      Andò così per un po’, fintanto che Viktor Orbán, il premier ungherese, non decise di erigere una barriera metallica lungo i 175 chilometri di confine con la Serbia, replicata a stretto giro anche su quello con la Croazia, altro passaggio chiave sul crinale balcanico.

      La barriera ungherese è stata percepita da tanti come un vulnus nell’Europa post-89; come il ritorno sgradevole di un muro, dopo il collasso di quello di Berlino, in cui l’Ungheria ebbe un ruolo fondamentale. Nell’estate del 1989 il governo di Budapest, rinnovato nei ranghi, deciso a negoziare la transizione con le opposizioni seguendo la via tracciata da Wałęsa e Jaruzelski in Polonia, e avviato all’apertura graduale del confine con l’Austria, permise ai tedeschi dell’est in vacanza nel paese magiaro di sconfinare in Austria, e trovare dunque asilo a Ovest. Per la DDR fu un colpo tremendo: la dimostrazione che i suoi sudditi volevano lasciarla.

      E sempre a proposito di fughe via Austria al tempo della Guerra fredda va ricordata quella degli ungheresi dopo la rivoluzione del 1956, affogata nel sangue dai carri armati dei sovietici. È anche per questo motivo che il “muro” al confine con la Serbia è stato visto come un insulto che Orbán ha arrecato alla storia del suo stesso paese.

      Ma il fattore storico-emotivo si rivela insufficiente e limitante per capire il significato politico della chiusura della frontiera sud e di quella della rotta balcanica (che però è solo parziale: l’area di crisi si è spostata in Bosnia-Erzegovina), su cui Orbán e il suo partito, Fidesz, hanno costruito una parte importante del consenso, ancora notevole dopo tre elezioni vinte (2010, 2014 e 2018). Sigillare la frontiera è stato un passaggio decisivo sulla via di quella democrazia non liberale, o illiberale, che Orbán vuole realizzare. Il suo modello di Europa, un’Europa cristiana e conservatrice, vede nell’immigrazione un pericoloso grimaldello. Il flusso dei rifugiati sulla via balcanica è stato percepito come un’ulteriore sfida al cuore del vecchio continente, e Orbán ha più volte sostenuto che l’Ungheria si è attivata per salvarlo. A questa retorica, mistica e mitica, si è affiancata una propaganda cinica e spietata contro i rifugiati e l’odiato George Soros, per Orbán il massimo interprete della dimensione multiculturale del paradigma liberale.

      La costruzione della barriera sulla frontiera meridionale è stata per Orbán un’occasione politica da cogliere rapidamente, per dimostrare che la sua vocazione non liberale è cosa seria e opporsi alla Germania di Angela Merkel e alla sua politica delle “porte aperte”, altra espressione di prima fascia dell’ideologia liberale. Orbán, in quei frangenti, sembrava in netta minoranza, ma la realtà rivela che aveva perfettamente intuito ciò che si celava dietro l’iniziale empatia verso i rifugiati, e cioè quel sentimento di paura, diffidenza e persino rabbia aperta nei confronti dei rifugiati che, alimentato dalla frustrazione sociale post-crisi, si aggira per l’Europa.

      Il primo ministro magiaro sembrava predicare nel vuoto anche nel 2010, quando, tornato al potere dopo otto anni di purgatorio, espresse il gran rifiuto alle politiche di austerità. Poco prima l’Ungheria, travolta dall’urto della crisi, era stata salvata dal Fondo monetario internazionale. Il governo Orbán non seguì più la sua ricetta, impostando una politica economica alternativa. I tassi furono portati ai minimi e vennero applicate imposte salatissime sui grandi capitali dominanti nel bancario, nella grande distribuzione e nelle telecomunicazioni: capitali in maggioranza stranieri.

      Agli occhi di Orbán hanno colonizzato oltre il limite consentito l’Ungheria post-89, favoriti da una classe dirigente – quella liberale e post-comunista – passiva e inadatta a proteggere il paese dall’assedio del capitale straniero, oggi in ritirata: il governo ha riacquisito molti di questi asset. Grazie poi al ritorno alla crescita (dovuta prima di tutto alla ripresa europea e mondiale), ha aperto i rubinetti dando al sistema di welfare, prima pallido, fondamenta molto più solide.

      Con questa politica economica, di rottura, di rivalsa e di assistenza, capace di dare sia sfogo che copertura alla delusione dell’Ungheria – condivisa in tutta l’area Visegrad – per la mancata convergenza economica con l’Europa occidentale, che fu la grande promessa dell’allargamento del 2004, Orbán non solo ha edificato consenso in patria, ma si è messo alla testa del movimento populista in Europa. Inizialmente è stata infatti l’avversione all’austerità imposta dal modello liberale-liberista a sospingerlo. Il contrasto nei confronti dei rifugiati e dell’immigrazione in generale sono un successivo e ulteriore gradino nella strategia, ambiziosa, di disegnare un’agenda di destra conservatrice e non liberale che sappia prima o poi essere maggioritaria in Europa.

      E pensare che in origine, al momento del crollo del comunismo, la Fidesz si presentava come un partito liberale, fatto da giovani. Poi Orbán lo rimodellò, dandogli una linea cristiano-democratica, e con questa impostazione riuscì a vincere le elezioni nel 1998. Nel 2010 si è presentano con la maschera populista-sovranista, ed è quella che ancora porta. Altri hanno iniziato a indossarla, cercando di scalare il potere. A oggi ci sono riusciti solo Jarosław Kaczyński in Polonia e, per un periodo breve, Matteo Salvini in Italia. In altri paesi Ue i partiti, la stampa e l’opinione pubblica riescono ancora a formare un cordone sanitario nei confronti del modello Orbán e dei suoi aspetti più autoritari, quali il controllo assoluto sulla stampa e sulle università, oltre che i periodici attacchi all’indipendenza della magistratura.

      https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/il-muro-dellungheria-di-orban-ferita-nelleuropa-di-oggi-24329

  • Does Development Reduce Migration ?

    The most basic economic theory suggests that rising incomes in developing countries will deter emigration from those countries, an idea that captivates policymakers in international aid and trade diplomacy. A lengthy literature and recent data suggest something quite different: that over the course of a “mobility transition”, emigration generally rises with economic development until countries reach upper-middle income, and only thereafter falls. This note quantifies the shape of the mobility transition in every decade since 1960. It then briefly surveys 45 years of research, which has yielded six classes of theory to explain the mobility transition and numerous tests of its existence and characteristics in both macro- and micro-level data. The note concludes by suggesting five questions that require further study.


    http://www.iza.org/en/webcontent/publications/papers/viewAbstract?dp_id=8592

    #développement #migrations #émigration #statistiques
    cc @reka @isskein

    • Can Development Assistance Deter Emigration ?

      As waves of migrants have crossed the Mediterranean and the US Southwest border, development agencies have received a de facto mandate: to deter migration from poor countries. The European Union, for example, has pledged €3 billion in development assistance to address the “root causes” of migration from Africa. The United States has made deterring migration a centerpiece of its development assistance to Central America.

      Will it work? Here we review the evidence on whether foreign aid has been directed toward these “root causes” in the past, whether it has deterred migration from poor countries, and whether it can do so. Development aid can only deter migration if it causes specific large changes in the countries migrants come from, and those changes must cause fewer people to move.

      Key findings:

      Economic development in low-income countries typically raises migration. Evidence suggests that greater youth employment may deter migration in the short term for countries that remain poor. But such deterrence is overwhelmed when sustained overall development shapes income, education, aspirations, and demographic structure in ways that encourage emigration.

      This will continue for generations. Emigration tends to slow and then fall as countries develop past middle-income. But most of today’s low-income countries will not approach that point for several decades at any plausible rate of growth.

      Aid has an important role in positively shaping migration flows. Realizing that potential requires massive innovation. Because successful development goes hand in hand with greater migration, aid agencies seeking to affect migration must move beyond deterrence. They must invest in new tools to change the terms on which migration happens.


      https://www.cgdev.org/publication/can-development-assistance-deter-emigration

    • Quel lien entre migrations internationales et développement ?

      Le développement, la lutte contre la pauvreté, des freins migratoires ? Sans doute pas. Aux politiques d’être vigilants et d’assumer une réalité qui échappe malgré tout à la force des logiques économiques, à l’efficacité des contrôles frontaliers. Le Nord attire, il a besoin de main-d’œuvre. Comment concilier ses intérêts avec ceux du Sud, avec les droits de l’homme des migrants ?

      http://www.revue-projet.com/articles/2002-4-quel-lien-entre-migrations-internationales-et-developpement

    • #Root_Causes’ Development Aid: The False Panacea for Lower Migration

      Migration is a positive side effect of development, and aid should not be spent in pursuit of keeping people where they are. Development economist #Michael_Clemens sorts the evidence from the politics in conversation with Refugees Deeply.

      https://www.newsdeeply.com/refugees/community/2018/02/23/root-causes-development-aid-the-false-panacea-for-lower-migration
      #aide_du_développement

    • #Aiutiamoli_a_casa_loro”: è una strategia efficace?

      Ricerche recenti hanno dimostrato che c’è una relazione tra il livello di sviluppo economico di un paese e il suo tasso di emigrazione netta. Ma non sempre questa relazione va a sostegno di chi pensa che per arginare i flussi migratori basti aiutare i paesi più poveri a svilupparsi. Gli esperti parlano infatti di “gobba migratoria”: man mano che il PIL pro capite di un paese povero aumenta, il tasso di emigrazione dei suoi abitanti cresce, toccando un massimo nel momento in cui il paese raggiunge un reddito medio pro capite di circa 5.000 dollari annui (a parità di potere d’acquisto - PPA). Solo una volta superato quel livello di reddito, il tasso di emigrazione torna a scendere.

      Nel 2016 i paesi dell’Africa subsahariana avevano un reddito pro capite medio inferiore a 3.500 dollari annui PPA e, nonostante quest’ultimo sia cresciuto del 38% tra il 2003 e il 2014, negli ultimi anni questa crescita si è interrotta e rischia addirittura di invertirsi. I paesi dell’Africa subsahariana si trovano quindi ancora a un livello di sviluppo economico coerente con un tasso di emigrazione in crescita, ed è difficile immaginare che riusciranno a raggiungere (e superare) la “gobba” dei 5.000 dollari pro capite PPA nel futuro più prossimo.

      È tuttavia vero che, se si sviluppano insieme tutti i paesi africani, ciò potrebbe favorire una ripresa delle migrazioni intra-regionali, ovvero da paesi dell’Africa subsahariana verso altri paesi dell’area. Sarebbe un’inversione di tendenza rispetto a quanto verificatosi negli ultimi 25 anni, un periodo in cui le migrazioni extra-regionali (quindi verso Europa, Golfo, America del Nord, ecc.) sono quadruplicate.

      Infine va sottolineato che per “aiutarli a casa loro” attraverso politiche di sviluppo sarebbero necessari aiuti di importo molto consistente. All’opposto, gli aiuti ufficiali allo sviluppo da parte dei paesi Ocse verso l’Africa subsahariana sono rimasti a un livello praticamente invariato dal 2010, e quelli italiani si sono addirittura ridotti di oltre il 70%: da un picco di 1 miliardo di euro nel 2006 a 297 milioni di euro nel 2016.

      https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/fact-checking-migrazioni-2018-20415

      Dans cet article, on cite cette étude de Michael A. Clemens:
      Does Development Reduce Migration?
      http://ftp.iza.org/dp8592.pdf

    • Povertà, migrazioni, sviluppo: un nesso problematico

      È proprio vero che sono i più poveri a migrare? E cosa succede se prevale la visione degli aiuti ai paesi in via di sviluppo come antidoto all’immigrazione? Il professor Maurizio Ambrosini mette a confronto la retorica dell’”aiutiamoli a casa loro” con i fatti.

      Uno dei luoghi comuni più inossidabili nel dibattito sulle migrazioni riguarda il rapporto tra immigrazione e povertà. Convergono sul punto sia i sostenitori della retorica dell’emergenza (“la povertà dell’Africa si riversa sulle nostre coste”), sia i paladini dell’accoglienza (“siamo responsabili della povertà del Terzo Mondo e dobbiamo farcene carico”). Il corollario più logico di questa visione patologica delle migrazioni è inevitabilmente lo slogan “Aiutiamoli a casa loro”. Mi propongo di porre a confronto questa visione con una serie di dati, al fine di valutare la pertinenza dell’idea dell’aiuto allo sviluppo come alternativa all’immigrazione.
      Non la povertà, ma le disuguaglianze

      Come vedremo, la povertà in termini assoluti non ha un rapporto stretto con le migrazioni internazionali sulle lunghe distanze. È vero invece che le disuguaglianze tra regioni del mondo, anche confinanti, spiegano una parte delle motivazioni a partire. Anzi, si può dire che i confini sono il maggiore fattore di disuguaglianza su scala globale. Pesano più dell’istruzione, del genere, dell’età, del retaggio familiare. Un bracciante agricolo nell’Europa meridionale guadagna più di un medico in Africa. Questo fatto rappresenta un incentivo alla mobilità attraverso i confini.

      L’enfasi sulla povertà come molla scatenante delle migrazioni si scontra invece con un primo dato: nel complesso i migranti internazionali sono una piccola frazione dell’umanità: secondo i dati più recenti contenuti nel Dossier statistico Idos 2017, intorno ai 247 milioni su oltre 7 miliardi di esseri umani, pari al 3,3 per cento. Se i numeri sono cresciuti (erano 175 milioni nel 2000), la percentuale rimane invece stabile da parecchi anni, essendo cresciuta anche la popolazione mondiale.

      Ciò significa che le popolazioni povere del mondo hanno in realtà un accesso assai limitato alle migrazioni internazionali, e soprattutto alle migrazioni verso il Nord globale. Il temuto sviluppo demografico dell’Africa non si traduce in spostamenti massicci di popolazione verso l’Europa o altre regioni sviluppate. I movimenti di popolazione nel mondo avvengono soprattutto tra paesi limitrofi o comunque all’interno dello stesso continente (87 per cento nel caso della mobilità dell’Africa sub-sahariana), con la sola eccezione dell’America settentrionale, che attrae immigrati dall’America centro-meridionale e dagli altri continenti. Per di più, dall’interno dell’Africa partono soprattutto persone istruite.

      Ne consegue un secondo importante assunto: la povertà in senso assoluto ha un rapporto negativo con le migrazioni internazionali, tanto più sulle lunghe distanze. I migranti, come regola generale, non provengono dai paesi più poveri del mondo. La connessione diretta tra povertà e migrazioni non ha basi statistiche. Certo, i migranti partono soprattutto per migliorare le loro condizioni economiche e sociali, inseguendo l’aspirazione a una vita migliore di quella che conducevano in patria. Questo miglioramento però è appunto comparativo, e ha come base uno zoccolo di risorse di vario tipo.
      Chi è poverissimo non riesce a partire

      Le migrazioni sono processi intrinsecamente selettivi, che richiedono risorse economiche, culturali e sociali: occorre denaro per partire, che le famiglie investono nella speranza di ricavarne dei ritorni sotto forma di rimesse; occorre una visione di un mondo diverso, in cui riuscire a inserirsi pur non conoscendolo; occorrono risorse caratteriali, ossia il coraggio di partire per cercare fortuna in paesi lontani di cui spesso non si conosce neanche la lingua, e di affrontare vessazioni, discriminazioni, solitudini, imprevisti di ogni tipo; occorrono risorse sociali, rappresentate specialmente da parenti e conoscenti già insediati e in grado di favorire l’insediamento dei nuovi arrivati. Come ha detto qualcuno, i poverissimi dell’Africa di norma non riescono neanche ad arrivare al capoluogo del loro distretto. Pertanto la popolazione in Africa potrà anche aumentare ma, senza una sufficiente dotazione di risorse e senza una domanda di lavoro almeno implicita da parte dell’Europa, non si vede come possa arrivare fino alle nostre coste.

      Se invece di fissare lo sguardo sugli sbarchi guardiamo ai dati sulle nazionalità degli immigrati che risiedono in Italia, ci accorgiamo che i grandi numeri non provengono dai paesi più derelitti dell’Africa. L’immigrazione insediata in Italia è prevalentemente europea, femminile, proveniente da paesi di tradizione culturale cristiana. La graduatoria delle provenienze vede nell’ordine: Romania, Albania, Marocco, Cina, Ucraina, Filippine. Nessuno di questi è annoverato tra i paesi più poveri del mondo, quelli che occupano le ultime posizioni nella graduatoria basata sull’indice di sviluppo umano dell’Onu: un complesso di indicatori che comprendono non solo il reddito, ma anche altre importanti variabili come i tassi di alfabetizzazione, la speranza di vita alla nascita, il numero di posti-letto in ospedale in proporzione agli abitanti. Su scala globale, i migranti provengono prevalentemente da paesi collocati nelle posizioni intermedie della graduatoria. Per esempio negli Stati Uniti di oggi provengono in maggioranza dal Messico, in Svizzera sono europei per oltre l’80 per cento, in Germania in due casi su tre.

      Per le stesse ragioni, i migranti non sono i più poveri dei loro paesi: mediamente, sono meno poveri di chi rimane. E più vengono da lontano, più sono selezionati socialmente. Raramente troviamo immigrati provenienti da molto lontano (cinesi, filippini, latino-americani…) nei dormitori per i senza dimora, nelle mense dei poveri, precariamente accampati sotto i portici, o anche in carcere. Chi arriva da più lontano, fra l’altro, necessita di un progetto più definito e di lunga durata, non può permettersi di fare sperimentazioni o andirivieni: deve essere determinato a rimanere e a lavorare per ripagare almeno le spese sostenute e gli eventuali prestiti ricevuti. Ha anche bisogno di teste di ponte più solide, ossia di parenti o connazionali affidabili che lo accolgano e lo aiutino a sistemarsi.
      Mostra «La Terra Inquieta», Triennale di Milano, 2017 (foto: Marina Petrillo)

      La cattiva gestione dell’asilo ha in parte incrinato questa logica: i rischi sono tali che a volte arriva anche chi non ha niente da perdere e ha l’incoscienza di provare a partire. Se viene riconosciuto come rifugiato, in Italia il più delle volte viene lasciato in mezzo alla strada. Incontra severe difficoltà anche nello spostarsi verso altri paesi europei, come avveniva più agevolmente nel passato. In modo particolare, i beneficiari dell’Emergenza Nord Africa dell’ultimo governo Berlusconi sono stati gestiti con un approccio emergenziale che non ha favorito la loro integrazione socio-economica. Ma pur tenendo conto di questa variabile, la logica complessiva non cambia: le migrazioni internazionali sulle lunghe distanze non sono un effetto della povertà, ma dell’accesso ad alcune risorse decisive.
      A proposito dei “migranti ambientali”

      Una valutazione analoga riguarda un altro tema oggi dibattuto, quello dei cosiddetti “rifugiati ambientali”. Il concetto sta conoscendo una certa fortuna, perché consente di collegare la crescente sensibilità ecologica, la preoccupazione per i cambiamenti climatici e la protezione di popolazioni vulnerabili del Sud del mondo. È una spiegazione affascinante della mobilità umana, e anche politicamente spendibile. Ora, è senz’altro vero che nel mondo si moltiplicano i problemi ambientali, direttamente indotti come nel caso della costruzione di dighe o di installazioni petrolifere, o provocati da desertificazioni, alluvioni, avvelenamenti del suolo e delle acque.

      Tuttavia, che questi spostamenti forzati si traducano in migrazioni internazionali, soprattutto sulle lunghe distanze, è molto più dubbio. Anzitutto, le migrazioni difficilmente hanno un’unica causa: i danni ambientali semmai aggravano altri fattori di fragilità, tanto che hanno un impatto diverso su gruppi diversi di popolazione che abitano negli stessi territori. Entrano in relazione con altri fattori, come per esempio l’insediamento in altri territori di parenti che si spera possano fornire una base di appoggio. È più probabile poi che eventualmente i contadini scacciati dalla loro terra ingrossino le megalopoli del Terzo Mondo, anziché arrivare in Europa, sempre per la ragione prima considerata: dove trovano le risorse per affrontare viaggi così lunghi e necessariamente costosi? Va inoltre ricordato che l’esodo dal mondo rurale è una tendenza strutturale, difficile da rovesciare, in paesi in cui la popolazione impegnata nell’agricoltura supera il 50 per cento dell’occupazione complessiva. Neppure la Cina ci riesce, pur avendo trattato a lungo i contadini inurbati senza permesso alla stessa stregua degli immigrati stranieri considerati illegali nei nostri paesi, tanto che ha dovuto negli ultimi anni ammorbidire la sua politica in materia.
      Gli aiuti allo sviluppo non risolvono la questione

      Questa analisi ha inevitabili ripercussioni sull’idea della promozione dello sviluppo come alternativa all’emigrazione. Ossia l’idea sintetizzabile nel noto slogan “aiutiamoli a casa loro”.

      Si tratta di un’idea semplice, accattivante, apparentemente molto logica, ma in realtà fallace. Prima di tutto, presuppone che l’emigrazione sia provocata dalla povertà, ma abbiamo visto che questo è meno vero di quanto si pensi. Se gli immigrati non arrivano dai paesi più poveri, dovremmo paradossalmente aiutare i paesi in posizione intermedia sulla base degli indici di sviluppo, anziché quelli più bisognosi, i soggetti istruiti anziché i meno alfabetizzati, le classi medie anziché quelle più povere.

      In secondo luogo, gli studi sull’argomento mostrano che in una prima, non breve fase lo sviluppo fa aumentare la propensione a emigrare. Cresce anzitutto il numero delle persone che dispongono delle risorse per partire. Le aspirazioni a un maggior benessere inoltre aumentano prima e più rapidamente delle opportunità locali di realizzarle, anche perché lo sviluppo solitamente inasprisce le disuguaglianze, soprattutto agli inizi. Possiamo dire che lo sviluppo si lega ad altri fattori di cambiamento sociale, mette in movimento le società, semina speranze e sogni che spingono altre persone a partire. Solo in un secondo tempo le migrazioni rallentano, finché a un certo punto il fenomeno s’inverte: il raggiunto benessere fa sì che regioni e paesi in precedenza luoghi di origine di emigranti diventino luoghi di approdo di immigrati, provenienti da altri luoghi che a quel punto risultano meno sviluppati.

      Così è avvenuto in Italia, ma dobbiamo ricordare che abbiamo impiegato un secolo a invertire il segno dei movimenti migratori, dalla prevalenza di quelli in uscita alla primazia di quelli in entrata. In tutti i casi fin qui conosciuti sono occorsi decenni di sviluppo prima di osservare un calo significativo dell’emigrazione.
      Le rimesse degli emigranti

      L’emigrazione non è facile da contrastare neppure con generose politiche di sostegno allo sviluppo e di cooperazione internazionale, anche perché un altro fenomeno incentiva le partenze e la permanenza all’estero delle persone: le rimesse degli emigranti. Si tratta di 586 miliardi di dollari nel 2015, 616 nel 2016, secondo le stime della Banca Mondiale, basate sui soli canali ufficiali di trasferimento di valuta.

      A livello macro, vari paesi hanno le rimesse come prima voce attiva negli scambi con l’estero, e 26 paesi del mondo hanno un’incidenza delle rimesse sul PIL che supera il 10 per cento. A livello micro, le rimesse arrivano direttamente nelle tasche delle famiglie, saltando l’intermediazione di apparati pubblici e imprese private. Sono soldi che consentono di migliorare istruzione, alimentazione, abitazione dei componenti delle famiglie degli emigranti, in modo particolare dei figli, malgrado gli effetti negativi che pure non mancano. Poiché gli emigranti tipicamente investono in terreni e case come simbolo del loro successo, le rimesse fanno lavorare l’industria edilizia. Fanno però salire i prezzi e svantaggiano chi non ha parenti all’estero, alimentando così nuove partenze. Difficile negare tuttavia che le rimesse allevino i disagi e migliorino le condizioni di vita delle famiglie che le ricevono. Il sostegno allo sviluppo dovrebbe realizzare rapidamente delle alternative per competere con la dinamica propulsiva del nesso emigrazione-rimesse-nuova emigrazione, ma un simile effetto nel breve periodo è praticamente impossibile.

      Dunque le politiche di sviluppo dei paesi svantaggiati sono giuste e auspicabili, la cooperazione internazionale è un’attività encomiabile, rimedio a tante emergenze e produttrice di legami, scambi culturali e posti di lavoro su entrambi i versanti del rapporto tra paesi donatori e paesi beneficiari. Ma subordinare tutto questo al controllo delle migrazioni è una strategia di dubbia efficacia, certamente improduttiva nel breve periodo, oltre che eticamente discutibile. Di fatto, gli aiuti in cambio del contrasto delle partenze significano oggi finanziare i governi dei paesi di transito affinché assumano il ruolo di gendarmi di confine per nostro conto.

      Da ultimo, il presunto buon senso dell’“aiutiamoli a casa loro” dimentica un aspetto di capitale importanza: il bisogno che le società sviluppate hanno del lavoro degli immigrati. Basti pensare alle centinaia di migliaia di anziani assistiti a domicilio da altrettante assistenti familiari, dette comunemente badanti. Se i paesi che attualmente esportano queste lavoratrici verso l’Italia dovessero conoscere uno sviluppo tale da scongiurare le partenze, non cesserebbero i nostri fabbisogni. In mancanza di alternative di cui per ora non si vedono neppure i presupposti, andremmo semplicemente a cercare lavoratrici disponibili in altri paesi, più arretrati di quelli che attualmente ce le forniscono.

      Concludendo, il nesso diretto tra migrazioni, povertà e sviluppo è una delle tante semplificazioni di un dibattito che prescinde dai dati, si basa sulle percezioni e rifugge dalla fatica dell’approfondimento dei fenomeni.

      http://openmigration.org/analisi/poverta-migrazioni-sviluppo-un-nesso-problematico

    • #Codéveloppement : un marché de dupes

      Née du souci d’un partage équitable des richesses et d’une volonté de coopération entre la France et les pays d’émigration, la notion de codéveloppement a été rapidement dévoyée. Au lieu de considérer que migrations et développement sont deux phénomènes complémentaires, les unes apportant à l’autre l’aide la plus conséquente et la plus efficace, on assiste aujourd’hui, derrière un discours d’un cynisme affiché prétendant mener une politique qui répond aux intérêts de tous, à un contrôle accru et une diminution des migrations. À l’inverse des incantations officielles, cette politique ne bénéficie ni aux migrants, ni aux pays de destination, ni aux pays d’origine.


      https://www.gisti.org/spip.php?article1799

    • Immigration : l’échec de la méthode Sami Nair. Le « codéveloppement » du chevènementiste ne démarre pas.

      Les uns parlent de fiasco, rigolent en douce : « C’était couru

      d’avance. » Les autres maintiennent que l’idée est révolutionnaire. Au Quai d’Orsay, certains assurent que le codéveloppement est enterré. A Matignon, d’autres affirment que l’aventure ne fait que commencer. Ces divergences, même radicales, seraient banales s’il ne s’agissait pas d’une approche totalement différente de la gestion des flux migratoires. Mais, un an après le lancement de la délégation interministérielle au codéveloppement, le démarrage est poussif : aucune convention n’a encore été signée avec les trois pays concernés (Maroc, Mali, Sénégal), et le contrat de réinsertion dans le pays d’origine (CRPO), proposé aux immigrés, n’a attiré que 27 personnes. « Normal, c’est un projet à long terme », assure-t-on à l’Office des migrations internationales (OMI, rattaché au ministère de l’Emploi et de la Solidarité). Il n’empêche, les chiffres sont rudes : Sami Naïr, père du concept, ancien délégué au codéveloppement et nouveau député européen (MDC), tablait sur des milliers de demandes. « Le codéveloppement, ça marche », persiste-t-il. Ces résultats décevants, voire piteux, signent-ils la mort du projet ?

      Marotte. Au départ, il y a cette idée, séduisante comme une évidence : transformer les émigrés en acteurs mobiles du développement de leur pays. En pratique, il s’agit de proposer, sur place, des conditions suffisamment attrayantes pour garder et/ou faire revenir les immigrés. Et, in fine, de substituer des flux transitoires aux flux permanents d’immigration irrégulière.

      Le codéveloppement a toujours été la marotte de Sami Naïr. Universitaire, très proche de Chevènement, rencontré dans sa jeunesse belfortaine, Naïr séduit les uns, excède les autres. « C’est un faux-jeton », assurent ces derniers, l’accusant d’avoir troqué ses convictions et son passé de pourfendeur des lois Pasqua (1) contre un bureau de conseiller place Beauvau. D’autres vantent son enthousiasme, sa vision de l’immigration et des rapports Nord-Sud. « On croirait qu’il va déplacer des montagnes », expliquent ses adversaires pour justifier son influence.

      Signe du climat passionnel qui règne autour de Jean-Pierre Chevènement, les détracteurs et même les partisans préfèrent garder l’anonymat. Mais tous, ou presque, reconnaissent sa compétence en matière de flux migratoires. « Je ne crois pas à une Europe-forteresse, mais à une Europe forte, qui intègre et dynamise les flux migratoires », dit-il malgré son appartenance au MDC, qui n’en fait pas un européen convaincu.

      Jospin séduit. Fin 1997, Sami Naïr remet à Jospin son rapport sur le codéveloppement. « La France ne peut plus, dans le contexte actuel, accueillir de nouveaux flux migratoires. Le codéveloppement n’a pas pour but de favoriser le retour des immigrés chez eux s’ils n’en ont pas la volonté », mais de « favoriser la solidarité active avec les pays d’origine », lit-on dans ce rapport. Jospin est très séduit, comme Martine Aubry, ainsi, bien sûr, que Chevènement. Le ministère de la Coopération n’y croit pas, des spécialistes dénoncent « une vieille idée des années 50 » et jugent impossible de renvoyer des gens contre leur gré. « La coopération avec les pays du Sud est un acte de solidarité, la gestion des entrées sur le territoire relève de la police. On ne peut associer les deux », estime le président du groupe de travail Migrations-développement, structure de réflexion qui regroupe des représentants de l’Etat et des ONG.

      Habiller les restrictions. Mais le contexte politique sert Naïr. Alors que s’achève l’opération de régularisation des sans-papiers, qui laisse 60 000 irréguliers sur le carreau, le conseiller de Chevènement devient le premier délégué interministériel au codéveloppement et aux flux migratoires. « Il fallait que Chevènement habille sa politique restrictionniste, explique aujourd’hui un anti-Naïr de la première heure. Si Chevènement avait mis pour les sans-papiers 10% de l’énergie consacrée au projet de Sami Naïr, on n’en serait pas là. C’est les avions renifleurs de l’immigration. » Le jugement est sévère. Car la délégation, finalement installée boulevard Diderot à Paris dans un local appartenant aux Finances, est bien modeste et n’a quasiment aucun fonds propre.

      Le Quai accusé. Les négociations des décrets sont agitées. « C’était un dossier très chaud. La Coopération n’a pas voulu jouer le jeu. Ils n’étaient pas contents qu’on leur enlève des budgets », se souvient-on à Matignon où on loue, sans réserve, le « travail remarquable de Sami, compte tenu des difficultés ». « Faux. On était demandeurs », se défend un haut fonctionnaire du Quai d’Orsay, auquel le ministère de la Coopération est rattaché. En fait, les adversaires du projet sont divisés. Aux Affaires sociales, le cabinet refuse qu’on dépense de l’argent pour former des immigrés en situation irrégulière. « Je me suis battu comme un chien, et Martine Aubry m’a soutenu », rétorque Sami Naïr. A la Coopération et aux Affaires étrangères, on juge le projet trop imprégné du fantasme de l’immigration zéro cher à Pasqua, qui avait déjà tenté ­ sans suite ­ une politique de codéveloppement : « Ça marche si le type n’est pas encore parti. Parce qu’une fois qu’il a goûté à l’Occident, même dans une banlieue pauvre, il connaît vraiment la différence, et il faut payer très cher pour qu’il reparte. »

      « Politique réac ». L’échec du contrat de réinsertion dans le pays d’origine affecte moins Sami Naïr que les commentaires désobligeants qui l’accompagnent. « Le CRPO n’est qu’un petit dossier de la politique de codéveloppement et il n’a pas été pris en charge », explique-t-il, visant l’OMI, pourtant riche des 1 300 francs ponctionnés à chacun des 70 000 régularisés de la circulaire Chevènement (visite médicale plus « taxe de chancellerie »).

      Les détracteurs du codéveloppement ne désarment pas quand on en vient au principal volet, nettement plus complexe : les conventions proposées au Maroc, au Mali et au Sénégal, prévoyant des investissements français en échange d’une limitation des flux migratoires. Le Maroc refuse de signer la convention. Le Mali et le Sénégal, d’abord réticents, ont été convaincus par les arguments de Naïr, et les accords devraient être signés à la rentrée. « La gaugauche s’est fait avoir. C’est une politique très réac enrobée de tiers-mondisme. Le colonialisme et les quotas, c’est fini, on ne dispose plus des gens contre leur gré », s’énerve un spécialiste, pourtant proche de Chevènement, qui s’appuie sur vingt ans d’échecs répétés de tous les systèmes d’aide au retour des immigrés. Ailleurs, on reconnaît que ce genre de politique se juge sur le long terme. Encore faut-il y mettre des moyens et une volonté politique. Et si, effectivement, le codéveloppement a été seulement perçu comme un habillage de la politique d’immigration, il est très probable qu’on en restera là.

      (1) Sami Naïr est l’auteur de Contre les lois Pasqua (1997).

      http://www.liberation.fr/societe/1999/07/08/immigration-l-echec-de-la-methode-sami-nair-le-codeveloppement-du-chevene

    • Codéveloppement et flux migratoires

      Je crois que le mieux pour comprendre ce que j’ai essayé de faire en matière de codéveloppement lié aux flux migratoires à la fin des années 90, c’est encore de résumer, brièvement, comment cette idée de codéveloppement a été élaborée et pourquoi elle reste d’actualité. On pardonnera une implication plus personnelle du propos, mais il se trouve que grâce à Jean-Pierre Chevènement, ministre de l’Intérieur à partir de juin 1997, j’ai été associé à la politique gouvernementale en matière d’immigration.

      https://www.cairn.info/article.php?ID_ARTICLE=MIGRA_117_0071

    • Je transcris ici les propos de Murat Julian Alder, avocat, député au Grand Conseil genevois, prononcés lors d’un débat à Infrarouge (autour de la minute 53) :

      « Il est temps qu’on pose la question sur la table avec les pays d’émigration. Au PLR on a la conviction qu’on est en droit, en tant qu’Etat qui malheureusement subit une partie de cette migration, d’exiger une contre-partie des pays à qui nous versons chaque année des centaines de millions de francs au titre de l’#aide_au_développement. Lorsqu’on est au pouvoir dans un pays, on en défend ses intérêts. Et la défense des intérêts de notre pays implique que nos gouvernants explique aux pays d’émigration que cette aide au développement est à bien plaire, mais qu’on peut faire davantage pour autant qu’il y ait une contrepartie. Et cette contrepartie c’est la conclusion d’#accords_de_réadmission, c’est aussi une aide davantage ciblée sur place dans les pays d’émigration au lieu de la politique de l’arrosoir que nous connaissons actuellement »

      #accords_bilatéraux

  • Private ships play big role in Europe’s migrant crisis

    Two years ago, a small, privately-run ship set out to lend a hand to military operations in the Mediterranean rescuing migrants on boats near capsizing off Libya.

    http://www.thelocal.it/20160806/small-aid-ships-play-big-role-in-europes-migrant-crisis
    #privatisation #asile #migrations #secours #naufrages #mer #Méditerranée #mourir_en_mer #réfugiés #sauvetages #MOAS #SOS_Méditerranée #ONG #sauvetage