• Financement des frontieres : fonds et stratégies pour arrêter l’immigration
    Funding the border : funds and strategies to stop migration
    Financement des frontieres : fonds et stratégies pour arrêter l’immigration

    Dans la première partie de ce document, nous analysons les dépenses pour l’externalisation de la gestion migratoire prévues dans le prochain budget de l’UE ; nous sommes actuellement dans la phase finale des #négociations et le rapport donne un aperçu des négociations jusqu’à présent.
    Dans la deuxième partie, nous nous concentrons sur l’évolution des politiques d’externalisation concernant la route migratoire qui intéresse le plus l’Italie : l’article de Sara Prestianni (EuroMed Rights) présente un panorama sur la situation dangereuse de violations continues des droits de l’Homme en Méditerranée centrale. Dans les deux chapitres suivants, les chercheurs Jérôme Tubiana et Clotilde Warin décrivent l’évolution de l’externalisation des frontières au Soudan et dans la région du #Sahel.

    Pour télécharger les rapports (en français, anglais et italien) :
    FR : https://www.arci.it/app/uploads/2020/12/FR_ARCI-report_Financement-de-Frontie%CC%80res.pdf
    EN : https://www.arci.it/app/uploads/2020/12/ENG_ARCI-report_Funding-the-Border.pdf
    IT : https://www.arci.it/app/uploads/2020/12/Quarto-Rapporto-di-esternalizzazione.pdf

    #asile #migrations #réfugiés #externalisation #frontières #financement #budget #Mali #Méditerranée_centrale #mer_Méditerranée #Soudan #fonds #rapport #ARCI

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    ajouté à la métaliste sur l’externalisation des frontières :
    https://seenthis.net/messages/731749

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  • Le 2 novembre 2019, l’#accord de #2017 entre #Italie et #Libye se renouvellera automatiquement...

    Des ONG en Italie essaie de l’arrêter...
    NO al rinnovo del #Memorandum Italia – Libia

    INTERSOS chiede programma di ricerca e salvataggio europeo e canali di ingresso regolari
    Il 2 novembre, in mancanza di un intervento del Governo, scatterà la proroga automatica del memorandum d’intesa siglato nel febbraio del 2017 con la Libia. Accordo sulla base del quale, l’Italia continua a sostenere con milioni di euro la cosiddetta Guardia Costiera libica e i centri di detenzione in Libia.
    Come organizzazione umanitaria operativa a Tripoli e nel Sud della Libia con programmi di aiuto e protezione per i minori, chiediamo con forza che il Governo italiano annulli il memorandum del 2017 e i precedenti accordi con il Governo libico e che, fatti salvi gli interventi di natura umanitaria, non vengano rifinanziati quelli di supporto alle autorità libiche nella gestione e controllo dei flussi migratori.
    Nelle relazioni con la Libia per la gestione dei flussi migratori è il momento della discontinuità. Occorre un nuovo inizio, che rimetta al centro la ricerca di soluzioni finalizzate alla tutela della vita delle persone e del diritto internazionale che ne è garanzia. Chiediamo che si stabilisca un programma efficace di ricerca e salvataggio in mare a livello europeo e che si prevedano canali di ingresso regolari, in modo che le persone non siano più costrette ad affidarsi ai trafficanti.
    Quanto accaduto in questi anni non può non essere preso in considerazione. È dimostrato come i finanziamenti italiani siano andati a sostegno anche di veri e propri criminali, come il trafficante di esseri umani Bija, sottoposto a sanzioni dal Consiglio di Sicurezza ONU per i crimini contro l’umanità su cui indaga la Corte penale internazionale.
    È dimostrato come i migranti intercettati in mare dalla Guardia Costiera libica e riportati forzatamente in Libia vengano rinchiusi nei centri di detenzione, in condizioni disumane, e siano sistematicamente sottoposti a torture, stupri e violenze. Quando tentano di opporsi al ritorno in Libia, gli ufficiali libici non esitano a sparare e a uccidere.
    Come dichiarato dalle Nazioni Unite, dal Consiglio d’Europa e dalla Commissione europea nonché dalla stessa magistratura italiana, la Libia non può in alcun modo essere considerato un Paese sicuro e dunque le persone che tentano di fuggire non possono essere rimandate in quel Paese. Lo vietano il diritto internazionale e la nostra Costituzione. I respingimenti “delegati” dalle autorità italiane alla Guardia costiera libica comportano esattamente le stesse violazioni per le quali l’Italia è già stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel 2012.

    https://www.intersos.org/intersos-no-al-rinnovo-del-memorandum-italia-libia

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    Plus d’informations sur le memorandum de 2017 sur ce fil :
    https://seenthis.net/messages/600874

    Et plus en général sur l’#externalisation_des_frontières en Libye :
    https://seenthis.net/messages/705401

    #externalisation #asile #migrations #réfugiés #frontières #Méditerranée

    ping @isskein

    • Memorandum. Accordo Italia-Libia sui migranti: il mistero dei 5 miliardi (per Tripoli)

      Equipaggiamenti, elicotteri, gommoni, milizie.... Nessuno sa quanti soldi siano partiti dalle cancellerie europee verso Tripoli, né quanti altri prenderanno la stessa via. Un segreto ben custodito.

      È il segreto meglio custodito sui rapporti con la Libia. Nessuno sa esattamente quanti soldi siano partiti dalle cancellerie europee verso Tripoli, ne quanti altri prenderanno la via del deserto libico. Perciò, fermare il rinnovo automatico del Memorandum italo-libico significa anche rischiare di mettere a nudo una contabilità da svariati miliardi di euro.

      Nel corso del colloquio con Avvenire il guardacoste e presunto trafficante Abdurahman al Milad, nome di battaglia Bija, aveva accennato a una «trattativa di anni» tra Italia e Tripoli poi approfondita nella lunga intervista a «l’Espresso». Bija sapeva quel che diceva. Proprio nel 2008, infatti, il trattato di amicizia firmato da Gheddafi e Berlusconi prevedeva che l’Italia impiegasse cinque miliardi di dollari in aiuti. Un impegno mai rimangiato. In cambio, Tripoli si sarebbe impegnata a intensificare i pattugliamenti in mare e via terra per fermare i migranti.

      Nonostante tutte le accertate violazioni dei diritti umani, nel 2012 l’Italia aveva rinnovato l’accordo con Tripoli, ribadito poi con il Memorandum del 2017 e che verrà prorogato per altri tre anni senza condizioni. Di certo c’è che negli ultimi anni Roma ha elargito ai libici almeno 150 milioni solo per la cosiddetta Guardia costiera e per “migliorare” le condizioni dei diritti umani. Risultato: per l’Onu e per l’Ue i campi di prigionia sono irriformabili, e vanno tutti chiusi. Milioni di euro degli italiani letteralmente spariti tra le dune, non meno di quanto non avvenga con i fondi europei. A Tripoli sanno di impugnare il coltello dalla parte del manico.

      Il 20 marzo del 2017 il premier libico al Sarraj ha presentato una lista della spesa mai ritoccata. Valore, oltre 800 milioni di euro: 10 navi, 10 motovedette, 4 elicotteri, 24 gommoni, 10 ambulanze, 30 fuoristrada, 15 automobili accessoriate, almeno 30 telefoni satellitari ed equipaggiamento militare non sottoposto all’embargo sulle armi votato dall’Onu. Nello stesso periodo il governo italiano assicurava che entro il 2020 sarebbero stati investiti oltre 280 milioni solo per le autorità marittime.

      C’è poi il capitolo milizie. Un contratto, visionato da «Avvenire», riporta l’accordo tra il governo riconosciuto dall’Onu e le principali milizie anti Haftar. Ci sono poi benefit a costo zero. L’Europa ha ritirato gli assetti navali dell’operazione Sophia, così proprio da Zawyah - ha rivelato ieri Euronews – continuano a operare senza alcun rischio di ispezione le 236 navi sospettate di essere coinvolte nel traffico di carburante.

      https://www.avvenire.it/attualita/pagine/i-soldi-a-tripoli-accordo-migranti

    • Italy to renew anti-migration deal with Libya

      Foreign minister says deal has reduced number of arrivals and deaths at sea

      Italy is to renew its deal with the UN-backed government in Libya under which the Libyan coastguard stops migrant boats at sea and sends their passengers back to the north African country, where aid agencies say they face torture and abuse.

      The foreign minister, Luigi Di Maio, told the lower house of parliament it would be “unwise for Italy to break off its agreement with Libya on handling asylum seekers and combating human trafficking”.

      The deal was agreed in February 2017 in an attempt to stem the flow of refugees and migrants to Sicily’s shores. Italy agreed to train, equip and finance the Libyan coastguard, including providing four patrol vessels.

      The deal, due to expire on Saturday, will be renewed automatically unless one of the parties opts out. Di Maio said: “The document can be amended but it is undeniable that it has reduced the number of arrivals and deaths at sea.”

      Sources close to the Italian government said amendments should include evacuation programmes to resettle asylum seekers and measures to ensure the presence of humanitarian organisations in Libyan detention centres. It is not clear whether Tripoli would agree to such changes.

      Médecins Sans Frontières said the proposed changes would serve only to “perpetuate policies of rejection and detention” in Libya.

      “The only possible solution is to completely overcome the arbitrary detention system and end the support offered to the Libyan authorities that feed suffering, violations of international law and the odious work of smugglers,” said Marco Bertotto, MSF’s head of advocacy.

      Early in October the Italian newspaper Avvenire revealed that a man described as one of the world’s most notorious human traffickers attended a series of meetings in Italy in May 2017 between Italian officials and a Libyan delegation to discuss controls on migration flows from north Africa. The alleged trafficker, Abd al-Rahman Milad, nicknamed Bija, is a captain of the Libyan coastguard.

      https://www.theguardian.com/world/2019/oct/31/italy-to-renew-anti-migration-deal-with-libya

    • L’Italie renouvelle son accord controversé sur les garde-côtes libyens

      Malgré de nombreuses critiques, l’accord controversé signé en 2017 entre l’Italie et la Libye a été renouvelé mercredi 30 octobre par le chef de la diplomatie italienne. Soutenu par l’Union européenne, le texte prévoit une aide financière et la formation des garde-côtes libyens pour bloquer les départs de migrants.

      L’annonce a été faite au Parlement mercredi 30 octobre par le chef de la diplomatie italienne Luigi di Maio. L’Italie renouvelle l’accord controversé signé avec la Libye en 2017 afin de stopper les départs de migrants depuis les côtes libyennes. Le texte prévoit, une nouvelle fois, une aide financière et la formation des garde-côtes libyens.

      « Une réduction de l’assistance italienne [à la Libye] pourrait se traduire par une suspension de l’activité des garde-côtes libyens, avec pour conséquence : davantage de départs, des tragédies en mer et une détérioration des conditions des migrants dans les centres d’accueil », a justifié le ministre des Affaires étrangères. « Le texte fonctionne » et « personne ne peut nier qu’il a permis de passer de 170 000 débarquement [de migrants en 2016] à 2 200 en seulement deux ans ».

      L’accord est ainsi prolongé pour trois ans à partir du 2 novembre.

      Face aux critiques, Luigi di Maio a promis que le gouvernement « travaille pour améliorer » les termes de l’accord : selon le chef de la diplomatie, Rome va chercher à « impliquer davantage les Nations unies et la société civile dans l’amélioration de l’assistance aux migrants » en élargissant l’accès des ONG aux centres de détention libyens, à augmenter les fonds pour le rapatriement vers les pays d’origine quand ils sont considérés comme sûrs comme la Tunisie et pour financer des projets de coopération.

      « La seule solution humanitaire possible est de mettre un terme au système de détention arbitraire »

      Médecins sans frontières (MSF) ne croit pas en ces « modifications envisagées ». C’est du « maquillage humanitaire » car elles sont « difficilement réalisables » estime Marco Bertollo de MSF/Italie dans un communiqué. Le gouvernement italien dit « vouloir améliorer la situation mais en réalité, on perpétue des politiques de renvoi et de détention », a-t-il encore insisté.

      MSF a ainsi demandé à l’Italie et à la communauté internationale de « cesser d’apporter un soutien aux autorités et aux garde-côtes libyens qui ne fait qu’alimenter les souffrances, les violations des droits de l’Homme et l’odieuse activité des trafiquants d’êtres humains, à terre et en mer ».

      L’ONG est présente en Libye et fournit une assistance médico-humanitaire aux migrants présents dans les centres de détention. « La seule solution possible est de mettre un terme au système de détention arbitraire », et d’évacuer les migrants et réfugiés, a ajouté MSF, soulignant que le Haut-commissariat des Nations unies aux réfugiés (HCR).
      L’accord italo-libyen avait été négocié par Marco Minniti, un ancien communiste passé par les services secrets, et devenu ministre de l’Intérieur en décembre 2016, du gouvernement de Paolo Gentiloni (en place jusqu’au printemps 2018). Fort de vieux contacts en Libye, il avait signé un « mémorandum » avec les autorités de Tripoli mais aussi avec des milices pour bloquer les migrants.

      https://www.infomigrants.net/fr/post/20545/l-italie-renouvelle-son-accord-controverse-sur-les-garde-cotes-libyens

    • Italy’s Libyan Conundrum: The Risks of Short-Term Thinking

      In early November, Italy decided not to withdraw from the memorandum of understanding (MoU) it signed with Libya’s UN-backed Government of National Accord (GNA) in February 2017. The MoU established a framework for cooperation between Libya and Italy “in the development sector, combating illegal immigration, human trafficking and contraband, and strengthening border security”. Although it covers several topics, the agreement is widely interpreted as having been negotiated with a single aim: to reduce the number of irregular migrants travelling from Libya to Europe. But the MoU also includes political commitments that have often been overlooked.

      On migration, the agreement committed Italy to provide training and equipment to the Libyan Coast Guard, as well as to co-fund projects (with the European Union) to improve conditions in Libya’s migrant detention centres, which currently hold an estimated 4,400 people. The debate on the MoU has revolved around these practical implications of the arrangement more than anything else.

      However, despite much fanfare, the MoU is largely a political symbol – and should be treated as such. Aside from prompting Italy to hand several ships over to the Libyan Coast Guard, the MoU had few practical consequences. Indeed, the Italian authorities began to empower the coast guard long before the MoU was signed: the force intercepted roughly the same number of migrants – 15,000 – and brought them back to Libya in 2016 and 2017, the year the MoU was signed. Although there was a sudden drop in migrant departures from Libya in mid-July 2017, this was primarily due to many Libyan militias’ decision to hold migrants in formal and informal detention centres for longer periods.

      Overall, independently from the MoU, the strategy put in place by Italy and the EU since 2016 has been effective at convincing Libyan militias to stop or defer migrant departures. These departures fell by 80 percent in the first year of the strategy and are now down by 95 percent since 2016. Thus, the decline in departures has persisted throughout 2019 even as Libya spiralled into civil war again, with the forces of general Khalifa Haftar directly attacking the Libyan capital.

      Yet the fact that European cooperation with militias has achieved its main aim should not obscure two important facts. Firstly, the deals Italy and the EU have struck with militias may have both reduced the flow of irregular migrants and protected energy infrastructure – including the GreenStream natural gas pipeline, which connects Italy to Libyan oil and natural gas facilities – but they have not co-opted the groups at the political level. As such, the militias do not operate under any kind of national reconciliation plan or a disarmament, demobilisation, and reintegration process, but have gained the upper hand over their European partners. They do not appear to be willing to engage in talks designed to bring them back under state control.

      Secondly, in dealing with militias as potential political actors, Italy and the EU have failed to make them more responsive to requests that they protect the human rights and dignity of people they hold in detention. Despite engaging in intensive contact and frequent training and capacity-building activities with the militias, Italy and the EU have failed to convince these groups to change the way in which they conduct interceptions at sea or manage detention centres. Crucially, the militias have been unwilling or unable to sideline some of their most brutal members.

      By prioritising short-term gains in irregular migration and energy security, Italy and the EU have helped create an unsustainable security and political situation. This could jeopardise the progress they have made, as the volatile situation in Libya requires constant European monitoring (and, sometimes, action). It is hard for Italy and the EU to create a sustainable solution to a single policy problem when they decouple it from broader efforts to restore stable political and security conditions in Libya.

      While their attempts to co-opt militias are not inherently wrong, Italy and the EU should have approached the task very differently. They should have worked to support Libya’s central authorities, providing them with the tools they needed to negotiate with strong militias while keeping them in check. Instead, European deals with militiamen have speeded up the process but have also helped strengthen already powerful local actors relative to the central government. In this way, Italy and the EU have inadvertently delegitimised the GNA.

      Meanwhile, instead of protecting vulnerable people from abuse, European support has empowered non-state actors to subject them to further human rights violations. Renewed conflict in Libya has made it even more difficult for international institutions – particularly the International Organization for Migration (IOM) and the United Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR) – to return to work safely in the Tripolitania or Fezzan regions.

      The evidence suggests that Rome is abandoning its attempts to play a constructive, visible role in Libya. For example, it appears to have chosen to talk with Haftar more closely. The Italian government had a muted response to Haftar’s recent launch of several airstrikes on Misrata airport (where an Italian military hospital is located), suggesting that its relationship with the general is becoming more ambiguous. Similarly, when Haftar’s forces allegedly bombed a detention centre in Tajoura, in Tripoli, in early July – killing at least 60 migrants there – Rome mildly condemned the attack and took no action against its perpetrators.

      This apparent rapprochement between Italy and Haftar is taking place long after other international actors – such as Egypt, Russia, the United Arab Emirates, and especially France – developed a privileged relationship with the general. In this way, Italy risks losing credibility among both those who support the general and the remaining international allies of president Fayez al-Sarraj’s GNA. Indeed, most observers appear to have interpreted Rome’s willingness to talk with Haftar’s supporters as a tacit admission that its earlier strategy – of supporting Sarraj and the UN mission in Libya – was failing.

      To remedy the situation, Italy should seize on discussions on the MoU to establish much clearer political guidelines for its Libya strategy. Rome should use the renegotiation of the MoU to foster national dialogue and reconciliation, demonstrating that it still supports the GNA. And, if Italy really wants to improve its relations with Haftar, it should use the MoU talks to do so within a larger diplomatic context.

      Italy should use its support for Sarraj’s government to push for much more credible commitments to human rights protections in Libya. Rome has been at the forefront of the European effort to help migrants stuck in Libya, working consistently with international organisations to establish humanitarian corridors to Europe, emergency evacuations to Niger and Rwanda, and assisted voluntary returns to countries of origin. Italy should pursue such efforts within a broader EU framework, systematically involving other European partners and the Libyan authorities.

      Finally, Italy and the EU need to continue to look for long-term political solutions in Libya. For several years, policy experts have advocated for a pragmatic national dialogue in the country. This dialogue should include pivotal actors such as militias, despite their involvement in human rights abuses. It is imperative that Italy and the EU communicate the need for this kind of realistic approach to European voters. However, they should also ensure that their attempts to involve militias in national reconciliation come with conditions that contribute to the goal of disarming these groups and turning them into exclusively political actors.

      It is in Italy’s national interest to bring peace and stability to Libya. But it should do so with a set of clear goals in mind. Italy should focus on long-term stability, not short-term gains. It should not necessarily shy away from controversial decisions, but acknowledge that experts’ criticism of its approach has often been accurate. And Italy should make its utmost efforts to ensure that, during this painstaking and complex process, civilians in Libya do not pay for its mistakes.

      https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/italys-libyan-conundrum-risks-short-term-thinking-24469

    • Proposition pour un nouveau accord Italie-Libye :

      https://www.avvenire.it/c/attualita/Documents/Avvenire-%20memorandum.pdf

      Commentaire de Sara Prestianni via la mailing-list Migreurop :

      Pas beaucoup de nouveautés par rapport a celui de 2017, entre autres:
      – continuité dans la collaboration avec le “gardes cotes libyennes”
      – dangereuse référence à l’art 19 du #MoU de 2008, qui prévoyait l’installation d’un système de contrôle à la frontière sud «Sempre in tema di lotta all’immigrazione clandestina, le due Partì promuovono la realizzazione di un sistema di controllo delle frontiere terrestri libiche, da affidare a società italiane in possesso delle necessarie competenze tecnologiche. Il Governo italiano sosterrà il 50% dei costi, mentre per il restante 50% le due Parti chiederanno all’Unione Europea di farsene carico, tenuto conto delle Intese a suo tempo intervenute tra la #Grande Giamahiria e la ’Commissione Europea.»
      – nommer les camps d’enfermement libyens “centres d’accueil”

      #memorandum_of_understanding #contrôles_frontaliers #frontières #privatisation #Gran_Giamahiria_Araba_Libica_Popolare_Socialista #Jamahiriya_arabe_libyenne

    • La Commissaire appelle l’Italie à suspendre ses activités de coopération avec les garde-côtes libyens et à intégrer des mesures de protection des droits de l’homme dans la future coopération relative aux migrations

      Dans une lettre adressée au ministre des Affaires étrangères de l’Italie, Luigi Di Maio, rendue publique aujourd’hui, la Commissaire appelle le Gouvernement italien à intégrer des garanties en matière de droits de l’homme dans le mémorandum d’entente entre l’Italie et la Libye.

      Tout en prenant note des discussions en cours qui visent à améliorer le respect des droits de l’homme dans l’avenir, la Commissaire appelle l’Italie à tenir compte de la réalité qui prévaut actuellement sur le terrain en Libye et à suspendre ses activités de coopération avec les garde-côtes libyens qui entraînent le renvoi en Libye des personnes interceptées en mer.

      Dans ce contexte, la Commissaire attire l’attention du gouvernement sur les principales garanties dont doit être assortie toute coopération avec des pays tiers dans le domaine migratoire pour que les droits de l’homme soient effectivement respectés. Rappelant sa recommandation intitulée « Sauver des vies. Protéger les droits. Combler le manque de protection des réfugiés et des migrants en Méditerranée » (recommandation en Italien),

      elle souligne la nécessité d’évaluer les risques d’atteinte aux droits des migrants et des demandeurs d’asile que présente toute activité de coopération relative aux migrations, de concevoir des stratégies d’atténuation de ces risques, de mettre en place des mécanismes de suivi indépendants et d’établir un système de recours effectif.

      Dans sa lettre, la Commissaire indique aussi qu’elle continuera à appeler les États membres du Conseil de l’Europe à se montrer plus solidaires avec les pays qui, comme l’Italie, sont en première ligne face aux mouvements migratoires dirigés vers l’Europe, et à mieux coopérer pour préserver la vie et protéger les droits de l’homme des personnes en mer, y compris en prenant leur part de responsabilité pour assurer des moyens de sauvetage suffisants et un débarquement rapide des personnes secourues.

      https://www.coe.int/fr/web/commissioner/-/commissioner-urges-italy-to-suspend-co-operation-activities-with-libyan-coast-g

    • Memorandum Italia-Libia prorogato: una vergogna
      Rinnovato dal 2 febbraio. Assenti le modifiche annunciate

      Domenica 2 febbraio il #memorandum Italia-Libia, firmato nel 2017, è stato prorogato automaticamente alle stesse condizioni, per altri tre anni.

      Si tratta del memorandum stipulato durante il governo Gentiloni, e che i successivi governi Conte hanno mantenuto finora: esso ha ‘regolato’ la politica tra i due Paesi in tema di immigrazione, stabilendo una stretta collaborazione con la Guardia costiera libica, i cui membri sono stati accusati ripetutamente dalle agenzie Onu di traffico e detenzione di esseri umani.
      Lo stesso memorandum, negli stessi tre anni, è stato condannato dalle organizzazioni e dalle agenzie internazionali per i diritti umani per le accertate condizioni disumane e di tortura ai danni delle persone migranti. Nei giorni scorsi in tanti, noi compresi, avevamo chiesto di sospendere il Memorandum e di smettere la complicità con un Paese colpevole di simili trattamenti.

      Il governo rassicura: il rinnovo automatico non preclude l’avvio dei negoziati con Tripoli, preannunciati l’11 novembre dal premier Conte alle controparti libiche, ma le preoccupazioni sono evidenti per lo stato di guerra in Libia e per il tempo assolutamente improduttivo trascorso fino a oggi.

      E nel frattempo la Libia, come sottolinea la decisione dell’Unhcr di sospendere le attività, è precipitata in una situazione di totale instabilità: dopo lo scoppio della guerra, dal 4 aprile scorso, in un Paese di 5 milioni di abitanti, ci sono stati quasi 350mila sfollati. I più vulnerabili sono i rifugiati e i migranti presenti nel Paese nordafricano: circa 3200 rifugiati e migranti si trovano nei centri di detenzione gestiti dal Dipartimento per il contrasto all’immigrazione illegale (Ministero dell’Interno) e dalle milizie. Tra loro circa 2mila si trovano in aree esposte ai combattimenti (soprattutto a Tripoli e nei dintorni).

      L’Italia, ignorando i numerosi appelli, si avvia all’investimento di ingenti risorse di cui non è possibile verificare l’impiego.

      https://www.arci.it/memorandum-italia-libia-prorogato-una-vergogna
      #renouvellement

    • Il processo di esternalizzazione delle frontiere europee. Tra interessi economici e violazioni dei diritti fondamentali

      Dalla normalizzazione e banalizzazione della violazione sistematica delle Convenzioni Internazionali fino al rischio democratico per una sempre più diffusa opacità dell’uso dei fondi italiani ed europei. L’ultimo rapporto Arci sull’esternalizzazione delle frontiere europee fa luce su un processo che sembra sempre più rispondere agli interessi dell’industria della sicurezza, per la quale la frontiera altro non è che l’ennesimo mercato su cui investire e fare profitto. Ce ne parla Sara Prestianni, coordinatrice del progetto #externalisationpolicieswatch

      Diventata già nel 2015 pilastro dell’agenda europea e italiana sull’immigrazione, l’esternalizzazione – ovvero la collaborazione con i paesi di origine e transito con l’obbiettivo di espellere facilmente i migranti dal territorio europeo o di bloccarli prima di raggiungere le nostre coste – si articola oggi, nel continente africano, nella logica strumentale di un legame tra migrazione, sviluppo e sicurezza. La sua combinazione con pratica costante di criminalizzazione della solidarietà porta ad un aumento, inaccettabile, dei morti per mare e per terra. L’azione del Governo Italiano s’iscrive perfettamente nella logica europea, sia nei proclami politici che nella creazione e gestione di fondi sull’esternalizzazione. Gli obiettivi sono chiari: bloccare gli arrivi via mare collaborando con i vicini Niger, Libia e Tunisia, oltre che facilitare le espulsioni strizzando l’occhio a Tunisi e a Il Cairo senza preoccuparsi del carico umano di vite che questa politica porta con sé.

      Arci, impegnata sul territorio italiano nell’accoglienza e in campagne di denuncia e sensibilizzazione, porta negli ultimi anni un’attenzione particolare alle conseguenze della dimensione esterna dell’asilo e la migrazione attraverso il progetto #externalisationpolicieswatch.

      Nel suo terzo rapporto, appena pubblicato, si concentra sulla moltiplicazione degli strumenti finanziari adottati a questo fine con un interesse particolare sull’impatto in Libia, Niger ed Egitto. Il capitolo italiano ed europeo dei fondi sulla sicurezza aumenta vorticosamente ed interessa sempre più la gestione delle frontiere all’interno e all’esterno dello spazio europeo: sistemi biometrici, moltiplicazione di missioni civili e militari impegnate nel controllo delle frontiere dalla Libia al Niger, rafforzamento del ruolo dell’Agenzia Frontex nelle operazioni di rimpatrio, meccanismi di interoperabilità dei sistemi di identificazione, elaborazioni di strumenti di sorveglianza sempre più elaborati. La gestione delle frontiere diventa un business, spingendo sempre più la politica europea e nazionale sulla migrazione verso una logica repressiva del fenomeno migratorio.

      Esternalizzare il controllo delle frontiere in Libia significa concretamente rafforzare il ruolo della Guardia Costiera Libica perché intervenga per rinviare i migranti intercettati in mare nell’inferno da cui, disperatamente, scappano. Per fare questo l’Italia ha ricevuto due tranche di contributi provenienti dal Fondo Fiduciario per l’Africa – la prima, di 46 milioni di euro, nel luglio 2017, la seconda di 45 milioni di euro nel 2018 – a cui si aggiunge il contributo annuale di 50 milioni di euro che finanziano annualmente la presenza dei nostri militari sul territorio. In Egitto la logica è simile, attraverso il supporto di competenza del Ministero dell’Interno per l’istituzione di un centro internazionale di formazione (progetto I.T.E.P.A) che prevede la “formazione della Polizia di frontiera di 22 Paesi africani per contrastare l’immigrazione clandestina e il traffico di esseri umani” in un Egitto che sta, ogni giorno di più, rafforzando il suo regime autoritario. Con il Cairo l’interesse è molteplice e riguarda anche il fronte espulsione. In flagrante violazione dell’articolo 16 della Convenzione internazionale per la protezione di tutte le persone dalla sparizione forzata che prevede, ratificandolo come ha fatto l’Italia, di non “espellere, respingere, consegnare o estradare una persona verso uno Stato qualora esistano fondate ragioni per credere che, in tale Stato, correrebbe il pericolo di essere vittima di una sparizione forzata”. Impegno che è stato violato dall’Italia per le 294 espulsioni di cittadini egiziani nel 2018, rimandati in un paese dove le sparizioni forzate sono all’ordine del giorno.

      A farne le spese sono i migranti – obbligati a rotte sempre più pericolose e lunghe – a beneficio di imprese nazionali, che del mercato della sicurezza hanno fatto un vero e proprio business, e di politici che sull’immaginario dell’invasione basano i loro successi elettorali. L’esempio di come la politica risponda sempre di più alle esigenze delle lobby dell’industria della sicurezza risulta evidente nei corridoi e nei saloni espositivi dei congressi che da Madrid a Bruxelles, da Roma a Casablanca, sono dedicati alla sicurezza e alle frontiere come nuovo settore d’investimenti. Dal “Security Research Event” al “World Border Security Congress”, rappresentanti della Commissione Europea e delle principali industrie del settore della sicurezza si incontrano e si confrontano con l’obiettivo prioritario di “ingrandire il mercato europeo della sicurezza”, come gli stessi partecipanti al SRE di Bruxelles hanno annunciato dal palco.

      Gravissime sono le conseguenze di questa deriva delle politiche italiane ed europee: dalla normalizzazione e banalizzazione della violazione sistematica delle Convenzioni Internazionali fino ad un rischio democratico per una sempre più diffusa opacità dell’uso dei fondi. La politica sembra più interessata a rispondere agli interessi dell’industria della sicurezza, per la quale la frontiera altro non è che l’ennesimo mercato su cui investire e fare profitto -cosi come lo è da tempo la guerra- dimenticandosi del costo in termine di vite umane che ne consegue.

      https://openmigration.org/idee/il-processo-di-esternalizzazione-delle-frontiere-europee-tra-interess
      #droits_humains #droits_fondamentaux

      https://www.youtube.com/watch?v=_74gU8Fo12E

  • Il decreto immigrazione cancellerà lo Sprar, «sistema modello» di accoglienza

    Le scelte del governo: stretta su rifugiati e nuove cittadinanze. Vie accelerate per costruire nuovi centri per i rimpatri. Permessi umanitari cancellati. Hotspot chiusi per 30 giorni anche i richiedenti asilo.

    Permessi umanitari cancellati. Stretta su rifugiati e nuove cittadinanze. Vie accelerate per costruire nuovi centri per i rimpatri. Possibilità di chiudere negli hotspot per 30 giorni anche i richiedenti asilo. Trattenimento massimo nei centri prolungato da 90 a 180 giorni. E poi addio alla rete Sprar. I 17 articoli e 4 capi dell’ultima bozza del decreto migranti, che il governo si prepara a varare, promettono di ridisegnare il volto del «pianeta immigrazione». Soprattutto sul fronte accoglienza, abrogando di fatto un modello, quello dello Sprar, che coinvolge oggi oltre 400 comuni ed è considerato un modello in Europa.

    A denunciarlo è l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi): «Cancellare l’unico sistema pubblico di accoglienza che funziona appare come uno dei più folli obiettivi politici degli ultimi anni, destinato in caso di attuazione a produrre enormi conseguenze negative in tutta Italia, tanto nelle grandi città che nei piccoli centri, al Nord come al Sud».

    Ventitremila migranti accolti. «Lo Sprar - spiega a Repubblica Gianfranco Schiavone, vicepresidente dell’Asgi - è un sistema di accoglienza e protezione sia dei richiedenti asilo che dei titolari di protezione internazionale e umanitaria nato nel lontano 2002 con le modifiche al testo unico immigrazione della cosiddetta Bossi-Fini. Nei sedici anni della sua esistenza lo Sprar si è enormemente rafforzato passando da alcune decine di comuni coinvolti e meno di duemila posti di accoglienza nel 2002, ai circa ventitremila posti attuali con coinvolgimento di oltre 400 comuni».

    Un modello in Europa. «In ragione dei suoi successi nel gestire l’accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati in modo ordinato con capacità di coinvolgimento dei territori, lo Sprar è sempre stato considerato da tutti i governi di qualunque colore politico il fiore all’occhiello del sistema italiano, da presentare in Europa in tutti gli incontri istituzionali, anche per attenuare agli occhi degli interlocutori, le gravi carenze generali dell’Italia nella gestione dei migranti».

    Il ruolo centrale dei comuni. «Il presupposto giuridico su cui si fonda lo Sprar è tanto chiaro quanto aderente al nostro impianto costituzionale: nella gestione degli arrivi e dell’accoglienza dei migranti allo Stato spettano gli aspetti che richiedono una gestione unitaria (salvataggio, arrivi e prima accoglienza, piano di distribuzione, definizione di standard uniformi), ma una volta che il migrante ha formalizzato la sua domanda di asilo la gestione effettiva dei servizi di accoglienza, protezione sociale, orientamento legale e integrazione non spetta più allo Stato, che non ha le competenze e l’articolazione amministrativa per farlo in modo adeguato, ma va assicurata (con finanziamenti statali) dalle amministrazioni locali, alle quali spettano in generale tutte le funzioni amministrative in materia di servizi socio-assistenziali nei confronti tanto della popolazione italiana che di quella straniera».
    Il business dei grandi centri. «Lo Sprar (gestito oggi da Comuni di centrosinistra come di centrodestra) ha assicurato ovunque una gestione dell’accoglienza concertata con i territori, con numeri contenuti e assenza di grandi concentrazioni, secondo il principio dell’accoglienza diffusa, di buona qualità e orientata ad inserire quanto prima il richiedente asilo nel tessuto sociale. Inoltre lo Sprar ha assicurato un ferreo controllo della spesa pubblica grazie a una struttura amministrativa centrale di coordinamento e all’applicazione del principio della rendicontazione in base alla quale non sono ammessi margini di guadagno per gli enti (associazioni e cooperative) che gestiscono i servizi loro affidati. Invece, da oltre un decennio, il parallelo sistema di accoglienza a diretta gestione statale-prefettizia, salvo isolati casi virtuosi, sprofonda nel caos producendo un’accoglienza di bassa o persino bassissima qualità con costi elevati, scarsi controlli e profonde infiltrazioni della malavita organizzata che ha ben fiutato il potenziale business rappresentato dalla gestione delle grandi strutture (come caserme dismesse, ex aeroporti militari) al riparo dai fastidiosi controlli sulla spesa e sulla qualità presenti nello Sprar».

    La fine dello Sprar. «Cancellare l’unico sistema pubblico di accoglienza che funziona appare come uno dei più folli obiettivi politici degli ultimi anni. Che ne sarà di quelle piccole e funzionanti strutture di accoglienza già esistenti e delle migliaia di operatori sociali, quasi tutti giovani, che con professionalità, lavorano nello Sprar? Qualcuno potrebbe furbescamente sostenere che in fondo lo Sprar non verrebbe interamente abrogato ma trasformato in un sistema di accoglienza dei soli rifugiati e non più anche dei richiedenti asilo i quali rimarrebbero confinati nei centri governativi. È una spiegazione falsa, che omette di dire che proprio la sua caratteristica di sistema unico di accoglienza sia dei richiedenti che dei rifugiati dentro un’unica logica di gestione territoriale è ciò che ha reso lo Sprar un sistema efficiente e razionale. Senza questa unità non rimane più nulla».

    https://www.repubblica.it/solidarieta/immigrazione/2018/09/21/news/migrazioni-206997314/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P2-S2.4-T1
    #sprar (fin de -) #réfugiés #accueil #migrations #asile #Italie #hébergement #hotspot #décret #détention_administrative #rétention #protection_humanitaire #politique_d'asile #hotspots #it_has_begun #decreto_Salvini

    via @isskein

    • Publié sur la page FB de Filippo Furri :

      « Mi permetto di riprendere il commento della splendida Rosanna Marcato che è stata uno degli attori fondamentali di un percorso di sviluppo e crescita di un modello di accoglienza innovativo, che è alle fondamenta del mio lungo lavoro di ricerca sulla nozione di CITTà RIFUGIO : le città, le comunità locali, dove può realizzarsi la solidarietà concreta e reciproca, sono e devono rimanere luoghi di resistenza ai poteri fascisti che si diffondono dovunque, alla paranoia identitaria costruita a tavolino e iniettata nei cervelli e negli spiriti di spettatori impauriti e paranoici. lo SPRAR nasceva da forme di azione sperimentale «dal basso» e solidale (antifascista, antirazzista), che i governi autoritari e fascisti detestano e combattono.

      «L 11 settembre 2001 Venezia tra le prime città italiane ha dato il via ad un sistema di accoglienza (pna) che si è poi trasformato nello SPRAR. Era il frutto di esperienze di accoglienza, di saperi professionali e della volontà di costruire un sistema di accoglienza territoriale stabile e moderno. Un servizio sociale a tutti gli effetti con regole certe e rendicontazioni esatte e controllabili. Molte delle regole, degli strumenti e delle metodologie di lavoro che ancora funzionano furono elaborati da questa città e dal servizio che dirigevo. 27 anni di lavoro buttati nel cesso. Siate maledetti voi e anche quelli di prima che ci hanno ficcato in questa situazione di merda»

    • Immigrazione, Andrea Maestri: “Nel decreto Salvini tradisce il contratto di governo”

      Andrea Maestri critica il decreto Immigrazione: “Fino a oggi lo Sprar rappresentava un modello pubblico e trasparente nella gestione delle risorse. Chi adesso non rientra nel sistema Sprar non sparisce magicamente dal territorio. E quindi finirà nei Centri d’accoglienza straordinari, i Cas, che sono tutti privati”.

      Dopo aver licenziato l’atteso Dl Immigrazione, il ministro degli Interni Matteo Salvini, a proposito del futuro degli Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) e del ridimensionamento di questi centri in favore dei Cas, ha dichiarato: «Il rischio è inesistente, anche qui viene messo ordine in un sistema. Da quando sono ministro abbiamo ridotto di circa 20 mila unità le presenze in tutti questi tipi di strutture. Coloro che sono nel giusto come amministratori locali e come profughi non hanno nulla a che temere da questo provvedimento». In conferenza stampa il ministro degli Interni ha spiegato che il sistema Sprar continua a sopravvivere «limitatamente ai casi di protezione internazionale e dei minori non accompagnati». Ma stanno davvero così le cose? Ne abbiamo parlato con Andrea Maestri, della segreteria nazionale di Possibile.

      Nel contratto di governo si parlava di una diminuzione della capacità d’azione dei privati nella gestione dell’accoglienza. Con questo decreto la promessa non è stata mantenuta.

      Assolutamente no. Credo che qualunque osservatore attento non possa che gridare allo scandalo per questo gravissimo inadempimento, nei confronti soprattutto dei cittadini che hanno creduto nella buona fede di chi ha firmato il contratto di governo. Secondo quel contratto sembrava si volesse puntare sul modello pubblico e diffuso. E’ in corso al contrario una privatizzazione hard del sistema dell’accoglienza. Fino a oggi lo Sprar, anche se in modo minoritario, coinvolgendo gli enti locali, rappresentava un modello pubblico e trasparente nella gestione delle risorse, che venivano rendicontate. Nel momento in cui diventa uno strumento ulteriormente residuale, perché si rivolge solo a coloro che hanno già ottenuto la protezione internazionale – si parla appunto solo dei ‘titolari’, non più di richiedenti asilo che hanno fatto domanda – comincia a riguardare solo un numero ridotto di persone. Ma chi non rientra nel sistema Sprar non sparisce magicamente dal territorio, e quindi bisognerà trovargli un’altra collocazione: cioè nei Centri d’accoglienza straordinari, i Cas, che sono appunto tutti privati, gestiti dalle prefetture, ognuna con modalità diverse di scelta del contraente, con modalità di rendicontazione a macchia di leopardo.

      Ma Salvini sostiene l’opposto, cioè che questo rischio è inesistente.

      Se avesse ragione Salvini aumenterebbe il numero di persone che vivono per strada in una condizione di fragilità sociale umana ed esistenziale: se questi migranti non vengono accolti dai Comuni all’interno degli Sprar, se non se ne occupano le prefetture attarverso gli appaltatori privati all’interno dei Cas, vorrà dire che saranno in giro. Sono persone prive di documenti, che non possono fare contratti regolari di locazione, e nemmeno condividere contratti di locazione con altri. E questo sì che farà aumentare l’irregolarità e la criminalità organizzata e disorganizzata. Con un’unica conseguenza: aumenterà la percezione di insicurezza diffusa.

      Nel testo definitivo, all’articolo 2 è confermata la norma sugli appalti per i lavori nei centri, che possono essere affidati senza previa pubblicazione del bando di gara. E’ in linea con la Costituzione?

      C’è questa norma, ma con alcuni ritocchi. In pratica la procedura negoziata, senza previa pubblicazione di un bando pubblico, può essere fatta per gli appalti sotto soglia comunitaria. Ma se si considera che la soglia comunitaria per lavori, dal primo gennaio 2018 è di circa 5 milioni e mezzo di euro, è evidente che con quella somma più che un Cas si può fare un vero e proprio carcere. Sono importi molto elevati che consentono al governo di fare procedure negoziate, limitando il confronto concorrenziale solo a 5 ditte scelte discrezionalmente dall’amministrazione. Qui c’è una lesione del principio di trasparenza e di concorrenza. Poi hanno scritto che verranno rispettati alcuni criteri, come quello di rotazione, però la sostanza rimane. L’articolo 63 del codice degli Appalti dovrebbe essere limitato a casi del tutto eccezionali: ad esempio una data amministrazione può avere l’interesse a trattare con un determinato soggetto se vuole commissionargli un’opera d’arte per una piazza pubblica; oppure sono previsti casi straordinari d’urgenza, in cui è ammissibile una deroga del genere. Ma non siamo in nessuno di questi due campi. Il governo per i prossimi tre anni sta stabilendo una procedura in deroga alle norme dell’evidenza pubblica. E’ piuttosto grave che si apra una parentesi del genere per un lasso così lungo di tempo. La prima bozza che era circolata negli ambienti dell’Anci, era spudorata, un colpo allo stomaco. Poi ci sarà stato un intervento da parte forse degli uffici ministeriali di Palazzo Chigi, o da parte dello stesso Presidente della Repubblica, che probabilmente hanno limitato un po’ il danno. Ma rimane uno degli aspetti più discutibili e negativi dell’intero provvedimento, perché è proprio uno di quegli ambiti su cui Salvini ha fatto sempre propaganda, contestando il modello del Cara di Mineo. Qui si sta dicendo che il ministero sta prospettando appalti senza evidenza publica. E la Corte Costituzionale se sarà chiamata a intervenire non mancherà di censurare quest’aspetto.

      Dal momento che il testo prevede il raddoppio dei tempi di trattenimento nei Cpr, da 90 a 180 giorni, vuol dire che ne serviranno di più? Qual è la ratio?

      E’ tutto collegato, c’è una coerenza, negativa ovviamente. Nel momento in cui tu trasformi lo Sprar, e lo snaturi, visto che non si tratta più di un sistema di accoglienza per i richiedenti asilo, ma solo per i rifugiati, avremo sempre più persone disperse nel territorio, o nei Cas. E quindi viene privilegiata una gestione emergenziale. Questo farà aumentare il numero delle persone espulse dal sistema, ma non dal territorio. Ci saranno sempre più persone irregolari, e quindi una maggiore necessità di Cpr. Quelli attuali sicuramente non basteranno, quindi se ne dovranno fare degli altri. Per alimentare la narrazione emergenziale si dirà che bisogna fare in fretta, e da qui proviene il vincolo dei tre anni per la deroga per i bandi di gara per le imprese. Quando costruiranno un nuovo centro sarà a quel punto interessante vedere quali aziende verranno chiamate a concorrere, e con quali criteri. Questa è l’economia dell’emergenza, che si deve autoalimentare non solo nella propaganda, ma anche nella sostanza.

      Cosa ne pensa del permesso di soggiorno per atti di valore civile?

      Siamo alla banalità del male. Togliendo la protezione umanitaria come istituto generale, tantissime persone che ricadevano in zone grigie, non facilmente ascrivibili ad una categoria giuridica, ma che rientravano comunque in quell’ambito di tutela ampia dei diritti umani fondamentali, si trovano adesso in difficoltà. E mi riferisco soprattutto a quelle persone vulnerabili, che arrivano in Italia deprivati, fisicamente e moralmente, dopo aver attraversato per esempio l’inferno libico. Adesso per loro non ci sarà più nessuna tutela. Ci sono al loro posto queste sei categorie molto rigide che lasciano poco spazio all’attenzione di cui necessitano invece alcuni casi particolari. Un po’ per caso, come in una lotteria, se uno è in una condizione di irregolarità, ma gli capita di salvare una persona durante un incidente stradale da una macchina in fiamme, o ipotizziamo, con un po’ di fantasia, se quest’immigrato salvasse il ministro Salvini che annaspa in mare, potrebbe ottenere il permesso di soggiorno in virtù della sua azione di valore civile. Mi sembrano delle restrizioni cieche e ottuse che non migliorano minimamente lo stato delle cose. Perché la via maestra sarebbe una riforma organica del testo unico sull’immigrazione, che rendesse trasparenti e legali i canali di ingresso in Italia. Sarebbe fortemente depotenziato il canale della protezione internazionale, che ovviamente è sotto pressione perché non esiste altro modo per entrare in Italia legalmente. Ma ovviamente questo decreto crea un consenso molto più immediato.

      https://www.fanpage.it/immigrazione-maestri-nel-decreto-salvini-tradisce-il-contratto-di-governo

    • Cosa prevede il decreto Salvini su immigrazione e sicurezza

      Il 24 settembre il consiglio dei ministri ha approvato all’unanimità il cosiddetto decreto Salvini su immigrazione e sicurezza. Il decreto si compone di tre titoli: il primo si occupa di riforma del diritto d’asilo e della cittadinanza, il secondo di sicurezza pubblica, prevenzione e contrasto della criminalità organizzata; e l’ultimo di amministrazione e gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia.

      Nei giorni precedenti all’approvazione si erano diffuse delle voci su possibili dissidi tra i due partiti di maggioranza, Lega e Movimento 5 stelle, ma il ministro dell’interno Matteo Salvini durante la conferenza stampa a palazzo Chigi ha voluto sottolineare che i cinquestelle hanno approvato senza riserve il suo progetto di riforma.

      All’inizio i decreti avrebbero dovuto essere due: il primo sull’immigrazione e il secondo sulla sicurezza e sui beni confiscati alle mafie, poi nel corso dell’ultima settimana sono state fatte delle “limature” e i due decreti sono stati accorpati in un unico provvedimento. Il decreto dovrà ora essere inviato al presidente della repubblica Sergio Mattarella che a sua volta deve autorizzare che la norma sia presentata alle camere. Ecco in sintesi cosa prevede.

      Abolizione della protezione umanitaria. Il primo articolo contiene nuove disposizioni in materia della concessione dell’asilo e prevede di fatto l’abrogazione della protezione per motivi umanitari che era prevista dal Testo unico sull’immigrazione. Oggi la legge prevede che la questura conceda un permesso di soggiorno ai cittadini stranieri che presentano “seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello stato italiano”, oppure alle persone che fuggono da emergenze come conflitti, disastri naturali o altri eventi di particolare gravità in paesi non appartenenti all’Unione europea.

      La protezione umanitaria può essere riconosciuta anche a cittadini stranieri che non è possibile espellere perché potrebbero essere oggetto di persecuzione nel loro paese (articolo 19 della legge sull’immigrazione) o in caso siano vittime di sfruttamento lavorativo o di tratta. In questi casi il permesso ha caratteristiche differenti. La durata è variabile da sei mesi a due anni ed è rinnovabile. Questa tutela è stata introdotta in Italia nel 1998.

      https://www.internazionale.it/bloc-notes/annalisa-camilli/2018/09/24/decreto-salvini-immigrazione-e-sicurezza

    • Italy: The security decree that makes everyone more insecure

      JRS Italy (Centro Astalli) is concerned about the effects that the new measures introduced by the ’Salvini decree’ on migration and security – unanimously approved on the 24th of September by the Italian Council of Ministers – will have on the lives of migrants and on the social cohesion of the whole country.

      The combination of the Security Decree and the Immigration Decree in a single piece of legislation is misleading as it associates security issues, such as organised crime and terrorism, with the issue of managing migration, in particular forced migration. This is particularly wrong knowing that a completely different legislative approach is needed to deal with migration challenges, particularly in terms of programmes, general management and migrants’ integration.

      For JRS Italy, the reform of the Protection System for Asylum Seekers and Refugees (SPRAR) foreseen by the decree represent a fundamental step back for the Italian reception system. By excluding applicants for international protection from this type of reception the reform is in clear contradiction with the principle that a successful integration process starts from the first reception, as the current Integration Plan for refugees of the Italian Ministry of the Interior also states.

      The SPRAR, recognized as a qualitative system also by international observers, is therefore cut down, despite being the only reception system that guarantees maximum transparency in the management of resources. At the same time, the large collective centres for asylum seekers are strengthened even though the experience on the ground largely shows that, also due to the lack of involvement of local administrations, establishing such centres often encounters resistance and generates social tensions.

      According to Camillo Ripamonti SJ, JRS Italy’s president, “It is a step backwards that does not take into account on the one hand the lives and stories of the people, and on the other hand the work that for decades many humanitarian organizations and civil society have done in close collaboration with the institutions - in particular with local authorities”.

      “Criminalising migrants” – Ripamonti concludes – “is not the right way to deal with the presence of foreign citizens in Italy. Enlarging grey zones that are not regulated by law and making legal procedures less accessible and more complicated, contributes to make our country less secure and more fragile."

      http://jrseurope.org/news_detail?TN=NEWS-20180925084854

    • Decreto Salvini, Mattarella firma ma ricorda a Conte gli obblighi fissati dalla Costituzione

      Il provvedimento è quello che riguarda sicurezza e immigrazione. Il presidente della Repubblica invia al premier una lettera in cui richiama l’articolo 10 della Carta. La replica di Salvini: «ciapa lì e porta a cà». Polemica dei medici sulla norma per i presidi sanitari

      https://www.repubblica.it/politica/2018/10/04/news/dl_sicurezza_mattarella_firma_lettera_a_conte_obblighi_costituzione-20814

    • “I grandi centri di accoglienza vanno superati”. Anzi no. Se Salvini contraddice se stesso

      Ad agosto il ministero dell’Interno ha trasmesso al Parlamento una relazione molto dura sul modello straordinario dei Cas, presentati come “luoghi difficili da gestire e da vivere che attirano gli interessi criminali”. Proponendo l’alternativa dello SPRAR. Ma nonostante le evidenze e gli elogi per il sistema di protezione diffuso, il “decreto immigrazione” va nella direzione opposta.

      grandi centri di accoglienza in Italia sono “luoghi difficili da gestire e da vivere”, producono “effetti negativi oltre che nell’impatto con le collettività locali anche sull’efficienza dei servizi forniti ai migranti”, e per il loro “rilevante onere finanziario” rappresentano una “fonte di attrazione per gli interessi criminali”. Per questo è necessario un loro “alleggerimento progressivo” puntando sulle “progettualità SPRAR” (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), autentico “ponte necessario all’inclusione e punto di riferimento per le reti territoriali di sostegno”. Garanzia di “processi più solidi e più facili di integrazione”.

      Recita così la “Relazione sul funzionamento del sistema di accoglienza predisposto al fine di fronteggiare le esigenze straordinarie connesse all’eccezionale afflusso di stranieri nel territorio nazionale”, relativa al 2017, trasmessa alla Camera dei deputati il 14 agosto di quest’anno e presentata da un ministro che sostiene pubblicamente il contrario: Matteo Salvini.

      Ad agosto, in quella relazione, il titolare dell’Interno ha infatti riconosciuto come nel circuito SPRAR, “oltre al vitto e alloggio”, venga “garantito ai richiedenti asilo un percorso qualificato, finalizzato alla conquista dell’autonomia individuale” grazie alla “realizzazione di progetti territoriali di accoglienza”. Un modello da promuovere per merito delle “qualità dei servizi resi ai beneficiari che non si limitano ad interventi materiali di base (vitto e alloggio) ma assicurano una serie di attività funzionali alla riconquista dell’autonomia individuale, come l’insegnamento della lingua italiana, la formazione e la qualificazione professionale, l’orientamento legale, l’accesso ai servizi del territorio, l’orientamento e l’inserimento lavorativo, abitativo e sociale, oltre che la tutela psico socio-sanitaria”. Ma ancora nel 2017, su 183.681 migranti ospitati nelle strutture temporanee, hotspot, centri di prima accoglienza e SPRAR, appena 24.471 occupavano l’accoglienza virtuosa del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. Da lì la corretta intenzione di alleggerire i grandi centri a favore dell’approccio diffuso e integrato.

      Poi però il governo ha smentito se stesso: nonostante le riconosciute qualità dello SPRAR, l’esecutivo ha messo mano alla materia attraverso il recente decreto legge su immigrazione e sicurezza (Dl 113), licenziato dal governo ed emanato dal Capo dello Stato a inizio ottobre, puntando in direzione opposta. In quella che Gianfranco Schiavone, vice presidente dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, ha definito la “destrutturazione del sistema di accoglienza”.

      L’articolo 12 del “decreto Salvini”, infatti, trasforma l’attuale SPRAR in un sistema per soli titolari di protezione internazionale, un terzo degli attuali accolti, tagliando fuori così i richiedenti asilo, i beneficiari di protezione umanitaria (sostanzialmente abrogata) e coloro che avessero fatto ricorso contro la decisione di diniego delle Commissioni territoriali sulla loro domanda. Per gli esclusi si apriranno le porte degli attuali centri governativi di prima accoglienza o dei centri di accoglienza straordinaria (CAS), proprio quelli di cui la relazione presentata dal ministro Salvini, poche settimane prima, auspicava il superamento.
      “La riforma pare fotografare la realtà della prassi precedente al decreto legge -ha evidenziato l’ASGI in un documento che mette in fila i profili di manifesta illegittimità costituzionale del decreto-. I CAS sono il ‘non’ sistema di accoglienza per la generalità dei richiedenti asilo, in violazione della Direttiva Ue sull’accoglienza che consente simili riduzioni di standard soltanto per periodi temporanei e per eventi imprevedibili, mentre le strutture dello SPRAR sono sempre più riservate a minori (non sempre), a titolari di protezione internazionale e spesso a chi si trova in condizioni (spesso familiari) disperate”.

      Non solo. Come ha ricordato l’Associazione nazionale dei Comuni italiani (ANCI), il 43% degli accolti nello SPRAR “ha concluso positivamente il proprio percorso di accoglienza ed ha raggiunto uno stato di autonomia, e un ulteriore 31% ha acquisito gli strumenti indispensabili per ‘camminare sulle proprie gambe’”. “Lo SPRAR riesce a rendere autonome le persone in un lasso di tempo indubbiamente inferiore rispetto a ciò che accade nei CAS. Nello SPRAR il tempo medio di permanenza è infatti di 6 mesi, questo significa che in un posto SPRAR vengono mediamente accolte all’anno 2 persone. Nei Comuni dove esiste un progetto SPRAR, i costi economici e sociali subiscono una notevole flessione”. Motivo per cui a metà ottobre l’ANCI ha presentato alcuni emendamenti in vista dell’iter parlamentare che porterà alla conversione del decreto. Uno di questi chiede proprio di consentire l’accesso dei “richiedenti asilo vulnerabili (compresi nuclei familiari con figli minori) all’interno dei progetti SPRAR, per evitare che ricadano, inevitabilmente, sui bilanci dei Comuni e delle Regioni i costi dei servizi socio-sanitari che sarà in ogni caso necessario erogare senza poter accedere ad alcun rimborso da parte dello Stato (stimati circa 286 milioni di euro annui”.

      Posto di fronte alla contraddizione tra la relazione di agosto e il decreto di ottobre, il ministero dell’Interno ha fatto sapere ad Altreconomia che la Relazione non è altro che un “adempimento richiesto dalla normativa” e che questa “si riferisce, nel merito, al periodo cui la stessa fa riferimento”. Come se nell’arco di otto mesi lo SPRAR fosse cambiato.

      Ed ecco quindi che il “ponte necessario all’inclusione” è diventato la “pacchia” da interrompere: la graduatoria dei progetti avanzati dagli enti locali ed esaminati dal Viminale, per ulteriori 3.500 posti da aggiungersi ai 32mila attualmente finanziati, di cui era prevista la pubblicazione a luglio 2018, non ha mai visto la luce. E le nuove richieste di adesione al Sistema da parte dei territori -altri 2.500 nuovi posti- non sono state nemmeno prese in considerazione. Il risultato è che 6mila potenziali nuovi posti SPRAR sono stati “sacrificati” sull’altare della linea Salvini. Quella di ottobre, però, non quella di agosto.

      https://altreconomia.it/decreto-salvini-cas

    • Beyond closed ports: the new Italian Decree-Law on Immigration and Security

      In the past months, Italian migration policies have been in the spotlight with regard to the deterrence measures adopted to prevent sea arrivals of migrants. After the closure of ports to vessels transporting migrants and the reduction of search and rescue operations at sea, the government adopted a restrictive approach to the internal norms, reforming the architecture of the Italian system of protection.

      On 24 September 2018, the Italian Council of Ministers unanimously adopted a new Decree-Law on Immigration and Security. Strongly endorsed by the Minister of the Interior Matteo Salvini, the final text of the Decree contains ‘urgent measures’ on international protection and immigration, as well as on public security, prevention of terrorism and organised crime. Following the approval of the President of Republic, the bill has come into force on October 5. The future of the Decree now lays in the hands of the Parliament, which will have to transpose it into law within sixty days of its publication or it will retrospectively lose its effect.

      The securitarian approach adopted sparked strong criticism within civil society and the President of the Republic himself accompanied his signature with an accompanying letter addressed to the President of the Council, reminding that all ‘constitutional and international obligations’ assumed by Italy remain binding, even if there is no explicit reference to them in the Decree. This blog post provides an overview of the first two Chapters of the Decree-Law, dedicated to immigration and asylum. It will further analyze their impact on the rights of protection seekers and their compatibility with European law, International law as well as the Italian Constitution.

      1. Provisions on humanitarian residence permits and fight against irregular migration

      1.1 The abrogation of ‘humanitarian protection’

      The main change introduced by the first Chapter of the Decree-Law concerns what is commonly referred to as ‘humanitarian protection’, namely a residence permit issued to persons who are not eligible to refugee status or subsidiary protection but cannot be expelled from the country because of ‘serious reasons of humanitarian nature, or resulting from constitutional or international obligations of the State’ (art. 5(6) of the Consolidated Act on Immigration).

      The humanitarian residence permit was introduced as a safeguard clause in the Italian legislation, complementing international protection within the meaning of article 10 paragraph 3 of the Constitution, which stipulates that: ‘[a] foreigner who, in his home country, is denied the actual exercise of the democratic freedoms guaranteed by the Italian Constitution shall be entitled to the right of asylum under the conditions established by law.’ The important role of ‘humanitarian protection’ has been further clarified by the Italian highest court (Court of Cassation), which stated that the right to be issued a humanitarian permit, together with refugee status and subsidiary protection, constitutes a fundamental part of the right of asylum enshrined in the Constitution (see for example judgement 22111/2014).

      In practice, humanitarian residence permits were a ‘flexible instrument’ which could cover several circumstances emerging from forced displacement where there was no sufficient evidence of an individual risk of persecution or serious harm. As explained by the Court of Cassation, prior to the entry into force of the Decree, humanitarian protection was granted to persons suffering from an ‘effective deprivation of human rights’ upon the fulfilment of two interrelated conditions: the ‘objective situation in the country of origin of the applicant’ and ‘the applicant’s personal condition that determined the reason for departure’ (see judgement 4455/2018). The Court further presented as possible example of human rights deprivation the situation of a person coming from a country where the political or environmental situation exposes her to extreme destitution and does not allow her to attain a minimum standard of dignified existence. As noted by the Court, the definition of environmental issues does not only contain natural disasters but it may also include non-contingent events, such as droughts or famines, which deprive the person from having a basic livelihood.

      However, as already mentioned, the grounds for obtaining humanitarian protection were relatively open and could be adjusted to other situations entailing a deprivation of basic human rights, such as the inability of the country of origin to protect the right to health of applicants affected by serious conditions, or the family situation of the applicant interpreted in light of article 8 of the European Convention on Human Rights. Also, the level of social integration reached by an applicant during her stay in Italy, together with the situation of poverty or instability in the country of origin, were also to be considered as a ground to grant humanitarian protection.

      By radically transforming article 5(6) and severely restricting the possibility for rejected asylum applicants to be granted residence permits in light of constitutional and international obligations or for humanitarian reasons, article 1 of the Decree-Law substantially abrogates ‘humanitarian protection’. Instead, the Decree provides for the creation of a ‘special protection’ residence permit, which can be issued only to those persons who cannot be expelled due to the non-refoulement obligations defined in article 19 of the Consolidated Act on Immigration unless the applicant can be returned to a country where she could receive ‘equivalent protection’.

      The first article of the Decree-Law further creates new residence permits that can be granted in restricted ‘special cases’, as for example: persons affected by ‘exceptionally serious’ medical conditions; persons who cannot return to their home countries due to ‘exceptional natural disasters’; and persons who have carried out ‘exceptional civil acts’. The Decree, however, does not modify the grounds for granting special residence permits to victims of trafficking, violence or labour exploitation, as already provided for in arts. 18 and 18-bis of the Consolidated Act on Immigration.

      The new Decree reduces not only the scope of protection and the number of potential beneficiaries but also the duration of the stay for third-country nationals falling into the above-mentioned ‘special’ categories. Whilst persons granted the ‘humanitarian’ status were provided with a two-year renewable residence permit, the permits issued in the new ‘special cases’ allow residence in Italy for shorter periods: six months for exceptional natural disasters or violence and one year in the other for ‘special protection’, ‘medical reasons’ and other ‘special cases’. Such permits are renewable and allow the holder to work but – differently from the humanitarian residence permit – they cannot be converted into a work permit when the circumstances for which they were issued cease to exist. Only in the event that the foreigner has accomplished exceptional civil acts, whose nature is not further specified, the person – at the discretion the Minister of the Interior – can be issued a residence permit lasting two years.

      A final important amendment contained in article 1 of the Decree is related to those persons who are already beneficiaries of humanitarian residence permits at the time in which the Decree enters into force: their permits will not be renewable anymore on humanitarian grounds, even if the circumstances for which the permit was granted in the first place still exist. Therefore, unless the beneficiary is granted a conversion of her humanitarian permit into a work or study permit, or she falls under the new special cases listed in the decree law, she will find herself in an irregular situation and will risk being returned.

      The abrogation of the ‘humanitarian’ residence permit is of particular concern as, since its creation in 1998, it has been an important legal instrument allowing to protect and regularise all third-country nationals who could not be returned to a third country. Suffice it to say that, in 2017 only, Italy has granted 20,166 residence permits on ‘humanitarian’ grounds, whereas only 6,827 persons were granted asylum and 6,880 subsidiary protection. To counter this trend, last July, the Minister of the Interior had already sent a letter to all administrative authorities involved in the asylum procedure, requesting them to adopt a stricter approach when granting protection on humanitarian grounds. Such decision has been justified with the rationale of conforming Italy to European standards, which do not provide for this third form of protection. Arguably, even if humanitarian protection is not harmonised at the EU level under the Qualification Directive, there are obligations imposed on all Member States by international refugee law and human rights law that prevent them from returning third-country nationals under certain circumstances. Looking at the practice of EU-28 Member States, in the course of 2017, 63 thousand asylum seekers were given authorisation to stay for humanitarian reasons under national law. This number could be even higher as it only encompasses first instance decisions for those persons who have been previously reported as asylum applicants, and does not take into account those who have been granted a permission to stay for humanitarian reasons without having lodged an asylum application.

      Moreover, the abrogation of humanitarian protection is likely to open a protection gap under article 10 paragraph 3 of the Italian Constitution. As noted by the Italian Association for Juridical Studies on Immigration (ASGI), the substitution of humanitarian protection with a restricted list of ‘special’ residence permits, means that the right to asylum set out by the Constitution is ‘no longer fully implemented by the legislator’. This could open the possibility to bring legal actions to ascertain the right of asylum guaranteed by article 10 – which can be invoked directly in front of an ordinary court even in the absence of implementing legislation – or raise questions of constitutionality.

      1.2 Making returns more effective

      The second part of the first Chapter of the Decree-Law focuses on improving returns and facilitating the return of third-country nationals in an irregular situation. In order to achieve these objectives, article 2 of the Decree extends the maximum duration of the foreigner’s detention in return centres from 90 to 180 days. Article 4 further foresees that, in case the reception capacity of pre-removal centres is exhausted and prior to authorization of a judicial authority, foreigners may also be held in other ‘appropriate facilities’ and in border offices. In addition, article 3 of the new Decree-Law modifies the Decree Implementing the Reception Conditions Directive and the Procedures Directive (Decree-Law 18 August 2015, n. 142), by expanding grounds for detention in hotspots. Thus, foreigners who have been found in an irregular situation on the national territory or rescued during search and rescue operations at sea may be subject to detention in order to determine their identity and nationality. The maximum duration of detention is set to 30 days. In case it is impossible to verify such information, the person concerned can be transferred in a return center for a maximum of 180 days. Finally, article 6 increments the funding for returns, providing for the re-allocation of 3,5 million euros between 2018 and 2020. These funds – originally provided for assisted voluntary return and reintegration – will now be allocated to facilitate not further described ‘return measures’.

      Even if the possibility to detain applicants for international protection in order to ascertain their identity and nationality is provided for in the Reception Conditions Directive, deprivation of liberty in such cases could be inconsistent with international refugee law read in conjunction with the Italian Constitution. According to ASGI, provisions connected to the deprivation of liberty in order to verify the identity and nationality are in violation of article 31 of the 1951 Geneva Convention and of article 13 of the Italian Constitution. In fact, since it is common to almost all asylum seekers not to possess valid documents proving their identity, such circumstances would not be proportionate to the ‘conditions of necessity and urgency’ required by article 13 of the Constitution to deprive someone of their liberty without judicial authorization. That been said, the debate on the lack of documentation to prove asylum seekers’ identity is likely to be of interest in the near future, as it is also fuelled by the European Commission recent proposal for a recast of the Return Directive, where the lack of documentation is included among the criteria establishing the existence of a risk of absconding to avoid return procedures.

      2. Provisions on international protection

      2.1 Provisions on asylum seekers who committed serious crimes

      The second chapter of the new Decree reforms, with a restrictive turn, the rules on the revocation of and exclusion from international protection. Article 7 extends the list of crimes that, in case of final conviction amount to the exclusion from or to the revocation of international protection. These include: production, trafficking and possession of drugs; injuries or threats made to officers in performance of their duties; serious personal injury offence; female genital mutilation; robbery, extortion, burglary and theft, if compounded by the possession of weapons or drugs; slavery; exploitation of child prostitution.

      Furthermore, article 10 of the new Decree introduces an accelerated procedure in the event that an asylum seeker is convicted – even prior to a final sentence – for one of the above-mentioned criminal offences and for the other serious crimes amounting to the exclusion from international protection already provided for in articles 12 and 16 Decree 251/2017. Thus, when the applicant is convicted in first instance, the Territorial Commissions for the Recognition of International Protection has to immediately examine the asylum claim and take a decision. In case the decision of the Commission rejects the request for international protection, the applicant is required to leave the country, even if the person concerned lodges an appeal against the asylum decision.

      The Decree Law, by abrogating the suspensive effect of the appeal for a person who has been convicted in first instance arguably goes against article 27 of the Italian Constitution, which considers the defendant not guilty ‘until a final sentence has been passed.’ Moreover, pursuant Article 45 Asylum Procedure Directive, as a general rule Member States shall allow applicants to remain in the territory pending the outcome of the remedy. An exception might be allowed under article 46(6)(a) of the Asylum Procedures Directive, if the application is determined to be unfounded on grounds that the applicant is ‘for serious reasons’ considered to be a danger to the national security or public order of the Member State. However, article 46(6) also stipulates that even in such case there is no automatism and the decision whether or not the applicant may remain on the territory of the Member State should be taken by a court or tribunal. Therefore, insofar as the Decree provides for the automatic return of rejected asylum seekers pending an appeal, without a judicial decision authorising their removal, it is incompatible with the right to an effective remedy provided for by the Procedures Directive and enshrined in article 47 of the EU Charter of Fundamental Rights.

      In any instance, the return of a person – regardless of the fact that she may have committed a crime – cannot be performed when the individual concerned is at risk of refoulement as defined by article 3 of the European Convention on Human Rights and Article 19 of the Charter of Fundamental Rights. As follows from the jurisprudence of the European Court of Human Rights (ECtHR), the prohibition of non-refoulement has an absolute character. The conduct of the person is irrelevant and even the involvement in serious crimes, such as terrorism, does not affect the prohibition to return individuals to states in which they faced a risk of torture, inhuman or degrading treatment (see ECtHR judgements in Saadi, Chahal, and Soering).

      2.2 Provisions on subsequent applications and border procedures

      Article 9 of the Decree implements into Italian legislation some restrictive provisions on subsequent applications that are allowed under the Asylum Procedures Directive (APD) but that had so far been regulated in a more favourable manner.

      First of all, the Decree provides for new grounds of exclusion from the right to remain in the Italian territory, following almost verbatim the exception from the right to remain contained in article 41 of the APD. This includes all persons who have lodged a first subsequent application merely in order to delay or frustrate the enforcement of a decision which would result in their imminent removal, or make another subsequent application after their first subsequent application has been considered inadmissible or unfounded.

      Secondly, article 9 establishes new rules on accelerated procedures for applicants who have introduced a subsequent application for international protection without new elements or findings supporting their claim. In case that the applicant was stopped following an attempt to elude border controls, this procedure also applies in border or transit zones. This is a novelty in Italian law, that until now did not provide for the possibility of carrying out the evaluation of an asylum claim at the border. According to the explanatory note to the Decree, this amendment follows the rationale of article 31(8)(g) APD. This article, however, provides for the possibility to apply accelerated and border procedure in case an application is lodged to avoid an earlier removal decision – which appears to be a stricter ground than the one provided for by the Italian decree.

      Also, the Decree sets out a new ground for the inadmissibility of an asylum application: a subsequent application is inadmissible if it is lodged to prevent the enforcement of a decision which would result in her imminent removal and it shall be dismissed without being further examined. This is not consistent with article 40 APD, which provides at least for a preliminary examination on the presence of new elements substantiating the asylum claim.

      Lastly, following the definitions of article 41 APD APD, the Decree limits the suspensive effect of appeals lodged in two circumstances. First, by all persons who have lodged a first subsequent application to delay the enforcement of a decision which would result in his or her imminent removal. Second, by asylum seekers whose application has been considered inadmissible as a subsequent application where no new elements or findings have arisen or have been presented by the applicant, whilst prior to the entry into force of the Decree-Law this only happened when an application was assessed as inadmissible for the second time.

      2.3 Reception conditions for asylum seekers

      One of the most discussed provisions of the Decree on immigration concerns the reception of asylum seekers, which undergoes substantive changes. The decree de facto abrogates the possibility for asylum seekers to access reception provided under the System for the Protection of Asylum Seekers and Refugees (SPRAR). The system, operated by local institutions, in cooperation with non-governmental and voluntary organizations, had not only the aim to provide basic reception but also to favour the social integration of asylum seekers and beneficiaries of protection. With the amendments introduced by article 12 of the new decree, only already recognized refugees and beneficiaries of subsidiary protection, as well as unaccompanied minors, will be granted accommodation within the SPRAR. Asylum seekers will, therefore, be only hosted in collective reception centres (CARA, CDA). In case of unavailability of places, applicants can also be hosted in temporary reception centres (CAS) where, according to the law, only basic levels of reception conditions have to be met.

      These amendments fail to take into account the pre-existent structure of the Italian reception system. As a matter of law, the SPRAR was the only durable solution provided for asylum seekers, while the other types of reception centres have been designed only for initial or temporary reception (see articles 9 and 11 of the Decree implementing the Reception Conditions Directive). Considering the length of asylum procedures in the country, asylum seekers will be left with no alternative than remaining for months (or in some cases even years) in facilities which are often inadequate in terms of both capacity and structural and safety conditions.

      This decision is of great concern as it is likely to put further strain on the Italian reception system, which already has a record of not providing an adequate standard of reception conditions to asylum applicants – as recognised in 2014 by the European Court of Human Rights. More recently, a Dutch court annulled a transfer to Italy pointing out that the new Decree raises questions about the structural deficiencies in the Italian reception system, in particular as it restricts access to adequate reception conditions to vulnerable asylum seekers.

      Final remarks

      Whilst the number of arrivals to Italy is at the lowest level registered in the past few years, the phenomenon of migration has reached the dimension of an emergency in the internal public debate, with the Decree-Law on Immigration and Security representing a major downturn in the architecture of the Italian system of protection.

      The implementation of further grounds for exclusion and withdrawal of protection, the reduction of procedural guarantees, and the general restrictive approach on the rights of migrants and asylum seekers adopted in the Decree generate serious concerns. Above all, some of the provisions contained in the Decree may entail a risk of violation of the principle of non–refoulement, which is not only a cornerstone of the international refugee regime but also a fundamental guarantee that protects all human beings from being subject to torture, inhuman or degrading treatment. What is more, some of the changes introduced with the Decree might have far-reaching practical consequences on the rights of the migrants who are already present or will arrive in the country. In particular, the repeal of ‘humanitarian’ residence permits, which have been widely used in the past years, is likely to have the unintended side-effect of increasing the number of migrants who will find themselves in an irregular situation. The new bill has been presented by the Interior Minister Matteo Salvini as ‘a step forward to make Italy safer’ – however it will arguably increase the number of cases of destitution, vulnerability, and exploitation.

      It remains to be seen whether the Parliament will confirm the text of the Decree when ultimately converting it into law. However, considering that the time for discussion is limited (60 days only) it is doubtful that the bill will undergo substantial improvement. Also, as the Decree has become one of the flagship measures of the current Government, it is unlikely that it will be repealed in toto. The choice itself of the Government to use a decree having force of law – rather than of the ordinary legislative procedure – does not seem to stem from a situation of ‘obvious necessity and urgency’ as provided for by the Constitution. Rather, it appears to be a shortcut to obtain immediate results on matters where it is difficult to achieve political consensus through democratic debate. Against this backdrop, the new bill on Immigration and Security – with questionable democratic legitimacy – restricts the rights of asylum seekers and people displaced, making protection increasingly inaccessible.

      http://eumigrationlawblog.eu/beyond-closed-ports-the-new-italian-decree-law-on-immigration-and

    • Decreto immigrazione, le brutte novità nascoste sotto la fiducia

      Il governo ha presentato in aula un “emendamento interamente sostitutivo” del testo finora discusso. La “sorpresa” sono elementi di gran lunga più restrittivi in tema di diritto d’asilo. Tra questi, la nozione di “Paesi di origine sicuri”, un “cavallo di Troia” per smontare il sistema della protezione internazionale, come denunciano studiosi dell’Asgi

      Con 163 voti a favore e 59 contrari, il 7 novembre il Senato della Repubblica ha approvato la fiducia al cosiddetto “decreto sicurezza e immigrazione” promosso in particolare dal ministro dell’Interno Matteo Salvini. Il testo votato da Palazzo Madama e inviato alla Camera, però, è stato modificato rispetto all’originario attraverso un “emendamento interamente sostitutivo” del Ddl (il numero 1.900), sulla cui approvazione il Governo aveva appunto posto la questione di fiducia 24 ore prima. Non si è trattato di interventi meramente formali quanto invece profondamente sostanziali. Tanto da non lasciare praticamente più nulla del precedente sistema di asilo, incardinato al principio costituzionale che all’articolo 10 della Carta riconosce quella tutela allo “straniero al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana”.

      Le 28 pagine di modifiche e integrazioni avanzate dall’esecutivo, secondo Gianfranco Schiavone, vicepresidente dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi, www.asgi.it), assumono infatti la forma di un “cavallo di Troia” -blindato dalla fiducia- utile a “introdurre novità di taglio iper restrittivo che nella prima versione del decreto non c’erano”. Creando così un provvedimento che è un “vero e proprio mostro”, senza peraltro dare troppo nell’occhio.
      Alla già nota abrogazione della protezione umanitaria, allo stravolgimento dell’ex Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR), alle illegittimità costituzionali già evidenziate nelle scorse settimane dall’Asgi, si aggiungono nuovi elementi preoccupanti.

      Schiavone ha il testo del maxi emendamento del governo sotto mano e scorre alle introdotte “Disposizioni in materia di Paesi di origine sicuri e manifesta infondatezza della domanda di protezione internazionale”.
      Il primo punto riguarda i “Paesi di origine sicuri”, il caso cioè di uno “Stato non appartenente all’Unione europea” che stando al nuovo articolato potrà “essere considerato Paese di origine sicuro se, sulla base del suo ordinamento giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che, in via generale e costante, non sussistono atti di persecuzione […] né tortura o altre forme di pena o trattamento inumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. La designazione di un Paese di origine sicuro può essere fatta con l’eccezione di parti del territorio o di categorie di persone”.

      Per “accertare” che uno Stato sia o meno “di origine sicuro” ed eventualmente iscriverlo nell’elenco adottato per decreto dal ministro degli Esteri (“Di concerto con i Ministri dell’Interno e della Giustizia) ci si dovrà basare “sulle informazioni fornite dalla Commissione nazionale per il diritto di asilo”. La domanda di protezione del richiedente proveniente da quel Paese verrà sì esaminata ma, se rigettata sarà “considerata manifestamente infondata”.

      “Dove è stata introdotta, la nozione di Paese di origine sicuro, che le direttive europee prevedono quale misura normativa solo facoltativa per gli Stati -riflette Schiavone- ha sempre prodotto gravissimi problemi poiché le domande di protezione sono per definizione individuali ovvero legate alla condizione specifica di un richiedente. Esaminare invece una domanda ritenendo già che un Paese di origine sia ‘sicuro’ crea una situazione di pregiudizio sostanziale nell’esame della domanda stessa e dà ampi margini per l’esercizio di un’influenza politica molto forte del potere esecutivo sull’organo di valutazione”. Ciò vale soprattutto per l’Italia oggi. Perché? “Perché chi stabilisce che il Paese di origine sia ‘sicuro’ sarà di fatto la Commissione nazionale per il diritto d’asilo, che non è organo amministrativo indipendente ed è fortemente connesso per composizione e struttura organizzativa al potere politico”. Tradotto: il Governo di turno potrà decidere che un Paese venga considerato di “origine sicuro” con obiettivi di carattere politico che nulla hanno a che fare con le domande di protezione. Schiavone pensa a casi come il Bangladesh, la Tunisia, il Senegal e così via.
      Il rigetto della domanda per manifesta infondatezza comporta un forte indebolimento della tutela giurisdizionale -continua Schiavone- poiché il ricorso ha tempi di impugnazione più brevi e non c’è un’automatica sospensiva durante il contenzioso. Molte ragioni mi inducono a pensare, anche se ancora a caldo e riservandomi approfondimenti -conclude lo studioso- che la nozione di ‘Paese di origine sicuro’ sia del tutto estranea alla nozione di asilo delineata dalla nostra Costituzione”.

      Tra le altre “novità” rispetto all’originario “decreto Salvini” c’è poi quella della cosiddetta “protezione interna” nel Paese terzo di provenienza del richiedente. “Se in una parte del territorio del Paese di origine, il richiedente non ha fondati motivi di temere di essere perseguitato o non corre rischi effettivi di subire danni gravi o ha accesso alla protezione contro persecuzioni o danni gravi e può legalmente e senza pericolo recarvisi ed essere ammesso e si può ragionevolmente supporre che vi si ristabilisca”, la sua domanda di protezione è “rigettata”. “Anche su questa norma, del tutto facoltativa nel diritto dell’Unione e che l’Italia, fin dal 2008, con saggezza, aveva evitato sono molti i dubbi di conformità rispetto all’articolo 10 della nostra Costituzione -riflette Schiavone-. È possibile segmentare un Paese in aree, evidenziando peraltro una situazione che è già di grande instabilità, visto che un Paese è diviso in due o più parti?. Cosa vuol dire in concreto che è ragionevole supporre che la persona si trasferisca nell’area del Paese considerata sicura? Quali i parametri di valutazione? È sufficiente solo la mancanza di rischio o è necessario che alla persona venga fornita una protezione effettiva e una assistenza materiale? La norma, genericissima, non fornisce alcuna risposta”. Ciò che è chiaro è che è scontata la tendenza, come ribadisce il vicepresidente Asgi, di considerare l’asilo come fosse una sorta di “extrema ratio” cui ricorrere quando nessuna altra soluzione, anche precaria e parziale all’interno di quel Paese sia possibile. “Che cosa ha a che fare tutto ciò con il diritto all’asilo garantito dalla Costituzione a coloro cui sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche? La distanza è abissale”.
      Utilizzare la nozione di area interna sicura nel Paese di origine è solo un altro modo per respingere domande di asilo che tradizionalmente vengono accolte. “Pensiamo al caso dei cittadini afghani o iracheni e riteniamo per l’appunto che le persone possano spostarsi in una presunta ‘area sicura’ del Paese. Quanto è sicura? Come si valuta? Per quanto tempo? Che tipo di stabilità e assistenza deve provvedere ad assicurare lo Stato allo sfollato interno? Domande che rimangono senza risposta”.

      Accanto al tema dei “Paesi di origine sicuri” e delle zone di “protezione interna”, il maxi emendamento interviene -come già il decreto 113- a proposito di cittadinanza. L’avvocato Livio Neri, socio di Asgi, elenca brevemente alcune delle misure del decreto legge governativo. “C’è l’aumento del contributo da versare per presentare ‘istanze o dichiarazioni di elezione, acquisto, riacquisto, rinuncia o concessione della cittadinanza’, che passa da 200 a 250 euro. C’è l’incredibile allungamento del ‘termine di definizione dei procedimenti’, da 24 a 48 mesi dalla data di presentazione della domanda. E c’è il brutto precedente della ‘revoca’ della cittadinanza prevista in caso di condanna definitiva per gravi reati”. Precedente che creerà peraltro nuova apolidia, dal momento che -come fa notare Neri- la norma così come è scritta (ed è rimasta) non prevede la circostanza che dopo la revoca sorga appunto una condizione di apolidia per l’interessato ed è perciò in contrasto con la Convenzione di New York sulla materia.

      L’emendamento del governo aggiunge a questi (e altri) elementi un termine di sei mesi per il rilascio di estratti e certificati di stato civile “occorrenti ai fini del riconoscimento della cittadinanza italiana”, che significa secondo Neri “che lo stesso documento (ad esempio il certificato di nascita di un congiunto, ndr) ha termini diversi a seconda di chi lo richiede”. E pone poi come condizione necessaria alla “concessione della cittadinanza” il “possesso, da parte dell’interessato, di un’adeguata conoscenza della lingua italiana, non inferiore al livello B1 del Quadro comune europeo di riferimento per le lingue (QCER)”, salvo per chi abbia sottoscritto l’accordo di integrazione o sia titolare di permesso di soggiorno Ue per “soggiornanti di lungo periodo”. “Questa previsione -commenta amaramente Neri- avrà un durissimo impatto sulle persone con minori strumenti culturali a disposizione e che per questo non saranno riusciti a imparare l’italiano”.

      https://altreconomia.it/decreto-immigrazione-novita

    • What will change for migrants under Italy’s new immigration and security decree?

      As the decree passed the Senate, Italy’s upper house, Matteo Salvini tweeted it was an “historic day.” The decree still needs to pass the lower house by the end of November before it is enshrined in law. At the moment, that looks likely, so what will change for migrants if it is passed?

      Like all decrees, Italy’s new security and immigration decree is composed of many complicated clauses and paragraphs. In short, it is intended to regulate immigration and public security. It has been pushed by Italy’s deputy prime minister and Minister of the Interior, Matteo Salvini, who is also leader of the anti-immigration party, La Lega (The Northern League).

      Essentially, it will change the laws under which foreign migrants have been staying in the country since 1998. It is set to repeal the right to stay for humanitarian reasons. “Humanitarian protection” is a lower level of asylum status that is based on Italian rather than international law. Up until now, this right has been conceded for up to two years on serious humanitarian grounds and allowed migrants and refugees to access the job market, health services and social welfare.

      The new decree will take this catch-all definition ’on humanitarian grounds’ away in favor of six new specific categories which applicants will need to fulfill. Has the applicant been smuggled or exploited? Are they subject to domestic violence? Do they need specific medical attention? Was there some kind of calamity in their country of origin or have they contributed in a special way to Italian civil society which would merit a right to stay?

      Article two of the law doubles the length of time that migrants can be kept in repatriation centers whilst their cases are looked at. It will allow the authorities to build more centers too. Repatriations are expected to increase with more money being assigned to making sure they happen; three and a half million euros in total up to 2020.

      Revoking refugee status

      There will be a longer list of crimes that, if committed will lead to a refugee being refused asylum or having their refugee status revoked. The crimes include murder, armed robbery, extortion, violence towards public officials, people found to be practicing genital mutilation, armed theft and burglary, possession of drugs, slavery, sexual violence or kidnapping. Anyone found guilty of terrorist acts or trying to overturn the constitution provides another reason for expulsion under the new law.

      The new decree is expected to weaken the SPRAR networks which were set up to protect refugees and asylum seekers in 2002. Only unaccompanied migrants and those who qualify for international protection will come under the future auspices of SPRAR. Everyone else will be sent to ’welcome centers’ or CARA (Welcome center for those requesting asylum). Social cooperatives assigned asylum seekers and migrants will be required to report to the authorities every three months with a list of people that they support. The decree is also expected to slash the budget assigned for food and lodging for migrants in CARA centers from 30 euros per person per day to 15 euros.

      Anyone who marries an Italian will now have to wait four years instead of the current two before applying for citizenship. In addition, like in Germany, migrants hoping to remain in Italy will be required to pass a B1 language test.

      Jubilation and condemnation

      Matteo Salvini was pictured looking jubilant as the decree was passed by the Senate with 163 votes to 59. Not everyone was happy though. Roberto Saviano, an anti-Mafia writer who opposes the current Italian government called the decree “criminal” saying it was “self harming, [and] suicidal.” He pointed out that it would be impossible to repatriate more than 500,000 migrants without papers who are currently present in the country. “Much better,” he said “give them papers and allow them to work and pay taxes to the state.” He said the law would only serve to increase the number of “irregular migrants” in the country feeding organized crime networks.

      The Democratic Party (PD) leader in the Senate, Andrea Marcucci contests the decree too. He was quoted in the left-leaning daily newspaper, La Repubblica, saying it “creates insecurity, not security and would make 100s of thousands more migrants clandestine in Italy.” He concluded: “This is a decree against Italy, against Italians and against security.”

      Salvini disagrees. In interviews prior to the Senate vote, he said that the decree was not just about immigration but increasing security for everyone in Italy. “It’s about strengthening the anti-mafia organizations and anti-racket laws. It will make everything more serious and rigorous. […] It is a decree which will bring more money and power to the police, to mayors; will introduce more surveillance cameras.” He added that once the law has passed, he will be looking to reform the justice system too. That way, cases dragging on for years, until they enter proscription, will be a thing of the past.

      The decree is scheduled to be put before the lower house on the November 22. With the Five Star Movement and the League holding a majority there too, (along with other right-leaning parties like Forza Italia and Fratelli D’Italia,) it is expected to pass without too many problems and enter law before the end of the year.


      http://www.infomigrants.net/en/post/13210/what-will-change-for-migrants-under-italy-s-new-immigration-and-securi

    • Message de Sara Prestianni, via la mailing-list Migreurop, 28.11.2018:

      Hier la Chambre des Deputé- avec un vote blindé de confiance - a approuvé le DL sécurité migration.
      Le #vote_de_confiance a permis au Gouvernement de le faire passer en toute vitesse et de balayer tout tentatif de l’opposition de faire des amendements qui pouvaient limiter les déjà tragiques dégâts.
      Nombreuses les déclaration préoccupé et les mobilisation des associations italiennes pour cette loi de la honte

      Ici le CP publié par ARCI -> Le secret loi immigration et sécurité est loi : Injustice est fait : https://www.arci.it/il-ddl-sicurezza-e-immigrazione-e-legge-ingiustizia-e-fatta

      où nous expliquons nos inquiétudes face aux dégâts sociaux d’une loi qui ne fera que créer encore plus de personnes sans documents qui seront exclu du système d’accueil en les rendant encore plus exploitables. Un énième, tragique, étape vers la violation systématique des droits de migrants et réfugiés.

      Ici les principaux changement dans le système italien (sorry only in FR) dont beaucoup intéressent les thématiques de travail du réseau :

      1- Abolition de la “#protection_humanitaire
      La protection humanitaire avait été introduit en 1998 et était attribué pour “serieux motivation de caractère humanitaire ou dérivant de obligation constitutionnels ou internationales de l’Etat Italien ; à ceux qui fuyaient des conflits, désastres naturels ou situations de particulières gravité dans les pays d’origine ou encore ceux qui ne pouvaient pas être expulsés ou encore à victime de traite ou autre type d’exploitation. En 2017 ont été présenté 130 000 demandes de protection en Italie : le 52% a été rejeté. Dans le 25% des cas a été attribué une protection humanitaire ; le 8% ont obtenu un statut de réfugié et un autre 8% la protection subsidiaire. Le 7% a obtenu un autre type de protection.
      Cela veut dire que ce permis ne sera plus donné mais aussi que ceux qui l’ont obtenu ne le pourront plus renouveler
      A sa place cette nouvelle loi a intégré un titre de séjour pour “#cas_spéciaux” : victimes de #violences_domestiques ou grave #exploitation du #travail ou pour des #raisons_médicales ou qui s’est distingué pour “actes de particulier valeur civile”. Ce permis aura une durée de deux ans et ne pourra pas être renouveler

      – Prolongation de la durée de détention dans les #CPR (centre pour le retour -> les cra italiens) -> Aujourd’hui les migrants peuvent être enfermé pour un max de 90 jours. La nouvelle loi prolonge la durée maximale de détention à 180 jours.

      – Permanence dans les #hotspot et points de frontière -> Selon l’article 3 de la nouvelle loi les demandeurs d’asile peuvent être enfermés pour une période de max 30 jours dans les hotspot et structure de “premier accueil” (#Cas et #Cara) pour l’identification. Si dans les 30 jours n’a pas été possible proceder à l’identification aussi les demandeurs d’asile pourront être enfermés dans un CPR pour 180 jours. De cette façon un demandeur d’asile pour être enfermé pour 210 jours pour vérifier et déterminer son identité. Cela sera aussi appliqué aux mineurs en famille.
      De plus est prévu que le juge de paix puisse valider la détention en “#locaux_adaptes” auprès les bureau de frontière jusqu’à’ l’expulsion pour max 48 heures.

      – Plus de fonds pour les expulsions -> A l’article 6 a été prévu un augmentation du budget pour les #expulsions : 500 000 euro en 2018 ; 1,5 million euro en 2019 et autre 1.5 millions en 2020.

      – Retrait ou refus de la protection international en cas de condamnation pour menaces ou violences à officiers public ; lésions personales graves ou vol

      – Ceux qui sont en procedure penale (meme si pas condamné en voi definitive verront leur demande d’asile analysé en procedure accelleré

      – Listes des pays sures -> La loi prévoit l’institution d’une liste de pays d’origine sure et la procedure de demande de protection internationale manifestement infondé. La liste sera stilé par le Ministere des Affaires Etrangers avec le Ministere de l’Interieur et de la Justice sur la base des info fournies par la Commissione Nationales du Droit d’Asile et les agences européennes et internationales. Les demandeurs d’asile en provenance d’un pays present dans la liste des pays sures devrait démontrer de avoir graves motivation qui justifient sa demande et elle sera analyse en procedure accellerée.

      – Restriction du système d’accueil -> Le système d’accueil pour demandeurs d’asile et réfugié (#SPRAR) - le système ordinaire géré par les mairies - sera limité à ceux qui sont déjà titulaire de protection internationales et aux mineurs isolés. Les autres demandeurs seront accueilli dans les CAS et CARA (en parallele le Gouvernement a annoncé une diminution des fonds pour demandeurs d’asile par jour de 35 à 19 euro rendent ainsi impossible donner aucun type de service - juridiques, sociale, intégration et psychologique - dans le parcours d’accueil)

      #pays_sûr #rétention #détention_administrative

    • L’Italie adopte la loi anti-migrants de Matteo Salvini

      Ce texte durcit la politique italienne en matière d’immigration, remplaçant les permis de séjour humanitaires par d’autres permis plus courts.

      L’Italie a adopté mercredi un décret-loi controversé durcissant sa politique d’immigration, voulu par Matteo Salvini, ministre de l’Intérieur et chef de la Ligue (extrême droite). La Chambre des députés a adopté le texte - après le Sénat début novembre et dans les mêmes termes - par 396 oui contre 99 non.

      Le gouvernement populiste formé par la Ligue et le Mouvement 5 Etoiles (M5S, antisystème) avait posé la question de confiance dans les deux chambres sur ce décret-loi. Quatorze députés du M5S n’ont pas pris part au vote mercredi.

      Le texte durcit la politique italienne en matière d’immigration. Il remplace en particulier les permis de séjour humanitaires, actuellement octroyés à 25% des demandeurs d’asile et d’une durée de deux ans, par divers autres permis, comme « protection spéciale », d’une durée d’un an, ou « catastrophe naturelle dans le pays d’origine », d’une durée de six mois, entre autres.
      Refus de signer le pacte de l’ONU sur les migrations

      Il prévoit une procédure d’urgence afin de pouvoir expulser tout demandeur se montrant « dangereux ». Il réorganise aussi le système d’accueil des demandeurs d’asile, qui étaient encore 146 000 fin octobre et seront regroupés dans de grands centres par mesures d’économies. Dans le volet sécurité, il généralise l’utilisation des pistolets électriques et facilite l’évacuation des bâtiments occupés.

      Le gouvernement italien a annoncé mercredi qu’il ne signerait pas le pacte de l’ONU sur les migrations (Global Compact for Migration) comme s’y était engagé en 2016 le précédent exécutif de centre-gauche dirigé à l’époque par Matteo Renzi.

      Le gouvernement ne participera pas au sommet prévu les 10 et 11 décembre à Marrakech où doit être définitivement adopté ce pacte « se réservant d’adhérer ou non au document seulement une fois que le parlement se sera prononcé », a déclaré le président du Conseil Giuseppe Conte. Non contraignant, ce texte de 25 pages, premier du genre sur ce sujet, vise à réguler les flux migratoires au plan mondial.

      https://www.letemps.ch/monde/litalie-adopte-loi-antimigrants-matteo-salvini

    • Il decreto immigrazione è legge: cambierà in peggio la vita di migliaia di persone.

      Con il voto di fiducia di ieri alla Camera, il decreto immigrazione è stato convertito in legge. Refugees Welcome Italia esprime nuovamente la propria contrarietà ad un provvedimento che cambia, in negativo, la vita di migliaia di persone, rendendole ancora più vulnerabili ed esponendole al rischio di vivere ai margini della società. Come già ribadito, lontano dal garantire “l’ordine e la sicurezza pubblica”, questo decreto va nella direzione opposta, acuendo il disagio sociale e aumentando l’insicurezza per tutta la popolazione, migrante e italiana, con pesanti ricadute anche sulla coesione sociale. Secondo alcune stime, la sola abolizione della protezione umanitaria – un permesso di soggiorno che lo Stato italiano riconosce a coloro che, pur non avendo i requisiti per ottenere la protezione internazionale, presentano comunque delle vulnerabilità tali da richiedere una forma di tutela – produrrà 60 mila nuovi irregolari nei prossimi due anni. Migliaia di nuovi senza tetto, persone senza diritti, che rischiano di diventare facile preda di sfruttamento e criminalità.
      “Un decreto di tale portata avrebbe meritato una discussione approfondita, in fase di approvazione, per tentare almeno di introdurre qualche miglioria, invece il testo è passato con la fiducia”, sottolinea Fabiana Musicco, presidente dell’associazione. “A pagare il prezzo di questo nuovo assetto normativo saranno, ad esempio, migliaia di ragazzi arrivati in Italia da minori soli che sono prossimi a compiere 18 anni. Molti di loro hanno fatto richiesta di asilo e qualora ricevessero un diniego di protezione internazionale, una volta diventati maggiorenni, non avrebbero alcun titolo per rimanere in modo regolare in Italia. Per non parlare dei tanti neo-maggiorenni che hanno già ottenuto la protezione umanitaria e che, non potendo accedere al sistema Sprar a causa del decreto, non hanno un posto dove andare. In questo ultimo mese ci sono arrivate diverse segnalazioni di ragazzi in questa situazione: diciottenni che si sono iscritti sul nostro sito per chiedere di essere ospitati in famiglia e proseguire il loro percorso di inclusione. Il rischio, per loro, è che finiscano per strada”.
      Oltre all’abolizione della protezione umanitaria, sono tante altre le misure discutibili che incideranno negativamente sull’architettura del sistema di accoglienza in Italia. Invece di potenziare l’accoglienza diffusa gestita dagli enti locali, che ha favorito, in questi anni, reali processi di inclusione per richiedenti asilo e titolari di protezione, si è scelto, con questo decreto, di rafforzare la logica emergenziale dei grandi centri che, oltre a non garantire alcuna integrazione, genera spesso, a causa dei pochi controlli, abusi e malversazioni. “Molte disposizioni del decreto, oltre a ridurre lo spazio di esercizio di alcuni diritti fondamentali, come quello all’asilo, sono contrarie al buon senso e renderanno il nostro Paese un posto meno sicuro per tutti, migranti e italiani”.

      https://refugees-welcome.it/decreto-immigrazione-legge-cambiera-peggio-la-vita-migliaia-persone

    • Azzariti: «Il Decreto sicurezza sarà bocciato dalla Consulta»

      Il costituzionalista critica il decreto Salvini votato al Senato, non celando la speranza che alla Camera venga modificato

      «Innanzitutto il provvedimento impressiona per il segno culturalmente regressivo perché appiattisce l’immigrazione ad un problema di esclusiva sicurezza pubblica: dalla legge Bossi Fini in poi c’è una progressione in questo senso di criminalizzazione del problema migratorio». Il costituzionalista Gaetano Azzariti critica il decreto Salvini votato al Senato, non celando la speranza che alla Camera venga modificato: «Così com’è è una summa di incostituzionalità, auspico si intervenga per cambiarlo in Parlamento».

      Professore, perché il decreto sicurezza sarebbe incostituzionale? Ci vuole spiegare le ragioni?
      Penso di peggio: nel testo ci sono una summa di incostituzionalità. Dallo strumento utilizzato, il decreto legge, al contenuto del provvedimento che va in conflitto coi principi della nostra Carta.

      Lei critica la formula del decreto perché dice che in questo momento non esiste un’emergenza tale da giustificare un provvedimento simile? Però posso ribattere, facendo l’avvocato del diavolo, che da anni è prassi che i nostri governi adottino la formula del decreto esautorando il Parlamento…
      C’è una sentenza della Corte Costituzionale del 2007 che ci spiega come non sia sufficiente che il governo dichiari la necessità di urgenza per emanare un decreto. Illegittimo è quindi l’uso del decreto legge per regolare fenomeni – quali le migrazioni – di natura strutturale che non rivestono alcun carattere di straordinarietà ed urgenza. In questo caso la palese mancanza dei requisiti costituzionali è dimostrata dal fatto di cui il governo si vanta di aver ridotto dell’80 per cento il problema dell’immigrazione. E allora non le sembra una contraddizione logica dichiarare l’emergenza quando lo stesso governo festeggia per i risultati ottenuti? Il governo ha pieno diritto di legiferare in materia, anche secondo il principio di contenimento dei flussi, ma tramite un disegno di legge.

      Al di là, quindi, della formula del decreto che lei reputa inopportuna, entrando nel merito, quali sono gli articoli della Costituzione che vengono violati?
      In primis, l’articolo 10 terzo comma stabilisce un diritto fondamentale che riguarda non i cittadini ma gli stranieri. A questi viene assegnato la possibilità di chiedere asilo politico allo Stato italiano. La stessa Cassazione, con diverse sentenze emesse dal 2012 al 2018, e le disposizioni internazionali ci parlano di permessi per “protezione umanitaria” come mezzi di attuazione della disposizione costituzionale. Bene, col decreto si passa all’eliminazione totale di questo status: la protezione umanitaria viene abrogata e sostituita da ipotesi specifiche. Cos’è questa se non una violazione dell’articolo 10 della nostra Carta?

      E che ne pensa della sospensione della concessione della domanda se si è sottoposti a procedimento penale?
      La presunzione di non colpevolezza è un principio di civiltà che è sancito dall’articolo 27 della nostra Costituzione. E non si fa certo differenza tra cittadini e stranieri (si riferisce in generale all’«imputato»). C’è poco altro da aggiungere: una sospensione della concessione della domanda mi sembra chiaramente violativa di questo principio.

      Si parla anche di revoca della cittadinanza in caso di condanna, anche questo aspetto secondo lei è incostituzionale?
      Si afferma per legge che qualora l’immigrato riuscisse, dopo il lungo iter burocratico, ad ottenere la cittadinanza italiana, non sarà comunque mai considerato alla pari degli altri. Come se dovesse pagare per l’eternità una pecca originaria. Questo aspetto è in contrasto con due principi: quello d’eguaglianza, introducendo nel nostro ordinamento una irragionevole discriminazione tra cittadini, e contravvenendo all’espressa indicazione di divieto della perdita della cittadinanza per motivi politici (articoli 3 e 22).

      In pratica, persone che commettono lo stesso reato avrebbero sanzioni diverse?
      Esatto, chi ha acquisito la cittadinanza è penalizzato rispetto a chi la tiene per ius sanguinis. Inoltre l’articolo 22 della Carta stabilisce che non si può perdere la cittadinanza per motivi politici. Ma se vuole continuo, gli elementi di incostituzionalità sono ancora altri.

      Ce li dica…
      Il decreto sicurezza estende la cosiddetta detenzione amministrativa cioè l’obbligo di stare in questi centri di permanenza e di rimpatrio da 90 a 180 giorni. Qui abbiamo una giurisprudenza con zone d’ombra ma che su un punto è chiarissima: la sentenza 105 del 2001 della Corte Costituzionale stabilisce che “il trattamento dello straniero presso i centri di permanenza temporanea è misura incidente sulla libertà personale”. Il governo dovrebbe dimostrare che in questi luoghi non ci sia limitazione di libertà personale, la vedo difficile.

      E sul taglio degli Sprar che ne pensa?
      È una delle parti più odiose del decreto. Si cancella quella normativa che definiva le politiche di integrazione cercando di realizzare anche un altro principio fondamentale: quello di solidarietà (articolo 2 della Costituzione).

      A questo punto, crede veramente che il testo verrà migliorato alla Camera oppure teme che Lega e M5S abbiano blindato il provvedimento con il voto di fiducia?
      La speranza è l’ultima a morire. Non posso auspicare che questa maggioranza cambi idea sull’ordine pubblico o sul nesso immigrazione-sicurezza o che faccia un provvedimento che regoli i flussi. Qui il tema di discussione non è l’indirizzo politico del governo ma il rispetto della Carta e dei limiti costituzionali. Ricordo, inoltre, che il presidente della Repubblica quando ha firmato il decreto, ha anche scritto una lettera a Conte rilevando nell’auspicio del rispetto dei principi internazionali. Il Parlamento ha l’onore di prendere in considerazione almeno questi moniti.

      E nel caso, invece, rimanga così com’è ci sarebbe l’altolà della Consulta? È un’ipotesi realistica?
      Sono certo che se dovesse essere approvato in questi termini, magari con l’aggravante della mancanza della discussione in Parlamento, tutta l’attenzione non politica ma costituzionale si riverserà sui due guardiani della Costituzione. In primo luogo sul Capo dello Stato in sede di promulgazione – che dovrà in qualche modo verificare se il Parlamento ha tenuto conto dei rilievi da lui stesso formulati – e in secondo luogo sulla Corte Costituzionale.

      La sento abbastanza convinto sulla possibilità che la Consulta bocci alcune parti del provvedimento…
      Gli elementi di incostituzionalità di questo decreto mi sembrano abbastanza evidenti.

      http://www.vita.it/it/article/2018/11/22/azzariti-il-decreto-sicurezza-sara-bocciato-dalla-consulta/149839

    • Italien verschärft seine Einwanderungsgesetze drastisch

      In Italien hat Innenminister Salvini sein Einwanderungsdekret durchgesetzt. Die Vergabe von humanitären Aufenthaltsgenehmigungen wird eingeschränkt, die Ausweisung von Migranten erleichtert.

      Drei Wochen nach dem italienischen Senat hat auch die Abgeordnetenkammer das umstrittene Einwanderungsdekret von Innenminister Matteo Salvini angenommen.

      Durch das Gesetz wird

      – die Vergabe von humanitären Aufenthaltsgenehmigungen massiv eingeschränkt und
      – die Ausweisung von Migranten erleichtert.
      – Auch die Verteilung und Unterbringung von Asylbewerbern wird neu geregelt: Die meisten sollen künftig in großen Auffangzentren untergebracht werden.
      – Als „gefährlich“ eingeschätzte Asylbewerber sollen in Eilverfahren abgeschoben werden können.
      – Migranten, die bereits die italienische Staatsbürgerschaft haben, sollen diese wieder verlieren, wenn sie in Terrorverfahren verurteilt werden.
      – Als sicherheitspolitische Neuerung ist in dem Gesetz unter anderem vorgesehen, den Einsatz von Elektroschockpistolen auszuweiten und die Räumung besetzter Gebäude zu erleichtern.

      Die Regierung hatte in beiden Parlamentskammern die Vertrauensfrage gestellt, um die Gesetzesänderung zügig durchzubringen. Einige Parlamentarier der populistischen Fünf-Sterne-Bewegung, die zusammen mit Salvinis fremdfeindlicher Lega-Partei regiert, hatten aus Protest gegen die geplanten Verschärfungen Dutzende Änderungsanträge eingereicht.

      396 Abgeordnete stimmten schließlich für die drastische Verschärfung des Einwanderungsrechts, 99 votierten dagegen. 14 Abgeordnete der Fünf-Sterne-Bewegung, die sich gegen die Pläne ausgesprochen hatten, nahmen nicht an der Abstimmung teil.

      „Ein denkwürdiger Tag“

      Salvini äußerte sich angesichts des Ergebnisses zufrieden. „Heute ist ein denkwürdiger Tag“, sagte der Innenminister, der zugleich Vizeregierungschef ist. Kritik an den Gesetzesverschärfungen wies er als Bedenken von Linken zurück, „die finden, dass illegale Einwanderung kein Problem ist“.

      Das Uno-Flüchtlingshilfswerks (UNHCR) hatte sich Anfang November besorgt zu den Gesetzesverschärfungen geäußert. Diese böten keine „angemessenen Garantien“, insbesondere für Menschen, die besonderer Fürsorge bedürften, etwa Opfer von Vergewaltigung oder Folter.

      Die italienische Regierung vertritt seit ihrem Amtsantritt im Sommer eine harte Haltung in der Flüchtlings- und Einwanderungspolitik. Schiffen mit geretteten Flüchtlingen an Bord verweigerte Salvini das Einlaufen in italienische Häfen. Der Schwerpunkt der Flüchtlingskrise im Mittelmeer hat sich seitdem stärker nach Spanien verlagert: Spanien ist in diesem Jahr zum Hauptankunftsland von Flüchtlingen in Europa geworden, weit vor Italien und Griechenland.

      http://www.spiegel.de/politik/ausland/fluechtlinge-italien-verschaerft-seine-einwanderungsgesetze-drastisch-a-1241

    • Decreto immigrazione e sicurezza, la circolare ai Prefetti del 18 dicembre 2018

      Il Gabinetto del ministero dell’Interno ha diramato in queste settimane ai Prefetti la CM del 18 dicembre 2018 per «illustrare… le principali disposizioni d’insieme» del DL 4 ottobre 2018, il cosiddetto decreto immigrazione e sicurezza. Il testo è disponibile a questo link: http://viedifuga.org/wp-content/uploads/2019/01/Circolare_m_18_12_2018.pdf. Il Viminale ha predisposto anche un documento divulgativo dal titolo Immigrazione e sicurezza pubblica. Le risposte per conoscere il nuovo decreto: qui (http://viedifuga.org/wp-content/uploads/2019/01/FAQ_Decreto_immigrazione_e_sicurezza_definitivo_3_1_2018.pdf) la versione aggiornata al 3 gennaio 2019.

      Qui invece (www.redattoresociale.it/Notiziario/Articolo/612656/Dl-Salvini-la-circolare-del-Viminale-che-tenta-di-rassicurare-i-sindaci), da Redattore sociale, il giudizio dell’ASGI sulla circolare ministeriale e le pericolose ricadute del DL (convertito in legge con la 132/2018: viedifuga.org/approvato-alla-camera-il-decreto-sicurezza-e-immigrazione-e-una-pessima-legge/) secondo Oxfam Italia e secondo l’ISPI (Istituto per gli studi di politica internazionale).

      http://viedifuga.org/decreto-immigrazione-e-sicurezza-la-circolare-ai-prefetti-del-18-dicembre

    • La stretta sulla residenza è uno dei problemi del decreto sicurezza

      Il decreto immigrazione e sicurezza, diventato legge il 27 novembre del 2018 con l’approvazione in parlamento, suscita divisioni e critiche sia all’interno della maggioranza sia tra le file dell’opposizione. Dopo l’attacco del sindaco di Palermo Leoluca Orlando e del sindaco di Napoli Luigi De Magistris – che hanno annunciato di non voler applicare la legge, perché “è un testo inumano che viola i diritti umani” – molti altri sindaci hanno detto che boicotteranno la norma. Una mappa compilata dalla ricercatrice Cristina Del Biaggio raccoglie tutte le adesioni degli amministratori locali contro il decreto, in totale un centinaio.

      Uno dei punti più contestati della legge è l’esclusione dei richiedenti asilo dall’iscrizione anagrafica. Leoluca Orlando, con una nota inviata al capoarea dei servizi al cittadino, ha chiesto d’indagare i profili giuridici anagrafici derivanti dall’applicazione del decreto sicurezza e di sospendere qualsiasi procedura “che possa intaccare i diritti fondamentali della persona con particolare, ma non esclusivo, riferimento alla procedura di iscrizione della residenza anagrafica”. Ma perché è così importante essere iscritti all’anagrafe e cosa comporta esserne esclusi? E infine, ha senso sospendere l’applicazione del decreto o basta applicare correttamente le norme esistenti?

      Cosa prevede il decreto
      La legge 113/2018 (anche detta decreto sicurezza e immigrazione o decreto Salvini) prevede delle modifiche all’articolo 4 del decreto legislativo 142/2015 attraverso un comma secondo cui “il permesso di soggiorno per richiesta d’asilo non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica”. Secondo Enrico Gargiulo, docente di fondamenti di politica sociale all’università Ca’ Foscari di Venezia, il decreto introduce una “rivoluzione nel campo del diritto all’anagrafe”, perché “per la prima volta si nega in maniera chiara a una categoria di persone un diritto soggettivo perfetto”, contravvenendo alla costituzione e ad altre norme generali sull’immigrazione come il Testo unico del 1998.

      Dello stesso orientamento l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) che in un comunicato ha ribadito l’incostituzionalità di questo punto e ha annunciato di aver già presentato diversi ricorsi, impugnando in sede giudiziaria alcuni dinieghi all’iscrizione anagrafica. “Riteniamo infatti che non sussista alcuna ragione che giustifichi sotto il profilo costituzionale una diversità di trattamento nell’iscrizione anagrafica che colpisce una sola categoria di stranieri legalmente soggiornanti (i titolari di permesso di soggiorno per richiesta di asilo), violando il principio di parità di trattamento coi cittadini italiani prevista dall’articolo 6 del Testo unico sull’immigrazione( legge 286/1998)”, si legge nel comunicato. I ricorsi che saranno portati davanti a un giudice chiameranno in causa la corte costituzionale per violazione dell’articolo 3 della costituzione. La consulta a sua volta dovrà stabilire se questa parte del decreto è in linea con la carta fondamentale.

      Di fatto nella norma non si vieta espressamente l’iscrizione dei richiedenti asilo all’anagrafe

      Tuttavia alcuni giuristi invitano a un’interpretazione diversa del decreto. Le avvocate dell’Asgi Nazzarena Zorzella e Daniela Consolo ritengono che il decreto “non pone nessun esplicito divieto, ma si limita a escludere che la particolare tipologia di permesso di soggiorno possa essere documento utile per formalizzare la domanda di residenza”. Intervistata al telefono da Internazionale Zorzella ribadisce che “anche se il decreto ha come obiettivo l’esclusione dei richiedenti asilo dalla residenza, tuttavia di fatto nella norma non si vieta espressamente l’iscrizione dei richiedenti asilo all’anagrafe, ma si sostiene che il permesso di soggiorno per richiesta di asilo non costituisca un titolo valido per l’iscrizione all’anagrafe”.

      Per l’avvocata, quindi, i sindaci potrebbero con una circolare informare gli uffici anagrafici di accettare come documento valido per l’iscrizione all’anagrafe il modulo C3 e cioè la domanda di asilo presentata in questura dal richiedente asilo al momento dell’arrivo in Italia, assumendo quel titolo come prova del soggiorno regolare del cittadino straniero in Italia. “Il decreto sicurezza coesiste con il Testo unico sull’immigrazione, in particolare con l’articolo 6 comma 7 che non è stato modificato dal decreto e prevede che allo straniero regolarmente soggiornante sia consentita l’iscrizione anagrafica”. Secondo l’avvocata i sindaci potrebbero provare a interpretare la norma in senso meno restrittivo, continuando a consentire l’iscrizione dei richiedenti asilo all’anagrafe usando un altro documento come prova del loro soggiorno nel paese.

      Cosa implica l’iscrizione all’anagrafe
      L’iscrizione anagrafica è necessaria per il rilascio del certificato di residenza e del documento d’identità. Questi due documenti di prassi sono il presupposto per il godimento di alcuni servizi pubblici, in particolare dei servizi sociali, per esempio la presa in carico da parte degli assistenti sociali, l’accesso all’edilizia pubblica, la concessione di eventuali sussidi, per l’iscrizione al servizio sanitario nazionale (per la fruizione dei servizi ordinari come il medico di base, mentre l’assistenza sanitaria d’urgenza è per principio garantita anche agli irregolari), per l’iscrizione a un centro per l’impiego. Inoltre un documento d’identità valido è richiesto per sottoscrivere un contratto di lavoro, per prendere in affitto una casa o per aprire un conto corrente bancario. La situazione in realtà è molto disomogenea sul territorio italiano, da anni molti comuni hanno stabilito che sia necessaria la residenza per accedere a questi servizi, mentre in altri municipi è consentito accedere ai servizi con il domicilio o la residenza fittizia, ma il decreto introdurrà ancora più ambiguità in questa materia e c’è da aspettarsi un aumento dei contenziosi. “Chi non ha accesso ai diritti anagrafici diventa invisibile, è una specie di fantasma dal punto di vista amministrativo”, afferma il ricercatore Enrico Gargiulo. “Anche se una persona rimane titolare di certi diritti, senza l’iscrizione anagrafica di fatto ne è esclusa”, conclude il ricercatore.

      Anche su questo punto le avvocate dell’Asgi, Zorzella e Consolo, ritengono che l’iscrizione all’anagrafe non sia necessaria per garantire l’accesso ai servizi dei richiedenti asilo. Zorzella e Consolo ricordano che lo stesso decreto sicurezza prevede che sia assicurato agli stranieri “l’accesso ai servizi comunque erogati sul territorio ai sensi delle norme vigenti”. In questo senso, secondo loro, i sindaci e gli amministratori locali dovrebbero chiarire in una circolare che è sufficiente il domicilio per accedere ai servizi pubblici territoriali senza dover esibire l’iscrizione all’anagrafe, e lo stesso varrebbe per i servizi privati (banche, poste, assicurazioni, agenzie immobiliari).

      https://www.internazionale.it/bloc-notes/annalisa-camilli/2019/01/09/residenza-anagrafe-decreto-sicurezza

    • La delibera per iscrivere all’anagrafe i richiedenti asilo. Dalle parole ai fatti, smontiamo il decreto Salvini

      Il 2019 è iniziato con numerosi Sindaci che hanno manifestato la loro volontà di disobbedire al decreto legge “immigrazione e sicurezza” di Salvini.
      Tra tutti, Leoluca Orlando, sindaco di Palermo con una nota inviata al Capo Area dei Servizi al Cittadino, ha conferito mandato per indagare i profili giuridici anagrafici derivanti dall’applicazione della legge n.132/2018 e, nelle more, ha impartito di sospendere qualsiasi procedura “che possa intaccare i diritti fondamentali della persona con particolare, ma non esclusivo, riferimento alla procedura di iscrizione della residenza anagrafica”.

      Si tratta del primo vero atto che tenta di opporsi alle previsioni contenute nel d.l. n. 113/2018 dopo la sua conversione in legge. Precedentemente, infatti, alcuni Comuni avevano dichiarato di sospendere gli effetti del decreto ma solo fino alla sua approvazione definitiva.
      In ogni caso, il fronte che, speriamo, si stia aprendo a livello territoriale contro questo provvedimento è di fondamentale importanza.

      Le leggi razziste, securitarie e repressive come, prima, i decreti di Minniti ed , ora, il decreto di Salvini agiscono anche e soprattutto sullo spazio delle nostre città, creano sacche di esclusione e di diritti negati.

      Dalle nostre città, dunque, deve partire una nuova resistenza.

      Per questo abbiamo pensato di elaborare un primo modello di delibera che smonti un pezzetto della legge n.113/2018 proprio nella parte in cui prevedendo l’impossibilità per il richiedente, titolare di un permesso di soggiorno per richiesta asilo, di iscriversi all’anagrafe si pone in piena violazione dell’articolo 26 della Convenzione di Ginevra e comporta una grave limitazione al godimento di quei diritti che la nostra Carta Costituzionale individua come diritti fondamentali.
      L’iscrizione all’anagrafe, infatti, rimane lo strumento tramite il quale si consente ai poteri pubblici di pianificare i servizi da erogare alla popolazione; inoltre essa è da sempre presupposto per l’accesso ad altri diritti sociali e civili, come l’iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale; l’accesso all’assistenza sociale e concessione di eventuali sussidi previsti dagli enti locali.

      Nel modello di delibera si richiama la competenza comunale in materia di istituzione di un albo anagrafico (art. 14 del d. lgs. 18 agosto 2000, n. 267), i casi in cui i Comuni hanno già esercitato tale potere istitutivo (si vedano i registri per le unioni civili); la Convezione di Ginevra; gli articoli della nostra Costituzione che tutelano l’iscrizione anagrafica e la consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione che ha riconosciuto un diritto alla residenza qualificato come “diritto soggettivo”.
      Il tutto per dire una sola cosa alle istituzioni locali: se volete, avete tutto il potere di istituire quest’albo e garantire ai richiedenti asilo l’iscrizione anagrafica. Avete dalla vostra, la forza della ragione e la forza del Diritto.

      Si tratta, dunque, di un modello di delibera che mettiamo nelle mani dei Comuni solidali che realmente vogliono contrastare gli effetti di questo decreto.
      Un modello di delibera che mettiamo nelle mani degli attivisti e degli abitanti delle nostre città, piccole o grandi che siano, per fare pressione sui loro governanti e sfidarli ad istituire l’albo per l’iscrizione dei richiedenti asilo.

      Un modello di delibera che è solo uno dei tanti strumenti che intendiamo mettere a disposizione di questa battaglia per la giustizia e la dignità.
      La partita per la gestione dei centri Sprar e per i regolamenti di polizia locale dei nostri Comuni è ,infatti, ancora aperta.
      Anche in quel caso gli amministratori potranno decidere da che parte stare: se dalla parte della cieca obbedienza a delle leggi disumane, che condannano migliaia di persone alla marginalità rendendole carne da cannone per le Mafie, oppure dalla parte della “sicurezza dei diritti” di tutti e tutte noi.

      https://www.meltingpot.org/La-delibera-per-iscrivere-all-anagrafe-i-richiedenti-asilo.html

    • Une nouvelle loi anti-immigration controversée adoptée en Italie

      Le parlement italien a adopté une loi introduisant des restrictions pour les demandeurs d’asile, mais aussi des mesures pour la sécurité publique et contre les mafias. Un article d’Euroefe.

      La Chambre des représentants a approuvé le projet de loi par 336 voix pour et 249 abstentions, concluant ainsi sa trajectoire après son approbation au Sénat le 7 novembre par 163 voix pour, 59 contre et 19 abstentions.

      Cette mesure a été amenée par le chef de file de la Ligue de l’extrême droite et ministre de l’Intérieur, Matteo Salvini, et présentée dans les deux chambres parlementaires comme une motion de confiance au gouvernement, une technique utilisée pour éviter les amendements et écourter leur approbation.

      Quelque 200 personnes ont manifesté devant le parlement pour manifester leur rejet de cette loi controversée, et ont organisé des funérailles pour les droits, dénonçant le racisme.

      Salvini célèbre sa loi controversée

      Matteo Salvini a exprimé lors d’une conférence de presse sa « grande satisfaction, non pas en tant que ministre, mais en tant que citoyen italien », car, a-t-il assuré, la loi « donnera plus de tranquillité, d’ordre, de règles et de sérénité aux villes ».

      La nouvelle loi repose sur trois piliers : l’immigration, la sécurité publique et la lutte contre la criminalité organisée.

      Dans le domaine de l’immigration, les permis de séjour pour des raisons humanitaires seront suspendus. Ceux-ci ont été accordés pour deux ans et ont permis aux réfugiés d’accéder au monde du travail et à la sécurité sociale. Au lieu de cela, des permis de « protection spéciale » d’un an seront octroyés.

      En outre, la protection internationale sera refusée ou rejetée en cas de condamnation définitive de l’immigré, notamment pour viol, vente de drogue, vol ou extorsion. La mutilation génitale est mentionnée dans le texte et considérée comme « crime particulièrement alarmant ».

      La nouvelle loi allongera de 90 à 180 jours la période pendant laquelle les immigrants pourront rester dans les centres d’identification, période que le gouvernement du Mouvement 5 étoiles et la Ligue considère appropriée pour identifier le demandeur.

      Par ailleurs, davantage de fonds sont prévus pour le rapatriement volontaire des immigrants et la protection sera retirée à ceux qui retournent dans leur pays d’origine, sinon pour des « raisons graves et avérées ».

      Utilisation expérimentale du Taser

      En matière de sécurité publique, la nouvelle loi stipule que les sociétés de location de voitures communiquent à la police les données de leurs clients pour vérifier leurs antécédents et éviter ainsi d’éventuels attentats à la voiture bélier comme ce fut le cas à Nice, Berlin ou Londres.

      Elle permettra aussi aux agents des villes de plus de 100 000 habitants d’expérimenter le pistolet électrique Taser, et les clubs de football devront accroître leur contribution, en allouant entre 5 et 10 % des ventes de billets à la sécurité des stades.

      La loi étend par ailleurs le « Daspo », l’interdiction d’accès aux manifestations sportives aux foires, marchés et hôpitaux pour les personnes qui ont manifesté un comportement agressif ou dangereux.

      Enfin, en ce qui concerne la mafia, les nouvelles mesures augmentent les ressources destinées à l’entité qui gère les biens saisis aux criminels et libéralise ces biens, qui peuvent désormais être achetés par des particuliers « avec des contrôles rigoureux » afin qu’ils ne reviennent pas entre les mains des clans.

      https://www.euractiv.fr/section/migrations/news/une-nouvelle-loi-anti-immigration-controversee-adoptee-en-italie

    • Decreto immigrazione e sicurezza: tutti i dubbi sulla costituzionalità

      Le Regioni contro il decreto Salvini. Piemonte, Umbria, Toscana, Emilia Romagna, Lazio, Marche, Basilicata. Di ora in ora si allarga la squadra dei governatori contro il decreto sicurezza e immigrazione di Matteo Salvini.

      La strada passa per il ricorso alla Corte costituzionale e a guidare il tutto sarà la Regione Piemonte, che ha dato mandato al docente di Diritto internazionale, Ugo Mattei, e all’avvocatura della Regione di preparare il ricorso che “

      seguirà l’esempio di quanto fatto da Apple, Facebook, Google, e altri colossi della Silicon Valley quando presero posizione e presentarono ricorso contro il decreto attuativo anti-immigrazione e il blocco dei visti voluto dal Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump” ha spiegato l’assessora all’immigrazione della regione Piemonte Monica Cerutti

      “Ugo Mattei, insieme all’avvocatura della Regione Piemonte, si occuperà del ricorso in Corte Costituzionale contro il decreto sicurezza che rischia di creare un danno all’economia piemontese” ha spiegato Monica Cerutti. “Il decreto farà finire nell’irregolarità migliaia di migranti che quindi non potranno più contribuire alla vita economica del territorio”.

      “La nostra avvocatura sta anche lavorando con le avvocature delle altre ‘regioni rosse’” ha aggiunto l’assessora della Regione Piemonte “perché ci sia coordinamento nella presentazione dei ricorsi. Stiamo infatti pensando di aggiungere un nuovo profilo di incostituzionalità, che va sommarsi a quelli che riguardano le competenze regionali in materia di sanità e politiche sociali. Questo decreto manda del resto a gambe all’aria tutto il lavoro fatto sull’immigrazione in questi anni, rendendo inutili gli investimenti messi in campo dalla nostra Regione”.

      Il professor Mattei, si precisa dalla Regione, “si è reso disponibile a portare avanti questa battaglia a titolo gratuito. Quindi il suo intervento non costituirà una spesa per il Piemonte”.

      In precedenza anche il Quirinale aveva valutato eventuali profili di incostituzionalità del decreto, ponendo l’accento – nonostante la firma arrivata dopo la fiducia ottenuta alla Camera mercoledì 28 novembre 2018 – su alcune questioni.

      Vediamo quali sono:

      Necessità e urgenza – Il primo nodo è sulla natura dello strumento scelto dal governo. Secondo la Costituzione, il decreto deve rispettare i criteri di necessità e urgenza, oltre a non essere palesemente incostituzionale. La presidenza della Repubblica aveva già manifestato le proprie perplessità sull’urgenza di un intervento del governo su questa materia.

      Revoca del diritto d’asilo – Si allunga l’elenco di reati che comportano la sospensione della domanda di asilo e causano l’espulsione immediata dello straniero. Tra questi sono stati inclusi la violenza sessuale, la detenzione e il traffico di stupefacenti, il furto, la minaccia o la violenza a pubblico ufficiale. Nel decreto è prevista la revoca dello status dopo la sola condanna di primo grado: nella nostra Costituzione è però prevista la presunzione di innocenza fino al terzo grado di giudizio. Questa disposizione potrebbe essere in contrasto con i principi costituzionali.

      Revoca della cittadinanza – È prevista la revoca della cittadinanza italiana acquisita dagli stranieri condannati in via definitiva per reati di terrorismo. La revoca sarà possibile entro tre anni dalla condanna definitiva, per decreto del presidente della Repubblica su proposta del ministro dell’Interno. Anche questa norma è in contrasto con principi della Corte Costituzionale, che considera la cittadinanza un diritto inviolabile.

      Inizialmente i decreti dovevano essere due, uno sull’immigrazione e uno sulla sicurezza e i beni confiscati alle mafie. Poi sono stati accorpati in un unico provvedimento. Ecco gli altri punti del documento:

      Abolizione della protezione umanitaria – Il decreto prevede l’abolizione della concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari previsto dal Testo unico sull’immigrazione (legge 286/98).

      Trattenimento nei Cpr – Gli immigrati con i documenti non in regola potranno essere trattenuti nei Centri per il rimpatrio fino a 180 giorni. Ad oggi il limite era 90 giorni.

      Sicurezza urbana – Viene prevista la sperimentazione dei taser di parte della municipale nei comuni con più di 100 mila abitanti e inasprite le pene contro chi promuove o organizza occupazioni.

      Lotta alle mafie – Per contrastare le infiltrazioni mafiose nella pubblica amministrazione, il decreto prevede la nomina di un Commissario straordinario in caso di segnalazioni di situazioni anomale o di condotte illecite da parte di un Prefetto.

      https://www.tpi.it/2019/01/08/decreto-sicurezza-incostituzionalita-regioni/amp
      #constitutionnalité

    • Protezione umanitaria, la pronuncia della Cassazione n. 4890/2019

      Pubblichiamo la decisione n. 4890/2019 della Corte di cassazione, che risolve i dubbi in tema di regime intertemporale della nuova disciplina sulla protezione umanitaria.

      In argomento, questa Rubrica ha già ospitato la requisitoria del procuratore generale presso la Corte di cassazione, l’articolo di Carlo Padula (Quale sorte per il permesso di soggiorno umanitario dopo il dl 113/2018?) contenente l’orientamento dei Tribunali di Ancona, Bari, Bologna, Brescia, Catania, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Perugia, Torino, Trento e della dottrina in punto di regime intertemporale della nuova disciplina della protezione umanitaria.

      http://questionegiustizia.it/articolo/protezione-umanitaria-la-pronuncia-della-cassazione-n-48902019_19
      #protection_humanitaire

  • Revue de presse de Claire Rodier sur l’affaire #Diciotti (via la mailing-list Migreurop), que je compile sur ce fil de discussion.

    Cette compilation est à mettre en lien avec les autres compilations et les autres documents en lien avec la question #ONG #sauvetage #Méditerranée #asile #migrations #réfugiés #mourir_en_mer #sauvetages #sauvetage

    Pour voir les compilations annexes :
    https://seenthis.net/messages/706177

    cc @isskein

    ps. je n’ai suivi que partiellement ce nouvel épisode tragique car j’étais en Asie du Sud-Est et pas toujours connectée lors des événements

    • Chronique reçu de Camille Richard via la mailing-list Migreurop, le 20.09.2018

      Août 2018
      L’Arci et le cabinet légal Giuliano de Syracuse ont présenté un recours au Tribunal civil de Catane et au Tribunal administratif régional sicilien de Catane : un recours d’urgence (art 200 du Code de Procédure Civile) pour la protection immédiate des droits primaires des 150 migrants détenus illégitimement sur le bateau de la Garde côtière italienne Diciotti ; et devant le tribunal administratif, un recours avec une demande conservatoire d’un pourvoi de la mesure du ministre de l’Intérieur illégitimement adoptée.
      L’Arci a également demandé l’application immédiate des lignes directrices de l’OIM, dont le non-respect constitue une violation grave du droit international, notamment l’article 3 de la Charte européenne des droits de l’Homme (traitements inhumains et dégradants).
      Le recours a également été transmis -pour information- à la Questura, à la Préfecture et à la Garde côtière.
      Avec cette action, l’Arci insiste sur le fait qu’il n’y aucune trace écrite de la mesure et que celle-ci a d’autres objectifs, au vu des négociations avec l’UE et la campagne électorale sans relâche de Matteo Salvini.
      https://www.arci.it/larci-presenta-un-ricorso-contro-il-governo-per-il-trattenimento-illegittimo-de

      Septembre 2018
      Tribunal des ministres1, Palerme : L’enquête est née du fait qu’un ordre formel n’a été donné pour le blocus du navire Diciotti ou pour le débarquement, après 10 jours, des migrants secourus dans les eaux territoriales maltaises.
      Le tribunal, présidé par Fabio Pilato, a commencé à se réunir de manière informelle pour fixer les lignes du procès contre Salvini. L’examen du dossier, qui a débuté le 8 septembre, sera bref : le cas doit être clos dans les 90 jours. La première question concerne la compétence territoriale.
      Il s’agit d’abord de déterminer le lieu d’où serait partie la conduite illicite présumée de Salvini : les eaux territoriales de Lampedusa, où les migrants ont été secourus, ou le port de Catane où la Diciotti est restée pendant des jours dans l’attente du débarquement. Dans le premier cas, l’enquête resterait dans les mains de la magistrature de Palerme, à qui le dossier fut transmis par Agrigente (qui a compétence pour l’enquête mais ne peut être le siège du tribunal des ministres). Dans l’autre cas, la compétence reviendrait à la magistrature de Catane.
      Afin de déterminer le lieu de l’infraction, il faut reconstruire la « chaîne de commandement » à l’aide des nombreux témoins, dont quelques uns ont déjà été écoutés (le commandant de la Diciotti, le capitaine Massimo Kothmeir). Seront prochainement écoutés le chef de cabinet Matteo Piantedosi (qui n’est plus considéré comme suspect mais comme témoin), les commandants de la capitainerie de Porto Empedocle et de Catane, le responsable du bureau maritime de Lampedusa, le chef de Département des libertés civiles, Gerarda Pantalone, et son vice-président Bruno Corda.
      Dans le cas où le Tribunal décide de procéder, il sera nécessaire d’obtenir l’autorisation de la part du Sénat pour prendre des mesures contre le Premier ministre. À ce jour, il ne reste qu’un chef d’accusation contre Salvini : la séquestration de personnes, aggravée.
      https://www.avvenire.it/attualita/pagine/salvini-riceve-comunicazione-atti-indagine-diciotti
      https://www.corriere.it/politica/18_settembre_08/indagini-sequestro-persona-tribunale-ministri-cd4a9ea0-b2d9-11e8-af77-790d0

      Les réactions de Matteo Salvini
      "Mi sono semplicemente detto sorpreso che una procura siciliana, con tutti i problemi di mafia che ci sono in Sicilia, stia dedicando settimane di tempo a indagare me, ministro delll’interno, che ho fatto quello che ho sempre detto che avrei fatto e cioè bloccare le navi. È una decisione politica.’’
      « Je me suis simplement dit surpris qu’une magistrature sicilienne, avec tous les problèmes de mafia qui existent en Sicile, soit en train de dédier plusieurs semaines à enquêter sur moi, ministre de l’Intérieur, alors que j’ai fait ce que j’avais toujours dit que je ferais, c’est-à-dire bloquer les bâteaux. C’est une décision politique ».
      Matteo Salvini parle d’un complot politique (aussi pour la récente séquestration des fonds de son parti). Le premier ministre se concentre aujourd’hui sur les politiques de lutte contre l’immigration clandestine et a confirmé que d’ici l’automne, il conclura une série d’accords avec les pays africains et asiatiques pour les rapatriements et les expulsions.
      https://www.avvenire.it/attualita/pagine/salvini-riceve-comunicazione-atti-indagine-diciotti

      La Cour des Comptes ouvre une enquête sur les « coûts supplémentaires » du blocus naval pour lequel le ministre Matteo Salvini est suspecté.
      https://www.avvenire.it/attualita/pagine/diciotti-inchiesta-per-danno-erariale
      « Prendre ’en otage’ pendant 10 jours 177 demandeurs d’asile sur la Diciotti a coûté au moins 5 fois plus que de les accueillir dans un CAS -Centre extraordinaire d’accueil » (Avvenire, 29 août). Selon les premiers calculs, seulement pour la Diciotti, les caisses publiques devront débourser au moins 200,000 euros non prévus. Auxquels s’ajoutent les dépenses qui ont servi à couvrir l’accompagnement de l’Aquarius par la Garde côtière jusqu’en Espagne.
      La Cour des Comptes a ouvert un dossier d’enquête pour « préjudice financier » sur trois faits principaux : l’accompagnement de l’Aquarius jusqu’à Valence le 17 juin dernier ; le cas Diciotti du 13 juillet quand le gouvernement à envoyer le navire de la Garde côtière à Trapani ; et le cas Diciotti du mois d’août et la séquestration des migrants que l’embarcation (qui aurait coûté 10,000€ par jour).

      1 Le Tribunal est composé de trois magistrats choisis par tirage au sort tous les deux ans. À ce jour, le président est Fabio Pilato (ex- juge des tutelles du Tribunal de Palerme), avec deux autres juges : Filippo Serio (Commission de Révision) et Giuseppe Sidoti.

    • Diciotti, scontri al #sit-in di Catania: feriti un agente e un dimostrante

      In centinaia alla protesta per chiedere lo sbarco dei migranti. Tensioni fra manifestanti e polizia.

      In centinaia al presidio antirazzista sul molo due del porto di Catania, a pochi metri dalla nave Diciotti della Guardia costiera da giorni bloccata dal governo gialloverde con circa 130 migranti a bordo dopo lo sbarco di 17 persone per motivi sanitari. Ci sono le bandiere di Legambiente, dell’Arci, di Potere al popolo, della Cgil. Ci sono i volontari dei Briganti di Librino. Ci sono gli scout dell’Agesci. Ci sono i collettivi antirazzisti e i componenti dei centri sociali. La parola chiave è “Facciamoli scendere”.

      C’è stato un contatto tra forze dell’ordine e manifestanti che hanno tentato di forzare l’accesso al molo di Levante dove è ormeggiata la nave. Una decina di giovani con salvagenti e tavolette si sono lanciati a mare nel tentativo di raggiungere il pattugliatore della Guardia Costiera gridando ’libertà, libertà’. C’è stato uno scontro con le forze dell’ordine per evitare lo ’sfondamento’, e un poliziotto è rimasto ferito. L’agente è stato soccorso dai suoi colleghi e portato in un cellulare della polizia per le prime cure. Ferito anche un militante.

      In rappresentanza del Pd anche Antonio Rubino e l’ex deputato Giovanni Panepinto che avevano una bandiera dem. Quando è stata esposta i ragazzi di Potere al popolo hanno urlato e protestato creando un po’ di tensione, poi rientrata. Sul molo già centinaia di persone. Fra gli altri c’è il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, accompagnato dall’assessora Giovanna Marano: «Palermo e la Sicilia . dicono - sono in prima fila per ribadire che la cultura dell’accoglienza e la cultura della solidarietà rappresentano la vera cultura del popolo italiano. Una cultura e una prassi per altro sancite dalla nostra Costituzione e dalle leggi, cui il governo nazionale pensa di poter derogare a colpi di tweet e dirette Facebook mettendo a rischio la tenuta democratica del Paese».

      La manifestazione si è incrociata con il momento dello sbarco dei migranti scesi dalla nave Diciotti per motivi sanitari. Intanto la Sicilia si mobilita: i vescovi si dicono pronti allo sciopero della fame, mentre diversi militanti stanno inviando migliaia di e-mail al ministero degli Interni e a quello dei Trasporti per chiedere lo sbarco dei migranti. Si è intanto conclusa l’audizione di due funzionari del Viminale condotta dai pm di Agrigento.

      http://palermo.repubblica.it/cronaca/2018/08/25/news/scout_sinistra_volontari_ambientalisti_diciotti_a_catania_comincia_il_sit-in-204901986/?refresh_ce
      #Catane #résistance

    • Migrants : l’UE ne propose aucune solution pour les passagers du « Diciotti »

      Malgré la menace du gouvernement italien de suspendre sa participation au budget communautaire, aucun accord n’a été trouvé pour les 150 migrants bloqués à Catane.

      Bruxelles n’a pas cédé devant l’ultimatum formulé par Luigi Di Maio, le chef de file du Mouvement 5 étoiles (M5S, populiste) et vice-président du conseil italien : l’Union européenne (UE) n’a pas pris de décision, vendredi 24 août, sur l’accueil des 150 migrants toujours bloqués à bord du Diciotti et, plus généralement, sur la redistribution, en Europe, des candidats à l’asile.

      Jeudi, M. Di Maio avait pris le relais du ministre de l’intérieur et dirigeant de la Ligue (extrême droite), Matteo Salvini, en indiquant que, faute d’accord vendredi, son pays pourrait suspendre sa contribution au budget européen dès le début 2019. Soit 20 milliards d’euros, selon M. Di Maio. Aucun pays membre de l’UE n’a, jusqu’alors, refusé d’acquitter sa participation au budget communautaire.

      Une réunion de diplomates et d’experts avait été convoquée vendredi, à Bruxelles, par la Commission. Il s’agissait, au départ, de reparler de l’ensemble du dossier migratoire mais difficile, évidemment, de gommer la polémique actuelle avec Rome sur le Diciotti.

      Le navire des garde-côtes italien a secouru, dans la nuit du 15 au 16 août, 190 migrants. Treize d’entre eux ont été débarqués pour des raisons sanitaires à Lampedusa, puis le navire a accosté, le 20 août, à Catane, en Sicile. Depuis, les mineurs ont pu descendre mais le gouvernement italien exige que les autres rescapés soient envoyés ailleurs en Europe avant de les laisser débarquer.

      « Fixer des principes »

      Les menaces « ne servent à rien et ne mènent nulle part », a répliqué à M. Di Maio, vendredi midi, un porte-parole de la Commission. « Les commentaires peu constructifs n’aident pas et ne nous rapprochent pas d’une solution », a-t-il insisté. Bruxelles ne manque pas d’ajouter que si elle est désormais un contributeur net au budget européen – elle paie plus qu’elle reçoit en retour –, l’Italie perçoit quand même 10 milliards à 12 milliards par an en moyenne via des fonds structurels, d’investissements, d’aides à la recherche… Au total, elle a aussi reçu 650 millions pour la gestion des migrants arrivés sur son territoire – soit quelque 700 000 personnes depuis 2014.

      Selon l’un des participants, les représentants italiens à la discussion de vendredi n’ont pas réitéré la menace de M. Di Maio. « Mais elle planait », indique-t-il. Pas question, en tout cas, pour les autres pays présents (France, Allemagne, Espagne, Autriche, Grèce, Malte et les pays du Benelux) de donner l’impression de céder au chantage, tout en reconnaissant l’urgence d’une solution humanitaire.

      « Il s’agissait de tirer les leçons de ce qui s’est déroulé cet été et, surtout, de fixer des principes, des mécanismes durables pour l’accueil des bateaux, la répartition des migrants et le problème de leurs mouvements secondaires », souligne un diplomate. La recherche d’une garantie de solidarité entre les Etats membres, la question de l’aide financière à apporter aux pays d’accueil et celle des lieux de débarquement – en principe, le « port sûr le plus proche » selon le droit maritime international – sont d’autres thèmes de débats qui se poursuivront en septembre.

      Et le Diciotti ? « Pas le sujet du jour »,tranche l’un des participants. Il s’agissait pour les pays présents d’obtenir un engagement clair de l’Italie, « une définition de ses principes et une orientation quant à ce qu’elle fera à l’avenir ». « On ne se voit pas avoir une discussion bateau après bateau », insiste une autre source.

      La Commission affirme, de son côté, rester en contact avec Rome et d’autres capitales pour régler le sort des occupants du Diciotti. Vendredi, elle devait convenir qu’il restait incertain. En juillet, 450 migrants étaient restés trois jours à bord du même bateau, jusqu’à ce que l’Italie accepte leur débarquement, après avoir obtenu que d’autres pays européens en accueillent une partie.

      « Cotiser est un devoir légal »

      Dans une interview au Corriere della Sera, M. Salvini a ébauché à sa manière une solution à l’impasse. Elle consisterait en « un bel avion qui arrive d’une des capitales européennes à l’aéroport de Catane. Les Européens peuvent montrer qu’ils ont un grand cœur en embarquant tous les aspirants réfugiés. Nous avons joué notre rôle avec les jeunes », a-t-il déclaré. Annonçant une prochaine rencontre avec le premier ministre Viktor Orban, à Milan, il évoquait une modification des traités et des conventions qui régissent l’asile.

      Face à son allié, le M5S paraît divisé. Mais M. di Maio apporte son soutien à M. Salvini, qui a réagi vendredi soir à la non-décision de Bruxelles en déclarant « aujourd’hui, l’UE nous a encore prouvé qu’elle n’est qu’une entité abstraite ».

      A propos du Diciotti, M. Salvini a lancé : « Nous fournirons toute l’assistance nécessaire à bord du navire. Mais personne ne débarque. Un seul pays ne peut pas gérer tout ce qui se passe. Et un continent comme l’Afrique ne peut pas continuer de se vider. Avec 5 millions d’Italiens en état de pauvreté absolue, dont 1,2 million d’enfants, je pense d’abord aux Italiens. »

      Sur Facebook, M. Di Maio ne voulait pas rester en reste : « L’UE a décidé de nous tourner le dos, de se moquer des principes de solidarité et de responsabilité. (…) On ne va plus se laisser marcher dessus. » Et de confirmer sa menace d’un gel de la contribution italienne au budget européen.

      Sur Facebook toujours, le premier ministre Giuseppe Conte évoque « une belle occasion » perdue selon lui par l’Europe, qui aurait dû démontrer sa solidarité. Seul le ministre des affaires étrangères, Enzo Moavero, a fait entendre une autre petite musique. « Cotiser [au budget européen] est un devoir légal », a-t-il tenté de rappeler.

      https://abonnes.lemonde.fr/europe/article/2018/08/24/l-italie-pose-un-ultimatum-pour-trouver-une-solution-aux-migrants-du ?

    • L’Italie pose un ultimatum pour trouver une solution aux migrants du « Diciotti »

      Une réunion de la Commission européenne doit se tenir vendredi pour répartir dans plusieurs pays les migrants bloqués dans le port de Catane depuis lundi.
      LE MONDE | 24.08.2018 à 10h41 • Mis à jour le 24.08.2018 à 10h45

      Dix jours après avoir recueilli 190 migrants en mer, cinq jours après avoir pu accoster dans le port de Catane, en Sicile, le Diciotti, navire des gardes-côtes italiens, fait toujours l’objet d’un bras de fer entre l’Italie et les autres pays européens.
      Jeudi 23 août, le vice-président du conseil italien, Luigi Di Maio, a lancé un ultimatum à la Commission européenne, qui a annoncé travailler sur une solution similaire à celle trouvée la semaine dernière avec Malte pour les passagers de l’Aquarius. Il a sommé Bruxelles de trouver une solution vendredi, dans le cadre de la réunion du groupe PSDC (Politique de sécurité et de défense commune) de la Commission européenne. Faute de quoi son Mouvement 5 Etoiles, au pouvoir dans le cadre d’une coalition avec la Ligue, d’extrême droite, est prêt à suspendre la contribution italienne au budget de l’UE à compter de l’année prochaine.
      « Si rien ne sort de la réunion de la Commission européenne demain sur la répartition des migrants à bord du Diciotti, le Mouvement 5 Etoiles et moi-même ne serons plus disposés à verser chaque année 20 milliards d’euros à l’UE », a-t-il dit dans une vidéo postée jeudi soir sur Facebook.
      27 mineurs débarqués

      Mercredi, le ministre de l’intérieur italien, Matteo Salvini, avait confirmé qu’il n’autoriserait pas le débarquement des 177 migrants restant à bord. « Je ne donne aucune autorisation au débarquement. Si le président de la République veut le faire qu’il le fasse ; si le président du conseil [Giuseppe Conte, chef du gouvernement] veut le faire qu’il le fasse. Mais ils le feront sans l’accord du vice-premier ministre et du ministre de l’intérieur », a-t-il écrit sur Facebook.
      Plus tard, il a toutefois dû céder en ce qui concerne les mineurs non accompagnés, et 27 migrants, âgés de 14 à 16 ans, ont débarqué tard dans la nuit. Certains portaient encore les traces de leur séjour en Libye. « Un d’entre eux ne voit plus très bien, il a les pupilles dilatées, parce qu’il m’a raconté avoir été détenu dans le noir pendant un an », a raconté Nathalie Leiba, psychologue auprès de l’ONG Médecins sans frontières, qui a pu venir en aide à certains de ces jeunes migrants.
      Mais les adultes, eux, sont toujours bloqués à bord. La Libye a exclu de recueillir les passagers. Mohamed Siala, ministre des affaires étrangères du gouvernement d’union nationale (GNA), a estimé, mercredi, que ce retour serait une « mesure injuste et illégale » car la Libye compte déjà « plus de 700 000 migrants ».
      Le procureur sicilien d’Agrigente a ouvert une enquête pour « séquestration de personnes », mais le gouvernement italien fait la sourde oreille.

      https://abonnes.lemonde.fr/europe/article/2018/08/23/vent-de-fronde-parmi-les-gardes-cotes-italiens_5345376_3214.html ?

    • Vent de fronde parmi les gardes-côtes italiens contre la politique « zéro migrants » de Salvini

      Le ministre de l’intérieur, Matteo Salvini, prend pour cible les activités de sauvetage de migrants en Méditerranée.
      LE MONDE | 23.08.2018 à 11h51 • Mis à jour le 24.08.2018 à 10h22 | Par Margherita Nasi (Catane (Sicile), envoyée spéciale)

      C’est une institution centenaire et intrépide. Depuis 1865, la garde côtière italienne veille à l’application de la loi en mer, suivant le slogan : « Omnia vincit animus » (« le courage est toujours vainqueur »). Il faut de la témérité, en effet, pour lutter contre les trafics illicites et pratiquer des sauvetages en mer. Il en faut tout autant pour dénoncer la politique « zéro migrants » du ministre italien de l’intérieur, Matteo Salvini.
      Le 19 août, l’organisme est sorti de sa réserve pour dénoncer le traitement que le chef de la Ligue (ex-Ligue du Nord) impose au navire Diciotti. Le patrouilleur des gardes-côtes était coincé depuis plusieurs jours au large de Lampedusa, après avoir recueilli 177 migrants sur une embarcation qui prenait l’eau. M. Salvini a refusé de laisser accoster les marins italiens, intervenus sur un bateau relevant selon lui des autorités maltaises. Dans un entretien au Corriere della Sera, le lieutenant Antonello Ciavarelli s’est alarmé d’une situation « incompréhensible et même gênante ».
      Lire aussi : A Catane, les migrants du « Diciotti » patientent dans un silence irréel
      Le 20 août, le navire a finalement pu entrer dans le port de Catane, en Sicile. Mais ses passagers n’ont pas le droit de débarquer : M. Salvini menace même de les ramener en Libye si l’Union européenne n’accepte pas de prendre en charge les migrants. Escalade, le 22 août : entre un Tweet où il s’émeut du sort des centaines de milliers de bêtes égorgées par les musulmans pendant l’Aïd, et un autre où il promet la fermeture d’un camp de migrants, le très droitier ministre s’en prend aux gardes-côtes. « Le PD [Parti démocrate] et la gauche ont fait en sorte que le pays soit envahi par plus de 700 000 immigrés, et je serais “gênant” ?, fait-il mine de s’interroger. C’est du délire. Je ne lâche pas, les amis, je continue. »
      « Le phénomène migratoire a tellement augmenté que je considère que ce n’est plus du secours en mer ce que nous faisons », considère un garde-côtes qui souhaite ne pas être cité nommément
      Depuis, la direction des gardes-côtes italiens se refuse à tout commentaire. Dans leur bureau de Catane, on nous fait lanterner, puis on nous accompagne dans le bureau d’un responsable qui préfère ne pas être cité nommément. « On a reçu des ordres, on ne doit pas parler, et puis le Diciotti n’est pas sous notre responsabilité, on ne fait que fournir de l’assistance logistique. C’est le quartier général qui s’en occupe, indique le hiérarque. Le phénomène migratoire a tellement augmenté que je considère que ce n’est plus du secours en mer ce que nous faisons. J’espère qu’avec cette histoire, l’Europe va comprendre que l’immigration, c’est plus complexe que ce que l’on croit, et finira peut-être par remercier Salvini. »
      Pourtant, un vent de fronde souffle bien parmi les gardes-côtes italiens. Antonello Ciavarelli s’en fait le porte-voix : « Beaucoup de collègues m’écrivent pour exprimer leur malaise. On nous attaque sur les réseaux sociaux, on demande la destitution du commandant général, l’amiral Giovanni Pettorino. Le Diciotti est comparé au navire d’une ONG, notre action à celle des passeurs de clandestins. Ce sont des attaques injustes », témoigne le lieutenant au Corriere della Sera.
      M. Ciavarelli s’inquiète des conséquences de la politique de Matteo Salvini : « Pour l’heure, les 177 migrants sont sains et saufs et les collègues à bord m’écrivent sur WhatsApp pour me dire que tout va bien. Mais si ces mêmes personnes comprennent que nous voulons les ramener en Libye, ou les transborder dans un autre bateau direction la Libye, ils seraient prêts à tout, même au suicide (…). L’équipage reste serein, car il sait qu’il fait son travail dans le respect de la Constitution. »
      Problème légal et éthique

      Des propos en accord avec ceux du défenseur italien des droits des personnes détenues, Mauro Palma, qui estime que « la permanence prolongée des migrants à bord du bateau – ils doivent dormir sur le pont, ils sont exposés aux conditions météorologiques et sont en situation de surpopulation et de promiscuité – pourrait se révéler être un traitement inhumain et dégradant, violant la Constitution ». Le procureur d’Agrigente a évoqué le cas des 29 mineurs présents sur le navire, estimant qu’ils « avaient le droit d’être débarqués » en vertu des conventions internationales et de la loi italienne sur les mineurs non accompagnés. M. Salvini a déclaré qu’il ne s’y opposait pas pour les mineurs.
      Pour les gardes-côtes, le problème n’est pas seulement légal, il est d’abord éthique. « C’est obligation juridique, mais aussi morale : tous les marins, même lorsque les conventions n’existaient pas encore, ont secouru ceux qui se trouvaient en difficulté. On n’a jamais laissé personne seul en mer », déclarait déjà, le 26 juin, le patron des gardes-côtes italiens, l’amiral Giovanni Pettorino.
      « Si vraiment on ne veut plus sauver les gens, il faut changer les règles, et je veux voir si la personne qui s’en charge dormira bien la nuit. Et puis si c’est un bateau de croisière qui est en détresse, qu’est-ce qu’on fait ? Cela reviendrait à dire que toutes les vies n’ont pas la même valeur », s’emporte Vittorio Alessandro. Ce garde-côtes à la retraite déplore l’inefficacité de la stratégie de Matteo Salvini.
      Selon une enquête menée par la plate-forme indépendante EUobserver, l’Italie aurait déboursé sur fonds européens au moins 200 000 euros pour escorter en juin l’Aquarius et ses 600 passagers jusqu’à Valence, en Espagne, après lui avoir interdit d’accoster. « Une somme faramineuse pour un résultat ridicule ! On joue avec la souffrance des personnes pour obtenir sur le moment la répartition de quelques migrants. Depuis, je n’ai pas l’impression que les autres pays européens aient montré plus de disponibilité pour accueillir des migrants. »

      https://www.lemonde.fr/europe/article/2018/08/23/vent-de-fronde-parmi-les-gardes-cotes-italiens_5345376_3214.html

    • La « prise d’otage » du Diciotti dénoncée, 29 mineurs autorisés à débarquer

      29 mineurs non accompagnés ont été autorisés à quitter le Diciotti dans le port de Catane la nuit dernière. Et c’est par un message sur les réseaux sociaux que le ministre italien de l’Intérieur Matteo Salvini a finalement donné son feu vert à leur débarquement. Message qui disait ceci : « Il y à bord du Diciotti 29 enfants ? Ils peuvent descendre, maintenant, même si Bruxelles dort... »
      Le navire des gardes-côtes italiens est arrivé lundi en Sicile, avec interdiction du gouvernement de débarquer ses 177 migrants sauvés des eaux méditerranéennes.
      Rome dit espérer qu’une solution soit trouvée au plus vite, après son accrochage avec Malte et ses menaces de renvoyer les migrants en Libye.
      Le premier ministre lui même Giuseppe Conte s’est plaint sur Facebook qu’aucun Etat européen n’ait proposé son aide... La commission européenne a répondu qu’elle était toujours en négociation avec les Etats-membres pour résoudre cette question. 177 pour une population européenne de 500 millions, ce doit être possible, mais le bras de fer se poursuit...
      Et de plus en plus de voix s’élèvent pour dénoncer cette « prise d’otages », l’ONU qui rappelle que le droit d’asile est un « droit fondamental, pas un crime », mais aussi l’écrivain antimafia Roberto Saviano qui estime que « c’est un cas grave et illégal de séquestration de personnes ».
      Trois juridictions siciliennes ont d’ailleurs ouvert une enquête sur le Diciotti pour associations de malfaiteurs visant le trafic d’êtres humains et pour séquestration de personnes.
      En charge de cette dernière enquête, le procureur d’Agrigente était monté mercredi à bord du Diciotti. Il avait alors évoqué le cas des 29 mineurs présents sur le navire estimant qu’ils « avaient le droit d’être débarqués » en vertu des conventions internationales et de la loi italienne sur les mineurs non accompagnés.

      http://fr.euronews.com/2018/08/23/la-prise-d-otage-du-diciotti-denoncee-29-mineurs-autorises-a-debarquer

    • A Catane, les migrants du « Diciotti » patientent dans un silence irréel

      Une flottille de voiliers traverse le port de Catane, en Sicile. A en croire les cris du moniteur et la trajectoire zigzagante des Optimist, il s’agit de débutants. Avec nonchalance, ils dépassent le navire amarré, estampillé « Guardia Costiera ». Puis, prennent le large, narguant le grand bateau blanc, bloqué à quai.

      De fait, le Diciotti, patrouilleur des gardes-côtes italiens, est au cœur d’un imbroglio international depuis qu’il a sauvé 177 migrants qui se trouvaient sur une embarcation en Méditerranée, entre Malte et l’île italienne de Lampedusa, mi-août. Coincé cinq jours au large de Lampedusa, le navire a enfin pu accoster à Catane, le 20 août au soir. Mais ses passagers n’ont toujours pas le droit de débarquer.

      Le ministre de l’intérieur italien, Matteo Salvini, résume ainsi les termes du chantage qu’il leur fait subir : « Soit l’Europe commence à agir sérieusement en défendant ses frontières et en répartissant les migrants, soit on les ramène dans les ports où ils sont partis, tweetait-il le 21 août. L’Italie a déjà joué son rôle, quand c’est trop, c’est trop. »
      « Creuses promesses »

      Saisie, la Commission européenne a assuré s’activer pour obtenir une répartition entre plusieurs pays, mais aucune solution n’était encore en vue mercredi 22 août au matin. Le chef de la Ligue (extrême droite) accuse dans le même temps Malte d’avoir « accompagné » l’embarcation des migrants « vers les eaux italiennes », au lieu de les sauver. « Avec ces gouvernants italiens, on ne peut plus avancer », contre-attaque le premier ministre maltais, Joseph Muscat. « Ces crises requièrent des actions concrètes et du sang froid, pas de creuses promesses et de la propagande », a-t-il écrit à la Commission européenne, d’après le quotidien italien La Stampa.

      A mille lieues de ce tapage, c’est dans un silence presque irréel que patiente le Diciotti. Sur le pont, les passagers s’abritent du soleil sous une grande bâche. Combinaisons blanches et masques de la même couleur, des hommes s’activent à leurs côtés ; ce sont probablement des membres de la guardia costiera, eux aussi interdits de descente. Impossible d’en avoir le cœur net, car l’accès au bateau est bloqué par deux voitures et quatre camionnettes – une de la police, deux des carabiniers, une des gardes-côtes. Elles sont aussi statiques que leurs occupants sont mutiques. De temps en temps, un hélicoptère survole les lieux.

      A l’entrée du port, des associations protestent contre le blocage du Diciotti : Welcome to Europe, Réseau antiraciste catanais, Città Felice, Ragnatela… Beaucoup de noms mais bien peu de monde en ce 21 août : une poignée de personnes, regroupées derrière deux maigres bannières, manifestent leur soutien aux migrants. « On est là depuis hier soir, on se relaie, et on ne lâche pas tant que la situation ne se sera pas débloquée », prévient le militant Giusi Milazzo.

      Climat xénophobe

      « Catane a toujours été une ville ouverte. Mais depuis l’été 2015, la ville héberge le siège italien de Frontex [l’agence européenne de gardes-frontières] et tout a changé, regrette Adolfo Di Stefano, le leader du Réseau antiraciste catanais. Avant, on pouvait accueillir les migrants à la sortie du bateau, on leur distribuait le règlement de Dublin [sur l’accueil des demandeurs d’asile]. Maintenant, on ne peut pas s’en approcher. »

      Le militant a du mal à comprendre les raisons du climat xénophobe qui s’est installé dans sa ville, dont le maire (Forza Italia, centre droit), élu en mai, a reçu l’onction de M. Salvini : « C’est de ce même port que partaient, au XXe siècle, les émigrés siciliens. Et aujourd’hui encore, les jeunes continuent de s’en aller. Ils sont 250 000 à avoir quitté le pays l’année dernière, contre 119 000 migrants qui sont arrivés. Ce n’est pas comme si on manquait de place. »

      En mai 2017, M. Di Stefano s’est interposé lorsque les activistes d’extrême droite de Generazione Identitaria ont tenté de bloquer l’Aquarius, le navire de sauvetage de l’ONG SOS Méditerranée. Cela lui a valu insultes et menaces, mais aussi quelques marques de sollicitude. « Les canotiers nous ont prêté des canoës, assure-t-il. Un bar du coin nous faisait des prix d’amis. »
      « L’Europe doit assumer »

      A Catane comme dans le reste du pays, la solidarité est cependant devenue une denrée rare. Depuis la société d’aviron du port, installé sur un rameur, Francesco surveille les militants avec méfiance. « J’en ai fait, des opérations en mer, j’en ai sauvé des gens, j’ai même vu beaucoup de morts. En fait, depuis 2017, je ne fais que ça, déplore ce fonctionnaire de la marine militaire. On fait des sacrifices, on est mal payés, on garde ces gens chez nous, alors qu’il n’y a pas de travail pour nos enfants. L’Europe doit assumer ses responsabilités. »

      Dans la minuscule pièce qui fait office de bureau pour la coopérative d’assistance aux bateaux, Giacomo Molini déroule les pages Facebook de Matteo Salvini et du ministre italien des transports, Danilo Toninelli. « Depuis que Salvini est là, on a de moins en moins de débarquements, et vous savez pourquoi ? Parce qu’il a raison : il faut avoir une poigne de fer avec les migrants », selon cet ancien pêcheur.

      « Il y a une propagande tellement forte sur les réseaux sociaux autour des débarquements que les Siciliens oublient les vrais problèmes : la Mafia, une santé publique déficiente, des autoroutes dans un état minable », se désole Lorenzo Urciullo, plus connu sous le nom de Colapesce. Début août, ce chanteur basé à Catane a participé à la campagne « Solo in Cartolina » (« en carte postale seulement ») : 10 000 cartes postales montrant des naufragés en détresse ont été envoyées à Matteo Salvini. Manière de répondre au ministre de l’intérieur qui, à la suite de la crise de l’Aquarius, avait affirmé : « Cet été, les ONG ne verront l’Italie qu’en carte postale. »


      https://www.lemonde.fr/europe/article/2018/08/22/a-catane-177-migrants-retenus-a-bord-du-diciotti_5344916_3214.html ?

    • Italie : des garde-côtes et 177 migrants bloqués depuis jeudi au large de Lampedusa

      Un navire des garde-côtes italiens est bloqué depuis jeudi 16 août au large de Lampedusa avec à bord 177 migrants secourus entre Malte et l’île italienne, alors qu’aucun pays ne souhaite les accueillir.

      Le ministre italien de l’intérieur, Matteo Salvini (extrême droite), avait critiqué l’initiative des garde-côtes italiens, qui sont intervenus sur un bateau relevant selon lui des autorités maltaises. L’embarcation avec au départ 190 migrants à bord est en effet passée mercredi par la zone de recherches et de secours (SAR) maltaise, mais selon La Valette, les personnes à bord ont refusé toute aide et poursuivi leur route vers Lampedusa.

      Ils ont ensuite été pris en charge dans la nuit de mercredi à jeudi par le navire Diciotti des garde-côtes italiens, qui ont évacué en urgence 13 personnes vers l’hôpital de Lampedusa mais attendent depuis jeudi soir au large de l’île italienne l’autorisation de débarquer les autres. Selon des médias italiens, le ministre des affaires étrangères, Enzo Moavero, a entamé des discussions avec d’autres pays européens pour trouver une solution.

      « Les partenaires européens comptent laisser l’Italie seule »

      Alors que M. Salvini refuse toujours que le bateau accoste en Italie, les services de son ministère ont choisi jeudi soir de faire planer la menace d’une nouvelle volte-face sur le dossier de l’Aquarius qui est arrivé le 15 août à Malte avec à son bord 141 migrants. Ces derniers ont ensuite été répartis entre la France, l’Allemagne, l’Italie, le Luxembourg, le Portugal et l’Espagne, grâce à un accord entre ces pays.

      Lire aussi : Entre deux Tweet xénophobes, Salvini accueille des migrants

      « Les partenaires européens comptent laisser l’Italie seule en lui imposant un bateau avec 170 personnes. Si c’est vraiment leurs intentions, Rome remettra en question la possibilité de participer à la redistribution des personnes qui étaient à bord de l’Aquarius, comme l’a annoncé Malte au cours des dernières heures », assure le ministère dans un communiqué

      En juillet, le Diciotti, envoyé surveiller de loin 450 migrants entassés sur une barque de pêche entre Lampedusa et Malte, les avait déjà recueillis alors que le gouvernement leur demandait d’attendre que Malte s’en charge.

      « Nous sommes des marins, des marins italiens. Nous avons 2 000 ans de civilité derrière nous et ces choses-là, nous les faisons », avait déclaré quelques jours plus tard le commandant des garde-côtes, l’amiral Giovanni Pettorino. Les 450 migrants étaient restés trois jours à bord du Diciotti, jusqu’à ce que M. Salvini les laisse débarquer en Sicile après avoir obtenu que d’autres Etats européens en accueillent une partie.

      https://www.lemonde.fr/europe/article/2018/08/18/italie-des-garde-cotes-et-177-migrants-bloques-depuis-jeudi-au-large-de-lamp

    • Les migrants du « Diciotti », bateau bloqué cinq jours à Catane, enfin autorisés à débarquer

      Les 150 migrants qui se trouvaient à bord du Diciotti, un bateau des garde-côtes italiens bloqué depuis cinq jours dans le port sicilien de Catane, avaient tous quitté le navire dimanche 26 août au matin, une solution ayant été trouvée la veille pour leur prise en charge.

      Le ministre de l’intérieur italien, Matteo Salvini, avait annoncé, samedi 25 août, que les migrants qui étaient encore bloqués à bord du navire Diciotti depuis son arrivée lundi à Catane, en Sicile, seraient autorisés à débarquer « dans les prochaines heures ». « Une grande partie sera hébergée par l’Eglise italienne, par les évêques qui ont ouvert leurs portes, leur cœur et leur portefeuille », a-t-il déclaré au cours d’une réunion politique dans le nord de l’Italie.

      Le Diciotti, un navire des gardes-côtes italiens, avait procédé à une opération de sauvetage il y a une dizaine de jours. Dans un premier temps, les autorités sanitaires du port de Catane avaient autorisé le débarquement pour raison de santé de seize personnes – onze femmes et cinq hommes – auxquelles s’était ajouté un sixième homme, malade lui aussi, portant le total à dix-sept personnes. Plusieurs médecins et inspecteurs du ministère de la santé étaient montés à bord dans la matinée pour contrôler l’état de santé des rescapés.
      « Ils ne nous arrêteront pas »

      De son côté, la cour de justice de Palerme s’est saisie d’une enquête visant notamment M. Salvini pour « séquestration de personnes, arrestations illégales et abus de pouvoir » dans cette affaire, ont annoncé, samedi soir, les médias italiens. Le chef de cabinet du ministre, Matteo Piantedosi, est également visé.

      Comme la Constitution italienne interdit aux tribunaux habituels de se charger de ce type d’affaire, l’enquête a été transmise à un « tribunal des ministres », chargé depuis la cour de Palerme de traiter de potentiels délits commis par des membres du gouvernement sur la juridiction sicilienne.

      « Ils ne nous arrêteront pas. C’est une honte », a immédiatement réagi M. Salvini, par ailleurs chef de file du parti d’extrême droite La Ligue, depuis la ville de Pinzolo, où il tenait une réunion politique. « Ils peuvent m’arrêter moi, mais pas la volonté de 60 millions d’Italiens », a ajouté le ministre.
      Nombreuses critiques

      Luigi Patronaggio, le procureur du parquet d’Agrigente, avait d’abord ouvert, vendredi, une enquête de justice, cherchant à comprendre la chaîne de commandement ayant mené à l’interdiction du débarquement des 150 migrants secourus par les gardes-côtes.

      M. Salvini, tenant d’une ligne dure envers les migrants, avait réagi le jour même à l’annonce de cette première enquête, demandant au magistrat de l’interroger directement. « Il devrait m’interroger moi et non pas demander des éclaircissements à des fonctionnaires qui exécutent les directives données par le responsable, c’est-à-dire moi », avait déclaré le ministre.

      De nombreuses critiques, venant de tous bords, pleuvent depuis des jours sur M. Salvini. L’une des plus dures a été formulée par l’archevêque d’Agrigente, le cardinal Francesco Montenegro : « Parfois, il m’arrive de penser que s’il s’était agi d’animaux, on les aurait mieux traités », a-t-il déclaré samedi au quotidien La Stampa.
      « La solidarité européenne est importante »

      Depuis Genève, le Haut-Commissariat de l’ONU pour les réfugiés (HCR) a lancé, samedi, « un appel aux Etats membres de l’Union européenne [UE] pour qu’ils offrent d’urgence des places de réinstallation » aux migrants du Diciotti, exhortant Rome « à autoriser [leur] débarquement immédiat ».

      Le seul soutien de l’UE est venu samedi soir de l’Irlande, qui, par la voix de son ministre des affaires étrangères Simon Coveney, a offert de prendre en charge 20 à 25 migrants. « La solidarité européenne est importante », a souligné le chef de la diplomatie irlandaise.

      L’Albanie, un pays qui n’appartient pas à l’UE, a donné son accord pour en accueillir vingt. En début de soirée, le ministère des affaires étrangères italien, Enzo Moavero Milanesi, a remercié sur Twitter « l’Albanie pour sa décision d’accueillir vingt réfugiés du Diciotti, un signal de grande solidarité et de grande amitié ».

      Après avoir menacé, vendredi, l’UE « de payer moins » pour le budget communautaire en raison de l’absence de solidarité, ce dernier est revenu à la charge samedi en promettant que « l’Italie ne votera pas lorsqu’il faudra l’unanimité pour adopter le budget ».


      https://www.lemonde.fr/europe/article/2018/08/25/italie-douze-migrants-du-diciotti-autorises-a-debarquer-en-sicile-pour-raiso

    • Pour compléter la compilation, voici les liens envoyés par Sara Prestianni, toujours via la mailing-list Migreurop :
      – La Procure de Agrigento met sous enquête le Ministre Salvini et son chef de cabinet pour séquestration de personne, abus d’office et arrestation illegale dans le cas Diciotti. Les actes ont été transférés à la Procure de Palerme puisque puisse les envoyer au tribunal des ministres.
      en ENG -> https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/08/24/diciotti-il-report-della-guardia-costiera-una-nave-fantasma-maltese-ha-portato-il-barcone-verso-la-zona-sar-italiana/4578569

      – ici la reconstruction des operation de sauvetage et des tensions Malte/Italie sur le cas Diciotti : https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/08/24/diciotti-il-report-della-guardia-costiera-una-nave-fantasma-maltese-ha-portato-il-barcone-verso-la-zona-sar-italiana/4578569

      – Salvini annonce que les migrants seront “redistribué” entre Albanie, Irlande et plus de 100 seront pris en charge par la CEI (l’Eglise Catholique)
      https://www.corriere.it/politica/18_agosto_25/diciotti-salvini-se-ue-non-risolve-veto-bilancio-farnesina-l-albania-pronta
      Cette solution sonne surreale : tant le fait d’envoyer des erytréens en Albanie mais aussi pour la CEI qui, de fait se trouve en territoire italien ….
      Du moment que il se trouvent sur un bateau italien - donc en territoire italien - et surtout ceux qui seront pris en charge par l’église italiennes les réfugiés de la Diciotti ont le droit de demander l’asile en Italie et c’est l’Italie qui doit être responsable pour leur accueil.
      La menace de l’autre VicePresident du Conseil Di Maio pour la réponse negative de l’UE dans la redistribution des migrants de la Diciotti vue comme un chantage est celle de ne pas voter le bilan UE ...

      – Mardi prochain Salvini rencontre Orban à Milano. Ambiguïté pour une rencontre qui a été annoncé comme politique mais pas institutionnel mais qui surement se focalisera sur une alliance italo/hongrois sur la migration.
      La société civile italienne - qui a démontré sa capacité de mobilisation hier au port de Catane - a annoncé une manifestation pour mardi à Milano.
      http://www.adnkronos.com/fatti/politica/2018/08/25/salvini-orban-non-incontro-istituzionale_WalFIXn1NA6IzNX33puN9O.html

    • Salvini indagato per la «Diciotti», spunta sentenza Ue su caso simile

      La Corte europea dei diritti dell’uomo, due anni fa, si è pronunciata condannando l’Italia per il trattenimento illegale di tre migranti tunisini: la Procura di Agrigento ha allegato il verdetto agli atti dell’inchiesta sul leader della Lega trasmessi ai colleghi di Palermo.

      Le leggi italiane sul trattenimento dei migranti irregolari sono imprecise. E l’ambiguità legislativa che ne deriva «ha dato luogo a numerose situazioni di privazione della libertà». Il giudizio è netto e arriva dalla Corte europea dei diritti dell’uomo che, due anni fa, si è pronunciata, condannando l’Italia, per il trattenimento illegale di tre migranti tunisini, prima nel centro di accoglienza di Lampedusa, poi a bordo di due navi. Un caso che, per i magistrati agrigentini, sarebbe una «fotocopia» di quello della nave Diciotti costato al ministro dell’Interno Matteo Salvini e al suo capo di gabinetto Matteo Piantedosi le accuse di sequestro di persona, sequestro di persona a scopo di coazione, abuso d’ufficio, omissione di atti d’ufficio e arresto illegale.

      Tanto la vicenda somiglia a quella dei profughi soccorsi dalla Guardia costiera il 16 agosto e costretti a restare per giorni a bordo della Diciotti, che la Procura di Agrigento ha allegato il verdetto Cedu agli atti dell’inchiesta sul leader della Lega trasmessi ai colleghi di Palermo. Il provvedimento della Corte di Strasburgo, emesso il 15 dicembre del 2016, è dunque ora a disposizione dei pm del capoluogo - il fascicolo è intestato al procuratore Francesco Lo Voi e all’aggiunto Marzia Sabella - che, con le loro deduzioni dovranno inviare le carte al Tribunale dei ministri visto il coinvolgimento di un esponente dell’esecutivo. I magistrati possono anche modificare i reati ipotizzati.

      La sentenza di Strasburgo, che nasce dal ricorso di tre tunisini soccorsi nel 2011 nel Canale di Sicilia, rimasti giorni nel Cpa di Lampedusa e poi, in attesa del rimpatrio, trattenuti sulle navi Audacia e Vincent, sembra «sposare» l’ipotesi, tra quelle formulate dai magistrati di Agrigento, del sequestro di persona, e non del sequestro di persona a scopo di coazione. Quest’ultima infatti, pure attualmente contestata agli indagati, richiederebbe un dolo specifico al momento non riscontrabile.

      «Il trattenimento in un Centro di accoglienza - dicono i giudici della Cedu che hanno riconosciuto ai tre tunisini 10 mila euro di risarcimento per la violazione dell’articolo 5 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo - sfugge al controllo dell’autorità giudiziaria, il che, anche nell’ambito di una crisi migratoria, non può conciliarsi con lo scopo della norma che prevede che nessuno sia privato della sua libertà in maniera arbitraria». «Le considerazioni sopra esposte - spiegano - bastano alla Corte per concludere che la privazione della libertà dei ricorrenti non soddisfaceva il principio generale della certezza del diritto e contrastava con lo scopo di proteggere l’individuo dall’arbitrarietà».

      Secondo la Cedu, «i ricorrenti non solo sono stati privati della libertà in assenza di base giuridica chiara ed accessibile, ma non hanno nemmeno potuto beneficiare delle garanzie fondamentali dell’habeas corpus, enunciate, ad esempio, nell’articolo 13 della Costituzione italiana che prevede che la restrizione della libertà personale deve fondarsi su un atto motivato dell’autorità giudiziaria, e le misure provvisorie adottate, in casi eccezionali di necessità e urgenza, dall’autorità di pubblica sicurezza, devono essere convalidate dall’autorità giudiziaria entro un termine di 48 ore».

      https://www.lasicilia.it/news/cronaca/185808/salvini-indagato-per-la-diciotti-spunta-sentenza-ue-su-caso-simile.html

    • Cei, migranti Diciotti nel centro di Ariccia/ Ultime notizie, don Maffeis “Non sia la soluzione al problema"

      Il centro #Auxilia della #CEI di #Ariccia accoglie 100 migranti Diciotti/ Ultime notizie: “Non guardiamo altrove", aveva confessato il numero uno della Conferenza Episcopale Italiana, Bassetti.

      Sono stati accolti nel centro Cei di Ariccia, cento dei migranti che fino a pochi giorni fa erano sulla nave Diciotti. A riguardo ha parlato don Ivan Maffeis, sottosegretario Cei e direttore dell’Ufficio comunicazioni sociali, che all’agenzia dei vescovi italiani, la Sir, ha fatto capire di come questa sia una soluzione solo “tampone”: «Questa è una risposta di supplenza – ammette Maffeis - non è ‘la risposta’. La risposta di un Paese democratico matura attraverso ben altri processi. La Chiesa italiana – ha comunque fatto sapere Maffeis - è disposta a prendere tutti quelli che hanno necessità». Il dirigente della Cei ha poi voluto sottolineare come la Chiesa italiana accolga già oltre 26mila persone nelle sue strutture, e che a breve i migranti presenti nel centro di Ariccia verranno smistati nelle diocesi di Torino, Brescia, Bologna, Agrigento, Cassano all’Jonio, Rossano Calabro, e probabilmente altre se ne aggiungeranno. (aggiornamento di Davide Giancristofaro)
      IL CENTRO CEI DI ARICCIA NE ACCOGLIE 100

      Ben cento dei migranti presenti fino a poche ore fa sulla nave Diciotti della Guardia Costiera italiana, sono stati accolti dalla Chiesa e precisamente dal centro Auxilia delle CEI presente ad Ariccia, in provincia di Roma. Dopo che il governo italiano ha autorizzato lo sbarco, anche il Vaticano è voluto intervenire, ospitando parte dei profughi soccorsi dal pattugliatore. A breve verranno poi smistati presso le diocesi che hanno dato la loro disponibilità, dal nord al sud della nostra penisola. Una scelta decisamente condivisibile quella della chiesa, alla luce anche della nota di poco più di un mese fa, diffusa dal numero uno della Conferenza Episcopale Italiana, il cardinale Gualtiero Bassetti, che sul tema dell’immigrazione aveva spiegato: «Rispetto a quanto accade non intendiamo volgere lo sguardo altrove, né far nostre parole sprezzanti e atteggiamenti aggressivi. Non possiamo lasciare che inquietudini e paure condizionino le nostre scelte, determino le nostre risposte, alimentino un clima di diffidenza e disprezzo, di rabbia e rifiuto». (aggiornamento di Davide Giancristofaro)
      IL COMMENTO DEL VESCOVO RASPANTI

      Vicepresidente per il Sud della Conferenza episcopale Italiana, il vescovo di Acireale Antonino Raspanti è intervenuto ai microfoni di Avvenire per commentare il caso della Nave Diciotti, con la Cei che ospiterà 100 migranti a Rocca di Papa. Ecco le sue paroole: “Non c’è dubbio che la situazione sia complessa. Ma bisogna avere il coraggio di entrare nella complessità se vogliamo capire cosa sta accadendo davvero e quali principi siano in discussione. Non servono toni divisivi, ma capacità di ascolto e dialogo”. Il vescovo di Acireale ha poi analizzato il dibattito degli ultimi giorni: «Quello dell’immigrazione è un problema complesso che non si può affrontare con risposte banali e frasi fatte. È complesso sia all’interno, cioè in nel nostro amato Paese, come pure in Europa, perché richiede la capacità di soccorrere, di accogliere, ma anche di ascoltare i cittadini quando esprimono disagio. Occorre farlo con sapienza, perché non prevalga la reazione ideologica, aggressiva, che in fondo finisce (magari in modo non voluto) per alimentare divisioni. Ma è un problema complesso soprattutto all’esterno, penso in particolare all’Africa, da dove centinaia di migliaia di persone fuggono da conflitti, carestie, da un contesto nel quale la violenza e il sopruso, per interessi politici ed economici, sembrano talvolta non lasciare speranza. Si tratta di persone che provengono o attraversano “Paesi polveriera”, come sono la Libia, il Niger, il Sudan ed altri. Senza guardare alla globalità della questione, temo che finiremo per peggiorare le cose», invitando a «non strumentalizzare la vita umana». (Aggiornamento di Massimo Balsamo)
      UNHCR: «MA LA PROSSIMA VOLTA?»

      Il caso della Diciotti è ufficialmente chiuso: sia sul fronte politico, con la Procura di Agrigento che a passato gli atti al Tribunale dei Ministri dopo aver iscritto nel registro degli indagati il ministro Salvini; sia sul fronte sociale, con i migranti ripartiti tra la Cei (quasi tutti) l’Albania e l’Irlanda. L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) Filippo Grandi commenta soddisfatto per la fine dell’emergenza a bordo della nave Diciotti, ma si chiede cosa potrà accadere la prossima volta, con la prossima nave. «L’agenzia Onu elogia i Paesi e le organizzazioni che hanno dimostrato solidarietà offrendo di accogliere coloro che erano rimasti a bordo, ma allo stesso tempo l’Unhcr continua ad incoraggiare la messa in atto di accordi prestabiliti e prevedibili per la gestione delle persone soccorse in mare nella regione mediterranea, e sollecita gli Stati ad accelerare gli sforzi per mettere in atto tali accordi». Solo nel 2018, spiega ancora l’agenzia Onu, sono morte più di 1600 persone nel Mediterraneo nel tentativo di raggiungere le coste Ue: «La vita di rifugiati e richiedenti asilo è messa in pericolo mentre gli Stati sono impegnati in discussioni politiche per trovare soluzioni a lungo termine. La situazione della nave Diciotti è ora risolta, ma cosa succederà la prossima volta? Abbiamo bisogno di un approccio europeo collaborativo e prevedibile nei confronti delle persone soccorse in mare», conclude Grandi.
      PAPA FRANCESCO: “SARANNO INTEGRATI A ROCCA DI PAPA”

      Da alcune ore si è concluso l’incubo per i migranti a bordo della nave Diciotti, dopo giorni di attesa. Nella notte tra il 25 ed il 26 agosto sono finalmente sbarcati a Catania dopo essere rimasti cinque giorni a bordo dell’imbarcazione della Guardia costiera, ormeggiata al molo etneo. Dopo un estenuante braccio di ferro politico, però, la situazione si è finalmente sbloccata. Sono 143 i migranti condotti nell’hotspot di Messina e in attesa ora di essere trasferiti nelle strutture messe a disposizione dalla Chiesa. Gli altri, in un numero nettamente inferiore, saranno invece equamente distribuiti tra Albania e Irlanda. I migranti della Diciotti accolti dalla Chiesa saranno comunque «integrati»: lo ha fatto sapere Papa Francesco, nel corso della conferenza stampa che si è tenuta nelle passate ore sul volo di ritorno da Dublino. Bergoglio si è rivolto poi con una battuta ai giornalisti e, come riferisce RaiNews, ha aggiunto: «Io non ho messo lo zampino, lo zampino lo mette il diavolo». Quindi ha chiarito che il merito di ciò che è stato fatto con il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, va attribuito a padre Aldo Buonaiuto e alla Conferenza Episcopale. Il Papa ha poi specificato quale sarà il destino dei migranti, i quali saranno accolti a Rocca di Papa presso «Mondo Migliore», Centro di Accoglienza Straordinaria (Cas), a sud della Capitale e che in passato era un centro congressi gestito dai padri oblati. (Aggiornamento di Emanuela Longo)
      CHIESA SFIDA IL GOVERNO

      La Conferenza Episcopale Italiana ieri sera, nel pieno del caos per la vicenda dei migranti sulla nave Diciotti della Guardia Costiera (qui tutti i dettagli dei 137 migranti sbarcati nella notte a Catania), ha preso una decisione molto importante e dal forte significativo umanitario, prima di tutto, e poi anche politico. «La Chiesa italiana garantirà l’accoglienza a un centinaio di migranti della nave Diciotti. L’accordo con il Viminale è stato raggiunto per porre fine alle sofferenze di queste persone, in mare da giorni»: poco prima era stato lo stesso Ministro Salvini, che nelle scorse ore è stato indagato proprio per la gestione del caso Diciotti (arresto illegale, sequestro di persona e abuso di ufficio, ndr) aveva spiegato dal palco della Lega a Pinzolo «Gli immigrati a bordo della Diciotti sbarcheranno tutti nelle prossime ore», annuncia al suo arrivo alla festa della Lega a Pinzolo. E «gran parte saranno ospitati dalla Chiesa italiana, dai vescovi, che ringrazio». 100 di quei rifugiati verranno dunque accolti all’interno delle varie Diocesi italiane, mentre 20 andranno in Albania e gli ultimi 20 in Irlanda (dove ora è impegnato proprio Papa Francesco per il Meeting delle Famiglie).
      LA “SPINTA” DI PAPA FRANCESCO

      «Non si può fare politica sulla pelle dei poveri», ha spiegato a Sky Tg24 lo stesso Maffeis, quando poco prima il Presidente Bassetti aveva rilanciato il dover di accogliere persone disagiate e da tempo in mare dopo «gli orrori della guerra e della fame. L’Europa e l’Italia non possono essere lasciate sole nel gestire un’emergenza umanitaria del genere, ma detto questo quando si vedono persone in difficoltà come quelle sulla nave Diciotti il primo dovere è l’accoglienza». Secondo alcuni osservatori, una spinta decisa per l’accoglienza della Cei ai migranti - in aperta sfida al Governo gialloverde - potrebbe essere arrivata proprio da Dublino: secondo De Marchis su Repubblica, «Il Vaticano era pronto anche ad allestire un campo profughi. Nel suo territorio, a Santa Maria di Galeria, pochi chilometri da Roma, dove ci sono le antenne radio dismesse di Radio Vaticana. Poi, in una riunione convocata d’urgenza venerdì nella Santa Sede si è deciso che la collocazione degli immigrati della Diciotti sarebbe toccata alla Conferenza episcopale italiana, cioè ai vescovi e alle strutture delle diocesi sul territorio italiano». Il Papa ha dato il suo consenso e l’iter è scattato: risultato, ora i migranti sono tutti sbarcati e il “caso mediatico” per il momento almeno è terminato.

      http://www.ilsussidiario.net/News/Cronaca/2018/8/26/Cei-accoglie-100-migranti-della-Diciotti-Chiesa-sfida-il-Governo-non-si-fa-politica-sulla-pelle-dei-poveri-/836222

    • Diciotti, 50 migranti irreperibili. Tensione Chiesa-Governo, la Caritas: non sono detenuti

      Sono una cinquantina i migranti della Diciotti che si sono resi irreperibili. Alcuni casi sono stati segnalati già alle prefetture di competenza. Diversi si sono allontanati dal centro di Rocca di Papa individuato dalla Cei prima di partire verso le diocesi ospitanti, altri hanno fatto perdere le loro tracce una volta arrivati nei vari centri Caritas.

      Il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha commentato: «Più di 50 degli immigrati sbarcati dalla Diciotti erano così ’bisognosi’ di avere protezione, vitto e alloggio, che hanno deciso di allontanarsi e sparire! Ma come, non li avevo sequestrati? È l’ennesima conferma che non tutti quelli che arrivano in Italia sono ’scheletrini che scappano dalla guerra e dalla fame’. Lavorerò ancora di più per cambiare leggi sbagliate e azzerare gli arrivi».

      Nel dettaglio, a quanto si apprende da fonti del Viminale, 6 si sono allontanati il primo giorno di trasferimento, cioè venerdì 31. A questi si aggiungono 2 eritrei destinati alla Diocesi di Firenze che sono si sono allontanati in data 2 settembre; altri 19 il cui allontanamento è stato riscontrato il 3 settembre, e 13 il cui allontanamento è stato riscontrato ieri ed erano destinati a varie Diocesi.

      A Bologna, per esempio, aspettavano oggi due giovani eritrei che non sono mai arrivati. A Frosinone erano invece già arrivati, ospiti della Caritas locale, e poi hanno scelto di non presentarsi più al centro di accoglienza. Il conto non sarebbe definitivo.

      Caritas Italiana conferma l’accaduto, ma ci tiene a sottolineare che «è stato allontanamento volontario, non una fuga. Si fugge da uno stato di detenzione e non è questo il caso, nessuno vuole rimanere in Italia, si sa», dice il direttore don Francesco Soddu.

      «Queste persone - spiega il sacerdote che in queste ore ha gestito per la Cei l’accoglienza - davanti ad una situazione di affidamento, o prima o dopo avrebbero potuto scegliere di allontanarsi volontariamente» perché la struttura che li accoglie non ha il compito di trattenerli. I migranti, ovunque verranno trovati, in Italia o anche all’estero, «potranno chiedere asilo - dice don Soddu - ricominciando quella procedura che era stata avviata nelle nostre strutture».

      I migranti che si sono allontanati si erano limitati a «manifestare l’interesse per formalizzare la domanda d’asilo», fanno sapere dal Viminale.

      Tutte le persone in questione erano state identificate con rilievi fotodattiloscopici e inserite in un sistema digitale europeo. Controlli anche sulla nazionalità di chi si è allontanato: almeno in 6 provengono dalle Isole Comore.

      Per la cronaca, oggi al centro Mondo Migliore di Rocca di Papa c’era stata una grande festa proprio per i migranti della Diciotti, soprattutto per quelli in partenza verso le varie strutture Caritas. A portare la benedizione di Papa Francesco era stato il cardinale Konrad Krajewski, elemosiniere del pontefice, che si è fermato a pranzo portando per tutti gli ospiti presenti dei gelati.

      http://gds.it/2018/09/05/diciotti-50-migranti-irreperibili-tensione-chiesa-governo-la-caritas-non-sono-de
      #disparitions

    • Italie : Matteo #Salvini sous #enquête_judiciaire pour « #abus_de_pouvoir »

      La décision du parquet d’Agrigente est intervenue au moment où la situation des migrants du « Diciotti » trouvait une issue, notamment à cause des pressions du Mouvement des Cinq Etoiles.

      « C’est une honte. Ils peuvent m’arrêter mais ils n’arrêteront pas le changement. » En meeting samedi soir dans le nord de l’Italie, le leader de l’extrême droite Matteo Salvini a durement réagi à sa mise sous enquête par le parquet d’Agrigente. Pour avoir interdit pendant près d’une semaine à une centaine de migrants de débarquer dans le port de Catane alors qu’ils se trouvaient à bord du Diciotti, un navire des gardes-côtes italiens qui les avaient recueillis à proximité de Lampedusa, le ministre de l’Intérieur a en effet appris samedi qu’il était suspecté de « séquestration de personnes, arrestations illégales et abus de pouvoir ».

      En clair, Matteo Salvini et son chef de cabinet sont accusés d’avoir outrepassé leurs attributions et violé la loi. Les normes sur l’immigration prévoient en particulier qu’aucune décision ne peut être prise à l’encontre d’une personne avant que celle-ci n’ait été identifiée et mise dans les conditions de pouvoir déposer éventuellement une demande d’asile ou de protection humanitaire. Or sur le Diciotti figuraient de nombreux Erythréens ainsi que des Syriens, tous jugés de manière expéditive comme des « illégaux » par Matteo Salvini.

      Concrètement, la procédure judiciaire a peu de chances. L’éventuel renvoi devant la justice du ministre nécessite en effet son improbable levée de l’immunité parlementaire au Sénat. « Matteo Salvini ne cherchait que cela […] : se retrouver sous enquête est ce qu’il désirait », s’inquiète l’éditorialiste du quotidien La Stampa.
      « Matteo, ça suffit, trouve une solution »

      Ce qui est sûr, c’est que l’autorisation donnée par le ministre de l’Intérieur pour faire finalement débarquer dans la nuit de samedi à dimanche les migrants du Diciotti est passée au second plan. C’est un appel téléphonique du vice-premier ministre, Luigi Di Maio, du Mouvement des Cinq Etoiles (M5S), à son homologue de la Ligue qui aurait permis de débloquer la situation : « Matteo, ça suffit, trouve une solution. Je ne tiens plus mes troupes. »

      Si Luigi Di Maio soutient pleinement la ligne dure de Matteo Salvini, une partie des responsables des M5S, dont le président de la Chambre des députés, Roberto Fico, critiquent la politique intransigeante du leader d’extrême droite. Après l’annonce de la part de l’Albanie (rejointe par l’Irlande) que Tirana était prêt à accueillir 20 migrants du bateau, Salvini a donc donné son feu vert glissant au passage : « Je remercie le gouvernement albanais qui s’est montré plus sérieux que le gouvernement français. »

      Les autres passagers du Diciotti seront hébergés par l’Eglise catholique. Selon la presse italienne, le pape aurait même été disposé à les accueillir sur le territoire du Vatican mais ils seront finalement repartis dans les différents diocèses italiens. « L’Eglise ouvrira les portes, le cœur et le portefeuille », a résumé Matteo Salvini qui continue de défier l’UE : « C’est l’Europe qui a besoin de l’Italie et non l’inverse. »

      Le gouvernement de Giuseppe Conte menace toujours de ne pas verser sa contribution au budget de la Commission si elle n’obtient pas des concessions notamment sur la question migratoire. « Je pense que les hommes politiques de votre pays devraient comprendre que vous n’êtes pas seuls en ce moment, que l’Europe cherche à vous aider », a répliqué dans les colonnes du Corriere della Sera le commissaire européen à la Migration, Dimitris Avramópoulos. Et de mettre en garde : « Qui attaque l’UE se tire une balle dans le pied. »

      http://www.liberation.fr/planete/2018/08/26/italie-matteo-salvini-sous-enquete-judiciaire-pour-abus-de-pouvoir_167459

    • Processo penale e stato di diritto dopo i soccorsi in mare

      1.Le reazioni all’atto di accusa dei giudici di Agrigento sul caso del blocco in mare e del trattenimento prolungato dei naufraghi soccorsi il 16 agosto scorso dalla nave Diciotti della Guardia costiera italiana fanno chiaramente comprendere i rischi che corre lo stato di diritto nel nostro paese. Non ci riferiamo soltanto alle reazioni spesso scomposte dei media a supporto dell’azione del ministro dell’interno, ma anche a pareri giuridici apparentemente neutrali, riportati dai soliti giornali “bene informati”, magari a firma di qualche autorevole giurista, che tendono a colpire alle fondamenta l’impianto accusatorio del Procuratore di Agrigento che venerdì 31 agosto ha trasmesso il fascicolo d’indagine al Tribunale dei Ministri a Palermo. In arrivo ad Agrigento anche una ispezione decisa dal ministro della Giustizia, silente di fronte agli attacchi che sta subendo la magistratura inquirente, attacchi di cui si occuperà il Consiglio superiore della magistratura nella prossima seduta del 5 settembre, su richiesta di tutte le componenti. E potrebbe essere rimosso anche il capo della Guardia costiera, “reo” di avere consentito troppi soccorsi in acque internazionali.

      Da ultimo il Messaggero pubblica un sondaggio per confermare il supporto popolare a Salvini, senza neppure un accenno critico alla possibilità che il ministro, o altri, possano avere violato leggi e regolamenti. L’indipendenza della magistratura, dunque uno dei valori di base del patto costituzionale, alla mercè dei sondaggisti. Una domanda secca da quale parte schierarsi. La maggioranza degli italiani sembrerebbe scegliere la parte di chi fa ogni giorno una politica basata sull’odio e sugli abusi contro i migranti. Un altro passo verso il “fascismo democratico”, al quale sta contribuendo un apparato mediatico, la Bestia, in grado di controllare ed orientare la comunicazione sui social.

      Nelle posizioni più tecniche a difesa del ministero del’interno, si contesta alla Procura di Agrigento di avere voluto influire sulla linea politica del governo in carica nella attuazione di quello che, sui media è stato definito come “blocco dei porti”, ma che in realtà non è stato mai deciso formalmente da nessun ministro, risultando piuttosto effetto di decisioni trasmesse oralmente a mezzo facebook da Salvini, e da una precisa omissione nella indicazione di un porto di sbarco da parte del ministero dell’interno e del ministero delle infrastrutture. Come è precisato anche nei report periodici della guardia costiera, l’indicazione del porto di sbarco avviene da tempo su indicazione del ministero dell’interno in cordinamento con la Centrale operativa della stessa Guardia costiera (IMRCC).

      Chi oggi contesta che i verbali sull’inchiesta Diciotti sarebbero stati pubblicati impropriamente, circostanza che rimane tutta da dimostrare, potrebbe ricordare a sè, ad ai suoi lettori, che lo scorso anno le relazioni degli agenti infiltrati a bordo della nave Vos Hestia di Save the Children, che poi costituirono i principali testimoni di accusa nell’indagine che portò al sequestro della nave Juventa, ed a successive imputazioni individuali, furono “passate” con mesi di anticipo proprio a Matteo Salvini che le utilizzò per la sua campagna elettorale contro le ONG, rendendo noti elementi di indagine prima che la Procura di Trapani adottasse i provvedimenti di sequestro. Allora nessuno sollevò eccezioni per quella attività di indagine sotto copertura con informazioni riservate trasmesse ai politici, che contro le ONG era una prassi in corso da tempo. Mentre oggi, sia pure in presenza di una grande discrezione da parte delle autorità inquirenti, si cerca di scerditarle battendo sul tasto della pubblicità che sarebbe stata data agli atti di indagine relativi a responsabilità ministeriali. Evidentemente gli obblighi di riservatezza sono valutati in modo diverso a seconda degli imputati.

      Nessuno si interroga su quanto abbiano “influito sulla gestione politica dei controlli di frontiera” le diverse iniziative della magistratura che lo scorso anno mettevano sotto indagine le ONG e diversi operatori umanitari, che avevano salvato la vita a decine di miglliaia di vite di migranti fuggiti dalla Libia e che si trovavano sulle prime pagine dei giornali, prima ancora che negli atti giudiziari, indicati come complici dei trafficanti, taxi del mare, speculatori senza scrupoli su una situazione di bisogno. I magistrati che hanno fatto scattare la criminalizzazione della soldarietà sono stati portati come esempio da certa politica, quella stessa politica che oggi si indigna per accertanenti doverosi che altri magistrati stanno facendo sulla correttezza delle procedure seguite nel caso della nave Diciotti. Il principio di eguaglianza davanti alla legge dovrebbe essere il primo fondamento di uno stato di diritto.

      2 .I fatti a base delle accuse sul trattenimento indebito dei naufraghi sulla Diciotti non sono stati divulgati dalla Procura agrigentina ma sono documentati in due relazioni “informative” inviate alla stessa Procura dal Garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, che ha inviato a bordo della nave una delegazione che ha accertato una prima parte dei fatti poi contestati al ministro Salvini. I risultati delle attività di indagine del Garante sono noti e consultabili on line, e su questi si è basata la successiva diffusione di notizie che si è poi attenuta scrupolosamente ai comunicati ufficiali emessi nel rispetto delle regole processuali dalla Procura di Agrigento. Altre visite di parlamentari ed organizzazioni umanitarie che hanno assistito le persone subito dopo lo sbarco, hanno confermato il trattenimento illegittimo a bordo della Diciotti e le pessime condizioni igieniche ed ambientali nelle quali i naufraghi, malgrado il prodigarsi degli uomini della Guardia costiera, sono stati costretti per quasi dieci giorni, per effetto della mancata autorizzazione allo sbarco.

      Come hanno ammesso in diverse occasioni i ministri dell’interno e delle infrastrutture,la libertà personale dei naufraghi soccorsi dalla nave Diciotti e trattenuti a bordo per quasi dieci gioni è stata limitata, anche sotto sorveglianza armata, in attesa che l’Unione Europea adottasse provvedimenti relativi alla loro successiva rilocazione in altri paesi UE, e non per ragioni attinenti alla loro condizione personale, anche perchè trovandosi già su nave italiana dopo una azione di soccorso, era doveroso il loro sbarco dopo i primi esami medici e le procedure di preidentificazione già svolti a bordo della nave.
      Per la Cassazione ( Sez. VI, sent. n. 23423 del 26.03.2010) “il delitto di sequestro di persona consumato da un pubblico ufficiale con abuso di poteri inerenti alle sue funzioni e quello di arresto illegale hanno in comune l’elemento materiale (consistente nella privazione della libertà di un soggetto), ma si differenziano per l’elemento soggettivo, che nel primo caso richiede la volontà dell’agente di tenere la persona offesa nella sfera del suo dominio, mentre nel secondo caso è diretto comunque a mettere la persona offesa a disposizione dell’autorità competente, sia pure privandola della libertà in maniera illegale. (Fattispecie in cui la S. C. ha escluso il meno grave reato di cui all’art. 606 cod. pen., ravvisando quello di sequestro di persona nell’indebito trattenimento di una persona, per alcune ore, presso un posto di polizia ferroviaria).

      Secondo la Cassazione Penale (sez V, sent. 25.07.2017, n. 36885) I pubblici ufficiali che trattengono una persona in caserma con la finalità di raccogliere le loro deposizioni rispondono di sequestro di persona aggravato dall’abuso di potere (art. 605, co. 2, n. 2, c.p.) e non di arresto illegale (art. 606 c.p.).

      Come ha rilevato l’Unione delle Camere penali in una lettera al Presidente della Repubblica, in base all’art.289 ter del Codice Penale, “chiunque, fuori dei casi indicati negli articoli 289-bis e 630, sequestra una persona o la tiene in suo potere minacciando di ucciderla, di ferirla o di continuare a tenerla sequestrata al fine di costringere un terzo, sia questi uno Stato, una organizzazione internazionale tra più governi, una persona fisica o giuridica o una collettività di persone fisiche, a compiere un qualsiasi atto o ad astenersene, subordinando la liberazione della persona sequestrata a tale azione od omissione, è punito con la reclusione da venticinque a trenta anni”. L‘Unione delle Camere Penali ha anche osservato che nell’ultimo caso della nave Diciotti “si tratta di una violazione dei più elementari principi costituzionali e della normativa internazionale in materia di Diritti dell’Uomo, sia per la prolungata privazione di fatto della libertà personale delle persone forzatamente trattenute (art. 13 Cost., art. 5 CEDU), sia per le condizioni in cui la detenzione si esplica, costringendole a stazionare promiscuamente sul ponte della nave in condizioni assolutamente non dignitose (art. 3 CEDU)”.

      Se poi si contesta alla Procura di Agrigento di avere ricostruito una decisione riferibile al ministro dell’interno in assenza di un “atto formale e scritto”, si omette di considerare la rilevanza penale che possono assumere i provvedimenti amministrativi adottati attraverso gli ordini verbali, soprattutto se comunicati con mezzi informali, o in assenza dei provvedimenti formali ( indicazione di un porto di sbarco) che si dovevano adottare con la massima tempestività, come previsto dalla Procedura operativa standard (S.O.P.) adottata dal ministero dell’interno a partire dal dicembre 2015, a seguito di due decisioni del Consiglio europeo del settembre dello stesso anno (decisione 1523 del 14 settembre 2015 e 1601 del 22 settembre 2015) . Si dovrebbe poi considerare l’ipotesi che altri soggetti, funzionari, militari o in ipotesi altri ministri, abbiano concorso nei medesimi reati fin qui contestati dalla Procura di Agrigento, alla stregua dell’art. 110 del Codice penale. In queste circostanze anche la comunicazione verbale o a mezzo social media potrebbe assumere rilevanza.

      Non appare configurabile alcuna scriminante come quella che deriverebbe dall’art. 51 del Codice Penale, avere agito in adempimento di un dovere, “imposto da una norma giuridica o da un ordine legitimo di una autorità”. Appare ben strano che da una parte si escluda l’imputabilità del ministro per l’assenza di un provvedimento formale, e da un’altra parte si invochi in suo favore una causa di giustificazione che si basa proprio sulla ricorrenza di un “ordine legittimo di una autorità”. Le norme giuridiche vigenti imponevano ben altro nel caso delle persone soccorse dalla nave Diciotti, e nello stesso caso non vi è traccia di “ordini legittimi dell’autorità”. Si può invece dubitare proprio della legittimità degli ordini impartiti, anche in modo informale, dalle diverse autorità che hanno prima ritardato l’indicazione del porto di attracco e poi lo sbarco a terra dei naufraghi. Ma su questo saranno gli accertamenti della magistratura a fare chiarezza.

      Al termine della procedura operativa (S.O.P.) stabilita per i richiedenti asilo dopo lo sbarco in porto, il richiedente ammesso alla successiva fase di formalizzazione della richiesta ed alle misure di prima accoglienza, riacquista la sua libertà personale, circostanza che nel caso dei naufraghi soccorsi dalla nave Diciotti è stata differita di almeno una settimana. Una settimana di ingiusta privazione della libertà personale, anche nei confronti di donne già sottoposte in Libia a gravi abusi, e di minori non accompagnati, come tali non respingibili in frontiera e tutti aventi diritto quanto meno ad un permesso di soggiorno per minore età. Periodo di tempo che è decorso da quando la nave Diciotti è stata bloccata davanti all’isola di Lampedusa per diversi giorni, senza ricevere la indicazione di un porto di sbarco in Italia, ma con la minaccia addirittura, esternata dallo stesso ministro dell’interno, di procedere ad un respingimento collettivo verso la Libia, qualora l’Unione Europea, o il gruppo di stati dell’Unione, definito come “volenterosi”, non avesse ceduto sulla richiesta di una immediata redistribuzione dei naufraghi, dopo lo sbarco, in diversi paesi europei. Salvini, ha sfidato ancora una volta l’Europa minacciando, come ha riferito l’agenzia di stampa Ansa, di rimandare nuovamente in Libia le persone tratte in salvo dalla Diciotti, al suo quarto giorno di permanenza in rada davanti a Lampedusa. “O l’Europa decide seriamente di aiutare l’Italia in concreto, a partire ad esempio dai 180 immigrati a bordo della nave Diciotti, oppure saremo costretti a fare quello che stroncherà definitivamente il business degli scafisti. E cioè riaccompagnare in un porto libico le persone recuperate in mare”, “ha tuonato senza mezzi termini Salvini” ben prima che la nave arrivasse a Catania. Il reato di illecito trattenimento e di sequestro di persona che si potrebbe configurare in questa ipotesi è quindi caratterizzato dalla “continuità territoriale”. La competenza investigativa, dunque, rimane radicata alla procura che per prima ha aperto il fascicolo.

      Il ministro dell’interno, dopo la trasmissione del fasciclo di indagine al Tribunale dei ministri,, ha poi rinnovato il proposito di procedere nella stessa direzione, ove si dovessero verificare in futuro casi analoghi, magari con qualche respingimento collettivo, in violazione dell’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dell’art. 4 del Quarto Protocollo allegato alla CEDU, già oggetto di una condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo, nel 2012, sul caso Hirsi.

      Le Procedure operative standard previste dopo lo sbarco in porto a seguito di azioni di salvataggio (SAR) non sono state mai recepite integralmente in un provvedimento di legge, ma vengono richiamate dall’art.10 ter del T.U. n.286 del 1998 come modificato nel 2017. Secondo questa norma “Lo straniero rintracciato in occasione dell’attraversamento irregolare della frontiera interna o esterna ovvero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare e’ condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi allestiti nell’ambito delle strutture di cui al decreto-legge 30 ottobre 1995, n. 451, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 dicembre 1995, n. 563, e delle strutture di cui all’articolo 9 del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142. Presso i medesimi punti di crisi sono altresi’ effettuate le operazioni di rilevamento fotodattiloscopico e segnaletico, anche ai fini di cui agli articoli 9 e 14 del regolamento UE n. 603/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013 ed e’ assicurata l’informazione sulla procedura di protezione internazionale, sul programma di ricollocazione in altri Stati membri dell’Unione europea e sulla possibilita’ di ricorso al rimpatrio volontario assistito. 2. Le operazioni di rilevamento fotodattiloscopico e segnaletico sono eseguite, in adempimento degli obblighi di cui agli articoli 9 e 14 del regolamento UE n. 603/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno 2013, anche nei confronti degli stranieri rintracciati in posizione di irregolarita’ sul territorio nazionale. 3. Il rifiuto reiterato dello straniero di sottoporsi ai rilievi di cui ai commi 1 e 2 configura rischio di fuga ai fini del trattenimento nei centri di cui all’articolo 14. Il trattenimento e’ disposto caso per caso, con provvedimento del questore, e conserva la sua efficacia per una durata massima di trenta giorni dalla sua adozione, salvo che non cessino prima le esigenze per le quali e’ stato disposto. Si applicano le disposizioni di cui al medesimo articolo 14, commi 2, 3 e 4. Se il trattenimento e’ disposto nei confronti di un richiedente protezione internazionale, come definita dall’articolo 2, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251, e’ competente alla convalida il Tribunale sede della sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea. 4. L’interessato e’ informato delle conseguenze del rifiuto di sottoporsi ai rilievi di cui ai commi 1 e 2.”

      Se si intendeva adottare una diversa procedura operativa per impedire lo sbarco dei migranti fino ad una decisione dell’Unione europea favorevole alle richieste del governo, in difformità al passato, si sarebbe dovuta adottare almeno una circolare ed adottare un provvedimento formale coerente con gli indirizzi impartiti dall’Unione Europea e con gli obblighi di soccorso in mare sanciti da Convenzioni internazionali che l’Italia ha ratificato, e che dunque non sono derogabili per effetto di un ordine verbale.

      3. Secondo quanto previsto dalla Convenzione di Amburgo – SAR del 1979 , gli obblighi degli Stati parti non si limitano al salvataggio delle persone in pericolo in mare, ma comprendono anche lo sbarco delle stesse in un “luogo sicuro” (place of safety), come conferma la definizione di soccorso: “[a]n operation to retrieve persons in distress, provide for their initial medical or other needs, and deliver them to a place of safety”. Appare, dunque, evidente che, una volta soccorse, le persone tratte in salvo, compresi i migranti irregolari, debbano essere trasportate e sbarcate in un porto qualificabile come “place of safety”. Questi obblighi riguardano le autorità nazionali di coordinamento e tutte le navi private o militari che battono bandiera dello stato e anche quelle straniere che sono coinvolte nelle operazioni di ricerca e salvataggio, siano operazioni delle ONG o missioni militari come Themis di Frontex o Sophia di Eunavfor Med.

      Nel 2004, l’urgente necessità di individuare un luogo sicuro in cui condurre le pesone soccorse in mare ha indotto il Comitato per la sicurezza marittima dell’IMO a chiarire le procedure esistenti ai fini della sua determinazione. Ciò è avvenuto attraverso l’adozione di due risoluzioni di emendamento, rispettivamente, alla Convenzione SAR e alla Convenzione SOLAS, entrate in vigore nel 2006 per tutti gli Stati parte alle medesime Convenzioni con la sola eccezione di Malta, aventi quali obbiettivi quello di garantire agli individui in pericolo l’assistenza necessaria e di minimizzare le possibili conseguenze negative per l’imbarcazione che presti soccorso. Si tratta di norme che si applicano innanzitutto alle navi private che sono coinvolte in attività SAR ( ricerca e salvataggio) ma gli standard operativi stabiliti a loro riguardo devono trovare applicazione a maggior ragione ai soccorsi operati da mezzi appartenenti alla Guardia costiera italiana.

      Occorre ricordare che al punto 3.1.9 (emendato) della Convenzione SAR del 1979 si dispone:

      «Le Parti devono assicurare il coordinamento e la cooperazione necessari affinché i capitani delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in pericolo in mare siano dispensati dai loro obblighi e si discostino il meno possibile dalla rotta prevista, senza che il fatto di dispensarli da tali obblighi comprometta ulteriormente la salvaguardia della vita umana in mare. La Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione (Marittima Internazionale). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile.”

      In termini sostanzialmente analoghi, sempre con riferimento alle navi private, l’emendato art. 4.1.1 della Convenzione SOLAS dispone che:
      “Contracting Governments shall co-ordinate and co-operate to ensure that masters of ships providing assistance by embarking persons in distress at sea are released from their obligations with minimum further deviation from the ships’ intended voyage, provided that releasing the master of the ship from the obligations under the current regulation does not further endanger the safety of life at sea. The Contracting Government responsible for the search and rescue region in which such assistance is rendered shall exercise primary responsibility for ensuring such coordination and co-operation occurs, so that survivors assisted are disembarked from the assisting ship and delivered to a place of safety, taking into account the particular circumstances of the case and guidelines developed by the Organisation. In these cases, the relevant Contracting Governments shall arrange for such disembarkation to be effective as soon as reasonably practicable”.

      Con l’entrata in vigore del suddetto emendamento, lo Stato responsabile della zona SAR risulta gravato di un più incisivo obbligo di risultato, e non solo di un obbligo di cooperazione e di condotta.Obbligo di risultato che va garantito innanzitutto attraverso l’impiego tempestivo dei mezzi della guardia costiera, cui spetta il compito di coordinamento degli interventi SAR. Nel caso di navi della guardia costiera la rapidità dello sbarco in un porto sicuro non è indicata espressamente dalle Convenzioni internazionali in quanto rientra nelle finalità istituzionali e nei compiti attuativi demandati ai mezzi del Corpo delle Capitanerie di porto nell’espletamento delle attività di ricerca e salvataggio /SAR).

      La Convenzione SAR 1979 trova rispondenza negli articoli del Codice della navigazione, ma soprattutto nella specifica normativa interna d’implementazione costituita dal D.P.R. 28 settembre 1994 n. 662. L’autorità responsabile per l’applicazione della Convenzione è il Ministro dei trasporti mentre l’organizzazione centrale e periferica è affidata al Comando generale del Corpo delle Capitanerie di porto ed ad relative strutture periferiche. Non si vede quali possano essere le competenze del ministero dell’interno nello svolgimento e nel coordinamento delle operazioni di ricerca e salvataggio. Va dunque trovata la fonte degli ordini impartiti alla nave Diciotti nei dieci giorni intercorsi tra il soccorso dei naufraghi 17 miglia a sud di Lampedusa il 16 agosto e lo sbarco degli ultimi rimasti a bordo fino al 26 agosto.

      Il citato decreto 662/94 conferisce alle attuali 15 Direzioni Marittime ed all’Autorità Marittima dello Stretto (Messina) le funzioni di Centri Secondari di soccorso marittimo (M.R.S.C. – Maritime Rescue Sub Center) che assicurano il coordinamento delle operazioni marittime di ricerca e salvataggio, ciascuna nella propria giurisdizione, secondo le direttive specifiche o le deleghe del Centro Nazionale di coordinamento (I.M.R.C.C.).

      In base all’art. 2 del decreto, “l’autorita’ nazionale responsabile dell’esecuzione della convenzione e’ il Ministro dei trasporti e della navigazione”. In base all’art. 5 del decreto, “Il centro nazionale di coordinamento di soccorso marittimo (I.M.R.C.C.), i centri secondari di soccorso marittimo (M.R.S.C.) e le unita’ costiere di guardia (U.C.G.), secondo le rispettive competenze, coordinano o impiegano le unita’ di soccorso. L’I.M.R.C.C. e gli M.R.S.C. richiedono agli alti comandi competenti della Marina militare e dell’Aeronautica militare, in caso di necessita’, il concorso dei mezzi navali ed aerei appartenenti a tali amministrazioni dello Stato. Parimenti le U.C.G. richiedono alle altre amministrazioni dello Stato o a privati il concorso di mezzi navali ed aerei, ritenuti idonei per partecipare alle operazioni di soccorso marittimo secondo le procedure e le modalita’ previste dal decreto del Ministro della marina mercantile 1 giugno 1978,pubblicato nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 174 del 27 giugno 1979.

      4. Quanto alla mancanza di un arresto illegale che non si sarebbe verificato a bordo della nave Diciotti, perchè… mancherebbe un provvedimento di arresto, altra contestazione opposta alla Procura di Agrigento, si ignora che l’art. 5 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo, alla quale si è attribuita rilevanza immediata anche nell’ordinamento interno, prescrive che la limitazione della libertà personale in vista dell’espulsione o del respingimento si debba verificare sulla base di una previsione di legge, in conformità a quanto previsto dalla legge. E dunque non per effetto di una decisione informale o di una mera prassi fattuale, che limita la libertà della persona sottraendola peraltro alla tutela giurisdizionale, alla concreta possibilità di ricorrrere al giudice per impugnare il provvedimento limitativo della libertà personale. Ammettere che si possa limitare di fatto la libertà personale in assenza di un provvedimento amministrativo e di una specifica previsione di legge, equivale a riconoscere che nel nostro ordinamento esistono soggetti sottratti a qualsiasi giurisdizione, sia pure temporaneamente, esttamente quello che vieta l’art. 13 della Costituzione italiana.

      Come ha osservato il Sindacato Nazionale Forense, “la libertà personale tutelata dalla norma penale di cui all’art. 605 c.p. è un diritto costituzionalmente garantito dall’art. 13 della Carta Costituzionale, a tenore del quale non è ammessa alcuna forma di restrizione della libertà personale se non per atto motivato dell’Autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. E’ evidente come la decisione dei Ministri Salvini e Toninelli nulla abbia a che vedere con un provvedimento dell’autorità giudiziaria ed, ancora una volta, il governo italiano mostra sprezzante il suo spregio per quell’assetto costituzionale che regge il nostro Stato di diritto, la fonte delle garanzie e dei diritti di tutti, che impedisce abusi e soprusi da parte di chiunque si vesta d’autorità per impedire l’esercizio di diritti fondamentali.”

      Il trattenimento del migrante irregolare è un istituto compatibile con quanto previsto dalla CEDU, poiché integra una delle ipotesi tassative che consentono una compressione del diritto alla libertà riconosciuto all’art. 5 CEDU. Nell’intento di evitare un ricorso abusivo alla detenzione dei migranti da parte degli Stati membri, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha elaborato alcuni parametri per valutare la legittimità di una misura detentiva. In ossequio al principio di legalità, la Corte di Strasburgo ha innanzi tutto richiesto che qualsiasi privazione della libertà abbia un fondamento giuridico nella normativa interna dello Stato, la quale deve fornire “adequate legal protection in domestic law against arbitrary interferences by public authorities with the rights safeguarded by the Convention”. Il principio di “regolarità” richiede, invece, che la privazione di libertà sia conforme allo scopo previsto e che via sia un nesso tra la motivazione di quest’ultima e il luogo e le condizioni della detenzione stessa. La legge italiana non prevede alcuna limitazione della libertà personale a bordo di navi militari dopo le operazioni di salvataggio in mare, una colta che siano esaurite le esigenze connesse al compimento delle attività SAR.

      Come ha affermato la Corte Europea dei diritti dell’Uomo nel caso Khlaifia,per il trattenimento irregolare nel Cpsa di Lampedusa, a prescindere dalla denominazione attribuita a una determinata misura al fine di valutarne la compatibilità con l’art. 5 CEDU, occorre esaminare il contenuto della stessa, la situazione concreta nel suo complesso e tenere conto di un insieme di criteri specifici del suo caso particolare come il genere, la durata, gli effetti e le modalità di esecuzione della misura considerata. Per un commento alla sentenza si veda GILIBERTO, La pronuncia della Grande Camera della Corte EDU sui trattenimenti (e i conseguenti respingimenti) a Lampedusa nel 2011, in Diritto penale contemporaneo, pubblicato il 23 dicembre 2016, disponibile al sito www.penalecontemporaneo.it/d/5123-la-pronu

      Il prolungato trattenimento a bordo della nave Diciotti con limitazione della libertà personale delle persone sottoposte peraltro a sorveglianza armata ha costituito di fatto un temporaneo respingimento in frontiera, paragonabile a quelli adottati nelle zone di transito degli aeroporti. Si ricorda al riguardo che in base all’articolo”19 § 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la Criminalità organizzata transnazionale per combattere il traffico illecito di migranti per via terrestre, aerea e marittima («Protocollo di Palermo) ,”Nessuna disposizione del presente Protocollo pregiudica gli altri diritti, obblighi e responsabilità degli Stati e degli individui derivanti dal diritto internazionale, compreso il diritto internazionale umanitario e il diritto internazionale relativo ai diritti dell’uomo e, in particolare, laddove applicabili, la Convenzione del 1951 e il Protocollo del 1967 relativi allo status dei Rifugiati e il principio di non respingimento ivi enunciato.” Le esigenze di contrasto dell’immigrazione irregolare non possono dunque prevalere sul rispetto dei diritti fondamentali della persona migrante, a maggior ragione dopo una operazione di salvataggio e nei confronti di persone duramente provate dalla loro permanenza in Libia.

      Particolarmente rilevante risulta il caso Medvedyev deciso nel 2008 dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo. La Corte di Strasburgo decidendo in merito a quanto previsto all’art. 5, par. 1, CEDU, ha precisato che:

      “(…) where the ‘lawfulness’ of detention is in issue, including the question whether ‘a procedure prescribed by law’ has been followed, the Convention refers essentially to national law but also, where appropriate, to other applicable legal standards, including those which have their source in international law. In all cases it establishes the obligation to conform to the substantive and procedural rules of the laws concerned, but it also requires that any deprivation of liberty be compatible with the purpose of Article 5, namely, to protect the individual from arbitrariness (…)”. Aggiungendo poi che ” “(…) where deprivation of liberty is concerned it is particularly important that the general principle of legal certainty be satisfied. It is therefore essential that the conditions for deprivation of liberty under domestic and/or international law be clearly defined and that the law itself be foreseeable in its application, so that it meets the standard of “lawfulness” set by the Convention, a standard which requires that all law be sufficiently precise to avoid all risk of arbitrariness (…)

      In ogni caso andrebbe rispettato l’art. 13 del Regolamento 562 del 2006 (Codice Frontiere Schengen), norma direttamente precettiva in Italia, laddove si prescrive che “il respingimento può essere disposto solo con un provvedimento motivato che ne indichi le ragioni precise. Il provvedimento è adottato da un’autorità competente secondo la legislazione nazionale ed è d’applicazione immediata… le persone respinte hanno il diritto di presentare ricorso. I ricorsi sono disciplinati conformemente alla legislazione nazionale. Al cittadino di paese terzo sono altresì consegnate indicazioni scritte riguardanti punti di contatto in grado di fornire informazioni su rappresentanti competenti ad agire per conto del cittadino di paese terzo a norma della legislazione nazionale”.

      5. L’Habeas Corpus costituisce la base dello stato di diritto ed il suo riconoscimento non può essere piegato alle finalità politiche del governo. Successe già nel secolo scorso e succede oggi in tanti paesi del mondo governati da regimi dittatoriali, non può sucedere in Italia e la magistratura deve vigilare sul rigoroso rispetto di questo principio, sia riguardo icittadini, sia anche riguardo i cittadini stranieri, quale che sia la loro condizione giuridica (regolare o irregolare) se si trovano nel territorio dello stato ( art. 2 del Testo Unico n.286/98 sull’immigrazione).

      I difensori del ministro Salvini dimenticano poi che se è vero che l’attracco in porto può essere negato per ragioni di ordine pubblico questa decisione può essere adottata dal ministro delle infrastrutture e non dal ministro dell’interno, e che in ogni caso queste ragioni di ordine pubblico dovrebbero essere contenute in un provvedimento formale e motivato, e non ricollegarsi di certo ad una trattativa in corso con l’Unione europea sulla ricollocazione dei naufraghi in altri paesi. In base all’ art. 83 (Divieto di transito e di sosta) del Codice della Navigazione è infatti il Ministro dei trasporti e della navigazione e non il ministro dell’interno che puo’ “limitare o vietare il transito e la sosta di navi mercantili nel mare territoriale, per motivi di ordine pubblico, di sicurezza della navigazione e, di concerto con il Ministro dell’ambiente, per motivi di protezione dell’ambiente marino, determinando le zone alle quali il divieto si estende”.

      Non è competenza del ministro dell’interno dunque decidere se uno sbarco sia “compatibile con l’ordine pubblico”, soprattutto nel caso in cui lo sbarco debba avvenire da una nave della Guardia costiera dopo una azione di soccorso in mare. Se lo stesso ministro dell’interno ravvisasse una ragione ostativa allo sbarco, ad esempio la presenza di presunti terroristi a bordo, dovrebbe adottare un provvedimento formale da trasmettere al Ministro delle infrastrutture per l’adozione del divieto di cui all’art. 83 della navigazione. Una nave della Guardia costiera italiana, come qualunque altra nave che abbia operato un soccorso, non può essere bloccata in alto mare, come è avvenuto al largo di Lampedusa, o utilizzata come nave prigione dopo l’attracco in porto, quando ormai ha cessato di essere quello che le Convenzioni internazionali definiscono “place of safety temporaneo”.

      Lo stato responsabile ha dunque l’onere di indicare un porto di sbarco sicuro (POS). Nella sentenza pronunciata dal Tribunale di Agrigento il 7 ottobre 2009 relativa al caso Cap Anamur, il collegio giudicante ha ritenuto di specificare che tale “peso” non si riferisce unicamente alle incombenze legate alla somministrazione del vitto e dell’assistenza medica, ma, soprattutto, va rapportato alla necessità di garantire ai naufraghi “il diritto universalmente riconosciuto di essere condotti sulla terraferma!”

      Se il ministro delle infrastrutture o il ministro dell’interno potrebbero anche avere un livello più elevato di discrezionalità nell’ammettere in porto una nave privata dopo una azione di soccorso, questa soglia di discrezionalità si riduce drasticamente quando a bordo della nave si trovano persone non respingibili, già identificate, e in molti casi vulnerabili, come donne in stato di gravidanza e minori non accompagnati- Oppure persone che, con qualunque mezzo, anche a gesti, manifestino la volontà di richiedere protezione, esattamente come si è verificato a bordo della Dicotti e come può essere confermato dalle numerose delegazioni che hanno avuto modo di salire sulla nave attraccata nel porto di Catania o che hanno visitato i migranti a Messina dopo lo sbarco.

      L’unico limite incontrato dalla discrezionalità statale nell’ammissione in porto di una nave privata è rappresentato dalla presenza tra i migranti irregolari soccorsi in mare di rifugiati o richiedenti asilo: lo Stato interveniente e lo Stato costiero devono, infatti, rispettare il principio di non refoulement anche nell’individuazione del luogo ove le operazioni di soccorso in mare possono essere considerate terminate. Appare evidente che nel caso di un soccorso operato da una nave della Guardia costiera, quali che siano le circostanze iniziali dell’intervento, una volta che la nave si trovi all’interno delle acque territoriali, addirittura in porto, nessuna discrezionalità può essere rimessa al ministro dell’interno o al ministro delle infrastrutture per impedire lo sbarco delle persone a terra. Ferma restando l’adozione delle possibili misure di internamento o di allontanamento forzato, se non di ammissione alle procedure di protezione ed al sistema di accoglienza, di competenza del ministero dell’interno nell’ambito del cd. approccio Hotspot e secondon quanto previsto dall’art.10 comma terzo del Testo Unico sull’immigrazione.

      Se il ministro dell’interno non ha adottato alcun provvedimento per ordine di chi ed a che titolo i migranti soccorsi dalla Diciotti sono stati trattenuti per dieci giorni a bordo della nave, mentre potevano essere sbarcati a Lampedusa dai primi due mezzi più piccoli della guardia costiera che li aveva soccorsi a sud dell’isola ? Se il ministero dell’interno ha imposto con un qualsiasi provvedimento anche verbale il blocco della Diciotti, e poi il trattenimento dei migranti a bordo della nave attraccata nel porto di Catania, per quello che è stato definito come uno “scalo tecnico”, come poteva e sulla base di quale norma ordinare tale blocco invadendo la competenza di un’altro ministro ? Una volta sbarcati a terra i migranti della Diciotti attraverso la procedura Hotspot e secondo quanto previsto dall’art. 10 del Testo Unico sull’immigrazione, avrebbero potuto essere ammessi alla procedura di asilo, ricollocati in altri paesi, oppure espulsi o respinti, come avvenuto in altre decine di migliaia di casi fino al mese di giugno di quest’anno, in conformità a leggi nazionali e Regolamenti europei.Perchè si è voluto attendere dieci giorni per lo sbarco ? Era legittima l’esigenza che questa attesa potesse incidere sulle richieste di burden sharing avanzate dall’Italia, i vista di un vertice a Buxelles peraltro privo di alcuna effettiva capacità deliberativa, non trattandosi di un Consiglio Europeo.

      La ricorrenza di un “abuso d’ufficio” o di una “omissione in atti d’ufficio” al di là della considerazione sulla valenza di questo reato che non ne elide la rilevanza penale, non può essere esclusa a priori per il ministro dell’interno, o per altri ministri, all’interno della catena di comando che si doveva occupate dell’attracco in porto e dello sbarco, in nome della discrezionalità che presiede alla indicazione ministeriale di un place of safety alle navi dopo il compimento di attività di salvataggio. Tale discrezionalità può essere esercitata per scegliere il porto di sbarco d’intesa con le prefetture per individuare le soluzioni più idonee di prima accoglienza. Ma non può tradursi nella mancata indicazione di un porto di sbarco ( insita nella indicazione di un porto come “scalo tecnico”) o peggio nell’indebito trattenimento a tempo indeterninato di migranti a bordo. E ricordiamo che in questo caso non si trattava di una nave delle tanto vituperate ONG, ma della nave di punta della nostra Guardia costiera, una nave che fino a due mesi fa ha salvato migliaia di persone soccorse in acque internazionali, sbarcandoie sollecitamente in Italia, come prescritto dal diritto interno e dal diritto internazionale.

      Ricordiamo anche la richiesta di sbarco formulata dalla Procura dei minori di Catania in favore dei minori non accompagnati indebiatamente trattenuti per nove giorni assieme agli adulti a bordo della nave Diciotti. Un trattenimento indebito a fronte dell’art.19 del Testo Unico sull’immigrazione, che non può essere cancellato dallo sbarco avvenuto il 25 agosto scorso solo a seguito della richiesta della magistratura.

      Inutile dire che appare del tutto improprio attribuire alla Procura di Agrigento una richiesta di dimissioni del ministro che non è stata mai formalizzata, essendo rimasta la stessa Procura nel solco della procedura prevista per i cosiddetti reati ministeriali, con la trasmissione degli atti al Tribunale dei ministri del distretto di Palermo. Per quanto esposto sembra dunque del tutto infondata, anche se ne è chiaro l’intento di delegittimazione dell’operato dei procuratori agrigentini, l’accusa finale che questi avrebbero voluto intervenire su politiche migratorie avallate dal suo elettorato. Come se il ministro dell’interno dovesse rispondere al suo elettorato soltanto e non rispettare strettamente il principio di legalità ed il giuramento sulla Costituzione reso nelle mani del Presidente della Repubblica al momento dell’assunzione fomale del suo incarico. Il consenso popolare non può creare zone franche sottratte al controllo di legalità della magistratura.

      L’accusa-ammonimento finale rivolta al Procuratore di Agrigento di eccessivo “protagonismo” appare del tutto inifluente sugli argomenti giuridici a fondamento delle contestazioni relative al blocco della Diciotti ed al trattenimento illegitimo dei 177 naufraghi che erano rimasti a bordo dopo le prime evacuazioni. Quando le responsabilità possono essere tanto elevate e quando i politici creano la bolla mediatica è difficile che i magistrati possano lavorare con la dovuta discrezione. Certo la stessa accusa di protagonismo non era stata rivolta nei confronti di altri magistrati che lo scorso anno, campeggiavano nelle prime pagine dei giornali nelle inchieste contro le Organizzazoni non governative che salvavano vite in mare, con procedimenti che oggi sono stati archiviati, o fortemente ridimensionati, se non ancora privi di un qualunque sbocco processuale.

      Eppure sembra proprio che il colpo finale all’impianto accusatorio della Procura di Agrigento possa essere dato dagli specialisti delle questioni di competenza territoriale per la possibilità, che qualcuno già sta ventilando, che l’inchiesta possa essere trasferita da Agrigento a Catania, o a Palermo. Su queste scelte,e sulle successive fasi dei procedimenti, non meno che sui comportamenti delle autorità di governo nei confronti della magistratura, si misurerà quanto rimane ancora dello stato di diritto nel nostro paese.

      https://www.a-dif.org/2018/09/02/processo-penale-e-stato-di-diritto

    • Prima di parlare ascoltate John

      La guerra. La fuga. E un anno sotto terra, a desiderare la morte. Una storia come tante. Ma da conoscere, per restare umani.

      Rocca di Papa, centro di accoglienza Mondo Migliore. Massimiliano Coccia e Andrea Billau, giornalisti di Radio Radicale, intervistano John, profugo eritreo di 22 anni. John era sulla Diciotti, la nave della Guardia costiera italiana che per giorni è stata in mare, ostaggio del governo italiano che ha usato il suo carico umano per ricattare l’Europa. Alla fine di questa dolorosa vicenda, i migranti della Diciotti, in larga parte eritrei, sono stati accolti dalla Chiesa italiana, sul suolo italiano. Sono in Italia: li abbiamo dunque accolti.

      La conversazione tra Massimiliano Coccia e John ( si può ascoltare sul sito di Radio Radicale, e consiglio di farlo ) è semplice e permette di capire tanto. John in Eritrea studiava, ma non aveva ancora terminato la scuola quando viene prelevato per fare il servizio militare che, però, non aveva fine. Così John decide di lasciare l’Eritrea, dove sa di non avere un futuro. Dall’Eritrea alla Libia ha dovuto pagare la traversata del Sudan. Il viaggio è costato diciassettemila dollari che non erano i risparmi della famiglia, ma frutto di una colletta tra parenti e amici: si investe su una persona giovane per provare a farle avere un futuro altrove e per avere qualcuno che possa aiutare chi resta in patria. Arrivato in Libia, John viene preso subito in consegna da trafficanti che pretendono da lui 5 mila dollari senza però farlo partire per l’Europa: lo rinchiudono invece sotto terra, dove rimarrà per un anno. È stato il periodo più nero della sua vita. Sedici ragazze hanno partorito in quelle condizioni, sotto terra. E io penso all’espressione “venire alla luce”: John ha visto sedici bambini “venire alla luce” sotto terra, nel posto più lontano dalla luce che si possa immaginare. Nuove vite al buio di una detenzione illegale, forzata e inumana.

      I trafficanti estorcevano continuamente denaro e per spaventare usavano scariche elettriche. John non riesce a trovare le parole per descrivere l’inferno vissuto. Erano tutti libici gli aguzzini, senza divise, tutti armati. Armati anche quando portavano via le donne per violentarle senza che nessuno potesse reagire. C’erano più di quattrocento persone in quella condizione: quattrocento persone da torturare, a cui estorcere denaro. Quattrocento persone disperate e spaventate. Quattrocento persone che subivano senza poter reagire. Per uscire dal bunker si pagava: migliaia di dollari per pochi minuti di aria, mai di libertà. Venti minuti. Non di più. Da quella situazione nessuno pensava di poter uscire vivo. Non c’era cibo, non c’era acqua, non c’era luce e con le torture inferte l’unica speranza era che la fine (anche la morte) arrivasse prima possibile. Arriva la svolta: altri 2.500 euro per partire. Chi può pagare viene separato da chi non ha i soldi, per essere poi riuniti tutti e rivenduti a un nuovo trafficante che chiede altri millecinquecento euro perché inizi davvero il viaggio in mare. Gli spostamenti avvenivano tutti di notte perché i migranti non dovevano essere visibili, eppure al porto non c’era nessuno: né polizia, né Guardia costiera libica. Solo trafficanti.

      Quando comincia il viaggio in mare - dice John - sai che quel viaggio è l’ultimo: o arrivi vivo o resti in mare. Morirai magari in mare, ma ci provi. Il tempo durante la navigazione non è buono, il motore dell’imbarcazione si spegne, poi si riaccende. Poi si avvicina una barca che li rifornisce di acqua e cibo. Giunti nei pressi di Lampedusa, vengono presi in carico dalla Diciotti e lì, nonostante quello che noi abbiamo vissuto dalla terra ferma, nonostante l’indignazione e la rabbia per il “sequestro forzato”, per i migranti finisce l’inferno e ricomincia la speranza. Sulla Diciotti, racconta John, stavano benissimo. Il personale era pieno di umanità, c’era da mangiare e il comandante «è stato come un padre». Quando John è partito dall’Eritrea non credeva di avere scelta, ma non aveva idea dell’inferno libico. Ora vuole solo ricominciare ovunque ci sia pace ed è pieno di gratitudine, gratitudine verso l’Italia e gli abitanti di Catania. Dalla Diciotti guardando a terra, guardando il nostro Paese (mentre scrivo sono pieno di orgoglio) John vedeva persone che erano lì per loro, per difendere i loro diritti e per accoglierli. Dalla Diciotti guardava l’Italia e riusciva a leggere, distintamente, una parola semplice, una parola universale: WELCOME!


      http://espresso.repubblica.it/opinioni/l-antitaliano/2018/09/06/news/prima-di-parlare-ascoltate-john-1.326674?refresh_ce

    • L’Arci presenta un ricorso contro il governo per il trattenimento illegittimo dei 150 migranti della Diciotti

      In assenza di senso dello Stato da parte di chi governa, la legge, la magistratura con la sua autonomia, sono gli unici strumenti per salvaguardare la nostra Costituzione e la dignità dell’Italia

      Oggi l’Arci presenterà un ricorso in via cautelare al Tribunale Civile di Catania ed al TAR Catania, a tutela dei diritti dei 150 migranti, prevalentemente eritrei, privati senza titolo della libertà personale, contro i provvedimenti del governo per il loro trattenimento illegittimo.

      L’Arci ha avviato, con lo Studio Legale Giuliano di Siracusa, le azioni avanti il Tribunale Civile di Catania ed il TAR Sicilia Sez. di Catania: avanti il primo un ricorso d’urgenza (ex.art 700 del Codice di procedura Civile) per la immediata tutela dei diritti primari dei 150 migranti detenuti illegittimamente sulla nave della nostra Guardia Costiera “Diciotti”; ed avanti il TAR Sicilia Sez. Catania un ricorso con domanda cautelare di impugnativa del provvedimento del Ministro degli Interni illegittimamente adottato.

      L’Arci inoltre rivendicherà l’applicazione immediata delle linee guida IMO sul soccorso in mare, la cui inottemperanza da parte del Ministro Salvini comporta una gravissima violazione del diritto internazionale e invocherà la violazione dell’art. 3 della Convenzione CEDU contro i trattamenti inumani e degradanti.

      Il ricorso, inviato per conoscenza anche alla Questura, alla Prefettura e alla Guardia Costiera, è mirato a ripristinare la legalità violata con un provvedimento, di cui peraltro non c’è traccia scritta, usato con altri scopi, nelle trattative con l’UE e nella campagna elettorale senza sosta a cui il nuovo governo, e il Ministro Salvini, sottopongono il nostro Paese.

      Il conflitto aperto con l’UE, la vicinanza riaffermata con Orban e con il gruppo di Visegrad, è una evidente prova del contrasto aperto tra gli interessi dell’Italia (che dalla linea razzista e isolazionista del gruppo di Visegrad non può che trarne svantaggi) e la linea seguita dal nostro Ministro dell’Interno Salvini.

      In assenza di senso dello Stato da parte di chi governa, la legge, la magistratura con la sua autonomia, sono gli unici strumenti per salvaguardare la nostra Costituzione e la dignità dell’Italia.

      Oltre alle azioni giudiziarie possibili, l’Arci intende, con tutti i soggetti della società civile impegnati con noi in questo ambito, mobilitare tutte le sue forze per impedire che il governo trascini il nostro Paese verso il baratro.

      Le leggi e la Costituzione non possono essere piegate agli interessi di parte. Quando si viola la nostra Costituzione la democrazia muore e con essa le garanzie che valgono per tutte e tutti, non solo per chi decide di garantirle il governo di turno.

      Noi continueremo a mobilitarci per difendere la democrazia, la libertà e i diritti umani: insieme all’Arci Sicilia, abbiamo aderito e parteciperemo al presidio convocato dai Comitati di base di Catania, che si svolgerà domani al porto a partire dalle ore 17.

      https://www.arci.it/larci-presenta-un-ricorso-contro-il-governo-per-il-trattenimento-illegittimo-de

    • Pour la première fois, l’Aquarius refuse d’obéir aux ordres des garde-côtes libyens

      Jeudi 20 septembre, l’Aquarius a refusé de transborder sur le bateau des garde-côtes libyens des migrants secourus par le navire humanitaire quelques heures plus tôt. Hors de question de renvoyer des naufragés dans un pays qui ne garantit pas leur sécurité, se justifient les militants.

      Pour la première fois depuis leur présence en Méditerranée, les membres du navire humanitaire Aquarius, affrété par SOS Méditerranée, ont refusé d’obéir aux ordres des garde-côtes libyens : ces derniers leur avaient demandé, le 20 septembre, de transborder sur leur bateau libyen des migrants que l’ONG avait secourus.

      « Conformément à la Convention SAR [zone de recherche et de sauvetage, ndlr], nous ne pouvons ni ne devons transférer des personnes secourues aux garde-côtes libyens », écrit l’Aquarius, dans un email envoyé aux autorités portuaires libyennes.

      L’ONG SOS Méditerranée répète inlassablement le même credo depuis des mois. « La Libye ne peut être considérée comme un port sûr. Nous ne ramènerons jamais les migrants secourus en Libye », a encore déclaré l’ONG, joint par InfoMigrants.

      Que s’est-il passé ? Dans la matinée du 20 septembre, l’Aquarius repère, au large des côtes libyennes, une embarcation en difficulté avec 11 personnes à bord. L’équipage suit alors la procédure officielle et contacte le centre de contrôle maritime libyen (JRCC). Depuis la mi-juin, les opérations de sauvetage dans la zone de détresse de la Méditerranée appelée « SAR zone », ne sont en effet plus gérées par le MRCC italien, sorte de tour de contrôle maritime chargée de coordonner les actions de secours en mer. Ces missions sont désormais gérées par Tripoli.

      Les autorités libyennes ne répondent pas. Sans réponse, l’Aquarius avertit alors les autorités italiennes que le navire s’apprête à procéder au sauvetage. Une fois les migrants en sécurité à bord, les humanitaires reçoivent finalement un email du JRCC libyen. « En tant qu’autorités libyennes, nous assurons la coordination des secours. Nous allons dépêcher un navire afin de récupérer les migrants », écrivent les autorités portuaires. « Nous vous ordonnons de vous diriger vers Zaouïa [ville côtière libyenne, NDLR] pour un rendez-vous avec la patrouille libyenne ».

      « Que l’Aquarius aille où il veut, mais pas en Italie »

      L’Aquarius refuse catégoriquement le transfert. « Nous avons toutes les raisons de croire qu’aucun des ports libyens ne constitue un lieu de sécurité pour les rescapés », fait savoir l’équipage du navire humanitaire aux autorités libyennes, italiennes et maltaises. « Nous avons également toutes les raisons de croire qu’une opération de transfert mettrait en danger la sécurité des personnes secourues et de mon équipage en raison de risque de panique ». La Libye a dit prendre note du refus de l’Aquarius.

      Sur Twitter, le ministre italien de l’Intérieur, Matteo Salvini, a déjà pris les devants. Il estime que l’Aquarius" a refusé de collaborer avec les garde-côtes libyens". « Maintenant il erre en Méditerranée. Je le dis et je le répète : qu’il aille où il veut mais pas en Italie, les ports sont fermés », a ajouté le ministre.

      Actuellement, le navire humanitaire reste dans la zone de sauvetage et ne cherche pas un port de débarquement. « Nous avons encore de la place à bord et nous savons que nous allons devoir procéder à d’autres sauvetages dans les jours qui viennent », précise à InfoMigrants Julie Bégin, porte-parole de SOS Méditerranée.

      Reste à savoir où seront débarqués les rescapés. « Nous ne savons pas, nous verrons au moment voulu », conclut-elle.

      Depuis plusieurs mois, les autorités italiennes et maltaises refusent d’ouvrir leurs ports aux navires humanitaires. Des refus qui ont entraîné des dissensions au sein de l’Union européenne – toujours aussi déchirée sur la politique à adopter pour faire face à l’afflux de migrants.

      http://www.infomigrants.net/fr/post/12168/pour-la-premiere-fois-l-aquarius-refuse-d-obeir-aux-ordres-des-garde-c

    • Aquarius. Le Panama annonce qu’il retire son pavillon au navire humanitaire
      https://www.ouest-france.fr/monde/migrants/aquarius-le-panama-annonce-qu-il-retire-son-pavillon-au-navire-humanita

      « L’administration maritime panaméenne a entamé une procédure d’annulation officielle de l’immatriculation du navire Aquarius 2, ex-Aquarius […] après la réception de rapports internationaux indiquant que le navire ne respecte pas les procédures juridiques internationales concernant les migrants et les réfugiés pris en charge sur les côtes de la mer Méditerranée », indiquent les autorités dans un communiqué diffusé sur leur site.

      Selon le Panama, la principale plainte émane des autorités italiennes, selon lesquelles « le capitaine du navire a refusé de renvoyer des migrants et réfugiés pris en charge vers leur lieu d’origine ». Elle rappelle également que le navire s’est déjà vu retirer son pavillon par Gibraltar. Or, selon le communiqué, « l’exécution d’actes portant atteinte aux intérêts nationaux constitue une cause de radiation d’office de l’immatriculation des navires ».

    • Migranti. Inchiesta Diciotti, la Procura chiede l’archiviazione per Salvini

      La Procura di Catania ha formulato una richiesta di archiviazione nei confronti del ministro degli Interni per la vicenda del presunto «sequestro» di migranti a bordo della nave Diciotti.

      «Adesso prendo il caffè, infilo la giacca, spengo la tele, e da persona libera e non più indagata torno al mio lavoro. Grazie, grazie, grazie». Lo ha detto Matteo Salvini dopo aver dato lettura in diretta Facebook della lettera che lo informava della richiesta di archiviazione della procura di Catania per i fatti della nave Diciotti. «Il procuratore di Catania #Zuccaro chiede l’archiviazione. Gioia, soddisfazione. Ma il procuratore di Agrigento perché ha indagato? Quanto è costata l’inchiesta per un reato che non esisteva? Quanti uomini sono stati impiegati? Sono innocente, potevo e dovevo bloccare gli immigrati. È una buona notizia per me, i gufi dei centri sociali saranno abbacchiati. Richiesta motivata di archiviazione».

      In realtà non è debba ancora la parola «fine» sulla vicenda. Infatti il Tribunale dei ministri etneo (composto da tre giudici sorteggiati tra i magistrati del Distretto della Corte d’appello) ha ancora 90 giorni di tempo per decidere se accogliere o meno la richiesta di archiviazione del procuratore Carmelo Zuccaro. Il ministro era stato indagato per vari reati, tra cui quello di sequestro di persona, per aver trattenuto la nave militare Diciotti alcuni di giorni attraccata al porto di Catania senza far sbarcare i 150 migranti a bordo. La vicenda si era poi sbloccata quando altri Stati dell’Unione europea, tra cui Irlanda e Albania e la Chiesa italiana, hanno dato disponibilità a partecipare alla redistribuzione dei rifugiati.

      https://www.avvenire.it/attualita/pagine/18

    • Italie. #Salvini bientôt jugé pour #séquestration ?

      En août, le ministre de l’Intérieur italien avait refusé à 177 migrants de débarquer dans le port de Catane, en Sicile, les bloquant pendant six jours. Un tribunal de Palerme a recommandé, à la surprise générale, que Matteo Salvini soit jugé pour séquestration.


      https://www.courrierinternational.com/article/italie-salvini-bientot-juge-pour-sequestration

    • Caso Diciotti, ecco l’atto d’accusa del tribunale: “Il ministro Salvini ha agito fuori dalla legge”

      Per i giudici sono state violate norme internazionali e nazionali. «L’obbligo di salvare la vita in mare costituisce un preciso dovere degli Stati e prevale su tutte le norme finalizzate al contrasto dell’immigrazione irregolare»

      https://palermo.repubblica.it/cronaca/2019/01/24/news/caso_diciotti_ecco_l_atto_d_accusa_del_tribunale_il_ministro_salv

    • La richiesta di autorizzazione a procedere nel caso Diciotti

      Domanda di autorizzazione a procedere per il delitto di sequestro di persona aggravato a carico del Ministro dell’interno in carica, nonché leader di uno dei due partiti che governano il Paese con ampio sostegno popolare. Il provvedimento che qui si annota non può lasciare indifferenti: sta succedendo qualcosa di eccezionale quando un Tribunale della Repubblica chiede che il Ministro dell’interno venga processato per un reato che prevede la pena della reclusione da tre a quindici anni.

      E la situazione è ancora più anomala, se si considera che il fatto per cui la magistratura chiede ad una Camera di procedere (in questo caso il Senato, essendo il Ministro dell’interno anche senatore della Repubblica) non è un episodio corruttivo o comunque legato a fatti che l’indagato nega o sono discutibili. In questo caso il reato che si contesta risulta integrato da una condotta, la chiusura dei porti ai migranti provenienti dalla Libia, che il Ministro dell’interno continua tuttora a rivendicare come parte fondamentale del proprio programma politico e di governo. Il contrasto all’ingresso di stranieri irregolari in Italia viene attuato con la strategia dei “porti chiusi”, che riscuote, stando ai sondaggi, un larghissimo consenso nel corpo elettorale.

      Con questo provvedimento, i magistrati di Catania affermano che il Ministro, diretto responsabile della concreta attuazione di tale strategia politica, deve rispondere del gravissimo reato di sequestro di persona a carico di 177 migranti, e chiedono al Senato, secondo la procedura prevista per i reati ministeriale dalla legge cost. n. 1/1989, l’autorizzazione a procedere a suo carico. Il Tribunale di Catania sta esorbitando dalle proprie competenze, come afferma il Ministro parlando di «toghe di sinistra che invadono il campo della politica»? Avrebbe dovuto il Tribunale accogliere la richiesta della procura etnea di archiviare il procedimento, in quanto il principio di separazione dei poteri vieterebbe alla magistratura penale di valutare la legittimità di atti politici esplicitamente rivendicati dalle più alte autorità di governo? A noi pare che le 50 pagine che mettiamo qui a disposizione del lettore forniscano una risposta convincente del contrario, e cioè che la decisione presa dai giudici di Catania è corretta, e per quanto dirompente è l’unica risposta appropriata rispetto alla gravità dei fatti avvenuti, sotto gli occhi di tutti, la scorsa estate a Catania.

      Di seguito forniremo al lettore niente più che una “guida alla lettura” dell’articolato percorso argomentativo seguito dai giudici siciliani, per svolgere poi alcune riflessioni riguardo ai prossimi esiti cui può dare luogo la vicenda.

      Le motivazioni della richiesta di autorizzazione a procedere

      Gli eventi sono noti, e possono essere qui riassunti in termini molto sintetici. Il 14 agosto 2018 veniva segnalata un’imbarcazione con a bordo diverse decine di soggetti di varie nazionalità (in prevalenza eritrea e somala), proveniente dalla Libia, che versava in una situazione molto precaria. Nei giorni successivi all’avvistamento, insorgeva una controversia tra le autorità italiane e maltesi circa la responsabilità per il soccorso dei naufraghi, sino a che il precipitare della situazione induceva le motovedette della Guardia costiera italiana ad intervenire, trasferendo poi i 177 stranieri soccorsi sulla motonave Diciotti. Dopo tre giorni di stazionamento nei pressi di Lampedusa, dovuto al fatto che tra le autorità italiane e maltesi perdurava il contrasto circa l’individuazione del Paese responsabile dell’indicazione del Pos (place of safety), il 20 agosto la Diciotti riceveva l’autorizzazione ad entrare nel porto di Catania, ma non a sbarcare i migranti della nave. Il Ministro degli interni rifiutava, infatti, il rilascio del Pos (e quindi l’autorizzazione allo sbarco), sino a che non si fosse sbloccata la trattativa a livello europeo su quali Paesi fossero disponibili ad accogliere i migranti presenti sulla nave. In considerazione delle difficili condizioni in cui i migranti versavano, costretti a vivere da diversi giorni su un’imbarcazione inadatta ad accogliere un numero così elevato di ospiti, il 22 agosto, a seguito di esplicita richiesta del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minori di Catania, veniva autorizzato lo sbarco dei minori non accompagnati, mentre solo il 25 agosto venivano sbarcati tutti gli altri.

      Il Tribunale, che ripercorre giorno per giorno le vicende appena descritte, distingue due fasi temporali. La prima, dal 15/16 agosto, quando i migranti vengono tratti a bordo dalla Diciotti, sino all’ingresso nel porto di Catania del 20 agosto; e la seconda, da tale data sino al 25 agosto, durante la quale i migranti vengono trattenuti sulla Diciotti senza poter sbarcare.

      Per quanto riguarda la prima fase, il Tribunale etneo esclude la sussistenza di condotte costituenti reato da parte del Ministro, richiamandosi integralmente alle motivazioni sul punto del Tribunale dei ministri di Palermo, che peraltro non vengono neppure curiosamente riassunte, e che non sono note a chi scrive. Ci limitiamo qui a ricordare che la Procura di Agrigento aveva aperto il procedimento a carico del Ministro, trasferendo gli atti al competente Tribunale dei ministri di Palermo, sul presupposto che fosse penalmente rilevante già lo stazionamento forzato nelle acque di Lampedusa, mentre proprio una diversa valutazione di questa prima fase della vicenda aveva indotto i giudici palermitani a trasferire gli atti ai colleghi catanesi, reputando che solo in relazione al trattenimento nel porto etneo si potesse configurare un fatto penalmente illecito.

      Riguardo allora ai cinque giorni (dal 20 al 25 agosto) in cui gli stranieri sono stati bloccati sulla Diciotti nel porto di Catania, il Tribunale ritiene che sussistano gli estremi della fattispecie di cui all’art. 605, comma 3 (sequestro di persona aggravato dall’abuso della qualità di pubblico ufficiale e della minore età di alcune delle vittime).

      Il quadro probatorio su cui il Tribunale fonda le proprie conclusioni è ampio, visto in particolare che nella fase istruttoria condotta dal medesimo Tribunale è stata assunta la testimonianza di tutti i membri apicali della catena decisionale che ha condotto alla chiusura per 5 giorni del porto di Catania ai migranti della Diciotti: il Questore, il Prefetto e il Comandante della Capitaneria di porto di Catania, e il capo di gabinetto del Ministero dell’interno e il suo vice.

      Prima di analizzare i singoli elementi costitutivi del reato, la sentenza si impegna in una ricostruzione del «quadro normativo di riferimento del procedimento di sbarco e delle competenze amministrative» ad esso relative, con l’obiettivo di «chiarire quali siano i doveri degli Stati, le relative competenze e i limiti di discrezionalità esistenti nella gestione del fenomeno del soccorso in mare» (p. 6).

      La premessa da cui prende le mosse il Tribunale nella sua analisi del quadro sovranazionale è che «l’obbligo di salvare la vita in mare costituisce un preciso dovere degli Stati e prevale su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare. Le Convenzione internazionali in materia, cui l’Italia ha aderito, costituiscono un limite alla potestà legislativa dello Stato e, in base agli artt. 10, 11 e 117 Cost., non possono costituire oggetto di deroga da parte di valutazioni discrezionali dell’autorità politica, assumendo un rango gerarchico superiore rispetto alla disciplina interna» (p. 7).

      Il provvedimento ricostruisce allora la normativa di riferimento, con particolare riferimento alla Convenzione Solas del 1974 e alla Convenzione Sar del 1979, così come emendate nel 2006. Un’analisi del concreto piano operativo predisposto dalle autorità italiane, in conformità agli obblighi internazionali in materia di soccorso in mare, mostra secondo il Tribunale come «ove l’attività di soccorso in mare sia stata effettuata materialmente da unità navali della Guardia costiere italiana, la richiesta di assegnazione del POS debba essere presentata da MRCC Roma (Maritime Rescue Coordination Center) al Centro nazionale di coordinamento (NCC), che poi provvederà all’inoltro della stessa al competente Dipartimento per le libertà civili e per l’immigrazione del Ministero dell’interno, competente all’indicazione del POS ove operare lo sbarco» (p. 12).

      Molto importante è poi il passaggio in cui il Tribunale ricostruisce i caratteri essenziali del procedimento delineato per i reati ministeriali dalla legge cost. n. 1/1989, ove è necessario tenere distinta la «valutazione di tipo tecnico-giuridico» demandata al Tribunale, che deve decidere della sussistenza del reato secondo i canoni della legislazione penale comune, e la valutazione politica che l’art. 9 della legge affida al Parlamento quando prevede che l’assemblea della Camera di appartenenza «può, a maggioranza assoluta dei suoi componenti, negare l’autorizzazione a procedere ove reputi, con valutazione insindacabile, che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo». Proprio tenendo a mente la peculiare scansione procedimentale prevista per i reati ministeriali, il Tribunale esclude di dover valutare i connotati politici della decisione di impedire lo sbarco dei migranti, richiamando puntualmente in senso conforme una decisione delle Sezioni unite della Cassazione, per cui «il carattere politico del reato, il movente che ha determinato il soggetto a delinquere, nonché il rapporto che può sussistere tra il reato commesso e l’interesse pubblico della funzione esercitata, proprio in conseguenza di quanto disposto dalla l. cost. n. 1/1989, sono criteri idonei a giustificare la concessione o negazione dell’autorizzazione a procedere da parte della Camera o del Senato, ma non sono certamente qualificabili come condizioni per la configurabilità dei reati ministeriali» (Cass., Sez. unite, n. 14/1994, citata a p. 14).

      Venendo ad analizzare la sussistenza degli elementi costitutivi del reato contestato, il Tribunale prende ovviamente le mosse dall’elemento oggettivo, e dedica particolare attenzione ad individuare il momento a partire dal quale gli uffici competenti del Ministero dell’interno avevano il dovere giuridico di assegnare un Pos ai migranti, e dunque la loro permanenza sulla Diciotti deve ritenersi illegittima. I giudici catanesi ripercorrono le concitate vicende dei giorni successivi all’avvistamento dell’imbarcazione e la controversia insorta tra autorità italiane e maltesi su chi fosse tenuto secondo la normativa internazionale a prestare soccorso (in un passaggio il Tribunale arriva a definire «moralmente censurabile» il comportamento della autorità maltesi). Una volta tuttavia constatata l’indisponibilità di Malta ad indicare un Pos per i migranti, ed una volta autorizzata la Diciotti a dirigersi verso le coste siciliane, le autorità italiane avevano assunto di fatto e di diritto la gestione dei soccorsi, e avevano secondo la normativa internazionale il dovere di indicare nel più breve tempo possibile un Pos ove i naufraghi potessero sbarcare. Per queste ragioni, conclude sul punto il Tribunale, «l’omessa indicazione del POS da parte del Dipartimento per le libertà civili e per l’immigrazione, dietro precise direttive del MdI, ha determinato, dopo che alle ore 23.49 del 20 agosto l’unità navale Diciotti raggiungeva l’ormeggio presso il porto di Catania (così creando le condizioni oggettive per operare lo sbarco), una situazione di costrizione a bordo delle persone soccorse fino alle prime ore del 26 agosto (quando veniva avviata la procedura di sbarco a seguito dell’indicazione del POS nella tarda serata del 25 agosto dal competente Dipartimento, dietro nulla osta del Ministro), con conseguente apprezzabile limitazione della libertà di movimento dei migranti, integrante l’elemento oggettivo del reato contestato. Non vi è dubbio, invero, che la protratta presenza dei migranti per cinque giorni a bordo di una nave ormeggiata sotto il sole in piena estate dopo avere già affrontato un estenuante viaggio durato diversi giorni, la necessità di dormire sul ponte della nave, le condizioni di salute precaria di numerosi migranti, la presenza a bordo di donne e bambini, costituiscono circostanze che manifestano le condizioni di assoluto disagio psico-fisico sofferte dai migranti a causa di una situazione di “costrizione” a bordo non voluta e subita, sì da potersi qualificare come “apprezzabile”, e dunque, penalmente rilevante, l’arco temporale di privazione della libertà personale sofferto» (p. 24).

      Quanto all’elemento soggettivo del reato, il Tribunale ricorda anzitutto come l’art. 605 cp delinei una fattispecie a dolo generico, per la cui integrazione è sufficiente la consapevolezza di infliggere alla persona offesa una illegittima privazione della libertà personale, mentre risultano irrilevanti gli scopi ulteriori perseguiti dall’agente. Nel medesimo paragrafo del provvedimento in materia di elemento soggettivo il Tribunale affronta poi tre questioni attinenti a ben vedere non già all’elemento psicologico del reato, bensì alle diverse questioni (di natura in realtà oggettiva) della riferibilità del divieto di sbarco ad una condotta personale del Ministro, e della presenza di cause giustificazione: la «questione della riconducibilità dell’omessa indicazione del POS e del correlato divieto di sbarco ad una precisa direttiva del MdI», la questione dell’«accertamento del carattere illegittimo della privazione dell’altrui libertà, in quanto adottata contra legem», e infine la questione dell’«assenza di cause di giustificazione con valenza scriminante ex art. 51 c.p.».

      Nulla quaestio circa il primo profilo, relativo al personale e diretto coinvolgimento del Ministro degli interni nella decisione di non far sbarcare i migranti. Oltre al fatto che il Ministro in numerose occasioni pubbliche ha esplicitato come la decisione di non fare sbarcare i porti fosse a lui direttamente ascrivibile, tutti i vertici amministrativi sentiti in fase istruttoria hanno confermato il continuo e diretto coinvolgimento del Ministro nella gestione della vicenda, ed in particolare hanno chiarito come la mancata indicazione del Pos nei giorni in cui la Diciotti si trovava a Catania fosse unicamente ascrivibile alle chiare indicazioni in tal senso provenienti dal Ministro stesso.

      Nella motivazione segue poi un paragrafo intitolato «La consapevolezza della “illegittimità” della restrizione dell’altrui libertà», ove peraltro il Tribunale torna ad argomentare intorno alla questione della legittimità (oggettiva) del rifiuto di sbarco alla luce della normativa internazionale (ribadendo come il contenzioso con Malta circa la responsabilità per i soccorsi non può valere a giustificare il rifiuto di sbarcare i migranti una volta che questi erano arrivati in Italia, dietro indicazione della stessa autorità italiana), piuttosto che interrogarsi circa la consapevolezza da parte del Ministro di tale normativa. Tale consapevolezza, considerato il ruolo apicale nella catena decisionale rivestito dall’imputato e l’importanza della questione, viene in sostanza ritenuta implicita dal Tribunale. In effetti, ragionando altrimenti si tratterebbe di ritenere scusante l’eventuale ignoranza da parte del Ministro della normativa nazionale e sovranazionale relativa alle materie oggetto delle sue specifiche competenze istituzionali. Un’ipotesi che peraltro non trova alcun riscontro nell’istruttoria dibattimentale, ove al contrario è emerso come i collaboratori diretti del Ministro gli avessero riferito la richiesta di Pos della Diciotti ed il Ministro avesse opposto un deciso e consapevole rifiuto all’adempimento del dovere di sbarcare i migranti. Probabilmente sarebbe stato preferibile se il Tribunale avesse più chiaramente motivato le ragioni per cui riteneva con ragionevole certezza che il Ministro conoscesse i doveri internazionali connessi alle attività di salvataggio; ma non ci sembra che in effetti vi siano elementi per sostenere l’ignoranza incolpevole della disciplina normativa da parte del Ministro, che peraltro non ha mai sostenuto tale linea difensiva nelle accese reazioni social conseguenti alla richiesta di autorizzazione.

      L’ultimo profilo analizzato dal Tribunale in ordine agli elementi costitutivi del reato riguarda la configurabilità della scriminante di cui all’art. 51 cp. Il provvedimento in esame ne esclude gli estremi, in quanto il Ministro non ha agito in adempimento del suo dovere istituzionale di garantire l’ordine e la sicurezza pubblica: «Lo sbarco di 177 cittadini stranieri non regolari non poteva costituire un problema cogente di “ordine pubblico” per diverse ragioni, ed in particolare: a) in concomitanza con il “caso Diciotti”, si era assistito ad altri numerosi sbarchi dove i migranti soccorsi non avevano ricevuto lo stesso trattamento; b) nessuno dei soggetti ascoltati da questo Tribunale ha riferito (come avvenuto invece per altri sbarchi) di informazioni sulla possibile presenza, tra i soggetti soccorsi, di “persone pericolose” per la sicurezza e l’ordine pubblico nazionale» (p. 40).

      La sola ragione per cui per cinque giorni è stato impedito lo sbarco degli stranieri dalla Diciotti è stata secondo il Tribunale la volontà politica del Ministro di fornire un’immagine di fermezza nella trattativa in corso in sede europea circa i criteri per la ripartizione dei migranti che fuggono dalla Libia: «La decisione del Ministro non è stata adottata per problemi di ordine pubblico in senso stretto, bensì per la volontà meramente politica – “estranea” alla procedura amministrativa prescritta dalla normativa per il rilascio del POS – di affrontare il problema della gestione dei flussi migratori invocando, in base al principio di solidarietà, la ripartizione dei migranti a livello europeo tra tutti gli Stati membri» (ibidem).

      Il Tribunale ricorda le sentenze della Corte costituzionale (n. 105/2001) e della Corte Edu (Khlaifia, 2016) che hanno affermato l’applicabilità delle garanzie sul rispetto della libertà personale anche agli stranieri in situazione di ingresso o soggiorno irregolari, e conclude che l’estraneità della decisione di impedire lo sbarco a finalità proprie dell’ufficio ricoperto dall’inquisito, che era mosso da finalità politiche estranee ai suoi doveri istituzionali, impedisce il riconoscimento della scriminante di cui all’art. 51 cp.

      L’ultimo passaggio della motivazione riguarda proprio il rilievo giuridico da attribuire alla natura politica dell’atto contestato al Ministro; l’argomento della natura politica dell’atto, che alla luce del principio della separazione dei poteri ne avrebbe impedito la sindacabilità da parte dell’autorità giudiziaria, aveva condotto la Procura di Catania a chiedere l’archiviazione del procedimento, e il tema viene affrontato con particolare acribia dal Tribunale. I giudici catanesi affermano la necessità di distinguere tra «atto politico», insindacabile tout court dal giudice penale, e «atto amministrativo adottato sulla scorta di valutazioni politiche», che non si sottrae al vaglio di legalità del giudice penale. In ogni caso,

      «il dogma dell’intangibilità dell’atto politico è oggi presidiato da precisi contrappesi, caratterizzati dal “principio supremo di legalità”, dalla Carta costituzionale e dal rispetto dei diritti inviolabili in essa indicati, tra i quali spicca in primo luogo il diritto alla libertà personale. Segnatamente, a seguito dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, i cui artt. 24 e 113 sanciscono l’indefettibilità ed effettività della tutela giurisdizionale, non è giuridicamente tollerabile l’esistenza di una particolare categoria di atti dell’esecutivo in relazione ai quali il sindacato giurisdizionale a tutela dei diritti individuali possa essere limitato o addirittura escluso» (p. 44).

      L’atto politico insindacabile dal potere giudiziario è solo quello che «afferisce a questioni di carattere generale che non presentino un’immediata e diretta capacità lesiva nei confronti delle sfere soggettive individuali» (il Tribunale cita a titolo esemplificativo l’adozione di decreti leggi e di decreti legislativi, o la stipula di un’intesa con una confessione religiosa ex art. 8, comma 3 Cost.). Nel caso di specie, il rifiuto del POS configura un atto amministrativo che, mosso da motivazioni politiche, è andato tuttavia pesantemente ad incidere sui diritti degli stranieri, in violazione della normativa interna e sovranazionale, e non può per questa ragione essere sottratto al controllo giurisdizionale.

      «L’atto del Ministro Sen. Matteo Salvini costituisce un atto amministrativo che, perseguendo finalità politiche ultronee rispetto a quelle prescritte dalla normativa di riferimento, ha determinato plurime violazioni di norme internazionali e nazionali, che hanno comportato l’intrinseca illegittimità dell’atto amministrativo censurata da questo Tribunale (…). Va dunque sgomberato il campo da un possibile equivoco e ribadito come questo Tribunale intenda censurare non già un atto politico dell’Esecutivo, bensì lo strumentale ed illegittimo utilizzo di una potestà ammnistrativa di cui era titolare il Dipartimento delle libertà civili e dell’immigrazione, che costituisce articolazione del Ministero dell’interno presieduto dal Sen. Matteo Salvini» (p. 47).

      Quali siano e quale rilievo abbiano le motivazioni politiche dell’agire del Ministro, sono argomenti che dovrà tenere in considerazione il Senato per decidere se concedere o meno l’autorizzazione a procedere. Il Tribunale si arresta alla constatazione che nell’esercizio delle sue funzioni il Ministro, con la decisione di impedire lo sbarco dei migranti della Diciotti, ha realizzato un fatto tipico di reato, non coperto da alcuna causa di giustificazione; i senatori decideranno se il Ministro abbia agito «per il perseguimento di un preminente interesse pubblico», e se dunque per tale reato l’autorità giudiziaria possa o meno procedere.

      La correttezza della decisione del Tribunale di Catania e gli scenari prossimi-venturi

      Le articolate argomentazioni appena sintetizzate ci paiono convincenti, e risultano anche, se studiate con attenzione, capaci di rispondere a molte delle critiche mosse alla decisione dal diretto interessato e da molti dei suoi sostenitori.

      Il primo punto consiste nella conformità o meno alla normativa interna ed internazionale della scelta di negare l’autorizzazione allo sbarco quando i migranti a bordo della Diciotti si trovavano nel porto di Catania. Il provvedimento qui annotato ha mostrato in modo molto chiaro come il problema della responsabilità di Malta nel non adempiere al proprio obbligo di soccorso proprio nulla abbia a che vedere con la questione dello sbarco a Catania, che è l’unico frammento della vicenda ritenuto dal Tribunale di rilievo penale.

      Una volta che l’Italia aveva assunto la concreta gestione del soccorso e aveva accettato, di fronte all’ostinato silenzio delle autorità maltesi, di accogliere la Diciotti a Catania, era evidente che gli stranieri dovessero sbarcare a Catania. Il problema della distribuzione dei migranti anche in altri Paesi europei si sarebbe posto in un momento successivo; ma non serve essere esperti di diritto internazionale del mare per capire che i migranti presenti da giorni in condizioni precarie su una nave militare italiana ancorata in un porto italiano dovevano essere immediatamente sbarcati e soccorsi in territorio italiano. Invocare la responsabilità di Malta per negare il dovere di fornire un POS una volta che i naufraghi erano arrivati a Catania, significa semplicemente sviare il discorso, sovrapponendo il problema della distribuzione dei flussi migratori a livello europeo e dell’incapacità di Malta di far fronte ai propri obblighi in materia Sar, al dovere di fornire un luogo di sbarco sicuro a coloro che in un modo o nell’altro erano comunque stati soccorsi da una nave italiana, e si trovavano in un porto italiano.

      Insomma, la controversia con Malta o il problema della distribuzione dei migranti a livello europeo sono irrilevanti al fine di valutare la legittimità del trattenimento per diversi giorni sulla nave Diciotti di soggetti, che avevano secondo la normativa interna ed internazionale il diritto a ricevere al più presto l’indicazione di un luogo sicuro dove poter sbarcare e ricevere assistenza, quale che fosse poi il loro destino e la loro destinazione finale. Il Ministro ha consapevolmente deciso di trattenere senza alcuna base legale i migranti sulla nave Diciotti, per apparire più forte sullo scenario politico internazionale ad avere più peso nelle trattative in corso a livello europeo per una gestione condivisa dei flussi di migranti dalla Libia. Ma è evidente che tale scelta politica sia stata attuata fuori dalla cornice normativa in cui è disciplinata la privazione dello straniero comunque presente nel territorio dello Stato.

      Ammesso allora che la privazione della libertà c’è stata ed è stata illegale, si pone il problema più delicato, e che nel dibattito pubblico ha assunto un peso determinante. Il Tribunale ha travalicato le proprie competenze? I giudici di Catania si sono arrogati il potere di sindacare le scelte politiche assunte dal Governo con il consenso degli elettori, violando in questo modo il principio della separazione dei poteri? Anche in questo caso, le motivazioni del provvedimento indicano le ragioni per cui la richiesta di autorizzazione non comporta alcuna ingerenza del potere giudiziario nelle prerogative politiche dell’esecutivo.

      È sufficiente, per giungere a tale conclusione, prendere in considerazione l’insieme della procedura delineata dalla legge costituzionale del 1989 riguardo all’accertamento dei cd. reati ministeriali, da intendere ai sensi dell’art. 96 Cost. come quei reati commessi dal Presidente del Consiglio e dai ministri nell’esercizio delle loro funzioni. Come correttamente ricorda il Tribunale, proprio la particolare natura politica degli atti ministeriali ha indotto il legislatore costituzionale a prevedere che la decisione di procedere all’accertamento di eventuali responsabilità penali conseguenti alla loro adozione non spetti solo alla magistratura penale, posto che il Parlamento può negare l’autorizzazione a procedere quando ritenga che le condotte integranti reato fossero volte al perseguimento di un «preminente interesse pubblico». Lo schema è molto chiaro: la magistratura penale accerta secondo i criteri del diritto penale comune se il Ministro abbia commesso un reato nell’esercizio del proprio potere di governo; il Parlamento può assumere la decisione politica di negare l’autorizzazione a procedere, se la commissione del reato era funzionale alla tutela di un più rilevante interesse pubblico.

      Ritenere allora, come ha fatto la Procura di Catania nella richiesta di archiviazione (della quale, peraltro, sono noti a chi scrive solo gli stralci pubblicati sulla stampa, e i brevi cenni contenuti nel provvedimento qui annotato), che la magistratura penale dovesse archiviare il procedimento in ragione delle finalità politiche che avevano mosso la decisione del Ministro, significa confondere le attribuzioni che il sistema costituzionale di accertamento dei reati ministeriali attribuisce rispettivamente al potere giudiziario e al Parlamento. I giudici devono valutare la commissione di un reato; nel caso di specie, valutare se la significativa privazione di libertà degli stranieri sulla Diciotti conseguente alla decisione del Ministro di vietare lo sbarco era stata disposta secondo la legge, configurandosi in caso contrario il delitto di sequestro di persona aggravato. Il Senato dovrà ora decidere se le finalità politiche addotte dal Ministro a giustificazione del proprio operato siano talmente pregnanti da imporre alla magistratura di arrestarsi nel procedimento di accertamento delle responsabilità.

      La separazione dei poteri, per concludere sul punto, non può comportare l’irragionevole conclusione che i membri del Governo sono immuni dalla giurisdizione penale ogniqualvolta esercitino le proprie funzioni politiche, che come ovvio devono invece sempre svolgersi nel quadro della legalità interna ed internazionale. Come tutti i cittadini, anche i Ministri, se nell’esercizio delle loro funzioni commettono dei reati, ne devono rispondere davanti alla giustizia penale, quali che siano i moventi politici che stanno a fondamento delle loro azioni. Il sistema costituzionale, proprio in ossequio al principio della separazione dei poteri, prevede tuttavia che il potere politico possa assumersi, mediante il voto del Parlamento, la responsabilità politica dell’azione del Ministro, che può venire ritenuta non meritevole di essere perseguita in quanto funzionale al raggiungimento di un più alto interesse pubblico. Ecco perché la magistratura non compie alcuna invasione di campo quando, constatata la commissione di un reato ad opera della condotta di un Ministro, non compie direttamente una valutazione circa la rilevanza politica di tale condotta, archiviando la notitia criminis perché connotata da motivi politici, ma correttamente chiede al Parlamento di decidere se dare o meno copertura politica all’operato del Ministro.

      La questione passa ora dunque nelle mani del Senato. Ai sensi dell’art. 9, comma 2, legge. cost. n. 1/1989, prima la Giunta competente per le autorizzazioni a procedere riferisce «con relazione scritta» all’assemblea, «dopo avere sentito i soggetti interessati ove lo ritenga opportuno o se questi lo richiedano»; entro sessanta giorni dalla trasmissione dalla richiesta al Senato (avvenuta il 23 gennaio), l’assemblea, a maggioranza assoluta dei suoi membri può «con valutazione insindacabile» negare l’autorizzazione a procedere quando ritiene che «l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo».

      Non rimane, dunque, che attendere lo svolgimento dell’attività della Giunta e l’esito della deliberazione che assumerà l’assemblea del Senato. Vogliamo ora in conclusione provare a svolgere qualche cursoria riflessione su due problemi che ci paiono in questo momento centrali: quello dei presupposti e dei limiti del potere discrezionale del Parlamento in ordine alla richiesta di autorizzazione a procedere; e quello dell’eventuale giustiziabilità della decisione del Parlamento di fronte alla Corte costituzionale.

      Quanto alla prima questione, dal testo della norma (di rango costituzionale) che disciplina l’autorizzazione a procedere si evincono in particolare due elementi che ci paiono meritevoli di considerazione.

      In primo luogo, la norma prevede il quorum della maggioranza assoluta dei componenti per negare l’autorizzazione a procedere, mostrando l’attenzione del legislatore costituzionale a bilanciare l’ampio potere discrezionale assegnato al Parlamento con il richiedere che ad assumersi la responsabilità di impedire per ragioni di interesse superiore alla magistratura penale di procedere all’accertamento dei reati sia una maggioranza qualificata dei componenti l’assemblea. Una sorta di favor per il proseguimento dell’azione penale, che conferma la natura eccezionale dei casi in cui il movente politico può rendere lecita la commissione di reati [1].

      Il secondo punto riguarda proprio l’ampiezza del potere discrezionale che la legge costituzionale attribuisce al Parlamento, non solo per la definizione molto ampia dei requisiti che legittimano il diniego dell’autorizzazione, ma in particolare per la precisazione che il Parlamento si esprime «con valutazione insindacabile». È chiara la volontà di sottolineare la natura politica, e non più tecnico-giuridica, del giudizio che il Parlamento è chiamato a svolgere. La sua diretta legittimazione democratica gli consente di dichiarare «insindacabilmente» non perseguibile una condotta che pur potrebbe costituire reato, quando la ritiene funzionale ad un interesse pubblico superiore.

      Nel caso che ci interessa, il problema ci pare presentarsi in questi termini: la tutela dei confini e la gestione dei flussi migratori, invocate dal Ministro a giustificazione della scelta di impedire lo sbarco dei migranti dalla Diciotti, rendono non perseguibile la privazione per 5 giorni della libertà personale di 177 persone, che sono state trattenute in violazione della normativa in materia interna ed internazionale? Ci auguriamo che su questo interrogativo, dai profondi risvolti etici oltre che giuridici, si voglia concentrare il dibattito politico e parlamentare, più che su vacui e inconferenti richiami alla presunzione di innocenza o alla separazione dei poteri. Il Parlamento è libero di fornire a tale domanda la risposta «insindacabile» che politicamente la maggioranza riterrà opportuna, ma almeno è auspicabile che la questione, molto seria, posta dal Tribunale di Catania venga affrontata nel suo reale contenuto, e non ricalcando stereotipi conflittuali tra magistratura e politica, che ottengono il solo risultato di impedire un reale confronto sul merito politico della questione.

      Si tratta, in effetti, di una questione che tocca da vicino i fondamenti stessi del sistema democratico e di tutela dei diritti fondamentali. La questione che al Parlamento è sottoposta porta infatti con sé il problema quanto mai delicato di fissare i limiti entro cui il potere governativo può legittimamente esplicare la propria volontà politica. Proprio la legge costituzionale sui reati ministeriali ci dice che, a differenza che per gli altri cittadini, per i Ministri il limite fissato dalla legge penale non è di per sé sempre invalicabile nell’ambito della loro attività funzionale, perché il Parlamento, con valutazione insindacabile, può ritenere la commissione di un reato ministeriale non perseguibile per ragioni politiche. A bene vedere, è la stessa previsione dell’istituto dell’autorizzazione a procedere a comportare che la legge penale non è di per sé sempre un limite all’azione politica di governo.

      Eppure, è ovvio che in un sistema costituzionale e democratico un limite all’agire politico ci deve essere. Nessuno può avere dubbi che il Parlamento non potrebbe ad esempio, pur invocando il proprio potere discrezionale, negare l’autorizzazione a procedere qualora la magistratura fornisse le prove ad esempio che una decisione di un Ministro ha provocato la morte di più persone. Nel dibattito relativo ai casi di chiusura dei porti, del resto, si considera come implicito, anche da parte dei sostenitori della linea più intransigente, che la vita dei profughi non possa essere messa a rischio dal divieto di sbarcare. La politica quindi, anche quando si esprime con le forme più dure, riconosce l’esistenza di un limite oltre il quale non può spingersi, e nel caso dei migranti nei porti il limite è stato individuato nella tutela della vita umana dei migranti. Ma questo limite, che fissa i termini entro cui neppure la più alta ragion di Stato può condurre a legittimare un fatto lesivo dei diritti fondamentali, può essere davvero nella libera e assoluta disponibilità del potere politico, o il sistema costituzionale e sovranazionale vigente pone dei vincoli alla sua fissazione?

      Nel sistema di tutela convenzionale dei diritti fondamentali, questo limite come noto è fissato in maniera molto netta all’art. 15 Cedu, secondo cui neppure nei casi estremi di urgenza, come «in caso di guerra o in caso di pericolo pubblico che minacci la vita della nazione», lo Stato può derogare alla tutela dei diritti garantiti agli artt. 2 (diritto alla vita), 3 (divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti), 4 § 1 (divieto di schiavitù) e 7 (nullum crimen). Il sistema costituzionale non prevede, come noto, alcuna disposizione relativa alla possibile deroga ai diritti fondamentali determinata da ragioni eccezionali, ma l’indicazione convenzionale ci pare senz’altro da tenere in considerazione anche in prospettiva costituzionale, considerato il rilievo para-costituzionale che le disposizioni convenzionali assumono a livello interno per il tramite dell’art. 117 Cost.

      In questa prospettiva, il problema rispetto al caso della Diciotti sarebbe quello di valutare se il trattenimento dei migranti – sicuramente lesivo del diritto alla libertà personale riconosciuto dall’art. 13 Cost. e dall’art. 5 Cedu – sia altresì in contrasto con il divieto di trattamenti inumani e degradanti di cui all’art. 3 Cedu, cui le autorità italiane si sono convenzionalmente impegnate a non derogare neppure nei casi più estremi di pericolo per la Nazione. La questione non è stata oggetto di particolare attenzione da parte dei giudici catanesi, posto che il reato di sequestro di persona contestato al Ministro era configurabile a prescindere dalle condizioni in cui avveniva il trattenimento. E tuttavia, se si accoglie l’idea che i limiti all’inderogabilità dei diritti convenzionali fissino anche il perimetro entro cui può esercitarsi il potere di governo, proprio l’attenta valutazione delle condizioni in cui versavano i migranti dovrebbe risultare decisiva per decidere se i fatti commessi possano essere legittimamente dichiarati improcedibili da una discrezionale scelta politica del Parlamento.

      Accolta l’idea che sia necessario porre dei limiti non solo politici, ma anche giuridici, all’azione di governo, il successivo problema da risolvere risulta quello della giustiziabilità di tali limiti. Nel sistema convenzionale la risposta è chiara: lo Stato risponde sempre delle violazioni dei diritti inderogabili di cui all’art. 15 Cedu commessi dai suoi rappresentanti, quale che siano le ragioni politiche che ne giustifichino il compimento. In ambito interno, il problema si fa più arduo, anche perché mancano precedenti specifici. Qualora il Parlamento dovesse negare l’autorizzazione a procedere, ritenendo che la privazione di libertà e i trattamenti inumani e degradanti subiti dai migranti della Diciotti siano giustificati dalla necessità politica di tutelare i confini dello Stato, potrebbe il Tribunale di Catania sollevare un conflitto di attribuzione con il Senato di fronte alla Corte costituzionale, adducendo che il Senato ha ecceduto i poteri conferitigli dalla legge costituzionale del 1989?

      Il problema, inedito a quanto ci risulta nella giurisprudenza costituzionale, è stato poco indagato anche dalla dottrina, specie penalistica. Uno dei pochi contributi che prende specifica posizione sul punto ritiene di non escludere la possibilità che la Corte costituzionale censuri l’uso distorto del proprio potere discrezionale da parte del Parlamento, anche se il vaglio della Corte deve stare attento a non sindacare il merito delle scelte politiche attribuite in via esclusiva al Parlamento dalla legge costituzionale del 1989 [2]. A noi pare in effetti che sarebbe disarmonico rispetto al complessivo sistema costituzionale di bilanciamento tra i poteri, prevedere nel caso dei reati ministeriali che il Parlamento possa opporre al potere giudiziario un rifiuto del tutto sottratto al giudizio di legittimità della Corte costituzionale. La legge costituzionale è chiara nel prevedere che il potere dell’organo parlamentare si esercita sulla base di determinati presupposti, il cui rispetto non può essere sottratto al controllo della Corte costituzionale, pena un pericoloso sbilanciamento del sistema costituzionale di check and balance. Qualora dunque la Corte venisse investita della questione, dovrebbe certo astenersi dal valutare nel merito la legittimità politica della decisione del Parlamento, ma non dovrebbe invece astenersi dal valutare se il rifiuto opposto dal Parlamento all’autorità giudiziaria sia conforme al complessivo sistema normativo di valori che l’azione di ogni autorità pubblica, in uno Stato democratico, è tenuta a rispettare; ed in questo senso, lo ripetiamo, il catalogo di cui all’art. 15 Cedu delinea a nostro avviso in modo anche costituzionalmente significativo il perimetro di liceità delle azioni di governo, quale che sia il contesto in cui intervengono o la finalità che perseguono.

      La natura “a caldo” di queste righe non consente di soffermarci più a lungo sulle complesse questioni, penalistiche e costituzionalistiche, che abbiamo appena cercato di evidenziare. Ci permettiamo in conclusione di auspicare che nelle prossime settimane, che vedranno impegnato il Senato nella decisione demandatagli dal Tribunale di Catania, la comunità dei giuristi voglia fornire un contributo significativo al dibattito pubblico che si svilupperà in Senato. Al di là della decisione che il Parlamento sovranamente vorrà assumere, ci pare importante che l’opinione pubblica sia resa consapevole dell’importanza della decisione che il Senato è chiamato a prendere. Si tratta di capire sino a che punto l’attuazione di una pur legittima pretesa politica possa andare ad incidere sui diritti fondamentali delle persone, e su dove di conseguenza sia fissato il limite che in uno Stato democratico non può essere superato dall’azione di governo. Su un tema di tale portata, sarebbe fondamentale avere un’opinione pubblica capace di prendere posizione in modo consapevole. I limiti al potere politico devono trovare affermazione, se necessario, anche di fronte alle Corti supreme, italiane e europee; ma il vero fondamento dei valori affermati nelle Carte dei diritti fondamentali e nella Costituzione sta solo nella condivisione di tale valori da parte dei consociati, e la vicenda della Diciotti può essere una occasione preziosa per condurre il dibattito pubblico a riflettere seriamente sulla pericolosa direzione che sta prendendo, anche nelle ore in cui si scrive, la politica governativa in materia di soccorso e assistenza ai naufraghi provenienti dalla Libia.

      [1] In questo senso cfr. un recente lavoro monografico dedicato al tema dei reati ministeriali: M. Bellacosa, I profili penali del reato ministeriale, 2012, p. 72.

      [2] Così M. Bellacosa, cit., pp. 73 ss.: «Stante la fissazione legislativa di precisi criteri che l’Assemblea deve seguire onde pervenire al diniego di autorizzazione, non pare si possa escludere l’ammissibilità del ricorso proposto dal potere giudiziario avverso il rifiuto di autorizzazione motivato con riferimento ad interessi diversi da quelli indicati dall’art. 9 l. cost. 1/89 o, peggio, fondato solo su motivi di opportunità politica. Invero, considerati i margini ridotti entro i quali le Camere possono disporre il diniego di autorizzazione, la Corte costituzionale dovrebbe potersi spingere a sindacare quelle delibere che appaiano viziate dallo sviamento rispetto alle finalità considerate dalla legge di revisione (…) Rimarrebbe perciò precluso esclusivamente il sindacato sul merito delle valutazioni compiute dalle Assemblee, quando esse abbiano legittimamente individuato l’interesse costituzionalmente rilevante o preminente nella funzione di Governo, che prevale, a loro insindacabile giudizio, sull’interesse tutelato dalla norma incriminatrice violata dal ministro inquisito».

      http://questionegiustizia.it/articolo/la-richiesta-di-autorizzazione-a-procedere-nel-caso-diciotti_29-0

    • Gli eritrei della Diciotti: un po’ di storia per Salvini e i “portavoce” 5S

      Il Ministro del’Interno leghista li ha definiti “irregolari”. Mauro Coltorti, portavoce 5S, ha affermato che in Eritrea e in Etiopia “non si muore di fame e non si vive male”. Dietro la propaganda del governo, però, ci sono guerre, torture, leva a tempo indeterminato e affari di “imprenditori” italiani. Compreso qualche ex esponente leghista.

      https://www.dinamopress.it/news/gli-eritrei-della-diciotti-un-po-storia-salvini-portavoce-5s
      #réfugiés_érythréens #Erythrée #réfugiés_éthiopiens #Ethiopie

    • Il caso Diciotti tra Italia e Malta

      A Bruxelles il 24 agosto non si parlò del contenzioso tra Italia e Malta sul caso Diciotti. Lo rivela a Report un diplomatico presente alla riunione. In vista del dibattito in Senato sulle accuse al ministro dell’Interno Salvini, torna alla ribalta anche il caso dei minorenni bloccati a bordo della Sea Watch

      http://www.rainews.it/dl/rainews/media/Il-caso-Diciotti-tra-Italia-e-Malta-39a16c1e-eea3-49a0-9674-d58762c6bd56.htm

    • Migrants : le Sénat italien doit se prononcer sur la levée de l’#immunité de #Salvini

      Ce mercredi 20 mars, à 13 heures, les sénateurs italiens voteront pour ou contre la poursuite de la procédure judiciaire lancée contre le ministre de l’intérieur Matteo Salvini. Cela fait suite au « cas #Diciotti » : en août dernier, 177 migrants ont été contraints de rester dix jours à bord du navire qui les avait secourus en Méditerranée.

      https://www.mediapart.fr/journal/international/190319/migrants-le-senat-italien-doit-se-prononcer-sur-la-levee-de-l-immunite-de-
      #levée_de_l'immunité

    • I dubbi sulla capacità della Libia di soccorrere migranti

      Si torna a parlare del caso Diciotti, cioè del caso della nave della guardia costiera italiana bloccata per cinque giorni nel porto di Catania alla fine di agosto del 2018, senza che fosse concessa l’autorizzazione a far scendere l’equipaggio e le 177 persone soccorse qualche giorno prima, nelle acque internazionali tra l’Italia e Malta. Per questa vicenda il ministro dell’interno Matteo Salvini è stato accusato di sequestro di persona aggravato.

      Il senato il 20 marzo dovrà votare sull’autorizzazione a procedere, presentata dal tribunale dei ministri di Catania contro il ministro, mentre il 18 marzo Rai 3 trasmetterà un’inchiesta del giornalista Manuele Bonaccorsi sul caso. Nell’ambito di questo lavoro il giornalista Lorenzo Di Pietro ha intervistato Fred Kennedy, direttore degli affari legali dell’International maritime organization (Imo), che spiega perché anche se per altre organizzazioni delle Nazioni Unite– come l’Agenzia per i rifugiati, l’Unhcr – la Libia non è un paese sicuro in cui riportare i migranti intercettati in mare, Tripoli ha potuto in ogni caso dichiarare una zona di ricerca e soccorso libica nel giugno del 2018.

      In base alla Convenzione internazionale di ricerca e soccorso dell’International maritime organization (Imo) – l’agenzia delle Nazioni Unite per la sicurezza della navigazione – ogni paese membro determina la propria zona di ricerca e soccorso e ne decide l’ampiezza coordinandosi con gli stati confinanti. Anche nel caso della Libia è andata così: l’autorità marittima internazionale non ha valutato in maniera autonoma le capacità di Tripoli di agire nella propria area di competenza.

      https://www.internazionale.it/video/2019/03/18/imo-libia-sar-diciotti

    • Migrants : le Sénat italien doit se prononcer sur la levée de l’immunité de Salvini

      Ce mercredi 20 mars, à 13 heures, les sénateurs italiens voteront pour ou contre la poursuite de la procédure judiciaire lancée contre le ministre de l’intérieur Matteo Salvini. Cela fait suite au « cas Diciotti » : en août dernier, 177 migrants ont été contraints de rester dix jours à bord du navire qui les avait secourus en Méditerranée.

      https://www.mediapart.fr/journal/international/190319/migrants-le-senat-italien-doit-se-prononcer-sur-la-levee-de-l-immunite-de-

  • #Expanding_the_fortress

    La politique d’#externalisation_des_frontières de l’UE, ses bénéficiaires et ses conséquences pour les #droits_humains.

    Résumé du rapport

    La situation désespérée des 66 millions de personnes déplacées dans le monde ne semble troubler la conscience européenne que lorsqu’un drame a lieu à ses frontières et se retrouve sous le feu des projecteurs médiatiques. Un seul État européen – l’Allemagne – se place dans les dix premiers pays au monde en termes d’accueil des réfugiés : la grande majorité des personnes contraintes de migrer est accueillie par des États se classant parmi les plus pauvres au monde. Les migrations ne deviennent visibles aux yeux de l’Union européenne (UE) que lorsque les médias s’intéressent aux communautés frontalières de Calais, Lampedusa ou Lesbos et exposent le sort de personnes désespérées, fuyant la violence et qui finissent par mourir, être mises en détention ou se retrouver bloquées.

    Ces tragédies ne sont pas seulement une conséquence malheureuse des conflits et des guerres en cours dans différents endroits du monde. Elles sont aussi le résultat des politiques migratoires européennes mises en œuvre depuis les accords de Schengen de 1985. Ces politiques se sont concentrées sur le renforcement des frontières, le développement de méthodes sophistiquées de surveillance et de traque des personnes, ainsi que l’augmentation des déportations, tout en réduisant les possibilités de résidence légale malgré des besoins accrus. Cette approche a conduit un grand nombre de personnes fuyant la violence et les conflits et incapables d’entrer en Europe de manière légale à emprunter des routes toujours plus dangereuses.

    Ce qui est moins connu, c’est que les tragédies causées par cette politique européenne se jouent également bien au-delà de nos frontières, dans des pays aussi éloignés que le Sénégal ou l’Azerbaïdjan. Il s’agit d’un autre pilier de la gestion européenne des flux migratoires : l’externalisation des frontières. Depuis 1992, et plus encore depuis 2005, l’UE a mis en œuvre des politiques visant à externaliser les frontières du continent et empêcher les populations déplacées de parvenir à ses portes. Cela implique la conclusion d’accords avec les pays voisins de l’UE afin qu’ils reprennent les réfugiés déportés et adoptent, comme l’Europe, des mesures de contrôle des frontières, de surveillance accrue des personnes et de renforcement de leurs frontières. En d’autres termes, ces accords ont fait des pays voisins de l’UE ses nouveaux garde-frontières. Et parce qu’ils sont loin des frontières européennes et de l’attention médiatique, les impacts de ces politiques restent relativement invisibles aux yeux des citoyens européens.

    Ce rapport cherche à mettre en lumière les politiques qui fondent l’externalisation des frontières européennes et les accords conclus, mais aussi les multinationales et sociétés privées qui en bénéficient, et les conséquences pour les personnes déplacées ainsi que pour les pays et les populations qui les accueillent. Il est le troisième de la série Border Wars, qui vise à examiner les politiques frontalières européennes et à montrer comment les industries des secteurs de l’armement et de la sécurité ont contribué à façonner les politiques de sécurisation des frontières de l’Europe, puis en ont tiré les bénéfices en obtenant un nombre croissant de contrats dans le secteur.

    Ce rapport étudie l’augmentation significative du nombre de mesures et d’accords d’externalisation des frontières depuis 2005, le phénomène s’accélérant massivement depuis le sommet Europe-Afrique de La Valette en novembre 2015. Via une série de nouveaux instruments, tels que le Fonds fiduciaire d’urgence pour l’Afrique (EUTF), le Cadre pour les partenariats avec les pays tiers en matière de gestion des migrations et la Facilité en faveur des réfugiés en Turquie, l’UE et les États membres injectent des millions d’euros dans un ensemble de projets visant à prévenir la migration de certaines populations vers le territoire européen.

    Cela implique la collaboration avec des pays tiers en matière d’accueil des personnes déportées, de formation des forces de police et des garde-frontières ou le développement de systèmes biométriques complets, ainsi que des donations d’équipements incluant hélicoptères, bateaux et véhicules, mais aussi des équipements de surveillance et de contrôle. Si de nombreux projets sont coordonnés par la Commission européenne, un certain nombre d’États membres, tels que l’Espagne, l’Italie et l’Allemagne, prennent également des initiatives individuelles plus poussées en finançant et en soutenant les efforts d’externalisation des frontières par le biais d’accords bilatéraux.

    Ce qui rend cette collaboration particulièrement problématique est le fait que de nombreux gouvernements qui en bénéficient sont profondément autoritaires, et que les financements sont souvent destinés aux organes de l’État les plus responsables des actes de répression et de violations des droits humains. L’UE fait valoir, à travers l’ensemble de ses politiques, une rhétorique consensuelle autour de l’importance des droits humains, de la démocratie et de l’état de droit ; il semble cependant qu’aucune limite ne soit posée lorsque l’Europe soutient des régimes dictatoriaux pour que ces derniers s’engagent à empêcher « l’immigration irrégulière » vers le sol européen. Le résultat concret se traduit par des accords et des financements conclus entre l’UE et des régimes aussi tristement célèbres que ceux du Tchad, du Niger, de Biélorussie, de Libye ou du Soudan.

    Les politiques européennes dans ce domaine ont des conséquences considérables pour les personnes déplacées, que le statut « illégal » rend déjà vulnérables et plus susceptibles de subir des violations de droits humains. Nombre d’entre elles finissent exploitées, avec des conditions de travail inacceptables, ou encore sont mises en détention ou directement déportées dans le pays qu’elles ont fui. Les femmes réfugiées sont particulièrement menacées par les violences basées sur le genre, les agressions et l’exploitation sexuelles.

    La violence et la répression que subissent les déplacés favorisent également l’immigration clandestine, reconfigurant les activités des passeurs et renforçant le pouvoir des réseaux criminels. De fait, les personnes déplacées sont souvent forcées de se lancer sur des routes alternatives, plus dangereuses, et de s’en remettre à des trafiquants de moins en moins scrupuleux. En conséquence, le nombre de morts sur les routes migratoires s’élève de jour en jour.

    En outre, le renforcement des organes de sécurité de l’Etat dans l’ensemble des pays du MENA (Moyen Orient Afrique du Nord), du Maghreb, du Sahel et de la Corne de l’Afrique constitue une menace directe contre les droits humains et la responsabilité démocratique dans ces zones, notamment en détournant des ressources essentielles qui pourraient suppress être destinées à des mesures économiques ou sociales. En effet, ce rapport montre que l’obsession européenne à prévenir les flux migratoires réduit non seulement les ressources disponibles, mais dénature également les échanges, l’aide et les relations internationales entre l’Europe et ces régions. Comme l’ont signalé de nombreux experts, ce phénomène crée un terreau favorable à toujours plus d’instabilité et d’insécurité, et a pour conséquence de pousser toujours plus de personnes à prendre la route de l’exil.

    Un secteur économique a cependant grandement tiré parti des programmes d’externalisation des frontières de l’UE. En effet, comme l’ont montré les premiers rapports Border Wars, les secteurs de l’industrie militaire et de sécurité ont été les principaux bénéficiaires des contrats de fourniture d’équipements et de services pour la sécurité frontalière. Les entreprises de ces secteurs travaillent en partenariat avec un certain nombre d’institutions intergouvernementales et (semi) publiques qui ont connu une croissance significative ces dernières années, à mesure qu’étaient mise en oeuvre des dizaines de projets portant sur la sécurité et le contrôle des frontières dans des pays tiers.
    Le rapport révèle que :

    La grande majorité des 35 pays considérés comme prioritaires par l’UE pour l’externalisation de ses frontières sont gouvernés par des régimes autoritaires, connus pour leurs violation des droits humains et avec des indicateurs de développement humain faibles.
    48% d’entre eux (17) ont un gouvernement autoritaire, et seulement quatre d’entre eux sont considérés comme démocratiques (mais toujours imparfaits)
    448% d’entre eux (17) sont listés comme « non-libres », et seulement trois sont listés comme « libres » ; 34% d’entre eux (12) présentent des risques extrêmes en matière de droits humains et les 23 autres présentent des risques élevés.
    51% d’entre eux (18) sont caractérisés par un « faible développement humain », seulement huit ont un haut niveau de développement humain.
    Plus de 70% d’entre eux (25) se situent dans le dernier tiers des pays du monde en termes de bien-être des femmes (inclusion, justice et sécurité)

    Les États européens continuent à vendre des armes à ces pays, et cela en dépit du fait que ces ventes alimentent les conflits, les actes de violence et de répression, et de ce fait contribuent à l’augmentation du nombre de réfugiés. La valeur totale des licences d’exportations d’armes délivrées par les États membres de l’UE à ces 35 pays sur la décennie 2007-2016 dépasse les 122 milliards d’euros. Parmi eux, 20% (7) sont sous le joug d’un embargo sur les ventes d’armes demandé par l’UE et/ou les Nations Unies, mais la plupart reçoivent toujours des armes de certains États membres, ainsi qu’un soutien à leurs forces armées et de sécurité dans le cadre des efforts liés aux politiques migratoires.

    Les dépenses de l’UE en matière de sécurité des frontières dans les pays tiers ont considérablement augmenté. Bien qu’il soit difficile de trouver des chiffres globaux, il existe de plus en plus d’instruments de financement pour les projets liés aux migrations, la sécurité et les migrations provient de plus en plus d’instruments, la sécurité et les migrations irrégulières étant les principales priorités. Ces fonds proviennent aussi de l’aide au développement. Plus de 80% du budget de l’EUTF vient du Fonds européen de développement et d’autres fonds d’aide au développement et d’aide humanitaire.

    L’augmentation des dépenses en matière de sécurité des frontières a bénéficié à un large éventail d’entreprises, en particulier des fabricants d’armes et des sociétés de sécurité biométrique. Le géant de l’armement français Thales, qui est également un exportateur incontournable d’armes dans la région, est par exemple un fournisseur reconnu de matériel militaire et de sécurité pour la sécurisation des frontières et de systèmes et équipements biométriques. D’autres fournisseurs importants de systèmes biométriques incluent Véridos, OT Morpho et Gemalto (qui sera bientôt racheté par Thales). L’Allemagne et l’Italie financent également leurs propres groupes d’armement – Hensoldt, Airbus et Rheinmetall pour l’Allemagne et Leonardo et Intermarine pour l’Italie – afin de soutenir des programmes de sécurisation des frontières dans un certain nombre de pays du MENA, en particulier l’Égypte, la Tunisie et la Libye. En Turquie, d’importants contrats de sécurisation des frontières ont été remportés par les groupes de défense turcs, notamment Aselsan et Otokar, qui utilisent les ressources pour subventionner leurs propres efforts de défense, également à l’origine des attaques controversées de la Turquie contre les communautés kurdes.

    Un certain nombre d’entreprises semi-publiques et d’organisations internationales ont également conclu des contrats de conseil, de formation et de gestion de projets en matière de sécurité des frontières. On y trouve la société para-gouvernementale française Civipol, l’Organisation internationale pour les migrations (OIM) et le Centre international pour le développement des politiques migratoires (ICMPD). Les groupes Thales, Airbus et Safran sont présents au capital de Civipol, qui a rédigé en 2003, à titre de consultant pour la Commission Européenne, un document très influent établissant les fondations pour les mesures actuelles d’externalisation des frontières, dont elle bénéficie aujourd’hui.

    Les financements et les dons en matière d’équipements militaires et de sécurité ainsi que la pression accrue sur les pays tiers pour qu’ils renforcent leurs capacités de sécurité aux frontières ont fait croître le marché de la sécurité en Afrique. Le groupe de lobbying Association européenne des industries aérospatiales et défense (ASD) a récemment concentré ses efforts sur l’externalisation des frontières de l’UE. De grands groupes d’armement tels qu’Airbus et Thales lorgnent également sur les marchés africains et du Moyen-Orient, en croissance.

    Les décisions et la mise en œuvre de l’externalisation des frontières au niveau de l’Union européenne ont été caractérisées par une rapidité d’exécution inhabituelle, hors du contrôle démocratique exercé par le Parlement européen. De nombreux accords importants avec des pays tiers, parmi lesquels les pactes « Migration Compact » signés dans le Cadre pour les partenariats et l’Accord UE- Turquie, ont été conclus sans ou à l’écart de tout contrôle parlementaire.

    Le renforcement et la militarisation de la sécurité des frontières ont conduit à une augmentation du nombre de morts parmi les personnes déplacées. En général, les mesures visant à bloquer une route particulière de migration poussent les personnes vers des routes plus dangereuses. En 2017, on a dénombré 1 mort pour 57 migrants traversant la Méditerranée ; en 2015, ce chiffre était de 1 pour 267. Cette statistique reflète le fait qu’en 2017, les personnes déplacées (pourtant moins nombreuses qu’en 2015), principalement originaires d’Afrique de l’Ouest et de pays subsahariens, ont préféré la route plus longue et plus dangereuse de la Méditerranée Centrale plutôt que la route entre la Turquie et la Grèce empruntée en 2015 par des migrants (principalement Syriens). On estime que le nombre de migrants morts dans le désert est au moins le double de ceux qui ont péri en Méditerranée, bien qu’aucun chiffre officiel ne soit conservé ou disponible.

    On assiste à une augmentation des forces militaires et de sécurité européennes dans les pays tiers pour la sécurité aux frontières. L’arrêt des flux migratoires est devenu une priorité des missions de Politique de sécurité et de défense commune (PSDC) au Mali et au Niger, tandis que des États membres tels que la France ou l’Italie ont également décidé de déployer des troupes au Niger ou en Libye.

    Frontex, l’Agence européenne de garde-frontières et garde-côtes, collabore de plus en plus avec les pays tiers. Elle a entamé des négociations avec des pays voisins de l’UE pour mener des opérations conjointes sur leurs territoires. La coopération en matière de déportation est déjà largement implantée. De 2010 à 2016, Frontex a coordonné 400 vols de retours conjoints avec des pays tiers, dont 153 en 2016. Depuis 2014, certains de ces vols ont été appelés « opérations de retour conjoint », l’avion et les escortes navigantes provenant des pays de destination. Les États membres invitent de plus en plus fréquemment des délégations de pays tiers à identifier les personnes « déportables » sur la base de l’évaluation de nationalité. Dans plusieurs cas, ces identifications ont conduit à l’arrestation et à la torture des personnes déportées.

    Ce rapport examine ces impacts en cherchant à établir comment ces politiques ont été mises en œuvre en Turquie, en Libye, en Égypte, au Soudan, au Niger, en Mauritanie et au Mali. Dans tous ces pays, pour parvenir à la conclusion de ces accords, l’UE a dû fermer les yeux ou limiter ses critiques sur les violations des droits humains.

    En Turquie, l’UE a adopté un modèle proche de celui de l’Australie, externalisant l’ensemble du traitement des personnes déplacées en dehors de ses frontières, et manquant ainsi à des obligations fondamentales établies par le droit international, telles que le principe de non-refoulement, le principe de non-discrimination (l’accord concerne exclusivement les populations syriennes) et le principe d’accès à l’asile.

    En Libye, la guerre civile et l’instabilité du pays n’ont pas empêché l’UE ni certains de ses États membres, comme l’Italie, de verser des fonds destinés aux équipements et aux systèmes de gestion des frontières, à la formation des garde-côtes et au financement des centres de détention – et ce bien qu’il ait été rapporté que des garde-côtes avaient ouvert le feu sur des bateaux de migrants ou que des centres de détentions étaient gérés par des milices comme des camps de prisonniers.

    En Égypte, la coopération frontalière avec le gouvernement allemand s’est intensifiée malgré la croissante consolidation du pouvoir militaire dans le pays. L’Allemagne finance les équipements et la formation régulière de la police aux frontières égyptienne. Les personnes déplacées se trouvent régulièrement piégées dans le pays, dans l’impossibilité de se rendre en Libye du fait de l’insécurité qui y règne, et subissent les tirs des gardes-côtes égyptiens s’ils décident de prendre la route maritime.

    Au Soudan, le soutien à la gestion des frontières fourni par l’UE n’a pas seulement conduit à suppress sortir un régime dictatorial de son isolement sur la scène internationale, mais a également renforcé les Forces de soutien rapide, constituées de combattants de la milice Janjawid, considérée comme responsables de violations de droits humains au Darfour.

    La situation au Niger, un des pays les plus pauvres au monde, montre bien le coût de la politique de contrôle des migrations subi par les économies locales. La répression en cours à Agadez a considérablement affaibli l’économie locale et poussé la migration dans la clandestinité, rendant la route plus dangereuse pour les migrants et renforçant le pouvoir des gangs de passeurs armés. De même au Mali, l’imposition des mesures d’externalisation des frontières par l’UE dans un pays tout juste sorti d’une guerre civile menace de raviver les tensions et de réveiller le conflit.

    L’ensemble des cas étudiés met en lumière une politique de l’UE via-à-vis de ses voisins obsessionnellement focalisée sur les contrôles migratoires, quel que soit le coût pour les pays concernés ou les populations déplacées. C’est une vision étroite et finalement vouée à l’échec de la sécurité, car elle ne s’attaque pas aux causes profondes qui poussent les gens à migrer : les conflits, la violence, le sous-développement économique et l’incapacité des États à gérer correctement ces situations. Au lieu de cela, en renforçant les forces militaires et de sécurité dans la région, ces politiques prennent le risque d’exacerber la répression, de limiter la responsabilité démocratique et d’attiser des conflits qui pousseront plus de personnes à quitter leurs pays. Il est temps de changer de cap. Plutôt que d’externaliser les frontières et les murs, nous devrions externaliser la vraie solidarité et le respect des droits de l’homme.


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    pour télécharger le #rapport :
    https://www.tni.org/files/publication-downloads/expanding_the_fortress_-_1.6_may_11.pdf

    cc @reka @albertocampiphoto @daphne @marty

    • Esternalizzare le frontiere europee significa militarizzare

      Come dimostra il recente rapporto del Transnational Institut, «Espandendo la Fortezza», la crescita della spesa per il controllo delle frontiere esterne avvantaggia produttori di armi e società di sicurezza biometrica. Molte delle loro proposte sono poi apparse nell’Agenda europea sotto forma di decisioni politiche. Sara Prestianni analizza le conseguenze militari dell’esternalizzazione delle frontiere europee.

      http://openmigration.org/analisi/esternalizzare-le-frontiere-europee-significa-militarizzare

    • 3 liens vers des articles/reportages de #Gabriele_Del_Grande, un des premiers journalistes à avoir visité les centres en Libye.

      C’était 2008-2009
      Libia: siamo entrati a #Misratah. Ecco la verità sui 600 detenuti eritrei

      Di notte, quando cessano il vociare dei prigionieri e gli strilli della polizia, dal cortile del carcere si sente il rumore del mare. Sono le onde del Mediterraneo, che schiumano sulla spiaggia, a un centinaio di metri dal muro di cinta del campo di detenzione. Siamo a Misratah, 210 km a est di Tripoli, in Libia. E i detenuti sono tutti richiedenti asilo politico eritrei, arrestati al largo di Lampedusa o nei quartieri degli immigrati a Tripoli. Vittime collaterali della cooperazione italo libica contro l’immigrazione. Sono più di 600 persone, tra cui 58 donne e diversi bambini e neonati. Sono in carcere da più di due anni, ma nessuno di loro è stato processato. Dormono in camere senza finestre di 4 metri per 5, fino a 20 persone, buttati per terra su stuoini e materassini di gommapiuma. Di giorno si riuniscono nel cortile di 20 metri per 20 su cui si affacciano le camere, sotto lo sguardo vigile della polizia. Sono ragazzi tra i 20 e i 30 anni. La loro colpa? Aver tentato di raggiungere l’Europa per chiedere asilo.

      Da anni la diaspora eritrea passa da Lampedusa. Dall’aprile del 2005 almeno 6.000 profughi della ex colonia italiana sono approdati sulle coste siciliane, in fuga dalla dittatura di Isaias Afewerki. La situazione a Asmara continua a essere critica. Amnesty International denuncia continui arresti e vessazioni di oppositori e giornalisti. E la tensione con l’Etiopia resta alta, cosicché almeno 320.000 ragazzi e ragazze sono costretti al servizio militare, a tempo indeterminato, in un paese che conta solo 4,7 milioni di abitanti. Molti disertano e scappano per rifarsi una vita. La maggior parte dei profughi si ferma in Sudan: oltre 130.000 persone. Tuttavia ogni anno migliaia di uomini e donne attraversano il deserto del Sahara per raggiungere la Libia e da lì imbarcarsi clandestinamente per l’Italia.

      La prima volta che sentii parlare di Misratah fu nella primavera del 2007, durante un incontro a Roma con il direttore dell’Alto commissariato dei rifugiati a Tripoli, Mohamed al Wash. Pochi mesi dopo, nel luglio del 2007, insieme alla associazione eritrea Agenzia Habeshia, riuscimmo a stabilire un contatto telefonico con un gruppo di prigionieri eritrei che erano riusciti a introdurre un telefono cellulare nel campo. Si lamentavano delle condizioni di sovraffollamento, della scarsa igiene dei bagni, e delle precarie condizioni di salute, specie di donne incinte e neonati. E accusavano gli agenti di polizia di avere molestato sessualmente alcune donne durante le prime settimane di detenzione. Amnesty International si espresse più volte per bloccare il loro rimpatrio. E il 18 settembre 2007 la diaspora eritrea organizzò manifestazioni nelle principali capitali europee.

      Il direttore del centro, colonnello ‘Ali Abu ‘Ud, conosce i report internazionali su Misratah, ma respinge le accuse al mittente: “Tutto quello che dicono è falso” dice sicuro di sé seduto alla scrivania, in giacca e cravatta, dietro un mazzo di fiori finti, nel suo ufficio al primo piano. Dalla finestra si vede il cortile dove sono radunati oltre 200 detenuti. Abu ‘Ud ha visitato nel luglio 2008 alcuni centri di prima accoglienza italiani, insieme a una delegazione libica. Parla di Misratah come di un albergo a cinque stelle comparato agli altri centri libici. E probabilmente ha ragione. Il che è tutto un dire. Dopo una lunga insistenza, insieme a un collega della radio tedesca, Roman Herzog, siamo autorizzati a parlare con i rifugiati eritrei. Scendiamo nel cortile. Ci dividiamo. Intervisto F., 28 anni, da 24 mesi chiuso qua dentro. Mentre lui parla mi accorgo che non lo sto ascoltando, in verità provo a mettermi nei suoi panni. Abbiamo grossomodo la stessa età, ma lui i migliori anni della vita li sta buttando via in un carcere, senza un motivo apparente.

      Dall’altro lato del cortile, Roman è riuscito a parlare per qualche minuto con un rifugiato sottraendosi al controllo degli agenti della sicurezza che vigilano sul nostro lavoro e riprendono con una telecamera le nostre attività. Si chiama S.. Parla liberamente: “Fratello, siamo in una pessima situazione, siamo torturati, mentalmente e fisicamente. Siamo qui da due anni e non conosciamo quale sarà il nostro futuro. Puoi vederlo da solo, guarda!” Intanto l’interprete li ha raggiunti e traduce tutto al direttore del campo, che interrompe l’intervista e chiede a S. se per caso non vuole ritornare in Eritrea. Lui risponde di no, intanto Roman lo invita ad allontanarsi a passo svelto e a dire tutto quello che può prima che il direttore li interrompa di nuovo. “Siamo qui da più di due anni, senza nessuna speranza. Siamo tutti eritrei. Io sono venuto in Libia nel 2005. Cerchiamo asilo politico, a causa della situazione nel nostro paese. Ma il mondo non si interessa a noi. Non è facile stare due anni in prigione, senza nessuna comodità. Siamo in prigione, non vediamo mai l’esterno. Tutti noi abbiamo bisogno della libertà, ecco di cosa abbiamo bisogno”.

      La polizia si avvicina nuovamente, Roman chiede a S. di mostrargli la sua stanza. Zigzagando tra la folla nel cortile entrano nel corridoio su cui danno la vista quattro stanze. All’interno, 18 ragazzi siedono su coperte e materassini di gommapiuma stesi sul pavimento. La stanza misura quattro metri per cinque. Al centro, una pentola gorgoglia sopra un fornellino da campeggio. Non ci sono finestre. “Siamo in troppi qui, è sovraffollato – dice S. – non vediamo la luce del sole e non c’è ricambio d’aria. Con il caldo d’estate la gente si ammala. E anche di inverno, fa molto freddo di notte, la gente si ammala”. Siamo a fine novembre, e i ragazzi indossano ciabatte da mare e leggeri pullover. La stanza accanto è più grande, ci sono solo donne e bambini, ma sono almeno il doppio.

      A quel punto gli uomini della sicurezza interrompono l’intervista e portano Roman fuori dal cortile, dove gli presentano un rifugiato scelto dal direttore... “Sono anche io un prigioniero” gli dice. Ma lui preferisce parlare con J.. Ha 34 anni e dice di essere stato in 13 prigioni diverse in Libia: “Alcuni di noi sono qui da quattro anni. Personalmente sono a Misratah da tre anni. Siamo nella peggiore delle situazioni. Non abbiamo commesso reati, stiamo solo chiedendo asilo politico. E non ci viene concesso. Diteci almeno perchè? Visto che nessuno ci informa. Che cosa sta succedendo là fuori? Diteci che cosa sarà di noi! Nemmeno l’Acnur. Non ci dicono mai niente. Non ho più speranza, quando ci vado a parlare nemmeno mi ascoltano. Pesavo 60 kg quando sono entrato, adesso ne peso 48, immagina perchè..”

      Il colonnello Abu ‘Ud segue la conversazione grazie alla traduzione in arabo dell’interprete, finché non riesce più a trattenersi. “Vuoi ritornare in Eritrea?” chiede a J. interrompendo bruscamente l’intervista. “Preferisco morire – gli risponde – tutti preferirebbero morire. “Se vuoi andare in Eritrea ti rimpatriamo in un solo giorno” minaccia il direttore. “Ci vietano di parlare con te” dice J. a Roman. Il direttore diventa furioso. Gli grida in faccia “Dite loro che li rimpatrieremo tutti!”. Poi si avvicina a Roman e con un urlo secco ordina: “Finito!”. Roman cerca di protestare, “abbiamo finito” gli ripette Abu ‘Ud mentre gli agenti lo tirano per le braccia verso l’uscita. Intanto il colonnello sale sui gradini e si rivolge a gran voce a tutti i rifugiati che nel frattempo si sono avvicinati per vedere cosa stia accadendo. “Se vi sentite maltrattati qui, organizzeremo il vostro rimpatrio immediatamente. Avete già rifiutato di ritornare nel vostro paese, ecco perchè siete in questo posto. Ma ognuno di voi è libero di ritornare in Eritrea! Chi vuole andare in Eritrea?” chiede alla folla. “Nessuno!” gli fanno eco i presenti. Scende e grida al mio collega “Hai visto! Adesso abbiamo veramente finito”.

      Saliamo di nuovo nell’ufficio del colonnello, che con toni molto nervosi cerca di convincerci del suo impegno. Per ben due volte l’ambasciata eritrea ha inviato dei funzionari per identificare i prigionieri. Ma i rifugiati hanno sempre rifiutato di incontrarli. Hanno addirittura organizzato uno sciopero della fame. Comprensibile, visto che rischiano di essere perseguitati in patria. La Libia dovrebbe averlo capito da un pezzo, visto che il 27 agosto 2004 uno dei voli di rimpatrio per l’Eritrea partiti da Tripoli venne addirittura dirottato in Sudan dagli stessi passeggeri. Ma il concetto di asilo politico sfugge alle autorità libiche. Eritrei o nigeriani, vogliono tutti andare in Europa. E visto che l’Europa chiede di controllare la frontiera, l’unica soluzione sono le deportazioni. E per chi non collabora con le ambasciate – come i rifugiati eritrei - la detenzione diventa a tempo indeterminato. Così per tornare in libertà non rimangono che due possibilità. Avere la fortuna di rientrare nei programmi di reinsediamento all’estero dell’Alto commissariato dei rifugiati (Acnur), oppure provare a scappare.

      Haron ha 36 anni. A casa ha lasciato una moglie e due bambini. Dall’Eritrea è scappato dopo 12 anni di servizio militare non retribuito. Dopo due anni di detenzione a Misratah, la Svezia ha accettato la sua richiesta di reinsediamento. E’ partito tre giorni dopo la nostra visita, il 27 novembre 2008, con un gruppo di altri 26 rifugiati eritrei del campo di Misratah, tra cui molte donne. I posti lasciati vuoti saranno presto riempiti con i nuovi arrestati. Già la settimana scorsa sono arrivate otto donne. I reinsediamenti sono le uniche carte che l’Acnur riesce a giocare, da un anno a questa parte, in Libia. Le prime 34 donne eritree lasciarono il campo di Misratah nel novembre del 2007 e furono accolte dall’Italia, a Cantalice, un piccolo comune nella campagna di Rieti. Per l’Italia fu il primo reinsediamento ufficiale di rifugiati dai tempi della crisi cilena del 1973. Ma l’operazione venne censurata dagli uffici stampa del Ministero dell’Interno, per non sollevare polemiche tra i leghisti. Insieme alle donne arrivarono 5 uomini e una bambina nata pochi giorni prima.

      Da allora, circa 200 rifugiati sono stati trasferiti da Misratah in vari paesi. Oltre all’Italia (70), anche in Romania (39), Svezia (27), Canada (17), Norvegia (9) e Svizzera (5). A snocciolarmi i dati è Osama Sadiq. E’ il coordinatore dei progetti della International organisation for peace care and relief (Iopcr). Una importante ong libica, che si dichiara non governativa, ma che tanto indipendente non deve essere, visto che ha al suo interno ex funzionari del ministero dell’interno e della sicurezza. E che è talmente influente, che l’Acnur riesce a entrare a Misratah soltanto sotto la sua copertura. Proprio così. In un paese dove transitano ogni anno migliaia di rifugiati eritrei, ma anche sudanesi, somali ed etiopi, l’Acnur conta meno di una ong. Non ha nemmeno un accordo di sede. E non riesce a spendere una parola a livello internazionale per la liberazione dei 600 prigionieri di Misratah. Probabilmente a dettare la linea politica dell’Acnur in Libia sono fragili equilibri diplomatici da non rompere per non rischiare di farsi cacciare da un Paese che non ha nemmeno mai firmato la Convenzione di Ginevra. Eppure la Libia sta conoscendo una importante fase di apertura. E il governo lavora a una nuova legge sull’immigrazione che però – secondo chi ha letto la bozza - non contiene nessun riferimento alla protezione dei rifugiati.

      Per quelli che non rientrano nei progetti di reinsediamento dell’Acnur, non rimane che l’ennesima fuga. Koubros è uno di loro. Lo incontriamo sulle scale della chiesa di San Francesco, nel quartiere Dhahra di Tripoli, dopo la messa del venerdì mattina. Un gruppo di eritrei è in fila per lo sportello sociale della Caritas, dove lavora l’infaticabile suor Sherly. A Misratah ha passato un anno. Era stato arrestato a Tripoli durante una retata nel quartiere di Abu Selim. E’ scappato durante un ricovero in ospedale. Poi però è stato di nuovo arrestato e portato al carcere di Tuaisha, vicino all’aeroporto di Tripoli. Dove è riuscito a corrompere un poliziotto facendosi inviare 300 dollari dagli amici eritrei in città. Siede vicino a Tadrous. Anche lui eritreo, anche lui disertore in fuga dal suo paese. E’ uscito due settimane fa dal carcere di Surman. Era stato condannato a cinque mesi di galera dopo essere stato trovato in mare con altri 90 passeggeri, a Zuwarah. In carcere si è preso la scabbia. Gli chiediamo di accompagnarci nel quartiere di Gurgi, dove vivono gli eritrei pronti a partire per l’Italia. Dice che è pericoloso. Gli eritrei vivono nascosti. La nostra presenza potrebbe allertare la polizia e provocare una retata. Y. però la pensa diversamente, vive in una zona diversa. Lo seguiamo.

      Scendiamo in una traversa sterrata di Shar‘a Ahad ‘Ashara, l’undicesima strada, a Gurgi. Qui vivono molti immigrati africani. L’appartamento è di proprietà di una famiglia chadiana, che ha affittato a sette eritrei le due piccole stanze sul terrazzo. Ci togliamo le scarpe per entrare. I pavimenti sono coperti di tappeti e coperte. Ci dormono in cinque ragazzi. La televisione, collegata alla grande parabola montata sul terrazzo, manda in onda videoclip in tigrigno di cantanti eritrei. E’ un posto sicuro, dicono, perchè l’ingresso della casa passa dall’appartamento della famiglia chadiana, che è a posto coi documenti. Si sono trasferiti qui da poco, dopo le ultime retate a Shar‘a ‘Ashara. Adesso quando sentono la sirena della polizia non ci fanno più caso. Prima si correvano a nascondere. Ci offrono cioccolata, una salsa di patate e pomodoro con del pane, 7-Up e succo di pera.

      Continuiamo a parlare delle loro esperienze nelle carceri libiche. Ognuno di loro è stato arrestato almeno una volta. E tutti sono usciti grazie alla corruzione. Basta pagare la polizia, da 200 a 500 dollari, per scappare o per non essere arrestati. I soldi arrivano con Western Union, grazie a una rete di solidarietà tra gli eritrei della diaspora, in Europa e in America.

      Anche Robel è stato a Misratah. C’ha passato un anno. Ci mostra il certificato di richiedente asilo rilasciato dall’Acnur. Scade l’11 maggio 2009. Ma con quello non si sente al sicuro. “Un mio amico è stato arrestato lo stesso, glielo hanno strappato sotto gli occhi”. Durante la detenzione, ha scritto un appello alla comunità internazionale, con un gruppo di sei studenti eritrei.

      Sul muro, accanto al poster di Gesù, c’è una foto in bianco e nero di una bambina di pochi anni, con su scritto il suo nome, Delina, con il pennarello. L’ho riconosciuta. E’ la stessa bambina che giocava sulle scale della chiesa con Tadrous. Anche lei dovrà rischiare la vita in mare. “L’importante è arrivare nelle acque internazionali”, dice Y.. Gli intermediari eritrei (dallala) che organizzano i viaggi, hanno diverse reputazioni. Ci sono intermediari spregiudicati e altri di cui ci si può fidare. Ma il rischio rimane. Non posso non pensarci, mentre sull’aereo di ritorno per Malta, comodamente seduto e un po’ annoiato, sfoglio la mia agenda con i numeri di telefono e le email dei ragazzi eritrei conosciuti a Tripoli. Prima della mia partenza per la Libia, un amico etiope mi aveva dato il numero di telefono di un suo compagno di viaggio, ancora a Tripoli, un certo Gibril. Ho provato a chiamarlo per tutto il tempo, ma il numero era spento. Nell’orecchio mi risuona ancora l’incomprensibile messaggio vocale in arabo. Speriamo che sia arrivato in Italia, o piuttosto a Misratah. E non in fondo al mare.


      https://fortresseurope.blogspot.com/2006/01/libia-siamo-entrati-misratah-ecco-la.html

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      Frontiera Sahara. I campi di detenzione nel deserto libico
      SEBHA - “Con noi c’era un bambino di quattro anni con la madre, durante tutto il viaggio mi sono domandato: come si può mandare una madre con un bambino di quattro anni insieme ad altre cento persone stipate come animali in un camion come quelli per la frutta, dove non c’è aria e dove stavamo stretti stretti, senza spazio per muoversi, per 21 ore di viaggio, dove le persone urinavano e defecavano davanti a tutti perché non c’era altra possibilità? Abbiamo viaggiato dalle 16:00 alle 13:00 del giorno dopo. Durante il giorno ogni volta che l’autista faceva una sosta per mangiare noi rimanevamo chiusi dentro il rimorchio sotto il sole. Mancava l’aria e tutti si alzavano in preda al panico perché non si respirava e volevamo scendere. Guardare il bambino ci faceva coraggio. Quando il camion si fermava lo prendevamo e lo mettevamo vicino al finestrino. Si chiamava Adam. Il camion si è fermato almeno tre volte nel deserto per far mangiare gli autisti e per la preghiera... Verso l’una siamo arrivati a Kufrah… Quando sono sceso ho rubato il burro con il pane che tenevano appeso fuori dal container. Non avevamo mangiato per tutto il viaggio, eravamo 110 persone, compreso Adam di quattro anni e sua madre”. [1]

      Menghistu non è l’unico a essere stato chiuso dentro un container e deportato. In Libia è la prassi. I container servono a smistare nei vari campi di detenzione i migranti arrestati sulle rotte per Lampedusa. Ne esistono di tre tipi. Il più piccolo è un pick-up furgonato. Quello medio è l’equivalente di un camioncino. E quello più grande è un vero e proprio container, blu, con tre feritoie per lato, trainato da un auto rimorchio. Quando un rifugiato eritreo, nella primavera del 2006, me ne parlò per la prima volta, stentai a crederlo. L’immagine di centinaia di uomini, donne e bambini rinchiusi dentro una scatola di ferro per essere concentrati in dei campi di detenzione e da lì deportati, mi rievocava i fantasmi della seconda guerra mondiale. Mi sembrava troppo. Ma la figura del container ritornava, come un marchio di autenticità, in tutte le storie di rifugiati transitati dalla Libia che avevo intervistato dopo di lui. Finché quei camion ho avuto modo di vederli con i miei occhi.

      A Sebha ce n’è uno per ogni tipo. Siamo alle porte del grande deserto libico, nella capitale della storica regione del Fezzan. Da qui, fino al secolo scorso passavano le carovane che attraversavano il Sahara. Oggi alle carovane si sono sostituiti gli immigrati. Il colonnello Zarruq è il direttore del nuovo centro di detenzione della città. È stato inaugurato lo scorso 20 agosto. I tre capannoni si intravedono oltre il muro di cinta. Ognuno ha quattro camerate, in tutto il centro possono essere detenute fino a 1.000 persone. Nel parcheggio sterrato, è parcheggiato un camion con uno dei container utilizzati per lo smistamento degli immigrati detenuti. Con una pacca sulle spalle, il direttore mi invita a salire sulla motrice. Un Iveco Trakker 420, a sei ruote. Mi indica il tachimetro: 41.377 km. Nuovo di pacca. È rientrato ieri sera da Qatrun, a quattro ore di deserto da qui. A bordo c’erano 100 prigionieri, arrestati alla frontiera con il Niger. Entriamo nel container, dalle scale posteriori. L’ambiente è claustrofobico anche senza nessuno. Difficile immaginarsi cosa possa diventare con 100 o 200 persone ammassate una sull’altra in questa scatola di ferro. I raggi del sole filtrati dalla polvere illuminano le taniche di plastica vuote, a terra, sotto le panche di ferro. Su una c’è scritto Gambia.

      L’acqua è il bagaglio essenziale per i migranti che attraversano il deserto. Ognuno prima di partire si porta dietro una o due taniche. Le riveste di juta per proteggerle dal sole e ci scrive su il proprio nome per riconoscerle una volta appese ai lati dei camion. Nelle traversate del Sahara la vita è appesa a un filo. Se il motore va in panne, se il camion si insabbia, o l’autista decide di abbandonare i passeggeri, è finita. Nel raggio di centinaia di chilometri non c’è altro che sabbia. Muoiono a decine ogni mese, ma le notizie filtrano difficilmente. Sulla stampa internazionale abbiamo censito almeno 1.621 vittime in tutto il Sahara. Ma stando alle testimonianze dei sopravvissuti, ogni viaggio conta i suoi morti. E ogni viaggio conta i suoi attacchi da parte di bande armate in Niger e Algeria.

      Tra i cento migranti arrivati a Sebha nel container di ieri c’è anche una famiglia di Sikasso, in Mali. Padre, madre e bambino. Arrestati tre giorni prima, a Ghat, alla frontiera con l’Algeria. Li incontriamo nell’ufficio del direttore. Il piccolino ha otto anni, faceva la terza elementare. Il padre lo stringe affettuosamente tra le forti braccia, mentre racconta in arabo, al nostro interprete, che lui in Europa non ci voleva andare. Che era venuto a Sebha perché aveva già lavorato qui nel 2002, con una compagnia tedesca. Hanno con sé i passaporti, ma senza il visto libico. Nel campo sono chiusi in celle separate. Il bimbo sta con la madre. I loro nomi compaiono sulle liste dei prossimi aerei pronti a partire. Nei primi undici mesi dell’anno, soltanto da Sebha, hanno deportato più di 9.000 persone, soprattutto nigeriani, maliani, nigerini, ghanesi, senegalesi e burkinabé. Solo a novembre i rimpatri sono stati 1.120. Zarruq mi mostra l’elenco dei voli: 467 nigeriani deportati il 2 settembre, 420 maliani a metà novembre. Le ambasciate mandano qui i loro funzionari per identificare i propri cittadini, e poi si provvede al rimpatrio. Kabbiun e Ajouas hanno già incontrato l’ambasciata nigeriana. I piedi di Kabbiun sono scalzi. Lo hanno arrestato a Ghat, le scarpe le ha lasciate in mezzo al deserto. Ajouas invece viveva a Tripoli da sei anni. Nessuno di loro ha visto un giudice o un avvocato. Avviene tutto senza convalida e senza nessuna possibilità di presentare ricorso e tantomeno di chiedere asilo politico.

      È il caso di Patrick. Viene dalla Repubblica democratica del Congo, recentemente tornata alle cronache per la crisi nella regione del Kivu. È stato arrestato un mese fa a Tripoli, mentre cercava lavoro alla giornata sotto i cavalcavia di Suq Thalatha. Possiamo parlare liberamente in francese, perché l’interprete non lo conosce. Mi porge un foglio spiegazzato dalla tasca. È il suo certificato di richiedente asilo politico. Rilasciato dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Acnur) a Tripoli, il nove ottobre 2007. Qua dentro è carta straccia. Come gli altri detenuti, Patrick non ha diritto di telefonare a nessuno, nemmeno all’Acnur. Se non trova prima i soldi per corrompere qualche poliziotto, anche lui, prima o poi, sarà deportato. E come lui i suoi compagni di cella. Sono camerate di otto metri per otto. I detenuti sono buttati per terra su stuoini e cartoni. La luce entra dalle vetrate in cima alle alte pareti. Ogni camerata è riempita con 60-70 persone. Stanno chiusi tutto il giorno, escono solo per i pasti, in un locale adibito a mensa, accanto a un piccolo chiosco dove i detenuti possono comprare bibite, dolci o medicine, sempre all’interno del muro di cinta.

      Le compagnie aeree che si occupano delle deportazioni sono libiche: Ifriqiya e Buraq Air. I soldi pure, garantisce il direttore. Ma è difficile credergli. Dopotutto il rapporto della Commissione europea del dicembre 2004 parlava già allora di 47 voli di rimpatrio finanziati dall’Italia. Zarruq scuote il capo. Dice che da Roma hanno avuto soltanto due fuoristrada per il pattugliamento, con il progetto Across Sahara. E il nuovo centro di detenzione? Ha finanziato tutto la Libia, insiste. Ammette però che l’Italia si era impegnata a costruire un nuovo centro, e che la a sha‘abiyah, la municipalità, aveva anche predisposto un terreno. Ma poi non se ne è fatto niente. Intanto però il vecchio campo è stato restaurato e ampliato, grazie anche ai lavori forzati degli immigrati detenuti. Questo Zarruq non me lo può dire, ma sono voci che corrono tra i rimpatriati, dall’altro lato della frontiera, a Agadez, in Niger. Ad ogni modo, insiste, oggi tutti i rimpatri avvengono in aereo, anche quelli verso il Niger: Sono passati i tempi dei cosiddetti “rimpatri volontari”, quando, nel 2004, oltre 18.000 nigerini e non solo vennero caricati sui camion e abbandonati alla frontiera in pieno deserto, con le decine di vittime che ne seguirono a causa degli incidenti.

      Ma Zarruq non ha intenzione di parlare di questo. E nemmeno il luogo tenente Ghrera. È lui il responsabile delle pattuglie nel Sahara. L’Italia e l’Europa si sono impegnate a finanziare alla Libia un sistema di controllo elettronico delle frontiere terrestri, firmato FinMeccanica. Lui alla sola idea sorride. Lavora nel deserto da 35 anni. Conosce bene il terreno. Per darci un’idea ci accompagna a Zellaf, 20 km a sud di Sebha. Ancora non siamo nel grande Sahara. Eppure davanti a noi non si vede che sabbia. I due fuoristrada, dopo una corsa a cento km all’ora sulle dune, fermano i motori. Ghrera e l’altro autista, ‘Ali, si lavano le mani nella sabbia. E si inginocchiano verso est. Dopo la preghiera, si riavvicinano. Controllare le rotte nel Sahara è impossibile, dice. Sono 5.000 km di deserto. Un’area troppo vasta e un terreno troppo accidentato Gli 89 autisti – quasi tutti libici – arrestati nei primi undici mesi del 2008 sono un’inezia rispetto alle migliaia di persone che attraversano il Sahara ogni anno. Alle missioni di pattugliamento partecipano gruppi di 10 fuoristrada. Stanno fuori per cinque giorni, ci spiega. Poi sorride. Ha trovato una bottiglia vuota di Gin, per terra. L’alcol in Libia è illegale. E infatti sulla bottiglia c’è scritto fabriqué au Niger, prodotto in Niger. Ghrera lancia la bottiglia nella sabbia, poco lontano. Non dice niente. I traffici non riguardano solo gli immigrati. Ci sono l’alcol, le sigarette, la droga, le armi. Prima di riaccendere il motore ribadisce il concetto: anche con il doppio delle pattuglie, il deserto rimane una porta aperta.

      Il centro di detenzione di Sebha non è l’unico campo di detenzione al sud. Ce ne sono almeno altri cinque. Quelli di Shati, Qatrun, Ghat e Brak, nel sud ovest del paese, fanno capo a Sebha, nel senso che gli immigrati arrestati in queste località vengono poi smistati a Sebha dentro i container. L’altro campo si trova 800 km a sud est, a Kufrah, e lì vengono detenuti i rifugiati eritrei e etiopi in arrivo dal Sudan. È il carcere che gode della peggiore fama, tra gli stessi libici.

      Mohamed Tarnish è il presidente dell’Organizzazione per i diritti umani, una ong libica finanziata dalla Fondazione di Saif al Islam Gheddafi, il primogenito del colonnello. Ci incontriamo al Caffè Sarayah, a due passi dalla Piazza Verde, a Tripoli. La sua organizzazione, sotto la guida del suo predecessore, Jum‘a Atigha, ha ottenuto il rilascio di circa 1.000 prigionieri politici e si è battuta per il miglioramento delle condizioni delle carceri libiche. Da un paio d’anni hanno accesso anche ai centri di detenzione degli immigrati. Ne hanno visitati sette. Ha la bocca cucita, davanti a noi c’è un funzionario dell’agenzia per la stampa estera del governo libico. Ma riesce comunque a farci capire che il centro di Kufrah è il peggiore. Le condizioni del vecchio fabbricato, il sovraffollamento, la scadenza del cibo e l’assenza di assistenza sanitaria.

      Per capire il significato delle allusioni di Tarnish, rileggo le interviste fatte ai rifugiati eritrei ed etiopi nel 2007.“Dormivamo in 78 in una cella di sei metri per otto” - “Dormivamo per terra, la testa accanto ai piedi dei vicini” - “Ci tenevano alla fame. Un piatto di riso lo potevamo dividere anche in otto persone” - “Di notte mi portavano in cortile. Mi chiedevano di fare le flessioni. Quando non ce la facevo più mi riempivano di calci e maledivano me e la mia religione cristiana” – “Usavamo un solo bagno in 60, nella cella c’era un odore perenne di scarico. Era impossibile lavarsi” - “C’erano pidocchi e pulci dappertutto, nel materasso, nei vestiti, nei capelli” - “I poliziotti entravano nella stanza, prendevano una donna e la violentavano in gruppo davanti a tutti”. È il ritratto di un girone infernale. Ma anche di un luogo di affari. Sì perché da un paio d’anni la polizia è solita vendere i detenuti agli stessi intermediari che poi li porteranno sul Mediterraneo. Il prezzo di un uomo si aggira sui 30 dinari, circa 18 euro.

      Non sono stato autorizzato a visitare il centro di Kufrah e non ho potuto verificare di persona. Tuttavia il fatto che le versioni dei tanti rifugiati con cui ho parlato coincidano nel disegnare un luogo di abusi, violenze e torture, mi fa pensare che sia tutto vero. Nel 2004 la Commissione europea riferiva che l’Italia stava finanziando il centro di detenzione di Kufrah. Nel 2007 il governo Prodi smentiva la notizia, dicendo che si trattava di un centro di assistenza sanitaria. Poco importa. Dal 2003, Italia e Unione Europea finanziano operazioni di contrasto dell’immigrazione in Libia. La domanda è la seguente: perché fingono tutti di non sapere?

      Nel 2005, il prefetto Mario Mori, ex direttore del Sisde, informava il Copaco: “I clandestini [in Libia, ndr.] vengono accalappiati come cani... e liberati in centri... dove i sorveglianti per entrare devono mettere i fazzoletti intorno alla bocca per gli odori nauseabondi”. Ma i funzionari della polizia italiana sapevano già tutto. Già perché dal 2004 alcuni agenti fanno attività di formazione in Libia. E alcuni funzionari del ministero dell’Interno, hanno visitato in più occasioni i centri di detenzione libici, Kufrah compreso, limitandosi a non rilasciare dichiarazioni. E l’ipocrita Unione Europea? Il rapporto della Commissione europea del 2004, definisce le condizioni dei campi di detenzione libici “difficili” ma in fin dei conti “accettabili alla luce del contesto generale”. Tre anni dopo, nel maggio 2007, una delegazione di Frontex visitò il sud della Libia, compreso il carcere di Kufrah, per gettare le basi di una futura cooperazione. Indovinate cosa scrisse? “Abbiamo apprezzato tanto la diversità quanto la vastità del deserto”. Sulle condizioni del centro di detenzione però preferì sorvolare. Una dimenticanza?

      [1] Testimonianza raccolta dalla scuola di italiano Asinitas, Roma, 2007


      https://fortresseurope.blogspot.com/2006/01/frontiera-sahara-i-campi-di-detenzione.html

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      Guantanamo Libia. Il nuovo gendarme delle frontiere italiane

      La porta di ferro è chiusa a doppia mandata. Dalla piccola feritoia si affacciano i volti di due ragazzi africani e un di egiziano. L’odore acre che esce dalla cella mi brucia le narici. Chiedo ai tre di spostarsi. La vista si apre su due stanze di tre metri per quattro. Incrocio gli sguardi di una trentina di persone. Ammassati uno sull’altro. A terra vedo degli stuoini e qualche lercio materassino in gommapiuma. Sui muri qualcuno ha scritto Guantanamo. Ma non siamo nella base americana. Siamo a Zlitan, in Libia. E i detenuti non sono presunti terroristi, ma immigrati arrestati a sud di Lampedusa e lasciati marcire in carceri fatiscenti finanziate in parte dall’Italia e dall’Unione europea.

      I prigionieri si accalcano contro la porta della cella. Non ricevono visite da mesi. Alcuni alzano la voce: “Aiutateci!”. Un ragazzo allunga la mano oltre quelli della prima fila e mi porge un pezzettino di cartone. C’è scritto sopra un numero di telefono, a penna. Il prefisso è quello del Gambia. Lo metto in tasca prima che la polizia se ne accorga. Il ragazzo si chiama Outhman. Mi chiede di dire a sua madre che è ancora vivo. È in carcere da cinque mesi. Fabrice invece non esce da questa cella da nove mesi. Entrambi sono stati arrestati durante le retate nei quartieri degli immigrati a Tripoli. Da anni la polizia libica è impegnata in simili operazioni. Da quando nel 2003 l’Italia siglò con Gheddafi un accordo di collaborazione per il contrasto dell’immigrazione, e spedì oltremare motovedette, fuoristrada e sacchi da morto, insieme ai soldi necessari a pagare voli di rimpatrio e tre campi di detenzione. Da allora decine di migliaia di immigrati e rifugiati ogni anno sono arrestati dalla polizia libica e detenuti nei circa 20 centri fatiscenti sparsi per il paese, in attesa del rimpatrio. Insieme a un collega tedesco, siamo i primi giornalisti autorizzati a visitare questi centri.

      “La gente soffre! Il cibo è pessimo, l’acqua è sporca. Ci sono donne malate e altre incinte”. Gift ha 29 anni. Viene dalla Nigeria. Indossa ancora il vestito che aveva quando l’arrestarono tre mesi fa, ormai ridotto a uno straccio sporco e consumato. Stava passeggiando con il marito. Non avevano documenti e furono arrestati. Non lo vede da allora, lui nel frattempo è stato rimpatriato. Dice di avere lasciato i due figli a Tripoli. Di loro non ha più notizie. Viveva in Libia da tre anni. Lavorava come parrucchiera e non aveva nessuna intenzione di attraversare il Canale di Sicilia. Come molti degli immigrati detenuti dai nuovi gendarmi della frontiera italiana.

      All’Europa invece aveva pensato Y.. C’aveva pensato e come. Disertore dell’esercito eritreo, per chiedere asilo politico, si era imbarcato due mesi fa per Lampedusa. Ma è stato fermato in mare. Dai libici. Da quel giorno è rinchiuso a Zlitan. Anche lui senza nessuna convalida dello stato d’arresto. Prima di farlo entrare nello studio del direttore, un poliziotto gli sussurra qualcosa all’orecchio. Lui fa cenno di sì col capo. Quando gli chiediamo delle condizioni del centro, risponde “Everything is good”. Va tutto bene. È spaventato a morte. Sa che ogni risposta sbagliata gli può costare un pestaggio. Il direttore del campo, Ahmed Salim, sorride compiaciuto delle risposte e ci assicura che non sarà deportato. Nel giro di qualche settimana sarà trasferito al centro di detenzione di Misratah, 210 km a est di Tripoli, dove sono concentrati i prigionieri di nazionalità eritrea.

      Nella provincia esistono altri tre centri di detenzione per stranieri, a Khums, Garabulli e Bin Ulid. Ma sono strutture più piccole e i detenuti vengono poi tradotti nel campo di Zlitan, che può rinchiudere fino a 325 persone, in attesa del loro rimpatrio. Ma quanti sono i centri di detenzione in tutta la Libia? Sulla base delle testimonianze raccolte in questi anni, ne abbiamo contati 28, perlopiù concentrati sulla costa. Ne esistono di tre tipi. Ci sono dei veri e propri centri di raccolta, come quelli di Sebha, Zlitan, Zawiyah, Kufrah e Misratah, dove vengono concentrati i migranti e i rifugiati arrestati durante le retate o alla frontiera. Poi ci sono strutture più piccole, come quelle di Qatrun, Brak, Shati, Ghat, Khums… dove gli stranieri sono detenuti per un breve periodo prima di essere inviati nei centri di raccolta. E poi ci sono le prigioni: Jadida, Fellah, Twaisha, Ain Zarah… Prigioni comuni, nelle quali intere sezioni sono dedicate alla detenzione degli stranieri senza documenti. Anche nelle prigioni, le condizioni di detenzione sono pessime. Scabbia, parassiti e infezioni sono il minimo che ci si possa prendere. Molte donne sono colpite da infezioni vaginali. E non mancano i decessi, dovuti perlopiù all’assenza di assistenza sanitaria o a ricoveri ospedalieri troppo tardivi. Il nome più ricorrente nei racconti dei migranti è quello del carcere di Fellah, a Tripoli, che però è stato recentemente demolito per far spazio a un grande cantiere edilizio, in linea con il restyling di tutta la città. La sua funzione è stata sostituita dal Twaisha, un’altra prigione vicino all’aeroporto.

      Koubros è riuscito a scappare da Twaisha poche settimane fa. È un rifugiato eritreo di 27 anni. Viveva in Sudan, ma dopo che un amico eritreo è stato rimpatriato da Khartoum, non si è più sentito al sicuro e ha pensato all’Europa. Da Twaisha è uscito sulle stampelle. Non poteva pagare la cifra che gli aveva chiesto un poliziotto ubriaco. Allora l’hanno portato fuori dalla cella e preso a manganellate. È uscito grazie a una colletta tra i prigionieri eritrei. Per corrompere una delle guardie carcerarie sono bastati 300 dollari. Lo incontro davanti alla chiesa di San Francesco, a Tripoli. Come ogni venerdì, una cinquantina di migranti africani aspetta l’apertura dello sportello sociale della Caritas. Tadrous è uno di loro. È stato rilasciato lo scorso sei ottobre dal carcere di Surman. È uno dei pochi ad essere stato giudicato da una corte. La sua storia mi interessa. Era il giugno del 2008. Si erano imbarcati da Zuwarah, in 90. Ma dopo poche ore decisero di invertire la rotta, perché il mare era in tempesta. E tornarono indietro. Appena toccata terra furono arrestati e portati nella prigione di Surman. Il giudice li condannò a 5 mesi di carcere per emigrazione illegale. Finiti i quali è stato rilasciato. Gli chiedo se gli fu dato un avvocato d’ufficio. Sorride scuotendo la testa. La risposta è negativa.

      Niente di strano, sostiene l’avvocato Abdussalam Edgaimish. La legge libica non prevede il gratuito patrocinio per reati passibili di pene inferiori a tre anni. Edgaimish è il direttore dell’ordine degli avvocati di Tripoli. Ci riceve nel suo studio in via primo settembre. Ci spiega che tutte le pratiche di arresto e detenzione sono svolte come procedure amministrative, senza nessuna convalida del giudice. Senza nessuna base legale dunque, ma solo sull’onda dell’emergenza. Anche in Libia una persona non potrebbe essere privata della libertà senza un mandato d’arresto. Ma questa è la teoria. La pratica invece è quella delle retate casa per casa nei sobborghi di Tripoli.

      “I migranti sono vittime di una cospirazione tra le due rive del Mediterraneo. L’Europa vede soltanto un problema di sicurezza, nessuno vuole parlare dei loro diritti”. Anche Jumaa Atigha è un avvocato di Tripoli. Nella parete del suo ufficio è appesa una Laurea in Diritto penale dell’Università La Sapienza, di Roma, conferita nel 1983. Dal 1999 ha presieduto l’Organizzazione per i diritti umani della Fondazione guidata dal primogenito di Gheddafi, Saif al Islam. Lo scorso anno si è dimesso. Dal 2003 ha condotto una campagna che ha portato alla liberazione di 1.000 prigionieri politici. Ci descrive un paese in rapido cambiamento, ma ancora lontano da una situazione ideale sul fronte delle libertà individuali e politiche. In Libia non c’è nessuna legge sull’asilo, ci conferma, ma in compenso una commissione si sta occupando di scrivere un nuova legge sull’immigrazione.

      Atigha conosce personalmente le condizioni di detenzione in Libia. Dal 1991 al 1998 è stato incarcerato, senza processo, come prigioniero politico. Ci dice che la tortura è comunemente praticata dalla polizia libica. “Dal 2003 abbiamo fatto una campagna contro la tortura nelle carceri. Abbiamo organizzato conferenze, visitato le prigioni, fatto dei corsi agli ufficiali di polizia. La mancanza di consapevolezza fa sì che la polizia pratichi la tortura pensando così di servire la giustizia”.

      Mustafa O. Attir la pensa allo stesso modo. Insegna sociologia all’Università El Fatah di Tripoli. “Non è un problema di razzismo. I libici sono gentili con gli stranieri. È un problema di polizia”. Attir sa quello che dice. È entrato nelle carceri libiche come ricercatore nel 1972, nel 1984 e nel 1986. Gli agenti di polizia non hanno istruzione - sostiene -, e sono educati al concetto di punizione.

      Le sue parole mi fanno ripensare ai parrucchieri ghanesi nella medina, ai sarti chadiani, ai negozianti sudanesi, ai camerieri egiziani, alle donne delle pulizie marocchine e agli spazzini africani che armati di scope di bambù ogni notte ripuliscono le vie dei mercati della capitale. Mentre gli eritrei si nascondono nei sobborghi di Gurji e Krimia, migliaia di immigrati africani vivono e lavorano, in condizioni di sfruttamento, ma con relativa tranquillità. Sicuramente per sudanesi e chadiani è tutto più facile. Parlano arabo e sono musulmani. La loro presenza in Libia è decennale e quindi tollerata. Lo stesso per egiziani e marocchini. Al contrario eritrei ed etiopi sono qui esclusivamente per il passaggio in Europa. Spesso non parlano arabo. Spesso sono cristiani. E i loro nonni combattevano contro i libici a fianco delle truppe coloniali italiane. E poi si sa che hanno spesso in tasca i soldi per la traversata. Per cui diventano facile mira di piccoli delinquenti e poliziotti corrotti. Per i nigeriani, e più in generale i sub-sahariani anglofoni, è ancora diverso. Che siano diretti in Europa oppure no, il loro destino in Libia si scontra sistematicamente contro il pregiudizio che si è venuto a creare contro i nigeriani, sulla scia di qualche fatto di cronaca nera. Sono accusati di portare droga, alcol e prostituzione, di essere autori di rapine e omicidi, e di diffondere il virus dell’Hiv.

      Il professor Attir, nel 2007, ha organizzato tre seminari sul tema dell’immigrazione nei paesi arabi. In Libia è uno dei massimi esperti. Ed è pronto a smentire la cifre che circolano in Europa. “Due milioni di immigrati in Libia pronti a partire per l’Italia? Non è vero”. In realtà non esistono statistiche di nessun tipo. Ma solo stime. Che però – secondo Attir – non sono attendibili. Basta dare un occhio in giro. La popolazione libica è di cinque milioni e mezzo di persone. Gli stranieri non possono ragionevolmente essere più di un milione, compresi gli immigrati arabi egiziani, tunisini, algerini e marocchini. La maggior parte di loro non ha mai pensato all’Europa. E la Libia ha bisogno di loro, perché è un paese sottopopolato e perché i libici non vogliono più fare lavori pesanti e mal retribuiti. Attir è consapevole delle pressioni che l’Europa sta facendo sulla Libia perché sigilli le sue frontiere. Ma sa che “non c’è modo per farlo”.

      La Libia ha circa 1.800 km di costa, in buona parte disabitati. Il colonnello Khaled Musa, capo delle pattuglie anti immigrazione a Zuwarah, non sa che farsene delle sei motovedette promesse dall’Italia. Potrebbero servire a pattugliare meglio il tratto di mare tra la frontiera tunisina, Ras Jdayr, e Sabratah, ammette. Ma sono solo 100 km. Il 6% della costa libica. E le partenze si sono già spostate sul litorale a est di Tripoli, tra Khums e Zlitan, a più di 200 km da Zuwarah. Il dipartimento anti immigrazione di Zuwarah è nato nel 2005. Il numero di migranti arrestati è sceso da 5.963 nel 2005 a soli 1.132 nel 2007. Per il capo del dipartimento investigazioni, Sala el Ahrali, i dati indicano il successo delle misure repressive. Molti degli organizzatori dei viaggi sono stati arrestati, questo sarebbe il motivo per cui le partenze si sono ridotte. E la costa è più controllata. Ogni dieci chilometri è installata una tenda, in mezzo alla spiaggia. Serve da appoggio ai fuoristrada della polizia, che da due anni pattugliano la litoranea, appoggiati da quattro motovedette della marina. Il tratto di costa attualmente pattugliato è di una cinquantina di chilometri. Parte da Farwah, a una decina di chilometri dalla frontiera tunisina, e finisce 15 km a est di Zuwarah, a Mellitah, nei pressi dell’imponente impianto di trattamento del gas di proprietà dell’Eni e della libica National Oil Company.

      E proprio da Mellitah parte il #Greenstream, il gasdotto sottomarino più lungo del Mediterraneo. Collega la Libia a Gela, in Sicilia. Ironia della sorte, corre lungo la stessa rotta che porta i migranti a Lampedusa. Come dire che mentre sulla superficie del mare l’Europa dispiega le sue forze militari per bloccare il transito degli esseri umani, otto miliardi di metri cubi di gas ogni anno scorrono silenziosi nei 520 km di condotta posata sui fondali di quello stesso mare, in mezzo alle ossa delle migliaia di uomini e donne morti nella traversata del Canale di Sicilia. Un’immagine che sintetizza perfettamente le relazioni degli ultimi cinque anni tra Roma e Tripoli, condotte all’insegna dello slogan “più petrolio e meno immigrati”.

      https://fortresseurope.blogspot.com/2006/01/guantanamo-libia-il-nuovo-gendarme.html
      #gazoduc

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      Liens qu’il a mis aujourd’hui sur FB pour accompagner ce message:

      Non conosco nessuno dell’equipaggio di #Lifeline, la nave della ONG accusata dal ministro Salvini di aver agito fuorilegge soccorrendo 239 passeggeri in difficoltà in acque libiche. Purtroppo però conosco bene le carceri libiche. Fui il primo giornalista italiano a visitarle nel 2008 insieme al collega e amico Roman Herzog. Abusi, pestaggi, violenze sulle donne erano la norma già allora. Gli unici che si salvavano erano quelli che riuscivano a farsi mandare abbastanza soldi dai familiari in Europa con cui corrompevano facilmente le guardie colluse con le mafie del contrabbando per farsi rilasciare e tentare di nuovo la traversata. Gli altri, dopo mesi di prigione in condizioni inumane venivano rimpatriati sui voli dell’OIM oppure, molto più spesso, stipati come vuoti a rendere dentro i container dei camion che prendevano la via del deserto, per decine di ore, mentre sotto il sole le lamiere di ferro diventavano un forno, per essere infine abbandonati alla frontiera sud con il Niger e il Sudan, in una terra di nessuno. E quanti ne sono morti anche lì, in mezzo al Sahara. Con molti giornalisti e documentaristi abbiamo denunciato questa situazione fin dal 2007. Da quando Prodi e Amato negoziarono gli accordi di respingimento con Gheddafi a quando Berlusconi e Maroni li misero in pratica nel 2009. Da allora sembra non essere cambiato molto. E allora, pur non conoscendoli, mi azzardo a pensare che l’equipaggio della #Lifeline abbia disobbedito all’ordine di consegnare i passeggeri alla guardia costiera libica temendo per il destino di quegli uomini, di quelle donne e di quei bambini, immaginando il triste destino che li attendeva nelle prigioni oltremare.

      Dopodiché se il comportamento della #Lifeline costituisca un reato lo deciderà un giudice anche alla luce di queste considerazioni. Perché quello che il ministro Salvini si dimentica di ricordare è che la Libia non è Malta, non è la Spagna, non è la Francia. La Libia di oggi non è un paese sicuro.

      Ciononostante, attenzione, gli sbarchi devono cessare. Ma come si fa?

      Si aprono vie legali. Perché, ministro, da contribuenti italiani non vogliamo finanziare altre prigioni in Libia. Vogliamo finanziare asili nido, scuole, parchi, ospedali. Non vogliamo continuare a finanziare le milizie colluse con le stesse mafie del contrabbando che dite di voler combattere.

      Per sconfiggere quelle mafie, azzerare gli sbarchi e porre fine alle tragedie delle traversate c’è un unico modo: legalizzare l’emigrazione Africa-Europa. Perché fin quando quell’emigrazione sarà illegale, ci sarà qualche mafia pronta a lucrarci. Oggi i libici, domani gli egiziani o i tunisini. Il mare è grande e incontrollabile.

      La soluzione sarebbe così semplice che è incredibile credere che i vostri consiglieri non ve l’abbiano prospettata. Andate in Europa e chiedete a gran voce che le ambasciate UE in Africa riaprano i canali legali dei visti che hanno progressivamente chiuso in questi ultimi vent’anni, spingendo centinaia di migliaia di giovani nelle mani del contrabbando libico a cui abbiamo concesso il monopolio della mobilità sud-nord in questo mare.

      Calcolate quante persone ogni anno attraversano il mare per rimanere bloccati in Italia, senza documenti e senza lavoro. Calcolate quanti sono e rilasciate lo stesso numero di visti per ricerca di lavoro. Affinché quelle stesse persone possano comodamente imbarcarsi in aereo, con in tasca un passaporto e un visto europeo liberi di circolare in tutta Europa, ricongiungersi con i propri familiari e cercare lavoro là dove il lavoro c’è, in quel centro e nord Europa che in questi anni ha importato milioni di lavoratori dall’est mentre noi a sud predicavamo il blocco navale e continuavamo a contare i morti.

      In caso contrario, signor ministro, siate più chiari. Dite semplicemente che di negri in Europa non volete vederne. Né per le vie legali né per quelle illegali.

      https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=2121309374549318&id=100000108285082

    • La zona SAR libica non esiste. Il grande inganno nel rimbalzo dei soccorsi

      "Una zona SAR libica ad oggi non esiste”, spiega Fulvio Vassallo Paleologo, avvocato, esperto di immigrazione, membro del direttivo di Osservatorio Solidarietà. “E non esiste in quanto il governo di Tripoli non ha soddisfatto i requisiti imposti dall’IMO (Organizzazione marittima internazionale) per il riconoscimento delle zone SAR”, aggiunge l’avvocato.

      I requisiti consistono nell’accordo tra lo Stato che si pone come responsabile delle operazioni di salvataggio in una propria area di mare l’Organizzazione marittima internazionale (IMO). A quel punto i dati della zona SAR devono essere inseriti in un database ufficiale e pubblico, il GISIS. A marzo, in seguito al caso Open Arms, Famiglia Cristiana aveva fatto una verifica con l’IMO e la risposta ricevuta era stata: “La Libia non ha inviato le sue informazioni”.

      “Quasi tutte le operazioni di soccorso in acque internazionali nelle ultime settimane sono state coordinate dal Comando della Guardia costiera italiana proprio perché la Libia non esiste come paese unitario e non ha un Comando centrale unificato”, aggiunge Vassallo Paleologo.

      “Ma tutto è cambiato dal caso Aquarius”. Infatti da alcuni giorni anche sul sito dell’IMO compare il riferimento alla zona SAR libica “ma continua a non esistere uno stato unitario e anche le guardie costiere delle diverse città rispondono a milizie diverse“, avverte l’avvocato. “Alla fine il risultato è che il trasferimento di competenze ai libici e l’allontanamento delle Ong produce un ritardo nei soccorsi, un amento delle vittime e delle persone riportate nei centri di detenzione in Libia dove continuano gli abusi”.

      Esiste invece una zona SAR maltese. Ma Malta ha dichiarato unilateralmente la sua zona di ricerca e soccorso, un’area molto ampia che però non è riconosciuta dalle autorità marittime internazionali poiché il Governo de la Valletta non ha mai sottoscritto alcune modifiche della convenzione di Amburgo del 1979 e della convenzione #Solas introdotte nel 2004. Queste norme prevedono che lo sbarco avvenga nel paese che ha coordinato i soccorsi, e da sempre in quel tratto di mare i soccorsi sono stati coordinati dall’Italia. Quindi, in base al diritto internazionale e alla prassi i soccorsi coordinati dall’Italia hanno sempre indicato un porto di sbarco italiano.

      http://osservatoriosolidarieta.org/la-zona-sar-libica-non-esiste-il-grande-inganno-nel-rimbalz
      #Malte #SAR

    • Conséquences pour les droits de l’homme de la « dimension extérieure » de la politique d’asile et de migration de l’Union européenne : loin des yeux, loin des droits ?

      Les objectifs de la délégation des procédures de migration aux pays en dehors des frontières de l’Union européenne sont, entre autres, d’alléger la pression migratoire des États membres aux frontières de l’UE et de réduire le besoin des migrants d’entreprendre des voyages terrestres et maritimes potentiellement mortels. La réinstallation dans toute l’Europe devrait ensuite faciliter un afflux plus régulier sur le continent. Cependant, le transfert des responsabilités et l’engagement de pays tiers dans le renforcement de contrôles aux frontières de l’UE comportent de sérieux risques pour les droits de l’homme. Il augmente le risque que les migrants soient « bloqués » dans les pays de transit par la réadmission et le recours accru à des mesures punitives et restrictives telles que le refoulement, la rétention arbitraire et les mauvais traitements. C’est également un moyen pour de nombreux États membres de l’Union européenne de prendre leurs distances par rapport à la question de l’assistance et de l’intégration des réfugiés, qui est source de divisions politiques.

      Ce #rapport exhorte les États membres à œuvrer ensemble pour que le recours accru à des politiques de dissuasion ne porte pas atteinte au devoir des États européens de respecter et de défendre les droits de l’homme à l’échelle mondiale et à s’abstenir d’externaliser le contrôle des migrations vers les pays où la législation, les politiques et les pratiques ne respectent pas les normes de la Convention européenne des droits de l’homme et de la Convention des Nations Unies relative au statut des réfugiés.

      http://assembly.coe.int/nw/xml/XRef/Xref-XML2HTML-fr.asp?fileid=24808&lang=fr

    • Sahel, la France en guerre ?

      Au Mali, alors que la campagne pour les élections présidentielles du 29 juillet bat son plein, l’insécurité liée au terrorisme grandit. La France a-t-elle encore un rôle a jouer ? Elle a depuis 2013 une forte présence militaire entre le Sahel et le Sahara, mais quelle place tient-elle dans la guerre contre le terrorisme ?

      Sahel, la France en guerre ? Par David Dominé-Cohn ntoine de Saint-Exupéry dans Terre des hommes (1939) dresse le portrait des officiers français des compagnies méharistes au Sahara. Développées à partir de 1897 par le commandant Laperrine, ces unités d’infanterie, relevant pour partie de la Légion étrangère, apparentées aussi aux spahis, ont effectué un travail de police et de contrôle des populations des oasis. Chez l’écrivain, le capitaine Bonnafous exerce son autorité, fascinante pour l’observateur occidental, dans un mélange d’héroïsme, d’humanité et d’extrême violence : « À cause de Bonnafous chaque pas vers le sud devient un pas riche de gloire »… et d’insurrections des populations locales.

      Les grandes formes historiques semblent se reproduire dans le désert. Depuis 2013, la France entretient une présence militaire entre le Sahel et le Sahara : 4500 hommes au printemps 2018. Avec 500 opérations en trois ans et demi, l’objectif affiché est d’abord de maintenir la pression sur les groupes terroristes et d’apporter un soutien à la population locale. Les attaques terroristes sur place sont l’occasion de s’interroger sur l’espace du Sahara et du Sahel comme étant redevenu un espace majeur d’action militaire de la France. Témoignant dans le livre de David Revault d’Allones, Les guerres du président (2015), Sacha Mandel, plume de Jean-Yves Le Drian, revendique le terme de guerre pour ce qui a causé, pour la France 22 morts et des dizaines de blessés et des centaines morts et de blessés pour les adversaires. Or peut-on faire la guerre au terrorisme ?

      Faire la « guerre au #Mali » puis faire la guerre au #terrorisme

      L’intervention française au Mali avec l’opération Serval commence le 11 janvier 2013 pour soutenir l’État malien dans la reprise des villes du pays contrôlées par une alliance entre le MNLA (Mouvement national de libération de l’Azawad) touareg, qui réclame le développement et l’indépendance du Nord du pays, l’Azawad, et des mouvements islamistes comme Ansar Dine et le MUJAO (Mouvement pour l’unicité et le jihad en Afrique de l’Ouest) et d’autres issus de la guerre civile algérienne des années 1990 comme AQMI. Les opérations militaires françaises, appuyées par les forces des États voisins, visent d’abord à sécuriser Bamako, comme l’affirme le président Hollande le 15 janvier aux Émirats Arabes Unis. La boucle du fleuve Niger est reprise entre le 22 et le 28 janvier, la ville de Gao le 25. Le 27 janvier par une opération aéroportée de la Légion, Tombouctou est contrôlée, puis Kidal le 30. En février et mars les forces avancent vers le nord, vers Tesslit et Tigharghâr, pendant que Gao connaît un regain de violence et d’actes terroristes kamikazes comme dans la nuit du 9 au 10 février. Un effort important est fait pour séparer les mouvements de l’Azawad des islamistes. Ainsi, le général tchadien Mahamat Idriss Déby Itno déclare le 11 janvier à RFI que ses troupes, qui occupent la ville, entretiennent de bonnes relations avec le MNLA. Le 2 février, dans un discours à Bamako, François Hollande considère l’action française comme inachevée et se donne comme objectif l’éradication du terrorisme. Les opérations antiterroristes scandent toute la seconde moitié de l’année 2013 et le début de 2014. Le 1er août 2014, l’opération Serval et l’opération Épervier au Tchad sont regroupées dans l’opération Barkhane qui porte sur l’ensemble de la bande sahélo-saharienne. Michel Galy (La guerre au Mali. Comprendre la crise au Sahel et au Sahara. Enjeux et zones d’ombre, 2013) rappelle que l’intervention française s’inscrit à la fois dans une forme de tradition française et dans un contexte général de transformation de la région. Au-delà de la remise en cause du mode de gouvernement du président Amadou Toumani Touré, les différents mouvements indépendantistes ou djihadistes s’inscrivent dans des enjeux régionaux où pèsent certains voisins du Maghreb, les puissances d’Afrique de l’Ouest et de toutes les grandes puissances mondiales occidentales ou orientales. Elles sont attentives au développement des mouvements terroristes se revendiquant de l’islam mais aussi à une région de plus en plus stratégique, jeune, au sous-sol très riche et qui sera un foyer de peuplement du XXI siècle.

      De la ligne de front à une ligne de postes

      Barkhane est devenue une opération de surveillance anti-terroriste d’un territoire immense à partir de postes avancés en liaison avec les forces locales. Le 18 avril 2018, Michel Cambon, président de la commission sénatoriale des affaires étrangères, de la défense et des forces armées souligne que dans ce cadre, la stratégie française est celle de « coups de poing » menées par des forces spéciales basées à Ouagadougou grâce au dispositif Sabre. Celui-ci est ancien, plus ancien que Barkhane et Serval. Dans le livre blanc de défense et de sécurité nationale en 2008, la désignation de l’arc de crises, allant de l’Océan atlantique à l’Océan indien entraîne la mise en place d’un plan Sahel qui comporte un large volet anti-terroriste. Comme le souligne Jean- Christophe Notin (La guerre de la France au Mali, 2014), la composante essentielle de ce volet est le prépositionnement d’unités dites Sabre de forces spéciales. Elles ont joué un rôle au début de Serval dans la protection des sites nucléaires du Niger et ont participé aux opérations Serval et Barkhane. Le soutien à la lutte anti-terroriste est un moyen majeur d’influence des grandes puissances en Afrique. Les États-Unis sont ainsi très présents depuis 2007 via leur commandement pour l’Afrique (Africom) ; la qualification de terroriste permet à chacun de se trouver un ennemi commun. Le passage d’une logique d’action militaire de reprise d’un territoire à une action de surveillance, de police et de contre-terrorisme se traduit par de nouveaux besoins en matériel, comme le souligne le sénateur Cambon : « les hélicoptères lourds, les véhicules de type quad/pickup pour la mobilité, les ISMI catcher pour l’écoute des GSM, la biométrie, la capacité « drones » ». Il conclue son rapport par « un message assez clair et assez pessimiste » : une opération militaire ne réglera pas un problème politique.

      Le terrorisme persiste largement dans la région. Le Groupement de Soutien à l’Islam et aux Musulmans, qui fédère plusieurs groupes djihadistes, dont Ansar Dine, des katibats d’al-Qaïda au Maghreb islamique et d’al-Mourabitoune, lance régulièrement des attaques contre les forces dans la région. Le 2 mars 2018, deux attaques à Ouagadougou au Burkina Faso ont fait 8 morts et une soixantaine de blessés. Le 14 avril, le GSIM a lancé une attaque « complexe » avec une quinzaine d’attaquants à Tombouctou contre la force Barkhane et la Mission des Nations unies au Mali. Le groupe a revendiqué son action comme une réponse à des raids aériens. Le 5 juillet, Emmanuel Macron évoque un redéploiement du dispositif français. Le bureau pour l’Afrique de l’Ouest et le Sahel de l’ONU soulignait dans un rapport du 29 juin la montée en capacité des mouvements terroristes autant que le possible resserrement des liens entre les différents mouvements djihadistes violents avec une extension de leurs zones d’activité. La réduction des adversaires à des mouvements avant tout terroristes mais mobiles et circulant dans un large territoire a conduit à un renouvellement des logiques d’action : le droit de poursuite au-delà de la frontière est nécessaire. Créé en février 2014, le G5 regroupe le Mali, le Niger, le Burkina Faso et le Tchad. Il vise le développement régional et la lutte contre le terrorisme. Cependant l’objectif d’une force commune actée en novembre 2015 peine à se réaliser et il a fallu attendre juin 2017 pour que l’ONU salue sa mise en place. Les financements sont aujourd’hui très insuffisants par rapport aux immenses besoins nés des contraintes du territoire. La France occupe donc de fait un rôle central dans la réalisation d’opérations de contreterrorisme par sa capacité très supérieure dans les domaines du renseignement, de la mobilité et de la frappe. Dans un milieu désertique, un espace que l’on traverse, l’action militaire est une action de contrôle de flux qui entraîne soit l’enlisement, soit des reconfigurations politiques, militaires et institutionnelles profondes. La criminalisation des personnes circulant dans de tels espaces est une stratégie classique de contrôle. Pour Hélène Claudot-Hawad (Galy, La guerre au Mali, 2013), la question Touareg a été construite tout au long de la colonisation : à partir des années 1910, l’administration française déploie un projet de tribalisation dans le but de contrôler des groupes et des circulations dans la bande sahélo-saharienne. La question des Touaregs est restée problématique pour les pouvoirs issus de la décolonisation. A l’aube de la décennie 2000 les tensions sont fortes d’autant plus que les organisations régionales de contrebande rejoignent une partie des mouvements islamistes.

      L’envers de la lutte contre les pirates du désert

      Le G5 Sahel se veut l’instrument d’une action régionale centrée sur la lutte anti-terroriste. Le terroriste y est celui qui circule impunément et qui devient ce que Daniel Heller-Roazen a vu dans la figure ancienne du pirate : l’ennemi de tous (L’ennemi de tous. Le pirate contre les nations, 2010, édition originale anglaise 2009). Le pirate brouille la limite entre criminalité et politique : « la piraterie entraine une transformation du concept de guerre. » C’est dans cette perspective qu’on peut lire le rapport du Haut Commissariat des Nations Unies pour les Droits de l’Homme qui dénombre au Mali 1200 violations entre janvier 2016 et juin 2017 faisant 2700 victimes dont 441 morts. Si plus de 70% des violations sont le fait d’acteurs non étatiques on peut, par exemple, s’interroger sur le statut des 150 arrestations administratives faites par les forces de Barkhane. Les « neutralisations » des terroristes, leur mort pendant des combats ou suite à des frappes aériennes, posent également question. Le respect des Droits de l’Homme est en jeu, mais aussi le cadre juridique dans lequel interviennent les troupes françaises. En arrière plan, le rapport de l’ONU pointe que 20% des violations sont le fait des forces de sécurité maliennes. A l’horizon de ce rapport qui suit plusieurs autres avant lui, par exemple celui en mai 2017 de la FIDH « Mali : Terrorisme et impunité font chanceler un accord de paix fragile » souligne les impasses d’une approche centrée sur l’anti-terrorisme et qui ne vise pas un processus politique global dans la région. De ce fait, interroger l’action française au Sahel c’est aussi nous interroger sur le rapport au territoire des autres, particulièrement des pays en développement, le rapport aux flux dans un contexte d’urgence migratoire. Cela questionne les actions militaires futures. Ces engagements sont usants pour les hommes et les matériels et constituent un poids considérable sur notre appareil militaire. Les opérations de lutte contre le terrorisme sont légitimes dans la mesure où la terreur et les actes criminels ne sauraient être tolérés. Il faut mesurer le dilemme moral qui pèse sur tout gouvernant à la tête d’une puissance militaire capable d’une opération pour faire cesser ce qui constitue à un moment donné un scandale moral. Mais il faut admettre que ce qui constitue un scandale moral aujourd’hui s’inscrit dans des problématiques plus vastes et plus anciennes. Oublier que le terrorisme et les terroristes sont les manifestations de problèmes plus larges qu’eux-mêmes, c’est accepter de croire qu’il est possible aujourd’hui, en démocratie de faire la guerre à un mode d’action et à des idées et de gagner. L’aveuglement de certaines grandes puissances face à ces enjeux tient souvent du refoulement de problèmes qui leurs sont propres. Dans un coin du parc Montsouris à Paris, un obélisque commémore le colonel Flatters et ses compagnons tués par des Touaregs en 1881 à Bir el-Garama en tentant de rejoindre le Soudan français par le Sahara. Son expédition était l’aboutissement d’un projet porté depuis 1879 par la commission supérieure du Transsaharien visant à la création d’un chemin de fer allant de l’Algérie à Dakar via le Mali dans une double perspective de contrôle des circulations sahélo-sahariennes et donc des populations y vivant mais aussi des ressources présentes dans la région et pouvant présenter un intérêt colonial. L’échec de la mission Flatters n’a pas limité ces entreprises puisque le contrôle de ces espaces de désert a été un axe politique majeur des autorités coloniales de l’Algérie comme de l’Afrique occidentale française.

      https://aoc.media/analyse/2018/07/11/sahel-france-guerre

      signalé par @isskein via la mailing-list Migreurop

    • États africains, portiers de l’Europe

      À coups de milliards versés par l’Union européenne, les États africains deviennent les nouveaux gardes-frontières du Vieux Continent. Cette vaste enquête menée dans douze pays explore les rouages et les conséquences humaines de cette politique européenne controversée, dont les exilés paient le prix fort.

      L’Espagne a été la première à franchir le pas : face à l’afflux de migrants sur les côtes des #Canaries, le pays a décidé de subventionner plusieurs pays d’#Afrique_de_l’Ouest afin qu’ils se chargent d’arrêter à leurs frontières les candidats à l’exil. L’#Union_européenne a emboîté le pas à l’Espagne, en conditionnant l’#aide_au_développement à destination d’une vingtaine de pays africains à un renforcement de ces contrôles. Policiers et militaires européens sont parallèlement envoyés sur place pour aider à briser les routes migratoires. L’UE n’hésite d’ailleurs pas à faire de dictatures comme l’#Érythrée et le #Soudan ses « partenaires » dans la chasse aux migrants. Les véritables gagnants de ces interventions à grande échelle sont les entreprises d’armement et de sécurité européennes, dans lesquelles sont réinvesties les subventions versées. Au fil d’une vaste enquête dans douze pays, Jan M. Schäfer explore les rouages et les conséquences humaines de cette politique européenne controversée, dont les exilés paient le prix fort.

      https://www.arte.tv/fr/videos/078195-000-A/etats-africains-portiers-de-l-europe
      #film #documentaire
      #business #armes #armement

      Le documentaire n’est plus disponible sur arte, mais peut être visionné sur Youtube, voici quelques liens actuellement valides :
      https://www.youtube.com/watch?v=IUSIi-qP2pY


      https://www.youtube.com/watch?v=o0nf5c4FOPo

      https://www.youtube.com/watch?v=Hu7VvY5fs7Y

    • La relation dangereuse entre migration, développement et #sécurité pour externaliser les frontières en Afrique

      L’ARCI, dans le cadre du projet de monitorat de l’externalisation des politiques européennes et italiennes sur les migrations – parallèlement à son travail de communication constant sur l’évolution des accords multilatéraux et bilatéraux avec les pays d’origine et de transit, a produit ce document d’analyse pour alerter la société civile et les gouvernements sur les dérives possibles de ces stratégies qui conduisent à des violations systématiques des droits fondamentaux et des Conventions internationales


      https://www.arci.it/documento/la-relation-dangereuse-entre-migration-developpement-et-securite-pour-externali
      #rapport #Soudan #Niger #Tunisie

      In English :
      https://www.arci.it/documento/the-dangerous-link-between-migration-development-and-security-for-the-externali

    • Giochi pericolosi: delocalizzare in Africa le frontiere Ue

      Più di 25mila persone riportate nell’inferno e 600 morti nel solo mese di maggio 2018. L’esternalizzazione delle frontiere – ovvero la collaborazione con i Paesi di origine e transito per espellere facilmente i migranti o bloccarli prima dell’arrivo – nuoce gravemente alle vite dei migranti ma anche ai diritti dei cittadini dei Paesi in cui sono state delocalizzate le frontiere della Fortezza Europa e non fa certo bene alle “democrazie” che vogliono rendere invisibili i profughi messi in fuga dalle loro stesse politiche commerciali. «Esternalizzare significa spingere le responsabilità giuridiche e politiche dei nostri Paesi più a sud nella cartina del mondo, alla ricerca di una totale impunità o nel tentativo di farla ricadere su altri Paesi». A tre anni dal vertice della Valletta dove furono sancite le linee guida dell’esternalizzazione, l’Arci fa un bilancio dell’impressionante subappalto europeo a regimi come quelli nigerino, sudanese, tunisino (sono più famosi gli accordi con Libia, Egitto e Turchia) per richiamare l’attenzione di società civile e governi sugli effetti negativi di queste strategie e le loro implicazioni in merito alle violazioni sistematiche dei diritti fondamentali di migranti e popolazioni interessate. Si tratta di “La pericolosa relazione tra migrazione, sviluppo e sicurezza per esternalizzare le frontiere in Africa“, un documento d’analisi curato da Sara Prestianni dell’ufficio Immigrazione dell’Arci nell’ambito del progetto di monitoraggio Externalisation Policies Watch che ha previsto missioni sul campo tra il dicembre 2016 e luglio 2018.

      Tanto è devastante per i diritti umani, quanto fa bene ai bilanci dell’industria militare del Nord del mondo e al destino politico dei governi populisti e xenofobi che, «con la guerra ai migranti, alimentano l’immaginario di un nemico da combattere alle nostre porte, e che con la loro presenza nel continente africano si giocano la partita dell’influenza territoriale». “Aiutarli a casa loro” significa fornire carri armati ed elicotteri, sistemi biometrici e satellitari, eserciti e truppe: il rapporto segnala come il processo di esternalizzazione del controllo della frontiera europea in Africa sembra evolversi verso una predominanza della dimensione militare e della sicurezza. EucapSahel, missione “civile” per “modernizzare” le forze dell’ordine di Niger e Mali, da forza antiterrorismo è diventata centrale nella politica di gestione delle frontiere – poi ci sono le missioni militari italiane in Libia e Niger, quindi la forza congiunta G5 Sahel che – oltre ad un contributo di 100 milioni di euro – si è vista attribuire ulteriori 500 milioni di euro nel summit del marzo 2018. Si tratta di cifre ingenti che potrebbero essere usate per una reale politica di cooperazione allo sviluppo o di integrazione, come ha detto proprio a Left Selly Kane, responsabile Immigrazione della Cgil nazionale.

      La militarizzazione dell’esternalizzazione, però, non solo serve a bloccare gli arrivi in Europa ma coincide con gli interessi dell’industria italiana della sicurezza e con la concorrenza interna all’Ue per una presenza geostrategica in quelle aree. La trasformazione di Frontex nell’European Border and Coastguard Agency è solo una delle tante proposte “suggerite” dalle lobby militar-industriali alla Commissione europea. Avverte il rapporto Arci (dal quale attingiamo con ampi stralci): «L’attuazione del processo di esternalizzazione deve essere osservato anche come esempio di riduzione dello spazio democratico all’interno dell’Europa stessa e degli Stati membri. Per molte delle attività e dei fondi attribuiti per l’attuazione di tali politiche è stato aggirato il controllo democratico del Parlamento europeo cosi come, a livello italiano, si è evitata la ratificazione degli Accordi Bilaterali da parte delle Camere, in flagrante violazione dell’Art 80 della Costituzione».

      Che poi «le procedure di selezione e monitoraggio dei progetti finanziati dal Trust Fund risultino «non trasparenti e i processi di valutazione privi di coerenza» (come denunciato nel rapporto Concord) non sembra scuotere la coscienza dei governi europei avvezzi a scandali di vario tipo. Per questo il rapporto sottolinea «il compito fondamentale delle associazioni della società civile di analizzare queste politiche, riportando le responsabilità giuridiche e politiche ai diretti responsabili».

      L’analisi dell’uso dei fondi europei e italiani per attività di controllo delle frontiere – anche grazie alla retorica “aiutiamoli a casa loro” – evidenzia una parte dei progetti finanziati con l’Eutf (Centro operativo Regionale di supporto al processo di Khartoum e all’Iniziativa nel Corno d’Africa) prevede la formazione di forze di polizia e guardie di frontiera, la diffusione del sistema biometrico per la tracciabilità delle persone e la “donazione” di elicotteri, veicoli e navi di pattuglia, apparecchiature di sorveglianza e monitoraggio, «aprendo cosi alla relazione sempre più strutturata tra migrazione, sviluppo e sicurezza». L’obiettivo dell’istituzione del Fondo fiduciario era quello di ottenere maggior collaborazione da parte dei governi locali nel controllo dei flussi attraverso il finanziamento di programmi di sviluppo (sia nei Paesi di origine che di transito) e mediante il rafforzamento delle forze di polizia lungo le rotte. Una strategia europea «drammaticamente efficace»: nel 2017 il numero di ingressi irregolari in Europa è diminuito del 67%. Una diminuzione che si accompagna ad una pesante riduzione del rispetto dei diritti sia dei migranti, in mare e in terra, che della popolazione di molti dei Paesi africani coinvolti. Italia e Ue hanno calpestato tanto le Convenzioni internazionali di cui sono firmatarie che i diritti fondamentali, tra cui il diritto alla vita. La chiusura della rotta del Mediterraneo ha portato l’Italia, grazie al contributo europeo, a subappaltare le operazioni di salvataggio alla Guardia costiera libica, pur cosciente, come evidenziato dalla decisione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, del profondo legame di questo corpo con le milizie, nonché delle violenze perpetrate sia in mare che sulla terraferma. La campagna denigratoria delle Ong che salvano vite in mare è funzionale alle politiche di esternalizzazione delle frontiere.

      Se i migranti vengono esposti a rischi sempre maggiori non se la passano meglio i cittadini dei Paesi di transito contro i quali vengono adoperati gli “aiuti a casa loro” gentilmente forniti dall’Europa. Una dinamica visibile sia nel Mediterraneo orientale, fra Turchia e Siria (l’Ue è particolarmente affabile di fronte alla deriva dittatoriale di Erdogan suo partner nel blocco di profughi afgani e siriani), sia sulla rotta del Mediterraneo Centrale. Armarsi per diventare il gendarme d’Europa è una scusa per rafforzare l’arsenale nazionale, spesso a discapito dei loro stessi cittadini. Un accordo tra Italia ed Egitto del settembre 2017, nell’ambito del progetto Itepa, prevede l’istituzione di un centro di formazione per alti funzionari di polizia incaricati della gestione delle frontiere e dell’immigrazione dai Paesi africani presso l’Accademia di polizia egiziana. Con buona pace della battaglia per verità e giustizia per Giulio Regeni.

      Ricapitolando: i governi Ue hanno firmato accordi per legittimare i governi di tali Paesi chiudendo un occhio sulle violazioni dei diritti umani e finanziando e formando aguzzini già abbondantemente specializzati nella repressione e negli abusi dei diritti umani.

      Il Sudan è al centro dello scacchiere delle rotte migratorie, luogo di transito obbligato per i migliaia di rifugiati del Corno d’Africa ma anche paese di origine. La collaborazione della Fortezza Europa con Al Bashir «è uno strumento di repressione dei rifugiati obbligati a transitare da quel paese per fuggire, ma anche per i cittadini sudanesi in Europa, a rischio di sistematica e delle popolazioni rimaste nel paese che, con il ruolo rafforzato del dittatore sudanese, rischiano un ulteriore aumento della repressione». Un attivista incontrato durante la missione effettuata da Arci a Khartoum nel dicembre del 2016 spiega: «Non ci sarà mai giustizia per il Darfour fino a quando i vostri Stati considereranno Al Bashir un interlocutore credibile per il controllo dei migranti invece di chiudere ogni dialogo con lui. Per Al Bashir l’esternalizzazione delle frontiere è un modo per far vacillare l’embargo economico e politico imposto dopo i molteplici mandati di arresto emessi dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità.

      Nel 2016 il dittatore sudanese ha dispiegato una nuova forza paramilitare – i Rapid support forces (Rsf) – alla frontiera nord con la Libia per il controllo dei migranti in uscita. Tra le fila dei RSF ci sono molti capi della milizia Jan Jaweed, tra le forze che più si sono sporcate le mani di sangue per l’eccidio nel Darfour e ora riciclati dallo stesso Al Bashir. Dalla fine del 2017 è stato annunciato il dispiegamento dei RSF anche nella regione di Kassala, nella zona di confine con l’Eritrea. «Di fatto la presenza di questi miliziani non fa altro che aumentare il numero d’interlocutori a cui i migranti sono obbligati a pagare tangenti e le violenze che sono costretti a subire». Refugees Deeply denuncia come personaggi chiave del regime sono i principali complici del traffico di migranti. Coloro che fingono davanti ai funzionari europei di controllare le frontiere sono di fatto coloro che gestiscono il passaggio. Una formula che l’Europa già conosceva all’epoca di Gheddafi che chiudeva e apriva le frontiere libiche «lucrando sulla vita di chi cercava di trovare rifugio, in nome della collaborazione con la UE». A Khartoum il clima di terrore che vivono i rifugiati eritrei è palpabile, vivono nascosti per evitare di essere arrestatie sanzionati o dalla polizia “dell’ordine pubblico” (di matrice islamica) che in tribunali speciali giudica comportamenti considerati illegali, o per aver violato il Sudan’s Passport and Immigration Act per cui incombono multe fino a360$. Il contributo europeo in Sudan per il controllo della migrazione ammonta a 200 milioni di euro. Nei campi avvengono continue incursioni da parte di sicari del regime di Afewerky o di trafficanti che rapiscono gli eritrei obbligandoli poi a telefonare alla famiglia in Europa, promettendola liberazione solo in cambio di soldi e progetti (come BMM e ROCK) consentono al regime sudanese di aggirare l’embargo di armi.

      Il report è un pozzo di informazioni. Per esempio quella dell’accordo di polizia firmato il 3 agosto del 2016 dal capo della nostra Polizia Gabrielli con il suo omologo sudanese che ha permesso di attuare il charter Torino-Khartoum del 24 agosto carico di sudanesi, molti provenienti dal Darfour, arrestati in retate a Ventimiglia. Le autorità italiane sarebbero rimaste totalmente impunite per questa violazione dei diritti umani se non fosse per l’importante azione di Asgi e Arci che, in collaborazione con i parlamentari europei della GUE, hanno incontrato alcuni dei sudanesi espulsi da Torino portando il loro caso davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Le polizie di Francia e Belgio si comportano proprio come quella italiana.

      Il Niger è il principale beneficiario del Fondo Fiduciario Europeo per l’Africa – quasi 200 milioni di progetti finanziati ad oggi a cui si aggiunge la recente promessa di ulteriori 500 milioni nella regione del Sahel – e del nostrano Fondo Africa – 50 milioni di euro in cambio dei quali il Niger si impegna a creare nuove unità specializzare necessarie al controllo dei confini e nuovi posti di frontiera – così come dei fondi allo sviluppo: è ormai la frontiera sud dell’Europa, «il laboratorio più avanzato della politica di esternalizzazione». La criminalizzazione del “traffico illecito dei migranti” sancito nel 2015 obbliga a nascondersi chi tenta di andare verso l’Algeria o la Libia e in alcuni casi di imbarcarsi poi verso Italia e Spagna. I ghetti si spostano sempre più alla periferia della città, le partenze si fanno di notte e alla spicciolata. I costi del viaggio aumentano. Un ex passeur, citato nello studio, dice: «Se prima andare in Libia costava 150mila FCFA e in Algeria 75mila, ora, con l’aumento dei controlli ed il rischio i farsi arrestare, i prezzi sono saliti: 400mila per la Libia e 150mila per l’Algeria». L’Algeria ha risposto con sistematiche e violentissime retate di migranti ed il loro abbandono alla sua frontiera sud senza distinzioni in base allo status dei migranti. Il Teneré, come il Mediterraneo, si sta trasformando in un deserto di morte. Ma come spiega in un’inchiesta Giacomo Zandonini, in Libia, nonostante la criminalizzazione, si è continuato a entrare.

      L’Ue, con il Fondo Fiduciario, ha cercato di proporre delle alternative di riconversione per spingere i passeurs a lasciare l’attività, ma a una cifra che risulta ridicola a fronte dei milioni di FCFA che un passeur poteva guadagnare trasportando uomini e donne nel deserto.

      In Niger, uno dei Paesi più poveri al mondo seppure ricco di materie prime qualiuranio, oro e petrolio, si fronteggiano anche gli interessi italiani contro quelli francesi. Bazoum, ministro dell’interno nigerino sta negando all’Italia l’accesso dei suoi militari nel nord del paese. Annunciata prima come operazione Deserto Rosso, poi rinnegata, la missione militare italiana in Niger è stata infine ripresentata al voto al Parlamento a Camere sciolte nel febbraio 2018, con un budget di 30 milioni di euro per 9 mesi di presenza di 400 uomini nel nord del paese. Riproposta dalla neo ministra Trenta con riferimento ad un eventuale appoggio agli americani che proprio ad Agadez stanno costruendo un enorme base per i droni armati. Lo stop alla presenza armata italiana è probabilmente legata ad una opposizione francese che non cede tanto facilmente la roccaforte di Madama, al confine con la Libia.

      Infine la Tunisia, collaboratore dell’Ue nel ruolo di intercettazione dei migranti partiti dalle coste della vicina Libia e perciò rifornita di mezzi navali. Un contributo del Fondo Africa, istituito nel 2017, per un totale di 12 milioni di euro, è transitato dal MAECI al Dipartimento di Sicurezza del Ministero degli Interni alla voce “Migliorare la gestione delle frontiere e dell’immigrazione, inclusi la lotta al traffico di migranti e le attività di ricerca e soccorso”. La Commissione ha annunciato lo stanziamento di ulteriori 55 milioni di euro in Marocco e Tunisia in un programma che sarà gestito dal Ministero degli Interni Italiano e ICMPD (InternationalCentre for Migration Policy Development). Se la Tunisia dimostra un alto grado di collaborazione nelle attività di monitoraggio delle proprie coste e di identificazione dei suoi cittadini in vista dell’espulsione, sembra però rigettare l’idea di costruzione di punti di sbarco dei migranti partiti dalla Libia sul suo territorio. Asgi, Arci e l’associazione tunisina FTDES, nel maggio 2018, hanno monitorato le procedure di espulsione dei cittadini tunisini dall’aeroporto di Palermo. Numerose le violazioni dei diritti di cui sono stati vittime durante la loro permanenza in Italia, ed in particolare detenzione illegale senza convalida del giudice all’interno di una struttura – l’hotspot – che manca di base giuridica nella legislazione italiana, nonché spesso vittime di trattamenti degradanti. I tunisini lamentano la presenza di sonniferi nel cibo e l’inganno usato per l’espulsione, facendo credere loro che dopo il trasferimento a Palermo sarebbero stati poi liberati. Lo stesso Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, a seguito del monitoraggio effettuato sulle operazioni di rimpatrio, esprime viva preoccupazione per la «pratica di non avvisare gli interessati per tempo dell’imminente rimpatrio, e cioè con un anticipo utile a verificare eventuali aggiornamenti della propria posizione giuridica, prepararsi non solo materialmente ma anche psicologicamente alla partenza e avvisare i familiari del proprio ritorno in patria». A nessuno è stato permesso difare richiesta d’asilo in una logica assurda per cui l’Italia considera i tunisini provenienti da un paese sicuro, in contrasto con la convenzione di Ginevra per cui lo studio di ogni caso deve essere fatto sulla base della singola storia personale e non sulla base del paese di origine. Con i polsi bloccati da fascette di plastica, i tunisini sono scortati da due poliziotti ciascuno fino all’aeroporto di Enfidha, più discreto di quello di Tunisi. Spesso picchiati e insultati, vengono poi rilasciati, senza neanche un centesimo in tasca. Molti sono al secondo, terzo viaggio.

      https://left.it/2018/08/07/giochi-pericolosi-delocalizzare-in-africa-le-frontiere-ue

    • Europe Is Making Its Migration Problem Worse. The Dangers of Aiding Autocrats

      Three years after the apex of the European refugee crisis, the European Union’s immigration and refugee policy is still in utter disarray. In July, Greek officials warned that they were unable to cope with the tens of thousands of migrants held on islands in the Aegean Sea. Italy’s new right-wing government has taken to turning rescue ships with hundreds of refugees away from its ports, leaving them adrift in the Mediterranean in search of a friendly harbor. Spain offered to take in one of the ships stuck in limbo, but soon thereafter turned away a second one.

      Behind the scenes, however, European leaders have been working in concert to prevent a new upsurge in arrivals, especially from sub-Saharan Africa. Their strategy: helping would-be migrants before they ever set out for Europe by pumping money and technical aid into the states along Africa’s main migrant corridors. The idea, as an agreement hashed out at a summit in Brussels this June put it, is to generate “substantial socio-economic transformation” so people no longer want to leave for a better life. Yet the EU’s plans ignore the fact that economic development in low-income countries does not reduce migration; it encourages it. Faced with this reality, the EU will increasingly have to rely on payoffs to smugglers, autocratic regimes, and militias to curb the flow of migrants—worsening the instability that has pushed many to leave in the first place.

      https://www.foreignaffairs.com/articles/africa/2018-09-05/europe-making-its-migration-problem-worse?cid=soc-tw-rdr

    • À QUI VA LA FORTUNE DÉPENSÉE POUR LUTTER CONTRE L’IMMIGRATION ?

      La politique migratoire européenne, de plus en plus restrictive, est une aubaine pour de nombreuses sociétés privées. En effet, les Etats européens sous-traitent des pans entiers de la gestion des migrations : surveillance des frontières, construction, entretien, surveillance et gestion de murs et de centres de rétention, délivrance des visas, livraison de repas, etc. Tous les éléments de cette politique coûteuse, inefficace et criminelle, profitent à de grandes entreprises, comme #Bouygues ou #Sodexo, pour ne citer que deux exemples français.

      Les migrations font partie de l’histoire de l’humanité mais les frontières n’ont jamais été aussi fermées qu’aujourd’hui. Les conventions issues des politiques migratoires actuelles ont divisé les migrants en différentes catégories (politiques, économiques, climatiques...) en fonction de la supposée légitimité ou non d’avoir accès au droit d’asile ou à séjourner sur un territoire étranger. « Le migrant économique », qui se déplace pour fuir la misère engendrée par les politiques liées au remboursement de la dette, est la catégorie qui bénéficie du moins de droits et son accès aux territoires extérieurs varie en fonction des besoins de main-d’œuvre ou des politiques de fermetures aux frontières.

      Ainsi, parmi les millions de personnes qui fuient leurs conditions de vie indécentes, celles qui migrent pour des raisons économiques seraient des migrants illégitimes ? Tout comme celles à qui on n’accorde pas le statut de réfugié politique mettant leur vie en péril ? Confrontés à une crise migratoire ou une crise de l’accueil ? Ces flux migratoires liés aux situations économiques sont en grande partie le résultat des politiques d’austérité et d’endettement insoutenables imposés par les Institutions financières internationales et les pays industrialisés du Nord aux pays appauvris du Sud, et par les pays du centre – dont ceux de l’Europe – aux pays de la périphérie. Ces politiques ont eu comme effet d’amplifier le phénomène de la pauvreté, de généraliser la précarité et, par conséquent, des situations d’exils. Les situations qui encouragent l’exode de populations pauvres sont la conséquence d’enjeux géostratégiques liés aux ressources et donc aux richesses, ou sont provoqués par l’hémorragie de capitaux pour honorer le service d’une dette bien souvent entachée d’illégitimité.

      Malmenés par la guerre ou la misère, les candidats à l’exil se retrouvent sur des routes rendues de plus en plus périlleuses par les politiques de gestion de l’immigration irrégulière. En plus d’être extrêmement coûteuses pour les populations qui en supportent les coûts, ces politiques criminalisent les migrants et les forcent à emprunter des voies de plus en plus dangereuses, comme les traversées en mer sur de frêles embarcations et à devoir s’adresser à la mafia des passeurs. Elles sont criminelles, coûteuses et inefficaces. Les murs n’ont jamais résolu de conflits et ne bénéficient qu’aux firmes qui les conçoivent, les construisent et les contrôlent.

      Loin d’adopter une politique d’accueil aux réfugiés conformément au droit international tel que stipulé par la Convention de Genève, les États adoptent des politiques sécuritaires qui bafouent le droit fondamental de liberté de circulation inscrit dans l’article 13 de la Déclaration Universelle des Droits de l’Homme |1|. Alors que de nouveaux traités de libre-commerce ne cessent de prôner la libre-circulation des marchandises et des capitaux, les candidats à l’exil font face à des « agences de sécurité » lourdement armées et équipées par les grands industriels qui enfreignent le droit de circulation des laissés-pour-compte. Le fond de la Méditerranée est transformé en véritable fosse commune |2|, les frontières se referment et des murs sont érigés un peu partout sur la planète. Une fois passée la frontière, s’ils ne sont pas déportés vers leur pays d’origine, les migrants s’entassent dans des camps inhumains ou sont enfermés dans des centres de détention |3| qui leur sont dédiés, tels les 260 que l’on compte au sein de l’UE en 2015 |4|. Seule une faible proportion d’entre eux, suivant un fastidieux parcours bureaucratique, parvient à obtenir un droit à l’asile distribué avec parcimonie.

      A quel point les politiques migratoires européennes sont-elles dictées par l’activité de lobbying des entreprises privées de l’armement et de la sécurité ? Avec ces politiques sécuritaires, les migrants sont considérés non plus comme des personnes mais comme des numéros remplissant des quotas arbitraires pour honorer des courbes statistiques irrationnelles satisfaisant bien plus les cours de la Bourse que le bien-être collectif et les valeurs de partage et de solidarité.

      Qu’importent les conditions de travail des employés et les conditions d’accueil des migrants au mépris de leurs droits et de la dignité humaine, de plus en plus d’entreprises privées nationales ou multinationales profitent d’un business en pleine expansion aux dépens de la justice sociale et des budgets de nos États.

      Frontex, une agence européenne coûteuse, puissante, opaque et sans contrôle démocratique

      L’Europe a créé l’espace Schengen en 1985, elle l’a communautarisé en 1997 avec le traité d’Amsterdam. L’objectif annoncé était de créer un espace de « liberté, de sécurité et de justice » au sein de l’Union européenne (UE). Dans les faits, la liberté de circulation au sein de l’Europe a avancé à deux vitesses en fonction des pays et a principalement concerné les marchandises. Au fur-et-à-mesure, l’UE s’est coordonnée pour contrôler ses frontières extérieures en tentant d’appliquer une politique commune et un « soutien » aux pays ayant une frontière extérieure propice à l’entrée de migrants comme la Grèce, l’Espagne ou encore l’Italie. Depuis 2005, L’UE s’est dotée d’un arsenal militaire, l’agence Frontex, pour la gestion de la coopération aux frontières extérieures des États membres de l’Union européenne. Cette agence est la plus financée des agences de l’UE à l’heure où des efforts budgétaires sont imposés dans tous les secteurs.

      Cette agence possède des avions, des hélicoptères, des navires, des unités de radars, des détecteurs de vision nocturne mobiles, des outils aériens, des détecteurs de battement cardiaque... Frontex organise des vols de déportations, des opérations conjointes aux frontières terrestres, maritimes et aériennes |5|, la formation des gardes-frontières, le partage d’informations et de systèmes d’informations notamment via son système EUROSUR, qui a pour objectif la mise en commun de tous les systèmes de surveillance et de détections des pays membres de l’UE, etc. Son budget annuel n’a cessé d’augmenter jusqu’à ce jour : de 19 millions d’euros en 2006, il est passé à 238,7 millions en 2016 ! Les moyens militaires qui lui sont dévolus et son autonomie par rapport aux États membres ne cessent de croître.

      Depuis fin 2015, la tendance vers une ingérence de la Commission européenne dans les États membres s’accentue : La Commission européenne élargit le mandat de Frontex, elle devient « le corps européen de garde-frontières et de garde-côtes ». Cette nouvelle agence peut dorénavant agir dans le processus d’acquisition d’équipement des États membres. Elle a notamment la possibilité d’intervention directe dans un État membre sans son consentement par simple décision de la Commission européenne. Elle a par exemple la possibilité de faire des « opérations de retour conjoint » de sa propre initiative |6|, l’objectif étant de sous-traiter à l’agence le renvoi forcé des personnes indésirables, à moindre coût mais au détriment du respect des droits humains.

      Migreurop et Statewatch, deux ONG qui défendent les droits des migrants, ont dénoncé une zone de flou entourant l’agence Frontex qui ne permet pas de faire respecter les droits humains fondamentaux : une responsabilité diluée entre l’agence et les États, une violation du droit d’asile et un risque de traitement inhumains et dégradants. La priorité du sauvetage en mer, normalement reconnue à Frontex, passe en second plan face au contrôle militarisé. En novembre 2014, l’Italie illustre dramatiquement cette situation en mettant fin à Mare Nostrum, opération de sauvetage de la marine italienne qui a sauvé des dizaines de milliers de vies en mer. L’opération Triton mise en place par Frontex l’a remplacée avec un budget trois fois moindre, une portée géographique plus limitée et surtout avec un changement de perspective orienté sur le renforcement des frontières plutôt que les missions de recherche et sauvetage en mer |7|.

      Plus Frontex est subventionnée, plus elle délègue à des entreprises privées. Via l’argent public qu’elle perçoit, l’agence s’adresse à des entreprises privées pour la surveillance aériennes mais aussi pour la technologie de pointe (drones, appareils de visions nocturnes…). De nombreuses multinationales se retrouvent à assumer les « services » qui étaient auparavant assumés par les États et pour des questions de rentabilité propre au secteur privé, les coûts augmentent. Le contrôle aux frontières est devenu un business florissant.

      Le complexe militaro-industriel de l’immigration irrégulière un business florissant qui grève les caisses des États

      La dangerosité accrue des parcours profite aux passeurs et aux réseaux criminels auxquels les migrants sont obligés de faire appel, alors que ces mêmes politiques de gestion des flux migratoires disent les combattre. Mais, d’autres secteurs d’activité moins médiatisés tirent un avantage financier bien plus important de l’immigration irrégulière, tellement important qu’on peut se demander s’ils ne font pas tout pour l’encourager ! Pour les gestionnaires des centres de détentions pour migrants ; les sociétés qui y assurent la livraison des repas, la sécurité ou le nettoyage ; les entreprises qui fournissent gardes et escortes de celles et ceux que l’on expulse ; les fabricants d’armes et l’industrie aéronautique ; la technologie de pointe pour la surveillance des frontières ou les sous-traitants pour la délivrance des visas, la crise des migrants constitue une véritable aubaine, voire un filon en or.

      Cette proportion non négligeable de services autrefois du ressort exclusif de l’État est maintenant gérée par de grands groupes privés qui – pour des raisons d’image notamment – s’abritent derrière une kyrielle de sous-traitants. Cette privatisation rampante grève encore plus les caisses des pouvoirs publics, favorise l’opacité et dilue les responsabilités en cas d’incident au cours des interventions, mettant les États à l’abri de violations de la loi, pourtant fréquentes |8|.

      Instrumentalisation de l’aide publique au développement

      L’Union européenne utilise les financements de l’#Aide_publique_au_développement (#APD) pour contrôler les flux migratoires, comme avec le #Centre_d’Information_et_de_Gestion_des_Migrations (#CIGEM) inauguré en octobre 2008 à Bamako au Mali par exemple4. Ainsi, le 10e #Fonds_européen_de_développement (#FED) finance, en #Mauritanie, la formation de la police aux frontières. Pour atteindre les objectifs qu’ils se sont eux mêmes fixés (allouer 0,7 % du revenu national brut à l’APD), certains États membres de l’UE comptabilisent dans l’APD des dépenses qui n’en sont clairement pas. Malgré les réticences des États membres à harmoniser leurs politiques migratoires internes, ils arrivent à se coordonner pour leur gestion extérieure.

      « Crise migratoire » ou « crise de l’accueil » ? L’Europe externalise ses frontières

      À la croisée des chemins entre l’Europe et l’Asie, la Turquie et la Grèce sont des pays de transit pour de nombreux migrants et réfugiés faisant face aux conflits chroniques et à l’instabilité politique et économique du Moyen-Orient. Après avoir ouvert ses frontières en 2015, dans un contexte de crise, l’UE se rétracte, dépourvue d’une réflexion à long terme sur sa politique d’accueil.

      Ainsi, sans grande opposition du gouvernement Tsipras, l’UE signe avec le gouvernement turc un accord visant à contrôler et filtrer l’immigration. L’accord qui entre en vigueur le 20 mars 2016, prévoit de renvoyer en Turquie tout nouveau migrant, réfugiés syriens compris, arrivé en Grèce. Et pour chaque Syrien renvoyé, l’UE réinstallera en Europe, un autre Syrien séjournant en territoire turc. On pourrait croire à un vulgaire arrangement comptable, il n’en est rien. Le rapport est clairement déséquilibré. L’UE a spécifié un quota maximum de 72 000 syriens réinstallés alors que plus d’1 millions ont été refoulés du territoire européen. Par ces échanges déshumanisés, l’UE se donne la liberté de choisir ses immigrés en fonction de ses intérêts économiques. En échange, l’UE promet 6 milliards d’euros à la Turquie, dit vouloir relancer les négociations d’adhésion du pays à l’Union et accélère le processus de libéralisation des visas pour les citoyens turcs. De plus, Ankara s’engage à enrayer le flux migratoire vers l’Europe. En conséquence de quoi, l’argent donné sert bien plus à ériger des murs qu’à accueillir. Déjà, béton, barbelés et militaires s’installent à la frontière turco-syrienne pour consolider l’Europe forteresse.

      D’autres accords ont déjà été conclus en ce sens mais aucun n’avait atteint de tels montants, ni ne comportait de tels enjeux. Le fait qu’il soit conclu directement par l’UE marque également le début d’une nouvelle ère. L’institution eurocrate négocie maintenant au nom et en amont de ses États membres, se substituant aux politiques nationales en termes d’affaires étrangères.Avec cet accord, l’UE se targue de respecter le droit international. Mais autant la Déclaration universelle des droits de l’homme que la Convention de Genève sur les réfugiées stipulent qu’une expulsion ne peut se faire que vers un pays considéré comme sûr. Or, on ne peut décemment pas, à la signature de l’accord, considérer la Turquie comme une terre sûre et accueillante pour les migrants. Le président Erdoğan a en effet entamé une purge sans précédent et se révèle encore plus répressif envers ses opposants politiques, depuis qu’il sait l’Europe dépendante et conciliante. Et il ne suffit pas de fustiger le gouvernement turc. Au cœur même de l’Europe, les murs s’érigent et les politiques autoritaires et xénophobes refont surface.
      Privatisation de la « gestion » des migrations

      Une telle gestion de l’immigration grève les recettes des États pour, in fine, bénéficier aux sociétés privées et leurs actionnaires aux dépens de la satisfaction des services publics essentiels aux populations concernées. Le lobbying de ces sociétés s’inscrit dans une surenchère militariste qui profite aux grandes entreprises du secteur. Au lieu d’investir dans des infrastructures d’accueil dignes et dans la gestion des conflits dont les pays industrialisés sont en grande partie responsables, l’orientation politique de nos dirigeants va dans le sens d’un accroissement des budgets liés à la sécurité et aux polices aux frontières.

      Les flux migratoires constituent non seulement une source de revenus pour les passeurs, mais également, dans des proportions bien plus importantes, un juteux business pour les grandes entreprises, qui rappelons-le, s’arrangent pour payer le moins d’impôt sur leurs bénéfices et accroître les dividendes de leurs actionnaires. Le marché de la sécurisation des frontières, estimé à quelques 15 milliards d’euros en 2015, est en pleine croissance et devrait augmenter à plus de 29 milliards d’euros par an en 2022 |9|.

      Dans un contexte de crise migratoire aiguë, de contrôles exacerbés, de détentions et déportations en forte augmentation, une multitude de sociétés privées se sont trouvé un juteux créneau pour amasser des profits.

      Concrètement, de plus en plus de sociétés privées bénéficient de la sous-traitance de la délivrance des visas (un marché entre autres dominé par les entreprises #VFS et #TLS_Contact), et facturent aux administrations publiques la saisie des données personnelles, la prise des empreintes digitales, des photos numérisées... Comme on pouvait s’y attendre, le recours au privé a fait monter les prix des visas et le coût supplémentaire est supporté par les requérants. Mais les demandes introduites pour obtenir visas ou permis de séjour ne sont pas à la portée de tout le monde et beaucoup se retrouvent apatrides ou sans-papiers, indésirables au regard de la loi.

      La gestion des centres de détention pour migrants où sont placés les sans-papiers en attente d’expulsion est, elle aussi, sous-traitée à des entreprises privées. Ce transfert vers la sphère privée renforce le monopole des trois ou quatre multinationales qui, à l’échelle mondiale, se partagent le marché de la détention. Ainsi, près de la moitié des 11 centres de détention pour migrants du Royaume-Uni sont gérés par des groupes privés. Ces entreprises ont tout intérêt à augmenter la durée d’incarcération et font du lobbying en ce sens, non sans résultats. Ainsi, les sociétés de sécurité privées prospèrent à mesure que le nombre de migrants augmente |10|. En outre, l’hébergement d’urgence est devenu un secteur lucratif pour les sociétés privées qui perçoivent des fonds de certains États comme l’Italie, aux dépens d’associations humanitaires qui traditionnellement prennent en charge les réfugiés.

      En Belgique, entre 2008 et 2012, le budget consacré aux rapatriements forcés - frais de renvois, sans même compter les séjours en centre fermé des quelque 8 000 détenus chaque année - est passé de 5,8 millions d’euros à 8,07 millions d’euros |11|.

      La société française Sodexo a vu les détentions de migrants comme une opportunité d’extension de ses activités dans les prisons. L’empire du béton et des médias français Bouygues est chargé de la construction des centres de détention pour migrants dans le cadre de contrats de #partenariats_publics-privés (#PPP) |12| et l’entreprise de nettoyage #Onet y propose ses services. Au Royaume-Uni, des multinationales de la sécurité telles #G4S (anciennement Group 4 Securitor) |13|, Serco ou #Geo, ont pris leur essor grâce au boom des privatisations. Aux États-Unis, #CCA et GEO sont les principales entreprises qui conçoivent, construisent, financent et exploitent les centres de détention et #Sodexho_Marriott est le premier fournisseur de services alimentaire de ces établissements.

      Certaines sociétés en profitent même pour faire travailler leurs détenus en attente de leur expulsion. Ainsi, au centre de Yarl’s Wood géré par l’entreprise #Serco au Royaume-Uni, le service à la cantine ou le nettoyage des locaux est effectué par des femmes détenues contre une rémunération 23 fois moindre que le salaire pratiqué à l’extérieur pour ce type de tâche (50 pence de l’heure en 2011, soit 58 centimes d’euros). Le groupe GEO, qui en 2003 a obtenu la gestion du camp de Guantanamo « offre » à ses occupants aux centres de Harmondsworth près de l’aéroport d’Heathrow et de Dungavel en Écosse, des « opportunités de travail rémunéré » pour des services allant de la peinture au nettoyage |14|. Ces entreprises ne lésinent pas sur l’opportunité d’exploiter une main d’œuvre très bon marché et sans droits.

      L’immigration rapporte plus qu’elle ne coûte

      Les quelques migrants qui finalement parviennent à destination se mettent alors à la recherche d’un emploi et le pays d’accueil profite d’une main-d’œuvre bon marché dont il s’épargne les frais de formation payée par le pays d’origine |15|. Une telle main-d’œuvre, flexible et exploitable à merci, comble un besoin dont les économies des pays industrialisés ne peuvent se passer si facilement.

      Loin de constituer une menace et contrairement à une idée fausse, les migrations ont généralement un impact positif sur les économies des pays d’accueil. Sur un plan purement économique, d’après l’OCDE, un immigré rapporte en moyenne 3 500 euros de rentrées fiscales annuelles au pays qui l’accueille |16|. Les sans-papiers qui travaillent ont des fiches de paies, souvent au nom de tierce personne et cotisent à une couverture sociale dont ils ne peuvent bénéficier.

      En définitive, s’installe le doute quant aux résultats attendus d’une telle stratégie de gestion des flux de déplacements humains. La politique anti-migratoire mise en œuvre tue, l’Europe compte les morts mais continue à dresser ses barricades. Pourtant les migrations ne sont pas un problème, un fléau en tant que tel contre lequel il faut lutter. Les migrations sont la conséquence des conflits, des persécutions, des catastrophes environnementales, des injustices sociales et économiques dans le monde. Et c’est à ces causes-là qu’il faut s’attaquer, si l’on veut mener une politique migratoire réellement juste et humaine.

      https://www.lautrequotidien.fr/articles/lesprofiteurs
      #privatisation #Frontex

    • Border-induced displacement: The ethical and legal implications of distance-creation through externalization

      Introduction: The role of #distance

      The externalization of European border control can be defined as the range of processes whereby European actors and Member States complement policies to control migration across their territorial boundaries with initiatives that realize such control extra-territorially and through other countries and organs rather than their own. The phenomenon has multiple dimensions. The spatial dimension captures the remoteness of the geographical distance that is interposed between the locus of power and the locus of surveillance. But there is also a relational dimension, regarding the multiplicity of actors engaged in the venture through bilateral and multilateral interactions, usually through coercive dynamics of conditional reward, incentive, or penalization. And there are functional and instrumental dimensions too, concerning the cost-effectiveness of distance-creation (in both ethical and legal grounds) vis-à-vis the (unwanted) migrant, who, removed from sight, is no longer considered of concern to the supervising State,[1] and the range of externalizing policy devices at the service of externalising agents in terms of purpose, format, delivery, and ultimate control.[2] European borders thus (re-)emerge as ubiquitous, multi-modal and translational systems of coercion – as an interconnected network of ‘little Guantánamos’.[3] This, in turn, creates a distance, both physically and ethically, that is utilized to shift away concomitant responsibilities.[4]
      Distance, as the next sections will demonstrate, plays a crucial role as a mechanism not only of dispersion of legal duties, blurring the lines of causation and making attribution of wrongful conduct a difficult task, but also as an artefact of oppression and displacement in itself. It does not prevent (unwanted) migration but rather makes it unviable through legally sanctioned, safe channels, diverting it through ever more perilous routes. The immediate effect of this distance that externalization engenders is at least threefold. First, it leads to the disempowerment of migrants, who are left with no options for safe and legal escape, being instead coerced into dangerous courses operated by smugglers. Second, it legitimizes the actors enforcing externalized control on behalf, and for the benefit, of the European Union and its Member States. Repressive forces in third countries gain standing as valid interlocutors for cooperation, as a result; their democratic and human rights credentials becoming secondary, if at all relevant, as the Libyan case illustrates below. Third, legal alternatives, like the relaxation of controls or the creation of safe and regular pathways, are rejected; perceived as an illogical concession to the failure of the externalization project.
      The final outcome, and what constitutes the focus of this contribution, is the ‘border-induced displacement’ effect,[5] resulting from the combination of the processes of extraterritorialisation and externalization taken together. Border-induced displacement is not equivalent to the original reasons forcing people into exile, but rather functions as a second-order type of (re-)displacement, produced precisely via (the violence implicated in) border control. This then leads to forms of ‘engineered regionalism’, that is, politics re-producing displacement in certain areas closest to the origin of flows.[6] ‘Safe third country’ rules and practices are the main vehicle of this development, discernible also within the EU, where the Dublin System has ‘rulified’ an asymmetric allocation of responsibility for asylum claims to peripheral countries situated at the external common frontiers of the Union, like Spain, Italy and Greece.[7] In the case of externalization, border-induced displacement is then imposed upon already-displaced persons by non-European actors implementing the EU’s pre-emptive control agenda, reinforcing prevailing patterns of exploitation and existing hierarchies of exclusion and subordination.
      The ethical and legal consequences of ‘distance-creation’ are what we turn to analyse in the remainder of this article. Section 2 pays attention to the assumptions and ethical and political-economic dimensions behind this strategy, discussing exit control, coercion, and the democratic legitimization of unelected actors enforcing the EU border within third countries. Section 3 investigates the legal impact of externalization and extraterritorialization, centring on the apparent accountability gaps that it generates, contesting the legality of responsibility dispersion mechanisms. The overall conclusion we reach is that the ‘rulification’ of externalization at EU level does not render it ethically and legally tenable under international law. The ‘lawification’ at EU level of practices inconsistent with human rights is insufficient to render them compatible with international legal standards.
      2. Ethical distance-creation: Examining attempts to justify externalization and border-induced displacement

      Although immigration ethics has thrived as a discipline since its late arrival in the 1980s, debates on border control between cosmopolitanism and liberal nationalism have often remained at an ideational level and generally based on liberal democratic foundations,[8] thus overlooking the composite ways through which border control is realized and experienced on the ground. This includes practices of externalization and extra-territorialization. Often, the assumptions guiding ethical debates on border control have reproduced a territorially trapped gaze, circumscribed by methodological nationalism,[9] which, through a set of idealized premises, reduces the complex and transnational dynamics of displacement and border control to a phenomenon of mis-placement between territorially bordered societies.[10] Such reduction is marred by what can be called reactive and regionalist postulations. These view border control, first, as a manifestation of State agency, and, second, as only a response to migration flows. Third, they naturalize the containment of displacement within certain regions, perceiving the phenomenon as geographically and morally distant from Europe.
      But immigration ethics is far from alone in reproducing methodological nationalism and reactive and regionalist conjectures, as these mirror prevailing paradigms about the relationship between displacement and borders.[11] However, it is instructive, nonetheless, to examine European externalization by applying existing ethical debates about the democratic legitimacy, coercion, and rights of border control to the issue of externalization.[12]
      2.1. The democratic legitimacy question

      One fundamental debate has concerned the democratic legitimacy of border control as such. Assuming that freedom and democracy are instrumentally valuable for securing individual autonomy, a principled concern is that the coercive aspects of border control amount to violations of autonomy when they happen without the consent of those exposed to them. In order for border control to be legitimate from a liberal democratic perspective, it would have to be justifiable to non-members – however the demos may initially be defined – through a deliberative process.[13] Yet, proponents of border control might argue that access to asylum procedures can resolve this concern, if asylum applications are seen as granting such deliberative voice to them. Although this debate has only concerned an undifferentiated notion of border control, we can extend it to the politics of externalization, if we imagine proponents to argue that, if externalized control is able to respect individual autonomy, it might also be deemed democratically legitimate.[14] The strength of such an argument will then depend on the meaning and function of externalization.
      European externalization processes occur when European Member States, through bi-, multi- or supranational venues, complement policies of controlling cross-border migration into their territories with pre-emptive initiatives realizing such control extra-territorially and/or through sub-contracting to actors and agencies other than their own.[15] Externalization has been discussed in terms of policy transfer, issue-linkages, and ripple effects,[16] but, crucially, its dynamics apply also to intra-European relations. For many years, the Dublin system has served to transfer the border control burdens of North-Western Member States to South-Eastern ones, causing heated discussions about lacking solidarity,[17] similar to those between European and non-European countries.[18]
      Justifications offered for externalization oscillate between grammars of securitized control and humanitarian care.[19] For instance, the June 2018 proposal by the EU ministers about ‘controlled centres’ and ‘regional disembarkation platforms’, whereto ‘boat migrants’ can be deported, is framed as an innovative idea allowing Member States both to ‘stem illegal migration’ and simultaneously save vulnerable migrants by breaking the ‘business model’ of smugglers and traffickers purportedly in accordance with human rights and the rule of law.[20]
      Yet, the 2018 externalization proposal is not as innovative as it may seem. Between the 1980s and mid-2000s, five very similar – and similarly controversial – externalization proposals were put forth by the British, Danish, Dutch, and German governments and by the European Commission. And they all revolved around externalized centres in Eastern Europe and North Africa whereto EU Member States would send asylum seekers or interdicted ‘boat migrants’. The terminologies varied from ‘regional protection areas’ by the British, ‘processing centres’ by the Danes, ‘reception centres’ by the Dutch, ‘EU reception centres’ by the German, and ‘Regional Protection Programmes’ (RPPs) by the European Commission.[21] All but the RPP proposal focused on administrative deportation from European territory, so that, as put by the Blair government, ‘refoulement should be possible and the notion of an asylum seeker in[land] should die’.[22] By 2005, the German proposal had dropped any talk of extraterritorial asylum processing and moved on to identifying Libya as a promising collaborator for pre-emptive containment.[23] In light of the concurrent dysfunctional intra-European dynamics of the Dublin system, the proposals between 1986 and 2018 illustrate how the externalization logic has long been invoked as a magic remedy to the Dublin ills, always couched in crisis-laden and emergency-driven rhetoric, while also holding out vague promises of protection.
      Externalization can be criticized for co-opting protection in favour of methods of ‘consensual containment’ that re-produce displacement in regions neighbouring the EU.[24] For instance, especially since 2017, Italy and the EU have pursued a policy of transferring search and rescue to the so-called Libyan Coast Guard (LYCG), thereby effectively turning missions into operations of exit control. It is due to their material contribution and close involvement in the internal command-and-control structure of the Libyan forces that the LYCG performed 19,452 pull-backs in 2017.[25] Political discourses on externalization can, however, be seen as arguing that this kind of regionalist engineering creates ‘protection elsewhere’ based on three claims, popular in ethical discussions on border control within liberal national regimes. In the following, we analyse them through standing ethical debates about coercion and prevention, peoples’ rights to enter and exit territories, and democratic legitimacy.
      2.2. Coercion: From ‘protection elsewhere’ to ‘protection nowhere’

      First comes the claim that border control, and thus also its externalized manifestations, is not illegitimately coercive, because it is only preventive. Here, coercion has been referred to as when individuals are forced to do a specific thing, while prevention is taken to mean when they are forced not to do a specific thing.[26] Second comes the aforementioned argument that border control can be legitimate when agreed upon democratically.[27] Third follows the statement of an entry/exit-asymmetry signifying that people’s rights against one State not to prevent them from exiting its territory is held to be morally paramount, but that it does not entail an equally forceful obligation on any other State to let them enter their territory.[28]
      Combining these claims, we then arrive at a ‘protection elsewhere’ argument maintaining that externalization is legitimate, since agreed to by all governments involved, and because it preserves displaced persons’ rights through extraterritorial asylum processing. Even if the policy may block their movement, this argument goes, it only prevents them from entering European territory, while still allowing them to find protection elsewhere, after having exited their own country. The zero-sum game effect that the generalisation of this policy would generate goes unaverted – if all countries did the same there would be ‘protection nowhere’.[29]
      But this argument is categorically flawed. Its definitions of coercion and prevention are problematic and rest upon a disconnect between abstract assumptions about border control guiding liberal nationalistic immigration ethics and the actual reality of displacement and European border surveillance, discounting its concrete effects on the ground. EU externalization practices yield extremely coercive checks amounting to violent regimes of exit control, also contravening the legally-sanctioned right – assumed in debates on immigration ethics – to leave one’s own country.[30] That is, even if one, for the sake of argument, assumes the right to exit to hold more value than that of entry – since at international law one is universally applicable while the other is only opposable to one’s own country[31] – actual externalization practices still violate not just the latter, but also the former.[32] The containment of migrants in Libyan detention structures, for instance, reveals an abusive regime that bars access to asylum. Amnesty International has counted twenty reports from reliable monitors, including UN and EU sources, attesting to this reality.[33] The abject brutality facing displaced persons, contained and circulated through externalization, can only be labelled non-coercive prevention from a Eurocentric, and extremely abstract vantage point. In truth, they cause suffering on such a scale that they may amount to atrocity crimes, according to the ICC Prosecutor,[34] and, as the UN High Commissioner for Human Rights has put it, they constitute ‘an outrage to the conscience of humanity’ – at least as far as the situation in Libya is concerned.[35] Collaborative border infrastructures are endowed with the power to coerce at a distance, with externalization leading to practices of ‘remote control’ that extraterritorially negate access to the European asylum systems to those (theoretically) entitled to international protection,[36] literally ‘trapping’ migrants in a constant ‘cycle of abuse’.[37]
      Nevertheless, even if the ethical ‘protection elsewhere’ argument must be rejected as an invalid justification for current European externalization policies the reasons for it are instructive. Seeing how externalization produces highly coercive collaborative regimes of exit control makes clear the problematic ramifications of the reactive and regionalist assumptions on which it rests. Conventional views on international relations and forced migration see the displacement to which borders respond as induced by conflicts or developmental or environmental factors.[38] Yet, while attention to the causes of displacement is important, this model embraces borders as only reactive to – rather than also constitutive of – displacement. But this is wrong. A range of border practices and infrastructures, performed at or beyond the physical frontiers of the EU, such as interdiction, detention, and deportation, do not just react to, but also in themselves cause displacement, by diverting flows towards increasingly dangerous routes and by multiplying death ratios at sea and at border zones.[39] This ‘border-induced displacement’, therefore, challenges the regionalist and reactive premise that the production of forced migration is primarily a problem created outside European territory and agency and contests the structural incorporation of (foreseeably lethal) coercion as a legitimate mechanism of border control.
      EU-Libyan relations, since the 2000s, illustrate how externalization has built the infrastructures enabling this kind of coercive re-displacement. This problematizes prevailing assumptions still dominating immigration ethics and politics, namely that the agency of border control consists of States’ discretion over movement across their territorial borders. Externalization underscores the need to consider more composite notions of agency – and thus responsibility – decoupled from national territories, and spanning several governments, organisations as well as non-state actors.
      The decades-long European-Libyan collaboration on border control is a case in point. After the European Commission decided to lift its arms embargo against Libya in 2004, two ‘technical missions’ followed. The first, in 2004, was meant to ‘identify concrete measures for possible balanced EU-Libyan cooperation particularly on illegal immigration’ and the second, in 2007, to develop ‘an operational and technical partnership’ for extraterritorial border control.[40] The case of Libya is but one example of how European externalization policies have facilitated the transformation of European border control into a flourishing market of violent deterrence and containment,[41] with little to do with a rights-based protection paradigm, and also how third countries’ control apparatuses have become a lucrative export venture for the arms-, security-, and IT-industries of the EU Member States.[42]
      2.3. Trading in rights for border control

      Companies like Spanish Indra, British BAE Systems, Italian Leonardo, French Thales and Ocea, Dutch Damen, German Rheinmetall and Airbus all compete for contracts to expand the capacity for surveillance and control of not just Libya, but also other Eastern European, North African and Middle Eastern countries collaborating on EU externalization. In 2012, an industrial consulting actor valued the global border industry at €25.8 billion, projecting an increase to €56 billion by 2022.[43] And European sales of patrol boats, jeeps, planes, drones, satellites, helicopters, radar systems and whole surveillance mechanisms for border control purposes were part of the EU export licenses worth €82 billion to the Middle East and North Africa between 2005–2014.[44] This political economy of externalization also applies to the industries of EU partner countries. For instance, in 2016, the EU channelled more than €83 million to contracts with Turkish Aselsan and Otokar to provide heavily armoured vehicles placed, respectively, at the Greek-Turkish border and the newly constructed 911 kilometre border-wall between Turkey and Syria.[45]
      The dynamics reshaping third-country border infrastructures elucidate how borders can function as engines of, rather than just responses to, displacement. This means that arguments for externalization appealing to democratic legitimacy face more problems than merely the barring of access to asylum procedures: First, because when EU Member States use their political-economic leverage to make externalization deals with non-EU countries, they are effectively asking them to replace their own public interest with the EU preference of avoiding asylum seeker flows towards the Member States. Second, because several examples, like the EU collaboration with Libyan actors, including militias and former traffickers, as further discussed in the next section, illustrate how the EU’s externalization partners very often lack democratic legitimacy.[46] EU border externalization entrenches forms of undemocratic governance in third countries, empowering undemocratic actors, transforming their relative weight within domestic structures, and weakening democratic channels of scrutiny, accountability, and power control. Externalization thereby risks creating a vicious cycle, where the influx of arms and funds to those actors willing to enact the European containment agenda grants them political validity, which is then used to undermine not only migrant rights, but also to repress domestic opposition and dissidence and thus destabilize internal democratisation processes. The short-term European goal of preventing asylum seeker flows thereby risks compromising the stated long-term goal of tackling the root causes of displacement,[47] which is sacrificed in the altar of externalised ‘integrated border management’.[48]
      3. Legal distance-creation: The juridical implications of externalization and border-induced displacement

      Externalization has not only been encapsulated in political and policy arguments and practices, but has also been embedded in law through the ‘protection elsewhere’ model. The ‘protection elsewhere’ model ultimately rests on the assumption that refugees and migrants are best served ‘at home’, whether it be in their countries of origin or in the neighbouring region (but away from the EU at any rate). ‘Onward movements’ defy this logic and are thus seriously penalized. Responsibility for reception and asylum has accordingly been delegated (or redirected) to countries proximate to the source of flows, via targeted rules on ‘safe third countries’ and readmission agreements that legalise the practice. But, as stated above, this (re-)allocation of protection duties to peripheral States is also part and parcel of the Common European Asylum System within the EU. The Dublin Regulation enshrines and ‘rulifies’ this vision for the Member States, allowing non-external border countries to deflect responsibility in a legal manner.
      Against this background, EU countries feel legitimized to claim their own irresponsibility vis-à-vis non-Member States,[49] projecting the model onto their external relations and imposing compliance with EU control rules as a matter of course. Fatalities at sea and elsewhere are then presented as the result of disorder and illegality; something avoidable if only (EU) rules were observed and effectively enforced by non-EU partners. The structural conditions imposed by the externalization apparatus, and the injustice that ensues, are usually disregarded or downplayed as unintended collateral damage. The fact that illegality is the only way out of a situation of want or persecution, and that smuggling is the only remaining vehicle to reach safety, is routinely silenced. It is the smugglers who profit of the precarious situation of ‘boat migrants’ – the argument goes. So, the eradication of smuggling and a return to (EU) law and order is portrayed as the solution. The option to relax border control rules and adapt them to the imperatives of human dignity, decriminalising the irregular movement of forced migrants, is not even contemplated. That would be perceived as an illogical concession; a descent into chaos and the negation of the rule of (EU) law. This EU-centric conception of the law is what sustains the externalization edifice and nurtures the collaboration with third countries.
      At the legal-strategic level, externalization politics are accompanied by at least two degrees of ‘irresponsibilitization’, enshrined in, and sanctioned by, EU law: responsibility diffusion and responsibility denial. ‘Diffusion’ refers to the relational dimension of externalization, to situations of multi-actor alliance where the causation chain and attribution operation become unclear, with different agents and organs of different States contributing to a particular (unlawful) result. By contrast, ‘denial’ captures scenarios of outright disclaiming of responsibility, where this is said to belong to a different actor altogether, according to the (usually EU-based) rules in place (or their self-serving interpretation).
      3.1. Responsibility diffusion

      The creation of physical distance, via exit control, disembarkation platforms, holding sites, or reception camps abroad, contributes to ‘irresponsibilitization’ through diffusion. None of the proposals put forth so far clarifies exactly who should be considered responsible for those intercepted in, and repatriated to, Libya or any alternative location hosting the centres. The overall supposition appears to be that EU Member States would ultimately escape the task.[50] But there is some residual notion that European countries could not completely ‘circumvent’ their obligations[51] – albeit without elaboration, even the Legal Service of the European Parliament concedes that migrants sent to disembarkation platforms located outside the territory of the Member States ‘should benefit from the guarantees provided for in the 1951 Geneva Convention […] and in the European Convention of Human Rights’, including the principle of non-refoulement.[52]
      Actually, under international law, ‘no State can avoid responsibility by outsourcing or contracting out its obligations’.[53] Cooperation with third countries does not exonerate EU Member States from their non-refoulement and related duties – both under general customary law and as per the relevant international Conventions.[54] According to the Strasbourg Court, ‘[w]here States establish […] international agreements to pursue cooperation in certain fields of activity’, whatever their legal nature, validity, and intent,[55] ‘there may be implications for the protection of fundamental rights’. With this in mind, it would be ‘incompatible with the purpose and object of the [European Convention of Human Rights][56] if Contracting States were thereby absolved from their responsibility under the Convention in relation to the field of activity covered by such [agreements]’.[57] As a result, ‘[i]n so far as any liability under the Convention is or may be incurred, it is liability incurred by the Contracting State […]’.[58] Despite its cooperation with Libya or any other third country, the independent responsibility of each EU Member State participating in the scheme of externalized migration controls subsists, ‘where the person[s] in question […] risk suffering a flagrant denial of the guarantees and rights secured to [them] under the Convention’.[59]
      Nor would Member States be able to evade responsibility by transferring functions to the UNHCR or the IOM – whatever their support and potential separate liability.[60] ‘Absolving Contracting States completely from their Convention responsibility in the areas covered by such a transfer would [again] be incompatible with the purpose and object of the Convention’, as Strasbourg clarifies. The final effect would be for ‘the guarantees of the Convention [to] be limited or excluded at will thereby depriving it of its peremptory character and undermining the practical and effective nature of its safeguards’,[61] negating the basic premise of the pacta sunt servanda principle.[62] And the same is true in regard to other instruments of international human rights law.
      Even though several actors combine to produce re-displacement, individual responsibility for its effects cannot be deflected. The principle is well established in international law. Article 47 of the ILC Articles on Responsibility of States for International Wrongful Acts (ARSIWA) contemplates precisely the scenario where several States participate in the same internationally wrongful act, stipulating that in such cases ‘the responsibility of each State may be invoked in relation to that act’.[63] Each State retains responsibility and, according to the ILC Commentary, ‘is separately responsible for the conduct attributable to it’. The fact that one or more additional States also contribute to the same act in no way reduces the responsibility of each single country.[64] So, any orders or transfers performed, or orchestrated by, EU Member States will engage their responsibility for any resulting breaches of their international commitments.
      Neither the ‘disembarkation platforms’ proposal, nor any other of the similar initiatives emerged since the 1980s explored above specifies where exactly those repatriated or ‘pulled back’, whether to Libya or other third countries, would be accommodated.[65] It is conceivable that proponents envisage offshore reception centres to be closed, since the ultimate aim is to contain and deter irregular movement.[66] This then entails large-scale, and potentially long-term, detention, in breach of Article 5 ECHR guarantees,[67] which have been recognised to apply extraterritorially, extending to cases of deprivation of liberty abroad.[68] Yet, the border-induced displacement effects of externalization practices, like involuntary retention in international waters, forcible transfer to warships, coercive escorting or imposing of a certain course, constitute restrictions of physical freedom and need to accommodate the legal safeguards of the Convention.[69]
      It is not known whether the ‘disembarkation platforms’ proposal foresees transfers to the country concerned to be automatic. Should that be the case, EU Member States risk incurring direct and indirect violations of the prohibition of collective expulsion and the (non-derogable/non-limitable) protection against refoulement. Regarding the latter, the Strasbourg Court attaches paramount importance to country information contained in reports from independent sources,[70] so that when reliable accounts of the circumstances prevailing in the receiving State make it ‘sufficiently real and probable’ that the general situation entails a ‘real risk’ of ill treatment in the sense of Article 3 ECHR, a refoulement presumption is activated and removal cannot be performed.[71] What is more, on account of the absolute character of Article 3, Contracting Parties must undertake the relevant investigation proprio motu and abstain from actions/omissions that put individuals at risk. As the Court asserted in Hirsi, ‘it [is] for the national authorities, faced with a situation in which human rights [are] systematically violated […] to find out about the treatment to which the applicants would be exposed after their return’.[72] So, the Member States concerned are to comply with their non-refoulement obligations proactively, regardless of whether the persons in question seek protection or specifically alert of the dangers faced upon return. The fact that potential applicants fail to request asylum or to formally oppose their removal does not absolve Contracting Parties of their Convention duties,[73] and especially their positive due diligence obligations.
      This includes the requirement to provide access to adequate procedures.[74] Member States must offer a real opportunity for individuals to submit and defend their claims,[75] including an ‘effective remedy’.[76] This requires that the remedy in question be able to ‘prevent the execution of measures that are contrary to the Convention and whose effects are potentially irreversible’. Therefore, ‘it is inconsistent with Article 13 [ECHR] for such measures to be executed before the national authorities [of the Member State concerned] have examined whether they are compatible with the Convention’.[77] In these cases, appeals must have ‘automatic suspensive effect’.[78] And screening on board interdicting vessels or somewhere else offshore cannot satisfy these requirements.[79] Procedural responsibilities, just like substantive guarantees, cannot be deflected, postponed, or negated. The ultimate guarantors of ECHR safeguards are the Contracting Parties, which must ‘secure to everyone within their jurisdiction the rights and freedoms defined in [the] Convention’.[80]
      Due diligence commands the dual duty to refrain from any conduct that may result in arbitrary violations as well as the obligation to enact laws and policies that effectively protect individuals against abuse. Following the Human Rights Committee’s recent General Comment on the Right to Life, by analogy, State Parties are required to ‘organise all State organs and governance structures through which public authority is exercised in a manner consistent with the need to respect and ensure [human rights]’. This includes a duty of ‘continuous supervision’ in order to ‘prevent, investigate, punish and remedy’ any harm.[81] As a result, actions such as the ‘sale […] of […] weapons’, and presumably other similar law enforcement and border control equipment, must be preceded by a conscientious examination of its foreseeable impact on human rights.[82] As members of the international community and as subjects of customary law, States must take into account
      ‘their responsibility […] to protect lives and to oppose widespread or systematic attacks on [human rights]’[83] – like those sustained by migrants in Libya.[84] And, in particular, States have an obligation under general international law ‘not to aid or assist activities undertaken by other States and non-State actors that violate [human rights]’.[85]

      All these reasons should lead to the rejection of ‘disembarkation platforms’ and similar initiatives as ‘externalization fantasyland’.[86] EU Member States should not invest in a formula that promotes cooperation with human rights perpetrators and impedes the fulfilment of their pre-contracted obligations – such a course would hardly qualify as a good faith implementation of their binding commitments.[87] Instead, domestic systems of territorial protection should be reinforced, including the necessary intra-EU solidarity and responsibility-sharing mechanisms to make them effective.[88] Physical distance-creation, through off-shoring and outsourcing, does not translate into an erasure or diminution of legal duties. EU rules on ‘safe third countries’ and readmission cannot (unilaterally) undo international standards.[89]
      3.2. Responsibility denial

      Besides tools of responsibility deflection, mechanisms of outright denial of obligations are equally challenging. Usually, the capacitation of third countries’ control infrastructures, mimicking the Schengen ‘integrated border management’ system,[90] is framed as unproblematic. The transfer of funds, know-how, and equipment, as in the cases referred to in the previous section, are considered to emanate from a spirit of solidarity with non-EU partners and to be fully in line with the relevant criteria. The ethical distance between the EU or Member State gifting assets, ceding resources, or providing training and any potential human rights violations that may ensue is taken to preclude liability. There is no intent – no dolus specialis – intervening in the operation. Thus, the denial of responsibility on the European side for the atrocities in Libya, the abuses in Turkey, or the fatalities at sea associated with border-induced displacement, commonly recurs.[91]
      Yet, international law paints a more complex picture.[92] If one considers that it is ‘thanks’[93] to Italy, for instance, that the LYCG continues to exist in any functional form in the post-Kaddafi period,[94] an outright denial of responsibility becomes difficult.[95]
      Especially since the signature of the Memorandum of Understanding between Italy and the Libyan Government of National Accord in February 2017,[96] the delivery of training, equipment, and assets (including the four main patrol vessels employed by the LYCG) has intensified. Italy has created a dedicated ‘Africa Fund’, € 2.5 million of which has been allocated to the maintenance of LYCG boats and the training of their crews.[97] The EU, too, has committed € 46 million to prop up Libyan interdiction capacity.[98] It has been calculated that the total combined investment by Italy and the EU will be € 285 million by 2023,[99] with the EU alone providing € 282 million – most of which via programmes administered, coordinated, or supervised by Italy.[100] In addition, an extension of the Mare Sicuro Operation, named NAURAS,[101] was approved by the Italian Parliament in August 2017, consisting of four ships, four helicopters, and 600 servicemen, of which 70 per cent are deployed at sea, with the other 30 per cent stationed in Tripoli harbour. Their key mission, as declared by the Italian Navy itself, is to ‘establish [the] operational condition[s] for LN/LNCG [i.e. Libyan Navy and LYCG] assets and develop C2 [ie command-and-control] capabilities’. Meanwhile, an ‘ITN [ie Italian Navy] naval asset in Tripoli Harbour [is] acting as LNCC [ie Libyan Navy Communication Centre] and logistic assistance/support hub’, thus assuming the function of a floating maritime rescue coordination centre.[102]
      The nature of the LYCG as a proxy for Italian interdiction has furthermore been confirmed by the judge of Catania adjudicating on the related case concerning the rescue ship Open Arms of the NGO Proactiva. In his decision, the judge takes as proven the crucial role played by Italy in leading LYCG operations. The judge goes so far as to affirm that the interventions of Libyan patrol vessels happen ‘under the aegis of the Italian Navy’ and that the coordination of rescue missions is ‘essentially entrusted to the Italian Navy, with its own naval assets and with those provided to the Libyans’.[103] This corroborates the ‘high degree of integration’ between the two,[104] and the ‘effective control’ exercised by Italy over LYCG operations, making ensuing violations attributable to it.[105]
      The subsequent abuse of those pulled back to Tripoli happens despite Italy’s knowledge of the desperate situation facing migrants in Libya, including widespread and systematic torture, rape, inhuman and degrading treatment, and enslavement. The Deputy Minister for Foreign Affairs himself admitted that ‘taking [migrants] back to Libya, at this moment, means taking them back to hell’.[106] Nonetheless, the interdiction by proxy policy of Italy continues.[107] Amnesty International estimates that there are over 10,000 persons currently held in official detention centres in Libya – all of which funded through EU/Italian money. And, virtually all of them have been brought there as a result of their interdiction at sea by the EU/Italian-equipped and -trained LYCG.[108] Consequently, the combination of control exercised – though ‘contactless’[109] – and the knowledge of the circumstances migrants face should be understood to render Italy answerable for the resulting human rights violations, even if the LYCG is used as a surrogate.
      As per Article 8 ARSIWA, ‘[t]he conduct of a person or group of persons [such as the LYCG] shall be considered an act of a State [i.e. Italy in this case]’, when the group in question ‘is in fact acting on the instructions of, or under the direction or control of, that State in carrying out the conduct’. Taking the Italian Navy and the Judge of Catania’s assertions at face value, the LYCG are to be considered ‘auxiliaries’ of the Italian border machinery deployed extraterritorially, ‘instructed to carry out particular [interdiction] missions abroad’. The Italian Navy conducts the specific operations through its NAURAS effectives exercising coordination as well as command-and-control functions, meaning that the (wrongful) conduct of the LYCG shall be considered ‘an integral part of the operations’ aimed at impeding departures across the Central Mediterranean and thus be attributed to Italy.[110] It is the Italian authorities that locate targets, relay maritime coordinates, and equip and mandate the LYCG to proceed to the interdiction of migrant boats.[111] It is Italy that ‘directs’ the operations in a way that ‘does not encompass mere incitement or suggestion but rather connotes actual direction of an operative kind’.[112] Italian intervention is a sine qua non for the ‘pull-backs’ at sea to materialise, which could not be carried out autonomously by the LYCG.[113] Italy exercises ‘such a degree of control […] as to justify treating the [LYCG] as acting on its behalf’.[114]
      Italy’s involvement in Libyan search and rescue (or rather, interdiction) operations, in different ways and throughout time, rather than just an instance of complicity,[115] engaging indirect responsibility, can thus be characterised as a breach entailing direct responsibility, consisting of a ‘composite act’. Article 15 ARSIWA establishes that an international obligation (of non-refoulement, for instance, and of non-arbitrary interference with the right to leave) may indeed be violated via ‘a series of actions or omissions defined in aggregate as wrongful’. The financing or training of the LYCG alone may be harmless and perfectly licit, but, when taken together and alongside the infiltration of the command-and-control chain of the LYCG by the Italian Navy, the whole, in light of the final outcome of pull-backs, becomes an illicit under international law.
      Italian jurisdiction may indeed be engaged not only in relation to action occurring within its territory and in other areas subject to its ‘effective control’, but, as the Human Rights Committee has stated, also regarding conduct ‘having a direct and reasonably foreseeable impact on the right[s] […] of individuals [abroad]’.[116] The obligation to respect and protect human rights extends beyond territorial domain to all persons subject to its jurisdiction, that is, to ‘all persons over whose enjoyment of the right[s] [concerned] it exercises power’, including ‘persons located outside any territory effectively controlled by the State, whose [rights are] nonetheless impacted by its military and other activities’ – the transfer of money, equipment and enforcement capacity thus acquiring a significance of its own as a possible trigger of independent responsibility for wrongful conduct.[117] Not only the aiding and abetting of human rights violations is of relevance, whatever the form the assistance provided to the LYCG may take (whether commercial, financial, political, or logistical), but also actions (or omissions) that impede the effective enjoyment of human rights – counting the right to leave any country, to seek protection from harm, and to non-refoulement – matter too, from a legal perspective.[118] Following the Legal Service of the European Parliament in the context of its viability analysis of ‘disembarkation platforms’, engagement in any formal or informal arrangement with third countries – including Libya – to finance or contribute to the functioning of externalized structures of migration control ‘have to respect the prescriptions of the relevant provisions of international law’[119] – presumably including those under the ECHR, the ICCPR and general customary norms.[120] Failure to do so flouts the obligations concerned. Direct perpetration of an international wrong is not a pre-requisite for legal responsibility. Indirect contraventions – including via proxy – incur liability as well.[121]
      Distance-creation, through the ‘rulification’ of ‘irresponsibility’ in legal texts or self-seeking effectuations, does not do away with international obligations, nor does it legitimize the suffering it provokes. The EU and its Member States must come to recognise the predictable effect and implications of their externalization agenda. And, alongside the UN Special Rapporteur on Torture, acknowledge that, as currently designed, their ‘migration policies can amount to ill-treatment’.[122] Actually, ‘[t]he primary cause for the massive abuse suffered by migrants […] is neither migration itself, nor organised crime […] but the growing tendency of States to base their official migration policies and practices on deterrence, criminalisation and discrimination’.[123] It is this distinct strategy that causes border-induced displacement, breaches human rights obligations and triggers international legal responsibility.[124]
      4. Conclusion: ‘Rulification’ as the co-option of protection

      ‘Rulification’ does not represent a paradigm shift in European politics, but rather an up-scaling of the logic observable also in proposals pursued from the 1980s and onwards and which have led to the integration of the concepts of ‘first country of arrival’, ‘safe third country’ and maritime interdiction within the legal architecture of the common borders and asylum acquis, the primary purpose of which has been the avoidance of asylum seekers on EU territory. It is the abuse and exploitation entrenched within externalization strategies that engenders border-induced displacement in Europe’s border-region. With EU Member States viewing the opening up of legal escape routes as an irrational concession, the side-effects of externalization are exacerbated as the systemic logic of asymmetric, diffused, and denied responsibility for displaced persons is reproduced further and further away from Europe, and closer and closer to the repressive regimes people attempt to escape from.
      The reactionary and regionalist assumptions underpinning externalization arguments and practices tell a securitized tale of displacements constantly generated and managed far removed from European territory and agency. However, distance-creation strategies, whether ethical, spatial, or legal, belong to the category of ‘policies based on deterrence, militarization and extraterritoriality’, denounced by UN Special Rapporteurs and others, ‘which implicitly or explicitly tolerate [and perpetuate] the risk of migrant deaths as part of an effective control of entry’.[125] As the previous sections demonstrate, the structural nature of externalization problematizes traditional assumptions and debates in immigration ethics and politics. It traps migrants in a ‘vicious circle’ of more control, more danger, and more displacement, where they must rely on facilitators to escape life-threatening perils.[126]
      But smuggling and trafficking is the consequence, rather than the cause, of suffering. Suffering is embedded in the externalization system by design through the vehicle of ‘rulification’, which serves to launder the pernicious (and perfectly foreseeable) impact of extra-territorialised/externalised coercion into ‘law-ified’ (and purportedly unintended) side effects. At the same time, the European transfer of equipment and capacity for control outwards also risks undermining processes of accountability and democratic legitimacy in regions bordering Europe. And the ‘rulification’ of border-induced displacement does not make these implications any more palatable. In the words of UN Special Rapporteur Agnès Callamard, it is simply ‘not acceptable’ to deter entry by endangering life.[127] The fallacy of coercion-based protection needs to give way to an ethically grounded and legally sustainable rights-honouring paradigm. This is not to contest the legal existence of borders or their enforcement, but to challenge the legitimacy of mechanisms through which they are presently enacted in a manner incompatible with the most basic requirements of international law.

      http://www.qil-qdi.org/border-induced-displacement-the-ethical-and-legal-implications-of-distance-
      #responsabilité #déni_de_responsabilité #protection

  • Armi italiane nel mondo: dove finiscono e chi colpiscono

    Bombe per decine di milioni di euro all’Arabia Saudita, che le usa nella guerra in Yemen. E le armi italiane finiscono pure in Nord Africa, Turchia e in tanti altri paesi del Medio Oriente. Un commercio che vede tra i protagonisti la #Rwm_Italia (della #Rheinmetall) e le autorità italiane che lo permettono. Una situazione così grave che gli attivisti hanno presentato un esposto.

    Più di 45 milioni di euro di bombe all’Arabia Saudita. Una fornitura che rappresenta un record non solo per la piccola azienda di Domusnovas in Sardegna, dove la Rwm Italia produce bombe aeree del tipo MK 82. MK83 e MK84 per conto della multinazionale tedesca Rheinmetall, ma per l’intera produzione italiana di ordigni.

    Un dato che, considerata la rilevanza a livello manifatturiero e soprattutto la criticità del destinatario e utilizzatore finale, dovrebbe apparire in chiara evidenza nella Relazione destinata al Parlamento. Di cui, invece, non si trova menzione nella “Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento per l’anno 2017” pubblicata – in totale silenzio (nemmeno un tweet per annunciarla) – lo scorso venerdì 4 maggio sul sito del Senato (ma non ancora disponibile su quello della Camera).
    Armi italiane in Medio Oriente e Nord Africa

    Della Relazione sul controllo del commercio di armi ci siamo in parte già occupati, commentando alcune anticipazioni offerte, in modo alquanto insolito, dal direttore dell’Unità nazionale per le autorizzazioni dei materiali di armamento (Uama), Francesco Azzarello, con una sua intervista all’Ansa. Ma i dati che emergono dal documento ufficiale sono molto più preoccupanti di quelli finora anticipati.

    Innanzitutto perché, degli oltre 10,3 miliardi di euro di autorizzazioni all’esportazione di materiali d’armamento rilasciate nel 2017 dal governo Gentiloni, il 57,5% è destinato a Paesi non appartenenti all’Ue o alla Nato e prevalentemente ai paesi del Medio Oriente e Nord Africa. Ma soprattutto perché tra i principali destinatati figurano nazioni belligeranti, monarchie assolute, regimi autoritari irrispettosi dei diritti umani, governi fortemente repressivi.

    L’esatto opposto di quello che ci si aspetterebbe: ai sensi della normativa nazionale che regolamenta questa materia, la legge 185 del 1990, le esportazioni di armamenti «devono essere conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia» e dovrebbero essere regolamentate «secondo i principi della Costituzione repubblicana che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» (art. 1).
    Guerra in Yemen e regimi: le armi italiane nel mondo

    L’elenco di questi Paesi è impressionante. Si comincia con il Qatar (4,2 miliardi di euro), a cui sono state fornite da Fincantieri quattro corvette, una nave per operazioni anfibie e due pattugliatori e in aggiunta il sistema di combattimento e missilistico della Mbda: un intero arsenale bellico che la sottosegretaria di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri, onorevole Maria Elena Boschi, nella sezione di sua competenza liquida sbrigativamente come una mera «fornitura di navi e di batterie costiere».

    Segue l’Arabia Saudita (52 milioni), a cui vanno aggiunti altri 245 milioni di euro per gli Efa “Al Salam” e i Tornado “Al Yamamah” riportati nei programmi intergovernativi.

    E poi Turchia (266 milioni), Pakistan (174 milioni), Algeria (166 milioni), Oman (69 milioni), Iraq (55 milioni), Emirati Arabi Uniti (29 milioni), Giordania (14 milioni), Malaysia (10 milioni), Marocco (7,7 milioni), Egitto (7,3 milioni), Tunisia (5,5 milioni), Kuwait (2,9 milioni), Turkmenistan (2,2 milioni).
    #Pakistan #Algérie #Oman #Irak #EAU #Emirats_Arabes_Unis #Jordanie #Malaysie #Maroc #Birmanie #Egypte #Tunisie #Kuwaït #Turkmenistan

    Come ha rilevato con un comunicato la Rete italiana per il Disarmo, «il risultato è evidente: gli affari “armati” dell’industria a produzione militare italiana si indirizzano sempre di più al di fuori dei contesti di alleanze internazionali dell’Italia verso le aree più problematiche del mondo».

    Armi all’Arabia Saudita: «Violati i diritti umani»

    Soprattutto le forniture di armamenti all’Arabia Saudita sono state oggetto di specifiche denunce da parte delle associazioni pacifiste italiane ed europee. Si tratta di forniture – non va dimenticato – che il Parlamento europeo ha chiesto con tre specifiche risoluzioni di interrompere ponendo un embargo sugli armamenti destinati all’Arabia Saudita «visto il coinvolgimento del paese nelle gravi violazioni del diritto umanitario accertato dalle autorità competenti delle Nazioni Unite» (risoluzione del Parlamento europeo sulle esportazioni di armi del 13 settembre 2017).

    Insieme all’’European Center for Constitutional and Human Rights (Ecchr) e all’organizzazione yemenita per i diritti umani Mwatana, lo scorso 18 aprile la Rete Italiana per il Disarmo ha presentato una denuncia penale alla Procura della Repubblica italiana di Roma.
    Autorità e Rwm Italia: chiesta apertura indagine

    Nella denuncia si chiede che venga avviata un’indagine sulla responsabilità penale dell’Autorità italiana che autorizza le esportazioni di armamenti (Unità per le autorizzazioni dei materiali d’armamento – Uama) e degli amministratori della società produttrice di armi Rwm Italia S.p.A. per le esportazioni di armamenti destinate ai membri della coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita coinvolti nel conflitto in Yemen.

    La denuncia è estremamente dettagliata e riporta il caso di un raid aereo effettuato l’8 ottobre 2016, verosimilmente dalla coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita, che ha colpito il villaggio di Deir Al-Hajari, nello Yemen nord-occidentale, distruggendo la casa della famiglia Houssini e uccidendo sei persone, tra cui una madre incinta e quattro bambini. Sul luogo dell’attacco sono stati rinvenuti dei resti di bombe e un anello di sospensione prodotti da Rwm Italia.
    Rheinmetall nel mirino dell’azionariato critico

    Le associazioni non si sono limitate alla denuncia. Per sensibilizzare l’opinione pubblica la Fondazione Finanza Etica (Ffe) ha partecipato lo scorso 8 maggio a Berlino all’assemblea degli azionisti della Rheinmetall, l’azienda che controlla la Rwm Italia.

    All’assemblea era presente, in rappresentanza delle associazioni pacifiste italiane, Francesco Vignarca, coordinatore di Rete Disarmo. Numerose anche le organizzazioni tedesche che, acquistando azioni della Rheinmetall, hanno potuto partecipare all’assemblea dei soci: tra le altre va ricordata la banca cattolica Bank für Kirche und Caritas (presente in rappresentanza del network SfC-Shareholder for Change), Urgewald, Campact, varie associazioni cattoliche ed Ecchr (European Centre for Constitutional and Human Rights).

    Particolarmente significativo l’intervento di Bonyan Gamal, in cui l’attivista yemenita di Mwatana ha descritto la tragica morte della famiglia Houssini, suoi vicini di casa, centrati da una bomba prodotta dalla Rwm Italia.
    Mons. Zedda su Rwm Italia: «No a produzione di armi»

    Una presa di posizione quanto mai significativa è venuta dal vescovo di Iglesias, monsignor Giovanni Paolo Zedda. Il prelato è titolare della diocesi di cui fa parte Domusnovas, dove ha sede la fabbrica della Rwm Italia. Dopo aver ricordato nel suo messaggio la «gravissima situazione occupativa» nell’iglesiente, monsignor Zedda evidenzia che «la gravissima situazione economico-sociale non può legittimare qualsiasi attività economica e produttiva, senza che ne valutiamo responsabilmente la sostenibilità, la dignità e l’attenzione alla tutela dei diritti di ogni persona».

    «In particolare, non si può omologare la produzione di beni necessari per la vita con quella che sicuramente produce morte. Tale è il caso delle armi che – è purtroppo certo – vengono prodotte nel nostro territorio e usate per una guerra che ha causato e continua a generare migliaia di morti».

    E, in merito ai piani proposti dalla Rwm Italia per ampliare la fabbrica, monsignor Zedda afferma con chiarezza: «Qualunque idea di conservazione o di allargamento di produzione di armi è da rifiutare». Un messaggio che è stato accolto con grande attenzione dai partecipanti al convegno “Pace, lavoro, sviluppo”, che proprio in quei giorni si teneva a Iglesias per riflettere anche sulle prospettive di una possibile riconversione della fabbrica delle bombe.


    https://www.osservatoriodiritti.it/2018/05/15/armi-italiane-nel-mondo-arabia-saudita-yemen
    #armes #Italie #armement #commerce_d'armes #Arabie_Saoudite #Yémen #Turquie
    cc @albertocampiphoto

    • Armi italiane in Yemen: Governo del Cambiamento alla prova

      Il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, vuole vederci chiaro sull’esportazione di armi italiane verso Arabia Saudita e altri Paesi coinvolti nel conflitto in Yemen. E si dichiara pronta a bloccare le vendite di armi «verso Paesi in guerra o verso altri Paesi che potrebbero rivenderle a chi è coinvolto». Nel frattempo, però, servirebbe più trasparenza.

      Il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, ha annunciato ieri l’intenzione, «laddove si configurasse una violazione della legge 185 del 1990», di interrompere le esportazioni di armamenti a Paesi coinvolti in conflitti bellici. L’annuncio, pubblicato sulla sua pagina Facebook, fa seguito a una serie di dichiarazioni rilasciate nei giorni scorsi da diversi parlamentari del Movimento 5 Stelle (M5S) ed in particolare dal suo leader politico, Luigi Di Maio.

      Al termine della riunione della Cabina di Regia per l’Italia internazionale, il ministro dello Sviluppo economico, Di Maio, aveva infatti affermato:

      «Non vogliamo, ad esempio, continuare ad esportare armi verso Paesi in guerra o verso altri Paesi che, a loro volta, potrebbero rivenderle a chi è coinvolto in un conflitto bellico».

      Una dichiarazione salutata positivamente da alcuni parlamentari del M5S che hanno annunciato di voler avviare iniziative parlamentari «per imprimere un cambiamento anche in questo settore».
      Trenta chiede chiarimenti su esportazione armi italiane

      Ma torniamo alla dichiarazione del ministro della Difesa. A fronte delle «immagini di quel che accade in Yemen ormai da diversi anni», Elisabetta Trenta annuncia innanzitutto di aver chiesto «un resoconto dell’export, o del transito di bombe o altri armamenti dall’Italia all’Arabia Saudita». Il ministro, specificando agli organi di stampa che «fino ad ora, erroneamente, si era attribuita la paternità della questione al ministero della Difesa, mentre la competenza è del ministero degli Affari Esteri (Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento-UAMA)», comunica di aver inviato «venerdì scorso una richiesta di chiarimenti, sottolineando – laddove si configurasse una violazione della legge 185 del 1990 – di interrompere subito l’export e far decadere immediatamente i contratti in essere».

      Si tratta, evidenzia, di «contratti firmati e portati avanti dal precedente governo» (leggi Armi italiane ai regimi autoritari). La titolare della Difesa annuncia infine di aver «allertato il collega Moavero, che sono certa si interesserà quanto prima dell’argomento». Al momento, dal ministero degli Esteri non risulta alcuna risposta. Ma la dichiarazione della Trenta evidenzia un’attenzione, finora inedita, da parte di un organo governativo, da non sottovalutare.
      Rete Disarmo e Amnesty su armi italiane vendute all’estero

      La Rete italiana per il Disarmo, che per anni insieme a diverse altre organizzazioni della società civile ha sollevato in varie sedi la questione, ha salutato positivamente la presa di posizione della ministro Trenta sulla questione delle vendite di bombe italiane all’Arabia Saudita, evidenziando che «va nella giusta direzione e verso l’unica e sola soluzione sensata e umana: lo stop di qualsiasi fornitura militare».

      https://www.osservatoriodiritti.it/2018/09/18/armi-italiane-in-yemen-arabia-saudita

    • Triplicherà la produzione la fabbrica di bombe in Sardegna che rifornisce i sauditi

      L’azienda tedesca investe sulle sue filiali all’estero per aggirare il blocco di forniture a Riyadh imposto da Angela Merkel

      #Rwm verso l’ampliamento. Il comitato di riconversione e Italia Nostra Sardegna in piazza per protestare: «Il comune di Iglesias non ci ascolta»

      La Rwm, la fabbrica di bombe situata a Domusnovas in Sardegna, triplicherà la sua produzione e amplierà le sue strutture su un territorio che rientra sotto il comune di Iglesias. È prevista la costruzione di due nuovi reparti produttivi; a giorni verrà pubblicata l’autorizzazione sull’albo pretorio comunale.

      Secondo Italia Nostra Sardegna, la richiesta di autorizzazione all’ampliamento è stata formulata in modo che i due reparti impiegati nel processo di miscelazione, caricamento e finitura di materiali esplodenti non vengano inquadrati come impianti chimici, così da eludere le valutazioni di Impatto ambientale e il coinvolgimento della Regione Sardegna. Con i due nuovi reparti la produzione passerà da 5 mila a 15 mila bombe l’anno.

      La Rwm è tristemente famosa per le forniture all’Arabia Saudita, che utilizza gli ordigni per bombardare i civili in Yemen nella guerra contro i ribelli sciiti Houthi che ormai va avanti dal 2015. La fabbrica è una filiale dell’azienda tedesca di armamenti Rheinmetall, il cui presidente Papperger già a maggio scorso dichiarava durante il consiglio di amministrazione il rinnovo di investimenti per il sito di Domusnovas. Gli investimenti sono arrivati e l’ampliamento ha ricevuto l’autorizzazione.

      In circa 18 mesi i lavori dovrebbero essere conclusi: a dare la tempistica approssimativa era stato proprio l’amministratore delegato di Rwm, Fabio Sgarzi, in un’intervista a La Nuova Sardegna lo scorso luglio. Proprio in quel periodo, infatti, la società aveva presentato la richiesta di ampliamento per la quale lo scorso 3 novembre è scaduta la prima fase autorizzativa.

      «Non possiamo essere complici di una tale sciagura» dichiara Arnaldo Scarpa, portavoce del Comitato di riconversione, che giovedì 8 novembre era in piazza assieme all’associazione Italia Nostra Sardegna per un sit in di protesta. Lo scorso luglio le due associazioni si sono costituite nella Conferenza dei Servizi, in cui vengono presi in considerazione gli interessi pubblici, per richiedere la necessità di una valutazione di impatto ambientale. Ma questa volta non sono stati ascoltati: in assenza di pareri contrari, la procedura di ampliamento va avanti. «Diventa così ancora più importante la protesta” continua Scarpa “Stiamo valutando gli estremi per un ricorso al Tar».

      È dal 2016 che la Rwm prova ad ampliarsi nel territorio di Iglesias: due anni fa, infatti, la società aveva richiesto l’autorizzazione per la costruzione di un nuovo campo per i test. Ma questa richiesta è al momento bloccata in fase istruttoria presso la regione Sardegna, in attesa di una Valutazione di impatto ambientale, istanza fortemente voluta dall’associazione Italia Nostra Sardegna. Fino ad ora, denunciano le associazioni, la politica locale non ha preso una posizione, sostenendo che l’approvazione o il rigetto delle autorizzazioni di ampliamento siano questioni puramente tecniche di competenza del Suap (Sportello unico per le attività produttive). «Ci siamo rivolti direttamente al Sindaco di Iglesias, al responsabile del Suap e al responsabile del procedimento del comune di Iglesias, speriamo che in questi giorni la situazione possa essere ribaltata” conclude Scarpa «la lotta non violenta continua e con maggiore motivazione».

      I progetti di espansione peraltro vanno nella direzione contraria a quella indicata dalla cancelliera tedesca Angela Merkel, che in relazione al caso Kashoggi ha minacciato di sospendere il commercio di armi con l’Arabia Saudita. Di fatto però la Merkel sa benissimo che in mancanza di una regolamentazione definita sulle filiali all’estero, le grosse aziende tedesche di armi possono continuare a commerciare impunite.

      La Rheinmetall infatti sta implementando gli investimenti sulle sue due più grosse succursali all’estero: da un lato procede all’ampliamento della sarda Rwm e dall’altra ha appena ricevuto una grossa offerta dalla compagnia della difesa saudita Sami (Saudi Arabian Military Industries) per la sudafricana Rdm (Rheinmetall Denel Munition). Secondo una fonte anonima riportata dalla Reuters l’offerta ammonterebbe a un miliardo di dollari e riguarderebbe Denel, l’azienda che dal 2008 si è legata in una join venture con la Rheinmetall Waffe Munition tedesca e che attualmente detiene il 49% della filiale sudafricana. In tale modo i sauditi, con una quota di minoranza, entrerebbero di diritto nel consiglio di amministrazione e riuscirebbero ad impossessarsi di una grossa parte della fabbrica.

      Se nelle dichiarazioni politiche viene messa in discussione la possibilità di commerciare con l’Arabia Saudita, nei fatti quando si parla di affari milionari, la solidarietà tra i vari paesi coinvolti risulta più compatta che mai.

      https://www.dirittiglobali.it/2018/11/triplichera-la-produzione-la-fabbrica-di-bombe-in-sardegna-che-riforn
      #Allemagne

    • Armi italiane vendute all’estero per rilanciare il “Sistema Paese”

      Il Governo del Cambiamento non ha intenzione di rinunciare alla vendita di armi italiane in Medio Oriente. Tanto che per il sottosegretario alla Difesa Tofalo si tratta di un business «da sfruttare al massimo». Con buona pace dei diritti umani violati dall’Arabia Saudia nella guerra in Yemen. Società civile e Comuni, invece, chiedono un’inversione di rotta

      Ha preso il via domenica scorsa Idex 2019 (International Defence Exhibition), l’esposizione biennale di sistemi militari di Abu Dhabi giunta alla quattordicesima edizione. Un salone che rappresenta il punto di riferimento per i ricchi acquirenti del Medio Oriente e, soprattutto, per le aziende produttrici di armamenti.

      Come annunciato (leggi Marina militare: dalla Spezia al Medio Oriente per affari di guerra), la Marina Militare ha voluto inviare ad Abu Dhabi la fregata Margottini per arricchire con le sue tecnologie belliche il salone Navdex, che si tiene in contemporanea a Idex.

      Tra le 1.235 aziende di 57 Paesi, la presenza italiana è rilevante: 31 aziende, tra cui oltre ai colossi #Leonardo (ex #Finmeccanica) e #Fincantieri, figurano i produttori di bombe (#Simmel_Difesa del gruppo francese #Nexter), di “armi leggere” (#Beretta, #Benelli, #Tanfoglio, #Fiocchi, ma anche la meno nota #Mateba), di “materiali da difesa” di ogni tipo e soprattutto di sistemi elettronici tra cui spicca #Hacking_Team, l’azienda sospettata di essere coinvolta nello spionaggio di Giulio Regeni (con relative proteste dell’azienda) e anche nel caso dell’omicidio del giornalista saudita Jamal Khashoggi.

      In breve, un ampio campionario dell’arsenale bellico italiano, pesante e leggero, con tanto di associazione di rappresentanza, l’Aiad (Federazione Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza), la cosiddetta “Confindustria degli armamenti”, capitanata dal suo presidente Guido Crosetto che è anche coordinatore nazionale di Fratelli d’Italia.

      Armi italiane vendute all’estero: occasione da “sfruttare”

      In questo contesto non poteva certo mancare la visita di un rappresentante del governo italiano: vi ha infatti partecipato il sottosegretario alla Difesa, l’onorevole pentastellato Angelo Tofalo. Per non far passare inosservata la sua presenza, il sottosegretario ha voluto dedicare al salone militare un ampio scritto sulla sua pagina Facebook con tanto di foto ricordo della visita agli stand ed in particolare del suo incontro con Mohammed bin Zayed Al Nahyan, il Principe erede dell’Emirato di Abu Dhabi e delegato per il ministero della Difesa.

      Un resoconto entusiasta, in cui il sottosegretario parla di Idex 2019 nei termini di «una grande opportunità per stabilire e rafforzare cooperazioni con i principali attori dell’area», di «un’occasione da sfruttare al massimo» e, soprattutto, del suo ruolo «per sostenere le nostre eccellenze (…) per affermare il “made in Italy” nel mercato internazionale». «Anche questo vuol dire fare politica, quella buona, e gli interessi dell’Italia», chiosa Tofalo.

      Dichiarazioni in perfetto stile “commesso viaggiatore” dell’industria militare italiana. Quanto questo risponda al suo ruolo di sottosegretario alla Difesa, il cui compito principale sarebbe quello di assicurare la sicurezza del nostro Paese a fronte della minaccia che queste monarchie rappresentano (ne parlo più sotto), non è dato di sapere.

      In sfregio alle violazioni e ai crimini di guerra

      La partecipazione di Tofalo a Idex 2019 è un messaggio molto chiaro: il governo Conte non intende rinunciare agli affari militari e coglie l’occasione del salone di Abu Dhabi per rafforzare i legami con le monarchie del Golfo. Manifestando così il suo appoggio politico all’intervento militare che vede protagonisti gli Emirati Arabi insieme ai sauditi in Yemen.

      Un sostegno inammissibile alla luce della relazione dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani dell’agosto scorso che documenta come tutte le parti implicate nel conflitto nello Yemen stiano commettendo “crimini di guerra”. E in totale disprezzo della risoluzione 2018/2853 del Parlamento europeo che lo scorso ottobre ha esortato tutti gli Stati membri dell’Ue ad «astenersi dal vendere armi e attrezzature militari all’Arabia Saudita, agli Emirati Arabi Uniti e a qualsiasi membro della coalizione internazionale, nonché al governo yemenita e ad altre parti del conflitto».

      Sulla questione dello Yemen il sedicente governo del Cambiamento quindi si mostra non solo in perfetta continuità con i governi che l’hanno preceduto (leggi Armi italiane in Yemen: Governo del Cambiamento alla prova), ma anzi intende incentivare le forniture belliche perché – come spiega il sottosegretario Tofalo – «in questo settore, quando viene a crearsi un bisogno, accade che tanti competitor sono pronti a inserirsi e affermare le proprie tecnologie e prodotti». E per promuovere l’export armato sta pensando «ad una a grande fiera sull’Industria della Difesa, magari a Milano», scrive Tofalo nel suo post.
      Armi sviate alle milizie in Yemen

      Tutto questo avviene a pochi giorni di distanza dalla pubblicazione di un rapporto in cui Amnesty International documenta che «gli Emirati Arabi Uniti sono diventati il principale fornitore di veicoli blindati, sistemi di mortaio, fucili, pistole e mitragliatrici a milizie presenti in Yemen che compiono crimini di guerra e altre gravi violazioni dei diritti umani in modo del tutto impunito».

      Non solo. Amnesty evidenzia che «i gruppi armati destinatari finali di questi loschi traffici – tra cui i “Giganti”, la “Cintura di sicurezza” e le “Forze di elite” – sono addestrati e finanziati dagli Emirati Arabi Uniti ma non rispondono ad alcun governo». Alcuni di loro sono stati accusati di crimini di guerra, anche nel corso della recente offensiva contro la città portuale di Hodeidah e nella gestione del sistema di prigioni segrete nel sud dello Yemen».
      Guerra in Yemen: anche gli Usa ci ripensano

      Accuse confermate da un’inchiesta della CNN che documenta come Arabia Saudita e Emirati Arabi hanno trasferito armamenti di fabbricazione americana a combattenti legati ad al Qaeda, alle milizie salafite e ad altre fazioni attive nella guerra nello Yemen. Arabia Saudita e Emirati Arabi «hanno usato le armi prodotte dagli Stati Uniti come una forma di valuta per comprare la lealtà delle milizie e delle tribù, rafforzare i rapporti con gruppi armati scelti e influenzare il complesso panorama politico», riporta la CNN.

      Anche a fronte di queste inchieste, nei giorni scorsi la Camera degli Stati Uniti ha votato per porre fine al coinvolgimento militare e al sostegno di Washington alla coalizione a guida saudita nello Yemen. Un fatto rilevante, sia per il ruolo fondamentale di sostegno degli Stati Uniti alla coalizione a guida saudita nel conflitto yemenita, sia perché la risoluzione è passata grazie al voto anche di 18 rappresentanti repubblicani (248 voti a favore, 177 contrari): è la prima volta che la Camera approva una risoluzione del “War Powers Act” da quando la legge è stata emanata nel 1973.
      Le città italiane: basta armi italiane all’Arabia Saudita

      Il blocco delle forniture belliche all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti è stato ripetutamente richiesto, oltre che dal Parlamento europeo (leggi Basta armi ai sauditi, lo chiede l’Europa), anche da numerose associazioni della società civile italiana (da Amnesty International Italia a Fondazione Finanza Etica, dal Movimento dei Focolari a Oxfam Italia, dalla Rete della Pace alla Rete Italiana per il Disarmo e Save the Children Italia che ieri ha diffuso un nuovo appello). E sta trovando il sostegno da parte di numerose amministrazioni comunali.

      La mozione per fermare le forniture belliche è partita da Assisi, “Città della pace”, dove nel novembre scorso è stata approvata all’unanimità nel consiglio comunale. È poi approdata a Cagliari (la città dal cui porto e aeroporto partono le bombe della serie MK 80 fabbricate dalla Rwm Italia di Domusnovas e destinate all’Arabia Saudita), dove il consiglio comunale lo scorso 8 gennaio ha approvato un ordine del giorno che sollecita l’applicazione delle legge 185/90, che vieta la produzione e la vendita di armi ai Paesi in guerra. Sono seguite le mozioni approvate nei consigli comunali di Verona e di Bologna.

      È quindi approdata nell’assemblea capitolina che lo scorso 12 febbraio ha approvato la mozione “Stop bombe per la guerra in Yemen”. La mozione impegna la giunta, tra l’altro, a:

      «Promuovere, insieme agli altri comuni convergenti su questi intenti, alle associazioni e ai comitati di cittadini interessati, ogni azione perché il Governo e il Parlamento Italiano diano attuazione ai principi costituzionali e alle risoluzioni del Parlamento Europeo, bloccando l’esportazione di armi e articoli correlati, prodotti in Italia, destinate all’Arabia Saudita e a tutti i Paesi coinvolti nel conflitto armato in Yemen».

      Un’iniziativa importante, che andrebbe replicata in tutte le città e comuni d’Italia.

      Per riportare all’attenzione nazionale il tema delle esportazioni di armamenti, segnaliamo il convegno “Produzione e commercio di armamenti: le nostre responsabilità”, che si terrà il 1° marzo a Roma (iscrizione obbligatoria entro il 22 febbraio).

      https://www.osservatoriodiritti.it/2019/02/22/armi-italiane-vendute-all-estero-yemen-arabia-saudita

    • No all’allargamento della #RWM a #Iglesias

      La Tavola Sarda della Pace prende atto della decisione dell’Amministrazione comunale di Iglesias che autorizza d’ufficio l’allargamento della fabbrica di armamenti RWM, con la costruzione di due nuove linee di produzione che porteranno lo stabilimento a triplicare la capacità produttiva. Poiché tutto ciò è avvenuto con scarsa trasparenza, nessuna apertura ad un dibattito pubblico che coinvolga le popolazioni locali, nessuna considerazione dei documenti a tale scopo presentati da comitati ed organizzazioni della società civile, intende prendere posizione su questo grave fatto.

      Da oltre tre anni ormai la RWM, succursale italiana della multinazionale degli armamenti Reinhmetal a maggioranza tedesca e con sede a Berlino, vende i suoi micidiali ordigni all’Arabia Saudita, che li utilizza per i bombardamenti a tappeto contro i centri abitati e le popolazioni civili dello Yemen, che hanno fino ad oggi causato oltre 10mila vittime, in un’emergenza umanitaria gravissima, amplificata dalla mancanza di acqua e cibo e dalla conseguente epidemia di colera che ha colpito la popolazione. Il Governo italiano in carica, come peraltro quello precedente, continua ad ignorare l’applicazione della legge 185 del 1990 che fa divieto alla vendita e al transito sul suolo italiano di armi dirette a paesi in guerra o che violino i diritti umani. La monarchia saudita non sfugge ad entrambi i criteri, in quanto viola i diritti umani (il caso Khashoggi è solo la punta dell’iceberg, le donne continuano ad essere pesantemente discriminate) e bombarda la popolazione yemenita con le bombe prodotte nella fabbrica RWM situata nei territori dei Comuni di Domusnovas e Iglesias.

      Essendo fermamente avversi ad ogni guerra, violenza e discriminazione, pensiamo che questo devastante e illecito commercio d’armi vada fermato e, nel rispetto del diritto ad un lavoro dignitoso, vadano con urgenza ricercate soluzioni di sviluppo ecosostenibile sul territorio sardo.

      Per questo chiediamo che il Sindaco di Iglesias Mauro Usai riconsideri la decisione presa troppo frettolosamente, che il Presidente della Giunta Francesco Pigliaru intervenga in modo chiaro utilizzando le prerogative della Regione, che il Governo italiano aderisca all’embargo proposto dall’Unione Europea sulla vendita d’armi all’Arabia Saudita.

      https://www.arci.it/no-allallargamento-della-rwm-a-iglesias
      #Sardaigne

    • Rwm nel #Sulcis. Fabbrica delle bombe giorni decisivi per l’ampliamento

      Il momento è decisivo. In questi due giorni si gioca la fase clou della partita per l’ampliamento della “fabbrica delle bombe” sarde. Così è spesso chiamato lo stabilimento di Rwm Italia situato nel Sulcis, in bilico fra il comune di Domusnovas e quello di Iglesias. La ragione è semplice. L’impianto è specializzato – come si evince dal sito ufficiale – nella produzione di «sistemi antimine, testate missilistiche, dispositivi elettronici con spolette». In particolare, ordigni Mk-80. I cui frammenti, con tanto di codici identificativi – come documenta da anni Avvenire – sono stati ritrovati sul territorio yemenita dopo i bombardamenti della coalizione a guida saudita.

      Riad, del resto, è tra i clienti principali della Rwm Italia. Proprio da quest’ultima, nel 2016, ha ricevuto un “mega-ordine” da 411 milioni di euro. A cui si sono sommate, nel periodo successivo, commesse più piccole, tutte già autorizzate. Le richieste hanno fatto aumentare di oltre il 50 per cento il fatturato dell’azienda in un biennio. I ricavi delle vendite sono passati da 48,1 milioni di euro nel 2015 a 90 milioni di euro. Al contempo, però, esso ha innescato una “maratona produttiva”.

      L’impianto sardo lavora ormai h 24, sette giorni su sette. Nemmeno questo, però, sembra essere sufficiente per soddisfare la domanda. Da qui, l’idea di un’espansione. Dal 2016, nell’ambito di un piano di investimenti da 40 milioni di euro, Rwm Italia ha presentato al Comune di Iglesias dodici pratiche di ampliamento. La sorte della più significativa di queste si conoscerà domani. Ieri, è scaduto il termine per la presentazione di “osservazioni” relative all’effetto sul territorio dell’autorizzazione per la costruzione di due nuovi siti nella regione iglesiente da parte dei diversi enti locali.

      Solo domani, però, data la concomitanza della festa, si saprà se queste sono state effettivamente inoltrate. In caso affermativo, le parti ne dovranno discutere in una riunione ad hoc già prevista per giovedì. Il mancato recapito di rimostranze, invece, equivarrebbe a un via libera all’ampliamento, senza necessità di una valutazione dell’impatto ambientale. A quel punto, Rwm Italia potrebbe raddoppiare o triplicare la produzione, passando dall’attuale media annuale di 5mila ordigni a 10 o 15mila. Certo, tale espansione avrebbe anche ricadute in termini di occupazione.

      Un problema non da poco in un’aerea depressa come il sud della Sardegna che, nel 2017, s’è aggiudicato il penultimo posto nella classifica italiana per Pil pro capite. Dal 2015 al 2017, sono stati assunti altri 37 nuovi dipendenti, raggiungendo quota 171, in buona parte con contratti a termine o interinali. «Siamo pienamente consapevoli del dramma della disoccupazione che tanto ferisce la nostra terra – spiega Cinzia Guaita, del Comitato riconversione Rwm –. Eventuali nuove assunzioni, tuttavia, aumenterebbero una produzione eticamente inaccettabile e totalmente incompatibile con la legislazione italiana, che consente la produzione di armi solo per fini difensivi.

      Non solo. Finirebbero per incrementare ulteriormente l’esercito dei precari e, poi, dei disoccupati. In caso di blocco dell’export a Riad, i contratti sarebbero soggetti a immediata risoluzione». Nato il 15 maggio 2017, il Comitato – a cui aderiscono venti tra associazioni, fondazioni, singole persone di diverse orientamento – si batte per la riconversione dell’impianto. In occasione della scadenza di ieri, in collaborazione con Italia Nostra, ha rivolto forti appelli agli enti locali perché approfondissero le conseguenze ambientali dell’ultimo ampliamento. «Lottiamo pacificamente per un lavoro sostenibile e umano. In questo anno e mezzo, abbiamo promosso incontri con esperti per trovare insieme alternative per tutti i dipendenti della fabbrica – spiega il portavoce Arnaldo Scarpa –. Soluzioni non assistenziali, pacifiche, sostenibili e foriere di duraturo sviluppo nel nostro territorio».

      «Dobbiamo costruire pezzi di pace nei territori, invertendo il processo di un’economia armata che fa cadere sui lavoratori, ultimo anello della catena, un peso di coscienza insostenibile», conclude Guaita. Curioso che una delle partite decisive per Rwm si giochi proprio proprio l’indomani del moto di indignazione mediatica per la morte per fame della piccola yemenita Amal. Mentre la foto della bimba scompare dai social, il flusso di armi occidentali verso i teatri di guerra, prosegue.

      https://www.avvenire.it/attualita/pagine/rwm-si-prepara-a-ingrandirsi-fino-a-15mila-bombe-lanno

    • La fabbrica di bombe e armi si amplia: reportage della tv di Stato tedesca

      Il primo canale della tv di Stato tedesca continua a interessarsi al Sulcis, e in particolare alla fabbrica di bombe di #Domusnovas. Ieri, in prima serata, sulla Ard è andato in onda un dettagliato servizio firmato da Philipp Grüll e Karl Hoffmann (qui il video completo con un’intervista al vescovo di Iglesias, Giovanni Paolo Zedda). Al centro ci sono gli ampliamenti previsti – e già in corso, come si capisce dalle immagini – della sede locale della Rwm (di proprietà del colosso tedesco #Rheinmetall). Undici gli interventi diversi – autorizzati dal Comune di Iglesias – che porteranno all’aumento della produzione di bombe e armi, impiegate, come documentato anche da un’inchiesta del New York Times nello Yemen. Più volte, inutilmente, il Parlamento europeo ha approvato risoluzioni contrarie ell’export di armi verso i paesi in conflitto. Ma di fatto produzione e carichi non si sono mai fermati. E ora arriva il rilancio. Alle proteste di pacifisti e dello stesso presidente della Regione, Francesco Pigliaru, si contrappongono i lavoratori e chi sostiene la linea “se non qui si produrranno altrove”.

      https://www.sardiniapost.it/cronaca/la-fabbrica-di-bombe-e-armi-si-amplia-il-servizio-della-tv-di-stato-ted

    • Iglesias, la fabbrica di bombe Rwm raddoppia: ok del Comune per l’ampliamento dello stabilimento

      La fabbrica di bombe, al centro di tantissime polemiche nel corso degli ultimi anni dopo che si è scoperto che gli ordigni qui prodotti venivano utilizzato contro i civili in Yemen, non lascia la Sardegna, anzi raddoppia.

      https://www.vistanet.it/cagliari/2018/11/14/iglesias-la-fabbrica-di-bombe-rwm-raddoppia-ok-del-comune-per-lampliamento-