PAGINA 3 - Rai Radio 3

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  • #Stefano_Allievi: I confini non sono muri ma luoghi di passaggio

    «Potersi muovere è un fattore imprescindibile dello sviluppo economico e culturale. Si muovono le idee, il denaro, le merci. Gli uomini e le donne quando si muovono imparano delle cose, quando si separano dai loro luoghi d’origine vivono nuove esperienze. E spesso possono anche decidere di riportarle al loro Paese se torneranno». Incontriamo Stefano Allievi, sociologo dell’Università di Padova, all’indomani dell’uscita di 5 cose che tutti dovremmo sapere sull’immigrazione (e una da fare). Un libricino di 64 pagine edito da Laterza, dal costo di soli 3 euro, che risponde con parole semplici ed esempi chiari alle domande e ai dubbi più frequenti sul tema del secolo, che la politica, a livello nazionale ed europeo, non riesce a (o non vuole) risolvere.

    Da dove bisogna partire per parlare di immigrazione senza tare ideologiche o di altro tipo?
    Ci sono ambiti legati al tema dei migranti su cui non si riflette mai abbastanza. Quando parliamo di demografia si tende a enfatizzare soprattutto quella dell’Africa. “Fanno tanti figli, la loro popolazione si raddoppierà, la Nigeria sostituirà gli Usa come terzo Paese più popoloso al mondo”, e questo suscita terrore: “Non possiamo accogliere tutti”. E si perde di vista quello che comporta il calo demografico in atto in Europa. Dove per la prima volta nella storia si è invertita la piramide demografica per cause naturali, cioè non per effetto di una guerra, e i giovani sono molto meno degli anziani. Nelle regioni del nord per ogni under 15 ci sono due over 65. Già oggi, non in futuro. In Africa, invece, metà della popolazione ha meno di 15 anni.

    https://left.it/2018/10/12/stefano-allievi-i-confini-non-sono-muri-ma-luoghi-di-passaggio
    #frontières #passage #murs

    • Stefano Allievi, 5 cose che tutti dovremmo sapere sull’immigrazione (e una cosa da fare)

      Per ragionare sulle cause delle migrazioni potremmo limitarci a citare, in ordine sparso, alcune parole: guerre, fame, dittature, persecuzioni (per motivi etnici, religiosi, razziali, politici), ingiustizie subìte, diseguaglianze, calamità naturali (incluse quelle dovute al cambiamento climatico), crescita demografica non accompagnata da crescita economica. A cui va aggiunto il puro e semplice sfruttamento delle risorse (alimentari, minerarie, ecc.), fatto quasi sempre per conto terzi: anche quando gli sfruttatori sono i governi – spesso militari – dei rispettivi paesi, i terzi sono, di solito, aziende dei paesi sviluppati; e come dice un saggio proverbio africano, “se uno percuote un alveare per portare via il miele, le api lo inseguono”. Quella che precede è la lista, per difetto, dei cosiddetti push factors, o fattori di spinta. Ci accontenteremo di fare un cenno solo alle diseguaglianze di reddito e alla demografia.

      Le differenze di reddito non spiegano tutto, delle migrazioni. Esistono da sempre. E nonostante questo la maggior parte delle persone preferisce rimanere vicino alla sua famiglia, tra la sua gente, la sua cultura, con chi parla la sua lingua. Ma pesano. Il PIL pro capite (il prodotto interno lordo – ovvero la ricchezza del paese – suddiviso per il numero degli abitanti), è in Italia di 30.507 dollari l’anno.

      Quello medio dell’Unione Europea è di 39.317 dollari, quello dell’Africa subsahariana è di 3.837 dollari, e in alcuni dei paesi da cui provengono coloro che tentano di sbarcare in Italia viaggia al di sotto dei mille dollari l’anno (411 in Niger, 469 in Gambia, 795 in Etiopia, 830 in Mali, 852 in Ciad). Ora, se le diseguaglianze di reddito bastassero a spiegare le migrazioni, l’Africa sarebbe già da decenni in Europa, l’Europa negli Stati Uniti (dove il PIL pro capite è di oltre 57.000 dollari, quasi 20.000 in più che in Europa), e gli Stati Uniti a loro volta in Lussemburgo (dove è di 103.000, il più alto del mondo). E non bastano le barriere alle immigrazioni per spiegare perché non sia così: in Europa c’è la libera circolazione della manodopera, e il reddito della Germania è oltre il doppio di quello della Grecia (e i servizi e il welfare molto migliori), eppure i greci – nonostante la drammatica crisi che hanno vissuto in questi anni – in maggioranza non sono andati in Germania, e sono rimasti a casa loro (né gli altri europei sono finiti tutti in Lussemburgo, peraltro). Ma serve a spiegare perché le migrazioni siano in aumento. Del resto, chiedetevelo da soli: quanti di voi sarebbero disposti ad emigrare sapendo che, a parità di lavoro, il vostro reddito potenziale potrebbe essere di dieci o addirittura cinquanta volte tanto? In molti non stareste neanche lì a chiedervi se il costo della vita altrove è più alto... Eppure oggi – grazie ai media globali e alla rete – la ricchezza degli altri la possiamo letteralmente “vedere”, più di quanto capitasse ai nostri nonni.

      Poi c’è la demografia. La popolazione del mondo cresce: molto, e in maniera squilibrata.

      In Europa, ad esempio (Italia inclusa), diminuisce, e stiamo ogni giorno più larghi. In Africa invece cresce tumultuosamente: entro il 2050 sarà il doppio di oggi. La Nigeria, per dire, oggi settimo paese del mondo per popolazione, prima del 2050 scalzerà gli Stati Uniti dal loro tradizionale terzo posto: e già oggi i 10 Stati più giovani del mondo, con un’età media intorno ai vent’anni, sono tutti africani. La sproporzione si vede bene sul piano storico: all’inizio del

      Novecento era europeo un abitante del mondo su quattro; nel 2050 lo sarà uno su quattordici.

      Facciamo meno figli, e viviamo più a lungo, di conseguenza la popolazione invecchia, e gli anziani sono più dei giovani – i demografi la chiamano inversione della piramide della popolazione, è la prima volta che accade nella storia per motivi naturali, e ha effetti drammatici.

      Non è solo questione di risorse, di chi pagherà le pensioni e le cure mediche, sempre più care man mano che cresce l’età della popolazione – uno squilibrio che mette sulle spalle delle giovani generazioni un fardello enorme. È anche questione del tipo di paese che si va configurando: non è dagli anziani che ci aspettiamo – e che storicamente proviene – la creatività, l’innovazione, l’apertura mentale, il desiderio di scoprire nuovi orizzonti... E nemmeno il mettersi in gioco economicamente con l’invenzione di imprese, il lancio di start up, l’assunzione di manodopera. Dunque una società più anziana è anche una società depressiva e recessiva – consuma più di quello che produce, oltre che essere più triste e passiva: diciamolo, è più vicina alla morte, e vive nella sua ombra. Per invertire lo scenario occorre avere, come sempre nella storia dell’umanità, più popolazione giovane.

      Certo, potrebbe essere popolazione autoctona. Ma, semplicemente, non c’è. Per motivi legati agli stili di vita e alle trasformazioni culturali – e, per i ceti meno abbienti, anche ai costi – l’aumento del benessere ha finora portato con sé la riduzione della natalità. A spingere le migrazioni ci sono anche, oltre ai fattori di espulsione, i fattori di attrazione, i pull factors: il differenziale economico e salariale l’abbiamo già citato. Ma conta anche l’immaginario che abbiamo sugli altri paesi, che crediamo più liberi, e più ricchi di opportunità, non solo di denaro. Libertà di muoversi, di sfuggire al controllo sociale della famiglia e della comunità, di studiare quello che si vuole (e di poterlo fare perché aiutati dallo Stato, anche se si è poveri), di fare esperienze (tutte quelle legate alla condizione giovanile, incluse quelle sessuali, in società più aperte da questo punto di vista), di viaggiare, di trovare più opportunità di lavoro (per il semplice fatto che la società è più complessa e il mercato del lavoro più ampio e articolato: non ci sono solo quei tre o quattro mestieri a cui si è inevitabilmente destinati...), di essere valutati rispetto al proprio merito e non alla propria origine, di sfuggire alla corruzione dei governi e delle burocrazie, che può essere oppressiva e soffocante, fino al semplice desiderio di sposare chi si vuole, e di sperimentare le proprie capacità cercando nuove occasioni, diversificate quanto lo sono le forme del desiderio. E poi, magari – li sottovalutiamo, questi fattori, noi che li diamo per scontati –, di avere scuole e ospedali migliori e quasi gratuiti, l’acqua corrente in casa, gli elettrodomestici, i videogiochi, quattro soldi in tasca, negozi pieni di merci, le vacanze... L’Europa non se ne è accorta, ma è diventata l’America dell’Africa (e di altre aree del mondo): o per lo meno, un’America più vicina e meno irraggiungibile dell’altra, che resta ancora la più ambita. Per molti, nel mondo, la nostra è una terra dei sogni. Il fatto che non ce ne accorgiamo ci dà la misura di quanto l’Europa non sia all’altezza del proprio ruolo.

      Ecco perché non sarà facile fermare le migrazioni. Ammesso che sia auspicabile. E, a proposito: sareste d’accordo a fermare anche quelle in uscita? Perché è giusto capire in quale direzione stiamo contribuendo a far andare il mondo: è probabile infatti che saremo ripagati con la stessa moneta, se le frontiere, anziché luoghi di attraversamento, diventano muri. Ce ne stiamo già accorgendo.
      Ecco perché, anche, è necessario lavorare sulle cause delle migrazioni, sugli equilibri e gli squilibri globali, sulle ingiustizie planetarie. In una logica di scambio.


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