Il Sud Italia si sta svuotando. Questa è la migrazione che dovrebbe terrorizzarti.

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  • Migranti, 2016: hanno cercato fortuna all’estero 285mila italiani. Più degli stranieri sbarcati sulla Penisola

    Le anticipazioni del Dossier 2017 del centro studi Idos. Se ne sono andati diplomati, laureati e dottori di ricerca nel cui percorso di studi lo Stato aveva investito quasi 9 miliardi, e la stima è per difetto. Due su tre non ritornano. Il danno è in parte compensato dai flussi d’ingresso degli immigrati: sono sempre di più quelli con alti livelli di istruzione.

    https://dirittiumani1.blogspot.ch/2017/07/migranti-2016-hanno-cercato-fortuna.html
    #Italie #solde_migratoire #migrations #émigration #immigration #statistiques #chiffres #2016

    • Lavoro, dal 2008 al 2015 mezzo milione di italiani fuggiti all’estero. E ora se ne vanno anche gli immigrati dell’Est Europa

      Partono soprattutto i giovani laureati, ma anche stranieri che non trovano più economicamente attraente il nostro Paese. Lo conferma il rapporto «Il lavoro dove c’è» dell’Osservatorio statistico dei Consulenti del lavoro

      http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/06/21/lavoro-dal-2008-al-2015-mezzo-milione-di-italiani-fuggiti-allestero-e-ora-se-ne-vanno-anche-gli-immigrati-dellest-europa/3676861
      #2015

    • Se ne vanno giovani e laureati: la nostra vita di genitori nell’Italia dei figli lontani

      Nel 2015 sono partiti più di 100 mila, la metà hanno meno di 40 anni. Un terzo sono laureati. Ammaniti: il senso di colpa dei genitori.


      http://www.corriere.it/scuola/studiare-e-lavorare-all-estero/notizie/se-ne-vanno-giovani-laureati-nostra-vita-genitori-nell-italia-figli-lontani

    • Petit commentaire sur le #vocabulaire #terminologie...

      Pour les jeunes Tunisiens qui font la même chose que les jeunes Italiens, on parle de #émigration_clandestine :
      En Tunisie, le mal-être des jeunes se traduit par un pic d’émigration clandestine

      Hafedh a « vu la mort en face » en tentant d’émigrer clandestinement vers l’Europe, mais ce Tunisien de 26 ans n’a toujours qu’une idée en tête : reprendre la mer. En septembre, les départs ont connu un pic, reflétant un mal-être persistant chez les jeunes.


      https://www.courrierinternational.com/depeche/en-tunisie-le-mal-etre-des-jeunes-se-traduit-par-un-pic-demig
      #mots

    • Fuga dall’Italia, è emorragia di talenti: nel 2016 via 50mila giovani tra i 18 e i 34 anni

      Secondo il rapporto della fondazione Migrantes sono 5 milioni i connazionali residenti all’estero, +3,3% in un anno. Aumentano le partenze ’di famiglia’ e quelle degli under 35. Tra le mete più ricercate il Regno Unito e gli Emirati Arabi

      http://www.repubblica.it/cronaca/2017/10/17/news/emigrati_italiani_nel_mondo_rapporto_migrantes_record_fuga_all_estero-178
      #2016

    • L’Europa dei nuovi emigranti. In 18 milioni cambiano Stato

      Nicola Gatta ha iniziato il 2018 come aveva finito il 2017: mantenendo lo stipendio a zero per se stesso e tutti i suoi assessori. I risparmi servono per far salire il numero dei residenti del suo Comune dai 2.802 attuali, o almeno a evitare nuovi cali. Il sindaco offre duemila euro l’anno — sconti su tassa per i rifiuti, mensa scolastica o asilo nido dei figli — a qualunque famiglia europea decida di stabilirsi a Candela. La condizione è di non provenire da villaggi piccoli come Candela stessa: Gatta non vorrebbe mai spopolarli come è accaduto al suo Comune quando, in questi anni, centinaia di giovani se ne sono andati in Italia del Nord, Germania o Regno Unito.

      in Europa milioni di persone si stanno spostando sempre di più dai territori poveri di reddito e di opportunità — svuotandoli — verso le aree a densità sempre più alta di lavoro, conoscenze e reti sociali.

      In Europa invece la Grande recessione ha innescato una trasformazione del costume che prosegue con la ripresa: secondo Eurostat, nel 2016 vivevano in un altro Stato dell’Unione almeno 18 milioni di europei, il 12,5% più di due anni prima.

      Nel 2015 (ultimo anno registrato da Eurostat) si sono trasferite da un Paese europeo a un altro 1,46 milioni di persone, il 13% più di due anni prima. Gli espatriati europei, oltre il 3% della popolazione, sono la quarta o quinta nazione dell’area euro e a questi ritmi raddoppieranno in dieci anni.

      http://www.corriere.it/digital-edition/CORRIEREFC_NAZIONALE_WEB/2018/01/02/11/leuropa-dei-nuovi-emigranti-in-18-milioni-cambiano-stato_U43420152120325xhH

      #démographie #Italie #europe #dépopulation #migrations #politique_migratoire #attractivité #migrations_en_europe #inégalités #centre #périphérie #géographie_du_vide #géographie_du_plein #exode_rural #émigration #Italie #Bulgarie #Grèce #Roumanie #statistiques #chiffres #Allemagne

    • Oltre 250mila italiani emigrano all’estero, quasi quanti nel Dopoguerra

      Giambattista Vico parlava di corsi e ricorsi storici. Con questa formula il filosofo napoletano sintetizzava la capacità di certe situazioni di ripetersi nella vita degli essere umani. Il Dossier Statistico Immigrazione 2017 elaborato dal centro studi e ricerche Idos e Confronti registra una di queste situazioni: oggi gli emigrati italiani sono tanti quanti erano nell’immediato dopoguerra. In numero, oltre 250.000 l’anno. Corsi e ricorsi della storia, appunto.

      Prima il calo poi la crisi del 2008 e l’inversione di tendenza
      L’emigrazione degli italiani all’estero, dopo gli intensi movimenti degli anni ’50 e ’60, è andato ridimensionandosi negli anni ’70 e fortemente riducendosi nei tre decenni successivi, fino a collocarsi al di sotto delle 40.000 unità annue. Invece, a partire dalla crisi del 2008 e specialmente nell’ultimo triennio, le partenze hanno ripreso vigore e hanno raggiunto gli elevati livelli postbellici, quando erano poco meno di 300.000 l’anno gli italiani in uscita.

      Oltre 114mila persone sono andate all’estero nel 2015
      Sotto l’impatto dell’ultima crisi economica, che l’Italia fa ancora fatica a superare, i trasferimenti all’estero hanno raggiunto le 102.000 unità nel 2015 e le 114.000 unità nel 2016, mentre i rientri si attestano sui 30.000 casi l’anno.

      La fuga dei cervelli
      A emigrare - sottolinea il report - sono sempre più persone giovani con un livello di istruzione superiore. Tra gli italiani con più di 25 anni, registrati nel 2002 in uscita per l’estero, il 51% aveva la licenza media, il 37,1% il diploma e l’11,9% la laurea ma già nel 2013 l’Istat ha riscontrato una modifica radicale dei livelli di istruzione tra le persone in uscita: il 34,6% con la licenza media, il 34,8% con il diploma e il 30,0% con la laurea, per cui si può stimare che nel 2016, su 114.000 italiani emigrati, siano 39.000 i diplomati e 34.000 i laureati.

      Germania e Regno Unito le mete preferite
      Le destinazioni europee più ricorrenti sono la Germania e la Gran Bretagna; quindi, a seguire, l’Austria, il Belgio, la Francia, il Lussemburgo, i Paesi Bassi e la Svizzera (in Europa dove si indirizzano circa i tre quarti delle uscite) mentre, oltreoceano, l’Argentina, il Brasile, il Canada, gli Stati Uniti e il Venezuela.

      L’investimento (perso) da parte dello Stato
      Ogni italiano che emigra rappresenta un investimento per il paese (oltre che per la famiglia): 90.000 euro un diplomato, 158.000 o 170.000 un laureato (rispettivamente laurea triennale o magistrale) e 228.000 un dottore di ricerca, come risulta da una ricerca congiunta condotta nel 2016 da Idos e dall’Istituto di Studi Politici “S. Pio V” sulla base di dati Ocse.

      I flussi effettivi sono ancora più elevati
      A rendere ancora più allarmante il quadro tratteggiato da questo dossier è un’uteriore considerazione: i flussi effettivi sono ben più elevati rispetto a quelli registrati dalle anagrafi comunali, come risulta dagli archivi statistici dei paesi di destinazione, specialmente della Germania e della Gran Bretagna (un passaggio obbligato per chi voglia inserirsi in loco e provvedere alla registrazioni di un contratto, alla copertura previdenziale, all’acquisizione della residenza e così via).

      Il centro studi: i dati Istat vanno aumentati di 2,5 volte
      Il centro studi spiega che rispetto ai dati dello Statistisches Bundesamt tedesco e del registro previdenziale britannico (National Insurance Number), le cancellazioni anagrafiche rilevate in Italia rappresentano appena un terzo degli italiani effettivamente iscritti. Pertanto, i dati dell’Istat sui trasferimenti all’estero dovrebbero essere aumentati almeno di 2,5 volte e di conseguenza nel 2016 si passerebbe da 114.000 cancellazioni a 285.000 trasferimenti all’estero, un livello pari ai flussi dell’immediato dopoguerra e a quelli di fine Ottocento. Peraltro, si legge ancora nel dossier statistico, non va dimenticato che nella stessa Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero il numero dei nuovi registrati nel 2016 (225.663) è più alto rispetto ai dati Istat. Naturalmente, andrebbe effettuata una maggiorazione anche del numero degli espatriati ufficialmente nel 2008-2016, senz’altro superiore ai casi registrati (624.000).

      L’Ocse: Italia ottava in classifica
      Il problema dei tanti italiani che abbandonano l’Italia è stato segnalato qualche giorno fa anche dall’Ocse. Nell’ultimo report sui migranti l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economici ha fatto presente che l’Italia è tornata a essere ai primi posti mondiali come Paese d’origine degli immigrati. Secondo l’Ocse, la Penisola è ottava nella graduatoria mondiale dei Paesi di provenienza di nuovi immigrati. Al primo posto c’è la Cina, davanti a Siria, Romania, Polonia e India. L’Italia è subito dopo il Messico e davanti a Viet Nam e Afghanistan, con un aumento degli emigrati dalla media di 87mila nel decennio 2005-14 a 154mila nel 2014 e a 171mila nel 2015, pari al 2,5% degli afflussi nell’Ocse. In 10 anni l’Italia è “salita” di 5 posti nel ranking di quanti lasciano il proprio Paese per cercare migliori fortune altrove.

      http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-07-06/oltre-250000-italiani-emigrano-all-estero-erano-300000-dopoguerra-09405

    • Il Sud Italia si sta svuotando. Questa è la migrazione che dovrebbe terrorizzarti.

      È piuttosto evidente che il pallino di questa era all’insegna del “cambiamento” siano gli immigrati e tutto ciò che li concerne. La gente è stanca, bisogna fermare l’invasione, c’è un complotto per sterminare la razza europea attraverso sbarchi di africani fannulloni, ladri e stupratori. Si arriva al punto di usare 177 persone come materiale di scambio per gare tra poteri forti e di arrestare a scopi di propaganda gli unici fautori di modelli virtuosi per un’idea di accoglienza e integrazione che non si basi né sullo sfruttamento né su una qualche forma di reclusione temporanea. In tutto ciò, sembra che le conversazioni da bar su quanto questi neri ci stiano rubando lavoro e identità – quelle stesse chiacchiere che portano il partito di Salvini al 33,5% – raramente tengano conto di un dato sull’emigrazione che invece sì, sta incidendo negativamente sul futuro dell’Italia. E non è l’emigrazione dal Continente nero su barconi carichi di delinquenti, ma quella fatta da ragazzi e ragazze con un regolarissimo biglietto Ryanair e una chat di gruppo su Whatsapp con i nuovi coinquilini.

      Il Sud dell’Italia si sta svuotando sempre di più dei suoi giovani, e questa tendenza non prospetta altro che una progressiva desertificazione di un’intera area del nostro Paese. Nei 7 anni della crisi, dal 2008 al 2015, il saldo migratorio netto è stato di 653mila unità: 478mila giovani di cui 133mila laureati, con le donne in misura maggiore rispetto agli uomini. A questi si accompagna una perdita di popolazione di 2 mila unità nella fascia di 0-4 anni in conseguenza al flusso di bambini che si trasferiscono con i genitori. E se l’idea di trovarsi in un inferno terrestre dove gli africani ci sostituiscono definitivamente con le loro barbarie viene visto come un pericolo in atto, non vedo come questa previsione non possa suscitare altrettanto sgomento, considerando anche che il piano Kalergi è un’invenzione, mentre lo spopolamento del Mezzogiorno, purtroppo, no.

      Che una migrazione interna all’Italia sia sempre esistita lo sappiamo tutti: trovare qualcuno al Sud che abbia almeno un parente che negli anni ’60 è andato a lavorare alla Fiat è piuttosto semplice, così come al Nord abbondano i cognomi meridionali e le estati “dai parenti di giù”. Ma allora era un fenomeno diverso, si trattava quasi sempre di poveri che cercavano lavoro nelle zone industrializzate d’Italia, e molto spesso anche all’estero. Capita ancora oggi di incontrare in spiagge del Sud intere famiglie dall’aspetto decisamente poco nord-europeo che alternano dialetto stretto a tedesco, francese o addirittura fiammingo, creando un cortocircuito sorprendente. Ma la questione dell’immigrazione al Nord oggi è diversa, perché non coinvolge più operai e contadini ma neo-diplomati in procinto di cominciare l’università o comunque giovani specializzati. È un campione sociale diverso da quello di sessant’anni fa e il rischio che ne consegue è inquietante: mentre prima anche chi rimaneva al Sud continuava comunque a fare figli, oggi il tasso di natalità è molto più basso. In pratica, c’è molta più gente che muore di quanta decida di mettere al mondo nuovi esseri umani. I giovani piuttosto che rimanere a studiare a casa propria preferiscono andare in una città dove il livello universitario è ritenuto più alto e soprattutto dove una volta laureati avranno un’effettiva prospettiva di lavoro, o quantomeno la speranza di una prospettiva, compresa quella di mettere su una famiglia. Nel frattempo, nelle regioni da cui se ne sono andati non c’è un ricambio generazionale sufficiente a garantire che questo fenomeno non implichi una vera e propria desertificazione. Le cavallette magari non arriveranno, ma i paesi fantasma sì.

      La questione non è tanto quella di biasimare la scelta di chi decide di andare a studiare in un’altra città, come a dire che si sta abbandonando la nave. Anzi, è un fenomeno comprensibile: a diciotto o diciannove anni volersi misurare con un posto diverso da casa propria, in un ateneo che offre qualcosa che altrove non c’è è una scelta che non ha nessun motivo per essere disapprovata. Avendo i mezzi familiari che lo consentono e l’entusiasmo della matricola che fa andare oltre alla perenne pila di piatti sporchi nel lavello della nuova casa in affitto, ben venga. Non è nemmeno un problema legato al fatto che si possano preferire delle città e dei modi di vivere diversi da quelli da cui si proviene, o che il paese sperduto tra le montagne dell’Appennino calabro stia stretto. Anche chi decide di rimanere in molti casi può farlo perché dispone di mezzi economici che glielo consentono, mascherando con un velo di sacrificio per la propria terra quello che in realtà è una semplice condizione di privilegio. Se vieni da una famiglia di avvocati ed erediti lo studio dei tuoi genitori, non è che tu stia compiendo chissà quale missione da martire nel restare, ed è normale che se hai già tutto pronto e apparecchiato per il futuro puoi goderti proprio quei vantaggi che ti offre il Meridione, tra sole, mare, costi della vita bassi e grandi abbuffate.

      Piuttosto, la questione riguarda l’idea di partenza che accompagna chi lascia il Meridione per cui è impossibile tornarvi, perché tanto chi lo trova il lavoro in una parte d’Italia in cui la disoccupazione è doppia rispetto al resto del Paese, in cui già si fa fatica. A perderci, come sempre, sono quei giovani che non hanno abbastanza mezzi in partenza da poter decidere dove stare, che lavoro fare. Ci si trova così davanti a un bivio per cui alla prospettiva di un non-futuro si accetta di vivere lontani dalla propria famiglia, dai propri amici storici che si sparpagliano tra le regioni più promettenti, accontentandosi di quegli incontri programmati per tutti nello stesso momento, e che si concludono sempre con il solito genere di domanda, “E a Pasqua scendi?”. Sì, è vero che c’è chi va via da casa propria anche per scappare da situazioni opprimenti, e trova nella città che lo accoglie una stabilità soddisfacente, una nuova vita molto più adatta alle proprie esigenze, ma – incredibile a dirsi – c’è anche chi vorrebbe fare il lavoro che ha sempre sognato nel posto dove è nato.

      Non si tratta dunque di qualche becero revanscismo neo-borbonico per cui “Viva il Sud, il mare e il sole”, ma semplicemente della realtà di un divario che dagli anni di Franchetti e Sonnino non è ancora stato colmato, un dislivello che priva chi nasce in queste regioni di un banale spazio di manovra esistenziale che dovrebbe essere consentito a chiunque. Che le colpe ricadano su diversi fattori, specialmente quelli interni al Meridione, è noto: sin dall’Ottocento le sue classi dirigenti hanno usato la scusa stessa dell’arretratezza per legittimare un immobilismo sociale, civile ed economico che si è nutrito di voto clientelare e criminalità organizzata. Ma che le conseguenze di questo dislivello si abbattano in particolare sui giovani è invece drammatico.

      Le statistiche Eurostat del 2017 danno un’idea più palpabile di questa situazione: la Calabria ha un tasso di disoccupazione giovanile del 55,6%, la Campania del 54,7%, la Sicilia – in calo rispetto all’anno precedente – del 52,9%. Per capirci meglio, il Nord Est ha un tasso del 20,6%. E così si alimenta quel circolo vizioso per cui meno si lavora, più università si trovano costrette a ridimensionare i costi, più giovani scappano via. I poli decentrati in Sicilia, ad esempio, se in un primo momento sembravano poter dare nuova vita a zone più esposte alla decrescita, adesso cominciano a chiudere per mancanza di fondi e costi troppi elevati, come il caso di Beni culturali e archeologia ad Agrigento, distaccamento dell’Università di Palermo. Quale posto migliore per studiare questo genere di materia se non in uno dei siti archeologici più importanti d’Europa. E invece, niente da fare.

      Tra le altre cose, c’è anche un altro paradosso che si verifica: come rileva un articolo di Limes, anche quando si parla di città in cui le cose funzionano discretamente bene, non si verifica nessun tipo di affluenza da altre zone d’Italia. È una spiegazione concreta alla frustrante sensazione con cui ho sempre avuto a che fare da quando vivo lontano dalla mia città d’origine. Sono nata e cresciuta a Catania, un centro mediamente grande dove nonostante tutti i suoi molteplici difetti si può stare anche molto bene, si può frequentare l’università, si possono prendere ogni giorno voli per qualsiasi aeroporto del mondo. Non è New York, ma non è nemmeno quel buco nero di degrado e tristezza che si è soliti immaginare quando si pensa alle città del Sud: in termini di vivibilità ha diversi vantaggi, dal clima alla varietà sia del patrimonio artistico che naturale, è una di quelle città che si definiscono “a misura d’uomo”, ha una sua economia. Quando sono andata via, l’ho fatto perché volevo misurarmi con qualcosa di diverso della mia cameretta con i poster dell’adolescenza ancora attaccati al muro, ma avrei potuto tranquillamente studiare anche a due passi da casa mia. Eppure, le uniche persone nate da Roma in su che si sono trasferite in questa città che ho conosciuto negli anni sono stranieri rimasti folgorati da qualche visione in stile Italienische Reise. Ma nonostante le eccezioni, è lecito chiedersi perché mai un giovane che ha la possibilità di vivere altrove dovrebbe scegliere di trasferirsi in quella metà di penisola in cui i treni ad alta velocità si trasformano in carri bestiame di fine Ottocento.

      In realtà, i motivi per cui varrebbe la pena tornare o trasferirsi possono esistere: personalmente, ad esempio, penso che grazie a internet e alla possibilità di un tipo di approccio al lavoro diverso che ci consente di intraprendere, l’idea di potersi creare un futuro in posti che non sono famosi per la loro sovrabbondanza di possibilità si fa in certi casi un po’ più concreta. Certo, non penso che il futuro di tutti quei minuscoli centri che si trovano tra una città e un’altra sia dei più rosei, come non credo che sia né saggio né realistico credere di poter arginare un fenomeno inarrestabile come l’afflusso nelle metropoli. Allo stesso tempo però, al di là delle infinite promesse di rinascita del Sud – non ultime quelle della fantasiosa Ministra del Sud Barbara Lezzi – e delle oggettive responsabilità dei suoi abitanti presenti ma soprattutto passati, ci sono dei vuoti professionali che potrebbero essere riempiti proprio da chi è andato a formarsi in zone economicamente più progredite. Ci sarebbero delle risorse gestibili in modo diverso da come è successo finora – come il turismo o l’agricoltura – che magari potrebbero dare spazio proprio a una parte di quei giovani che sono scappati via da una steppa desolata e arida. È una scelta audace, non lo nego, ma potrebbe essere l’unico modo sano per attivare un circolo virtuoso di progresso e crescita. Non so dire se esistano soluzioni davvero efficaci per fare sì che quella distanza atavica tra Nord e Sud si accorci fino a sparire, o se si tratti di un’anatema insanabile che porterà davvero allo svuotamento totale di una porzione enorme d’Italia, ma mi sento in diritto di affermare che il fatto che ancora oggi si vada via da un posto per necessità e non per scelta è inaccettabile, di qualsiasi “Meridione” del mondo si parli.

      Non tutti dunque hanno la fortuna di poter tornare da dove vengono e provare a investire per il proprio futuro, c’è chi una volta andato via non ha altra scelta se non quella di accettare questo compromesso. Quando però mi trovo a parlare con i miei coetanei che sono andati fuori per necessità, molto spesso sento la solita frase: “Io ci tornerei pure giù, ma poi cosa faccio?”. E me lo chiedo spesso pure io quando fantastico su un possibile futuro nella città dove sono nata e che mi piace, “Ma poi cosa faccio?”. Da qualche parte però si deve pur cominciare, e come prima cosa direi che sarebbe il caso di smetterla di lamentarci per chi cerca di migliorare la propria vita andando via dal suo Paese e renderci conto che succede pure a noi, con una forma e delle cause diverse, ma con una sostanza pressoché identica. Lasciare casa propria deve essere una scelta, non un’imposizione, da qualsiasi angolo del mondo si provenga. Quando sulla terra non ci sarà più acqua allora magari avrà senso spostarci tutti sulla luna, ma fino a quando l’acqua c’è e non la si vuole trovare per negligenza allora non c’è nessun motivo di andarsene. Io non credo che il Sud Italia sia ancora completamente a secco, anche se da molti anni ormai abbiamo lasciato i rubinetti aperti.


      https://thevision.com/attualita/sud-migrazione
      #Italie_du_sud

    • 28mila laureati se ne vanno ogni anno. E no, non è retorica: è la prima emergenza dell’Italia

      Sembra un problema da poco, è un disastro. Perché se i cervelli se ne vanno, non ne arrivano. E se non c’è un sistema a misura del talento, nessuno ha più incentivi a diventarlo. E se studiare non serve, non ha senso spendere in istruzione. Rimane solo una domanda: come si torna a crescere?

      Potremmo chiamarla la grande evasione: 28mila laureati hanno lasciato l’Italia nel 2017, il 4% in più rispetto al 2016. Lo dice l’Istat, nel suo report sulla mobilità interna e le migrazioni internazionali della popolazione residente, presentato ieri, 14 dicembre 2018. Eccovela, l’Italia dei cervelli in fuga, o dei suoi migranti economici, se preferite. E no, non è solo una retorica antipatica e snob. Al contrario, è il problema dei problemi del nostro Paese, il sintomo primo della nostra crisi senza sbocchi né vie d’uscita, la tessera del domino che cadendo, le fa crollare tutte.

      Lo è, banalmente, perché più cervelli se ne vanno, meno ne arrivano. Lo dice la logica, prima della sociologia: ognuno sta bene in mezzo ai suoi simili, e difficilmente un talento si sentirà attratto da un Paese che fa scappare le sue intelligenze. E infatti in Italia ci sono solo 500mila laureati stranieri, il 7% sul totale, contro il 10% della Francia, l’11% della Germania, il 17% del Regno Unito, tutti Paesi che hanno molti più laureati di noi.

      Lo è, di conseguenza, perché più laureati se ne vanno, meno gente decide di laurearsi. Anche in questo caso, tutto è perfettamente logico: se il mercato del lavoro italiano non assorbe i laureati e se I lavoratori sovraistruiti rispetto alle mansioni che svolgono sono il 20%, uno ogni cinque, che senso ha laurearsi? Domanda perfettamente legittima. La cui risposta sta nelle 65mila immatricolazioni in meno tra il 2000 e il 2015 e nel dato che ci vede all’ultimo posto come numero di laureati tra i 30 e 34 anni: 23,9% rispetto alla media Ue del 38%.

      Se a un Paese che non ha materie prime, risorse energetiche, riserve illimitate di capitali finanziari togli il capitale umano, il migliore che ha, come diavolo torna a crescere?

      Lo è, al pari, perché meno immatricolazion e meno laureati non risolvono il problema del mancato incrocio tra domanda e offerta di lavoro, semmai lo aggravano. Viva le eccezioni, ma se l’Italia è il Paese della produttività al palo, forse una parte del problema sta anche nel fatto che solo il 25% dei suoi manager d’impresa ha la laurea in tasca, contro una media europea del 54%. E pure nel fatto che nel nostro Paese i ricercatori sono due volte meno che in Francia e Regno Unito, tre volte meno rispetto alla Germania, nove volte meno rispetto al Giappone, tredici volte meno degli Stati Uniti d’America. Date laureati alle imprese, magari dategli pure il timone, e innoveranno le loro strategie, cambieranno strada, riconosceranno il talento e attrarranno i loro simili. Cacciateli fuori, e continuerete per la vostra strada mentre tutto attorno cambia, semplicemente perché non avete gli strumenti per intraprendere la strada nuova.

      Lo è, infine, perché tutto questo è uno spreco enorme di risorse. Perché il nostro petrolio si chiama capitale umano e siamo come una potenza petrolifera che regala il proprio oro nero anziché sfruttarlo per arricchirsi. C’è chi ha fatto i conti ed è arrivato a dire che l’Italia, facendo scappare i suoi cervelli, ha perso sinora 42,8 miliardi di investimenti privati - leggi: famigliari - in capitale umano. Cui si aggiungono circa 15 miliardi ogni anno di investimenti pubblici regalati ai Paesi in cui i nostri giovani cervelli vanno a lavorare. Roba da far venir voglia di smettere di investire nell’istruzione. E infatti, il governo del cambiamento, in legge di bilancio, ha messo sul piatto 7 miliardi per i pensionati, 9 miliardi per i sussidi di disoccupazione e niente per l’istruzione.

      Tutto torna. Peraltro, se il numero dei laureati continua a diminuire, e quei pochi scappano, nessuno ne chiederà mai conto, né in piazza, né nel segreto dell’urna. Rimane un solo dubbio: se a un Paese che non ha materie prime, risorse energetiche, riserve illimitate di capitali finanziari togli il capitale umano, il migliore che ha, come diavolo torna a crescere? Quando avete finito gli alibi, con calma, provate a rispondere.

      https://www.linkiesta.it/it/article/2018/12/15/cervelli-in-fuga-28mila-laureati-via-dall-italia-dati-istat/40449
      #2017

    • Talenti in fuga: come riportarli a casa?

      Nel nostro Paese, resta acceso il dibattito intorno alla migrazione giovanile e puntato il dito contro un mercato del lavoro incapace di rispondere alla domanda di occupazione.

      Ben venga questo dibattito. Ma attenzione ad un dato: le lancette del tempo non sono ritornate al 1876, quando ha avuto avvio quella che la storia ha conosciuto come la più massiccia emigrazione di italiani, conclusasi nel 1976 con 26 milioni di espatri.

      Ed infatti, se nel passato il nostro Paese ha esportato giovane manovalanza, oggi esporta in gran parte giovani cervelli.

      Secondo il rapporto Istat nel 2018, i migranti italiani con più di 24 anni, nel corso del 2016, ammontano a circa 54 mila unità e nella fascia di giovani dai 25 ai 39 anni, quasi il 30 per cento è in possesso di un titolo universitario o post-universitario.

      Le destinazioni europee più ricorrenti sono la Germania e la Gran Bretagna; quindi, a seguire, l’Austria, il Belgio, la Francia, il Lussemburgo, i Paesi Bassi e la Svizzera mentre, oltreoceano, l’Argentina, il Brasile, il Canada, gli Stati Uniti e il Venezuela.

      Si tratta in larga misura di manager, ricercatori, imprenditori. Secondo i dati della Commissione europea, dal 2005 al 2015, hanno lasciato l’Italia per andare a lavorare nel Regno Unito 1.632 architetti.

      Cosa significa tutto questo? Le risposte sono due.

      La prima che il nostro Paese è popolato da giovani altamente talentuosi, in grado di diventare – malgrado gli ostacoli del caso – brillanti professionisti. La seconda che il nostro mercato del lavoro non è in grado di offrire a tutti i “cervelli” occupazioni in linea con le competenze acquisite.

      Un dramma per alcuni versi, un’andatura fisiologica per altri. Un mercato del lavoro infatti, per funzionare, ha bisogno di “cervelli” ma anche di risorse dotate di professionalità tecniche. Come artigiani, tecnici, piu in generale esperti nei mestieri, e cosi via dicendo.

      A conforto di questa tesi militano almeno tre dati. In primo luogo, in Italia, secondo il sistema Excelsior di Unioncamere e ministero del Lavoro, si registrano quasi 100.000 offerte di lavoro che non trovano candidati e di cui una buona parte riguarda falegnami, panettieri, installatori di infissi, sarti, cuochi, operai metalmeccanici ed elettromeccanici, tecnici informatici e progettisti. In secondo luogo, che – come noto – molte di queste professioni sono occupate dai cittadini stranieri: nel 2016, hanno acquisito la cittadinanza italiana circa 201 mila persone. In terzo luogo, – e si tratta della prova “a contrario” – la Germania registra una bassa disoccupazione dei giovani che, quindi, difficilmente emigrano, perchè, grazie al grosso investimento nella formazione tecnica (Fachoberschule: istituto tecnico, Fachhochschule: tecnico superiore, Berufsfachschule: istituto professionale a tempo pieno), ha una geografia dei lavori ben distribuita tra professioni intellettuali e professioni tecniche.

      Ed allora, bisogna chiedersi: quale possibile soluzione per agevolare l’occupazione di chi ambisce a professioni intellettuali in un mercato del lavoro saturo rispetto ad esse? La risposta potrebbe essere: cavalcare il potere della rivoluzione tecnologica.

      Grazie alla possibilità di lavorare ininterrottamente connessi da remoto al luogo di lavoro per mezzo di sofisticati device, infatti, molte professioni intellettuali potranno essere svolte da un luogo qualsiasi, e dunque anche dal proprio Paese, senza necessità di emigrare verso quello estero che le offre.

      Si immaginino le potenzialità dello smart working che oggi consente di connettersi a distanza con il proprio posto di lavoro. Possono farlo un manager ma anche un imprenditore, ad esempio.

      Oppure, si immaginino le potenzialità del crowd work, il lavoro su piattaforma emblema della gig economy che consente ad un committente da una determinata parte del mondo di commissionare un lavoro, anche di natura intellettuale, ad un lavoratore/professionista dalla parte del mondo opposta. Ad esempio, in alcuni casi, non è difficile commissionare attraverso la piattaforma progetti di studio architettonico o di ricerca.

      Una vera e propria disintermediazione dei territori, dunque, che travalica i confini del mercato del lavoro nazionale, ne disegna uno globale e, di conseguenza, impone la costruzione di un diritto del lavoro di nuova matrice, posto che quello attuale è il riflesso di categorie come il luogo di lavoro, in via di estinzione.

      L’Organizzazione internazionale del lavoro, ad esempio, invita alla creazione di statuti di basilari garanzie in favore dei lavoratori, siano essi subordinati, autonomi, occasionali, su un posto o su un altro posto di lavoro, nel segno di quello che ha definito il decent work.

      In conclusione, deve riempirci di orgoglio essere diventato un Paese patria di molti talenti e ciò deve interrogarci su come creare le migliori condizioni perchè questi talenti possano operare in uno spazio più ampio, sul mercato globale, da uno uno più ristretto, quello domestico.

      L’obiettivo, in altri termini, deve essere quello di rendere il nostro Paese un importante hub dell’economia globale, al pari di Inghilterra, Germania e Stati Uniti, e di offrire ai nostri talenti i relativi posti di comando e non semplicemente quello di riportarli a casa.

      Solo allora, sarà valsa la pena di aver “ricucito” le distanze.

      https://www.agoefilo.info/2019/01/talenti-in-fuga-come-riportarli-a-casa