• L’obiezione è un’incoscienza. Se non vuoi praticare aborti, puoi fare il dermatologo.

    Pochi giorni fa è stata data notizia che a luglio un medico obiettore di Napoli è stato licenziato dalla Asl in cui lavorava dopo che si è rifiutato di prestare cure mediche a una donna alla 18esima settimana di gravidanza. La donna è arrivata al presidio in travaglio, con il feto già privo di battito cardiaco e necessitava di un aborto farmacologico, che il ginecologo non ha voluto praticare appellandosi all’obiezione di coscienza. La paziente è stata salvata da un altro medico, chiamato di urgenza da un’ostetrica. L’Asl di Napoli ha licenziato l’obiettore per omissione di assistenza, e presto il caso passerà alla Procura e all’Ordine dei Medici. In Italia, 7 ginecologi che operano negli ospedali su 10 sono obiettori. La percentuale di obiezione supera l’80% in ben sette regioni, arrivando al 96,9% in Basilicata, senza contare gli anestesisti (48.8%) e il personale non medico (44%). A questo si aggiunge la galassia sommersa di “farmacisti obiettori”. Le virgolette sono obbligatorie, dato che secondo la legge 194/78 (la legge che ha depenalizzato l’aborto in Italia, promulgata nel 1978), “L’obiezione di coscienza esonera il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza”. Ma, come specificato dall’OMS, la pillola del giorno dopo e dei cinque giorni dopo – che spesso i farmacisti si rifiutano di vendere adducendo fantasiose giustificazioni su ricette mancanti (che non sono obbligatorie per le maggiorenni) o il grande classico: “Mi spiace ma l’abbiamo finita”, guarda caso quando serve a te – non ha alcun effetto abortivo, pertanto l’obiezione non si può applicare. In Germania gli obiettori sono il 6%, in Francia il 3% mentre in Svezia e in Finlandia non esistono nemmeno.

    Il problema dell’obiezione di coscienza è che rende molto difficile per una donna ottenere l’IVG (interruzione volontaria di gravidanza) entro i tempi previsti dalla legge, cioè entro 90 giorni dal concepimento, conteggiati dal primo giorno dell’ultima mestruazione. Posto che non tutte le donne si accorgono subito di essere incinte e che la legge prevede la cosiddetta “pausa di riflessione” di sette giorni tra il rilascio del certificato medico che autorizza l’IVG e la conferma dell’appuntamento, tre mesi non sono poi così tanti, soprattutto se tutto questo percorso già abbastanza complesso da un punto di vista psicologico e pratico viene ostacolato da medici, infermieri, psicologi, personale sanitario e sistema burocratico. Per non parlare di quelli che si mettono fuori dagli ospedali o dalle università con vangeli, immagini di feti photoshoppati male e crocifissi per terrorizzare le donne che vogliono praticare un aborto. Per quanto la legge 194 tuteli l’obiezione di coscienza, essa sancisce chiaramente che “Gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare l’espletamento delle procedure”. Questo, però, spesso non avviene. L’antropologa Silvia De Zordo ha condotto una ricerca negli ospedali di Roma e Milano per cercare di spiegare le cause della diffusione dell’obiezione di coscienza in Italia. I motivi religiosi, infatti, giustificano solo in parte questo fenomeno. La religione cristiana, ponendo l’accento sulla sacralità della vita sin dal concepimento, equipara l’aborto all’omicidio. Ma in casi come quello di Napoli, l’ostinazione a preservare la vita del feto (per altro già privo di battito cardiaco) ha quasi causato il decesso della madre. La legge 194 protegge l’obiezione di coscienza, ma ancor più la sicurezza delle donne. È stata fatta innanzitutto per contrastare le tecniche di aborto clandestine, a cui le donne ricorrevano per disperazione e che prevedevano pratiche molto pericolose come l’inserimento di ganci nell’utero, l’intossicazione tramite farmaci o erbe velenose, che in molti casi potevano portare a infezioni, perforazioni e quindi a emorragie e non difficilmente alla morte. L’accesso a tecniche mediche sicure per interrompere la gravidanza ha salvato moltissime vite. Ci sono molte altre specializzazioni di medicina altrettanto remunerative che un medico obiettore può intraprendere, se non ha a cuore la vita delle persone che esistono già perché preferisce quelle che devono ancora nascere. Dopotutto, un cristiano ortodosso che considera immorale prelevare organi dai cadaveri non si specializza di certo in trapianti. Storicamente, l’obiezione di coscienza era un atto di coraggio per contrastare un divieto o una legge che si riteneva sbagliata, e le conseguenze potevano essere molto pesanti. Un uomo che rifiutava la leva obbligatoria, ad esempio, veniva punito come un disertore: in tempo di guerra, rischiava la fucilazione. In Italia, l’obiezione di coscienza diventa un diritto dal 1972, anno in cui viene introdotta la legge n. 772. Da questo momento il concetto cambia: il servizio civile (quindi il modo in cui si esercita l’obiezione) è un’alternativa al servizio militare, una scelta. Semplificando, il danno procurato alla collettività per non aver svolto la naja, veniva ripagato con un altro lavoro di utilità sociale. Nel caso dell’aborto, però, non c’è un’alternativa, ma soltanto un enorme squilibrio. Chi fa obiezione per l’aborto non offre un’alternativa all’IVG, ma sottrae a una donna un diritto che per legge le è garantito.

    Non solo: l’obiezione di coscienza del singolo ricade anche sulla gestione del lavoro dell’intero reparto, con conseguenze gravi anche sui non obiettori. L’IVG infatti è una pratica abbastanza semplice e monotona e viene considerata generalmente un lavoro poco gratificante. Questo è dovuto al fatto che i pochi ginecologi non obiettori si ritrovano a praticare da soli tutti gli aborti, che vengono percepiti come un lavoro “accessorio”, nonostante siano la pratica medico-ginecologica più diffusa dopo il parto. I medici intervistati da De Zordo aggiungono anche il fatto che manchi un’adeguata formazione sulle nuove tecniche di aborto, come la D&E (dilatazione ed evacuazione strumentale) che all’estero viene praticata in anestesia totale dopo la diciassettesima settimana, mentre in Italia si preferisce ancora il travaglio indotto, obbligando la donna a un parto che non vuole fare. In generale, secondo De Zordo, il lavoro dei ginecologi che esercitano nell’ambito prenatale enfatizza molto il ruolo del feto e dell’embrione, che diventa quasi l’unico “paziente” a discapito della madre. Per questo motivo, molti medici si avvicinano a posizioni obiettanti. In alcuni ospedali, poi, l’obiezione è una scelta di comodo. Molti medici non obiettori si sentono stigmatizzati o esclusi da parte dei colleghi anti-abortisti. Quando questi ultimi occupano posizioni di prestigio all’interno degli ospedali, la carriera dei non obiettori può arenarsi proprio sulla pratica dell’IVG. Negli ospedali del Nord Italia, ad esempio, gli esponenti cattolici hanno un potere vastissimo: gran parte della sanità lombarda è dominata dal gruppo Comunione e Liberazione, che in alcuni casi, come la discussione sull’adozione della pillola abortiva Ru486, ha interferito con le decisioni del Pirellone, allora guidato da Roberto Formigoni, esponente di CL. All’interno di sei strutture lombarde, inoltre, è presente una sede del Movimento per la vita che sulla porta espone un’immagine di un feto con la scritta: “Mamma, ti voglio bene, non uccidermi”. Molte donne hanno raccontato di essere state indirizzate nei loro uffici dopo aver richiesto un IVG in un ospedale pubblico.

    C’è poi la questione economica. L’IVG si può praticare in ospedali pubblici, gratuitamente, sia in cliniche private. Per la sanità pubblica, l’aborto non può rientrare nelle procedure ospedaliere intra moenia, cioè nelle prestazioni di libera professione erogate nelle strutture ambulatoriali dell’ospedale. Questo legittima molti medici a dichiararsi obiettori per il SSN, ma poi eseguire l’IVG a pagamento nei propri ambulatori. Secondo i medici intervistati da De Zordo ci sarebbe una situazione fuori controllo per quanto riguarda gli “obiettori di comodo” o “falsi obiettori”, e inserire l’aborto tra le pratiche intra moenia potrebbe effettivamente incentivare molti ginecologi obiettori per motivi non religiosi (quindi quelli che rinunciano a praticare IVG per non restare indietro con la carriera) a prestare questo servizio anche nelle strutture pubbliche. A quarant’anni dalla sua approvazione, la legge 194 dovrebbe essere aggiornata. Quel testo fu l’esito di una lunghissima negoziazione con le forze cattoliche, evidente sin dal primo articolo (“Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio”). Le cose nel nostro Paese sono molto cambiate dal 1978: calano i cattolici praticanti, mentre aumentano gli obiettori e, come denuncia LAIGA (Libera Associazione Italiana Ginecologi per l’Applicazione della legge 194/78), l’età media dei non obiettori è alta e non sta avvenendo un ricambio generazionale. Questo perché, evidentemente, l’obiezione non è dettata tanto dalla coscienza, ma da interessi di altro tipo. L’obiezione andrebbe quindi regolamentata in modo chiaro e la specializzazione in ginecologia sconsigliata a chi non vuole praticare aborti: l’Italia ha già ricevuto due sanzioni dall’Unione Europea perché, nonostante la 194 imponga la garanzia del diritto all’IVG anche in presenza di medici obiettori, questo nei fatti non viene garantito. Una soluzione potrebbe essere quella di assicurare il 50% di personale non obiettore in tutte le strutture, oppure quella più drastica, già attuata dall’ospedale San Camillo di Roma, di non assumere medici obiettori. Finché avremo questo governo, pensare di cambiare la legge è un’idea un po’ troppo ottimistica. Visto l’attuale clima reazionario, ultracattolico e nemico dei diritti, è già tanto se riusciremo ancora ad avere diritto all’interruzione di gravidanza.

    https://thevision.com/attualita/aborto-obiettore-di-coscienza

    #IVG #femmes #Italie #statistiques #objection_de_conscience #médecine #chiffres #interruption_volontaire_de_grossesse #santé #accès #accès_aux_soins #gynécologie #pharmaciens #loi #legge_194/78 #avortement #religion #hôpitaux #comunione_e_liberazione #CL #movimento_per_la_vita

  • Il racconto dell’omicidio di #Agitu_Ideo_Gudeta evidenzia il razzismo democratico dei media italiani

    L’imprenditrice #Agitu Ideo Gudeta è stata uccisa il 29 dicembre nella sua casa a #Frassilongo, in provincia di Trento. Da subito si è ipotizzato si trattasse dell’ennesimo femminicidio (72 donne dall’inizio del 2020), anche in ragione del fatto che in passato la donna era stata costretta a querelare un uomo per #stalking. In quell’occasione Gudeta aveva chiesto di considerare l’aggravante razziale, dato che l’uomo, un vicino di casa, la chiamava ripetutamente “negra”, ma il giudice aveva respinto la richiesta del suo avvocato. Il giorno successivo all’omicidio, il suo dipendente #Adams_Suleimani, – un uomo ghanese di 32 anni – ha confessato il crimine, aggravato dal fatto che l’ha violentata mentre era agonizzante. Il movente sarebbe un mancato pagamento.

    Gudeta era nata ad Addis Abeba, in Etiopia, 42 anni fa. Non era più una “ragazza”, come hanno scritto alcune testate. La sua prima permanenza in Italia risale a quando aveva 18 anni, per studiare nella facoltà di Sociologia di Trento. Era poi tornata in Etiopia, ma nel 2010 l’instabilità del Paese l’ha costretta a tornare in Italia. Nello Stato africano si è interrotto solo pochi giorni fa il conflitto tra il Fronte di Liberazione del Tigré e il governo centrale etiope – i tigrini sono una minoranza nel Paese, ma hanno governato per oltre trent’anni senza far cessare gli scontri tra etnie – cha ha causato violazioni dei diritti umani, massacri di centinaia di civili e una grave crisi umanitaria.

    Proprio le minacce dei miliziani del Fronte di Liberazione avevano spinto Agitu Ideo Gudeta a tornare in Italia. La donna aveva infatti denunciato le politiche di #land_grabbing, ossia l’accaparramento delle terre da parte di aziende o governi di altri Paesi senza il consenso delle comunità che le abitano o che le utilizzano per mantenersi. Per questo motivo il governo italiano le ha riconosciuto lo status di rifugiata. In Trentino, dove si era trasferita in pianta stabile, ha portato avanti il suo impegno per il rispetto della natura, avviando un allevamento di ovini di razza pezzata mochena, una specie autoctona a rischio estinzione, e recuperando alcuni ettari di terreni in stato di abbandono.

    Il caseificio che aveva aperto rivelava già dal nome – La capra felice – il suo credo ambientalista e il suo antispecismo, ricevendo riconoscimenti da Slow Food e da Legambiente per l’impegno promosso con la sua azienda e il suo negozio. Agitu Ideo Gudeta era un nome noto nel movimento antirazzista italiano, ma oggi viene usata – persino dai Verdi – per presentare il Trentino come terra di accoglienza, in un tentativo di nascondere la xenofobia di cui era oggetto. Le origini della donna e del suo assassino stupratore sono sottolineate da tutti e precedono la narrazione della violenza, mettendola in secondo piano, salvo evidenziarla in relazione alla provenienza dell’omicida, che per una volta non è un italiano, né un compagno o un parente.

    Alla “ragazza” è stata affibbiata in tutta fretta una narrazione comune a quella che caratterizza altre donne mediaticamente esposte, come le attiviste Greta Thunberg e Carola Rackete, la cooperante Aisha Romano o la giornalista Giovanna Botteri, basata su giudizi e attacchi basati perlopiù su fattori estetici. Razzismo, sessismo e classismo si mescolano in questa storia in cui la violenza – quella del vicino di casa, quella del suo assassino, quella del governo etiope – rischiano di rimanere sullo sfondo, in favore del Grande gioco dell’integrazione. A guidarlo è come sempre un trionfalismo tipico dei white saviour (secondo una definizione dello storico Teju Cole del 2012), come se esistesse un colonialismo rispettabile: insomma, in nome della tolleranza, noi italiani doc abbiamo concesso alla donna un riparo da un Paese povero, di una povertà che riteniamo irrimediabile. Usiamo ormai d’abitudine degli automatismi e un lessico che Giuseppe Faso ha definito razzismo democratico, in cui si oppongono acriticamente migranti meritevoli a migranti immeritevoli, un dualismo che sa vedere solo “risorse” o “minacce all’identità nazionale”.

    Così il protagonismo di Agitu Ideo Gudeta viene improvvisamente premiato, trasformando lei in una migrante-eroina e il suo aguzzino nel solito stupratore non bianco, funzionale solo al “Prima gli italiani”. Ma parlare di Agitu Ideo Gudeta in termini di “integrazione” è un insulto alla sua memoria. Considerarla un simbolo in questo senso conferma che per molti una rifugiata sarà rifugiata per sempre e che una “migrante” non è altro che una migrante. La nostra stampa l’ha fatto, suggerendo di dividere gli immigrati in buoni e cattivi, decorosi e indecorosi, e trattando i lettori come se fossero tutti incapaci di accogliere riflessioni più approfondite.

    Parallelamente però, un governo che come i precedenti accantona la proposta di legge sulla cittadinanza favorisce un racconto privo di sfumature, che rifiuta in nome di una supposta complessità non affrontabile nello sviscerare questo tema. Forse se avessimo una legge sulla cittadinanza al passo con i tempi, e non una serie di norme che escludono gli italiani di seconda generazione e i migranti, potremmo far finalmente progredire il ragionamento sulla cosiddetta convivenza e sulla coesione sociale ed esprimerci con termini più adeguati. Soprattutto chi è stato in piazza a gridare “Black Lives Matter”, “I can’t breathe” e “Say Their Names” oggi dovrebbe pretendere che la notizia di questo femminicidio venga data diversamente: in Trentino una donna di nome Agitu Ideo Gudeta è stata uccisa e violentata. Era diventata un’imprenditrice di successo nel settore caseario dopo essersi opposta alle politiche di land grabbing in Etiopia. Era un’attivista e un’ambientalista molto conosciuta. Mancherà alla sua comunità.

    https://thevision.com/attualita/agitu-gudeta-razzismo

    #féminicide #racisme #Italie #meurtre #femmes #intersectionnalité #viol #réfugiés #accaparement_des_terres #Trentin #éleveuse #élevage #Pezzata_Mòchena #chèvrerie #chèvres #La_capra_felice #xénophobie
    #white_saviour #racisme_démocratique
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    Le site web de la #fromagerie de Agitu Ideo Gudet :


    http://www.lacaprafelice.com

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    NB :
    Grâce à une amie qui connaissait Agitu je viens de connaître une autre facette de cette histoire. Un drame dans le drame, dont je ne peux/veux pas parler ici.

    • Murdered Agitu Ideo Gudeta, an example of environmental preservation and female entrepreneurship in Italy.

      Agitu was found dead in her home in #Val_dei_Mocheni, Trentino, Italy. The entrepreneur and shepherdess from Ethiopia would turn 43 on January 1st.
      An employee of her company confessed the murder followed by rape.

      One of the main news in the Italian media, the murder of Agitu brought much indignation. Especially among women. In Italy, a woman is murdered every three days, according to a report from Eures.

      “When will this massacre of women end? When? Today, feminicide has extinguished the smile of a dear and sweet sister. Rest in peace Agitu. We will miss you a lot”, twitted the Italian writer with SomaIi origin Igiaba Sciego.

      Agitu, originally from Addis Ababa, was born into a tribe of nomadic shepherds. She went to Rome to study Sociology when she was 18 years old and returned to Ethiopia. However, she left her country again in 2010, fleeing threats for her commitment by denouncing “land grabbing” by multinationals.

      In Italy, in Valle dei Mocheni, Trentino, she began to preserve a goat species in extinction, the #Mochena goat.

      An example of female entrepreneurship, she set up the company “La capra felice” (The happy goat) producing cheeses and cosmetic products with goat’s milk.

      She has become an example of organic and sustainable production.

      Agitu’s work has been recognized throughout Italy, her story published in many medias, she attended different events and has been rewarded for her commitment to preserving goats and her production of organic products. One of the awards was the Slow Cheese Resistenza Casearia award, in 2015.

      It was not the first time that Agitu had her life under threat in the hands of men. She publicly denounced her neighbour for stalking, racially motivated threats and aggression. For months she was threatened by a man and one of the reasons was that she offered work and apprenticeship for refugees from African origins. “This neighbour does not like the colour of our skin and does what it can to create confusion,” she said at an interview.

      On December 29, her life was taken by a man who worked for her, shepherding her goats. According to him, for financial reasons. The man confessed to the crime and also revolted that he had committed rape after the attack. The man beat her in her head with a hammer. He was arrested.

      Agitu was found lifeless after friends called the police because they thought it was strange that she didn’t come to a meeting and didn’t answer the phone.

      The murder is a tragic end for a woman who brought so many good things into the world.

      Until when will we lose our sisters to violence?

      Rest in peace Agitu. We will never forget your legacy.

      https://migrantwomenpress.com/agitu-ideo-gudeta-murdered/amp/?__twitter_impression=true

      #montagne

    • Grâce à une amie qui connaissait Agitu je viens de connaître une autre facette de cette histoire. Un drame dans le drame, dont je ne peux/veux pas parler ici.

    • Le féminicide d’Agitu Ideo Gudeta choque l’Italie

      Ce 29 décembre, Agitu Ideo Gudeta, une réfugiée éthiopienne de 42 ans, a été retrouvée morte à son domicile, dans le nord de l’Italie, annonce La Repubblica. Elle était connue dans tout le pays grâce à son activité, couronnée de succès, d’éleveuse de chèvres et avait été à de nombreuses reprises médiatisée.

      Une célèbre bergère

      Selon le quotidien local Il Dolomiti, Agitu Gudeta était devenue « la bergère la plus célèbre des vallées du Trentin ». Et son histoire n’était pas banale. En 2010, elle avait dû fuir l’Éthiopie à cause de son activité de militante environnementaliste. Elle subissait des menaces de poursuites judiciaires et des menaces de mort car elle s’opposait à l’accaparement des terres par certaines multinationales.

      A 30 ans, toute seule dans un nouveau pays et dans la région réputée inhospitalière du Trentin, elle avait commencé une autre vie, avec ses 180 chèvres et sa propre entreprise prospère de fromages bio baptisée « La Capra Felice », la chèvre heureuse. Elle avait choisi de protéger une espèce rare, la chèvre Mochena, qui survit dans cette vallée isolée.
      Insultes et menaces racistes

      Avec sa réussite, c’est à d’autres menaces qu’elle avait dû faire face : des menaces et insultes racistes de la part de ses voisins. Elle avait été agressée physiquement également. Elle avait porté plainte contre l’un d’eux qui avait été condamné en janvier à 9 mois sous liberté conditionnelle.

      https://www.youtube.com/watch?v=CF0nQXrEJ30&feature=emb_logo

      https://www.rtbf.be/info/dossier/les-grenades/detail_le-feminicide-d-agitu-ideo-gudeta-choque-l-italie?id=10664383

    • Trentino, uccisa in casa Agitu Gudeta, la rifugiata etiope simbolo dell’integrazione

      Scappata dal suo Paese, aveva fondato l’azienda agricola «La capra felice» nella Valle dei Mocheni dove allevava animali a rischio di estinzione.

      L’hanno trovata senza vita all’interno della sua casa di Frassilongo (Trentino), colpita con violenza alla testa. Un omicidio, hanno confermato i carabinieri che nel tardo pomeriggio sono giunti sul posto, chiamati dai vicini e stanno lavorando per ricostruire l’accaduto.

      È finito così - forse con un colpo di martello - il sogno di Agitu Ideo Gudeta, pastora etiope che avrebbe compiuto 43 anni il giorno di Capodanno e che si era data l’obiettivo di salvare dall’estinzione (e anche dagli attacchi dell’orso) la capra mochena, una specie che sopravvive in una valle isolata della Provincia di Trento dove la donna aveva trovato casa.

      Ma il suo problema - aveva denunciato un paio di anni fa - più che gli orsi erano i vicini: «Mi insultano, mi chiamano brutta negra, dicono che me ne devo andare e che questo non è il mio posto» aveva denunciato ai carabinieri, raccontando anche pubblicamente la sua storia. Le indagini perà si concentrerebbero su un giovane africano dipendente dell’azienda ’La Capra Felice’. A quanto pare, l’uomo - che non è quello che l’aveva minacciata ed aggredita - avrebbe avuto dissidi con Agitu per motivi economici. A dare l’allarme ai carabinieri sono stati alcuni vicini a loro volta chiamati da un uomo con il quale la vittima aveva un appuntamento al quale non si era presentata.

      Sul caso delle minacce arrivò la solidarietà del presidente della giunta provinciale, all’epoca Ugo Rossi: «Il fatto che Agitu, da rifugiata, abbia avviato la sua attività agricola sul nostro territorio dimostra che il Trentino crede nell’accoglienza e nella solidarietà». Una storia di minacce e danneggiamenti, finita in tribunale con la condanna a 9 mesi per lesioni di un uomo del posto che aveva sempre liquidato la faccenda come una lite fra vicini: «Il razzismo non c’entra». La donna quindi aveva ripreso a girare i mercati del Trentino per vendere i prodotti realizzati con il latte delle sue cinquanta capre, con il furgone che sulla fiancata riportava il nome dell’azienda agricola: «La capra felice».

      Agitu Gudeta era fuggita in Italia nel 2010 e aveva ottenuto lo status di rifugiata e dopo qualche anno era riuscita ad avviare la sua azienda agricola a Frassilongo scommettendo sulle capre mochene. Nel 2017 aveva partecipato all’incontro «Donne anche noi», raccontando la sua storia di migrante arrivata in Italia. Originaria della capitale Addis Abeba, era stata costretta a lasciate l’Etiopia perché a causa del suo impegno contro l’accapparramento delle terre da parte di alcune multinazionali era stata oggetto di minacce di morte.

      https://www.repubblica.it/cronaca/2020/12/29/news/trentino_trovata_morta_agitu_gudeta_donna_42enne_simbolo_di_integrazione_

    • Tributes paid to Ethiopian refugee farmer who championed integration in Italy

      Agitu Ideo Gudeta, who was killed on Wednesday, used abandoned land to start a goat farming project employing migrants and refugeesTributes have been paid to a 42-year-old Ethiopian refugee and farmer who became a symbol of integration in Italy, her adopted home.

      Agitu Ideo Gudeta was attacked and killed, allegedly by a former employee, on her farm in Trentino on Wednesday.

      Gudeta had left Addis Ababa in 2010 after angering the authorities by taking part in protests against “land grabbing”. Once in Italy, she tenaciously followed and realised her ambition to move to the mountains and start her own farm. Taking advantage of permits that give farmers access to abandoned public land in depopulated areas, she reclaimed 11 hectares (27 acres) around an old barn in the Mòcheni valley, where she founded her La Capra Felice (The Happy Goat) enterprise.

      Gudeta started with a herd of 15 goats, quickly rising to 180 in a few years, producing organic milk and cheese using environmentally friendly methods and hiring migrants and refugees.

      “I created my space and made myself known, there was no resistance to me,” she told Reuters news agency that year.

      “Agitu brought to Italy the dream she was unable to realise in Ethiopia, in part because of land grabbing,” Gabriella Ghermandi, singer, performer, novelist and friend of Gudeta, told the Guardian. “Her farm was successful because she applied what she had learned from her grandparents in the countryside.

      “In Italy, many people have described her enterprise as a model of integration. But Agitu’s dream was to create an environmentally sustainable farm that was more than just a business; for her it also symbolised struggle against class divisions and the conviction that living in harmony with nature was possible. And above all she carried out her work with love. She had given a name to each one of her goats.”

      In a climate where hostility toward migrants was increasing, led by far-right political leaders, her success story was reported by numerous media outlets as an example of how integration can benefit communities.

      “The most rewarding satisfaction is when people tell me how much they love my cheeses because they’re good and taste different,” she said in an interview with Internazionale in 2017. “It compensates for all the hard work and the prejudices I’ve had to overcome as a woman and an immigrant.”

      Two years ago she received death threats and was the target of racist attacks, which she reported to police, recounting them on her social media posts.

      But police said a man who has confessed to the rape and murder of the farmer was an ex-employee who, they said, allegedly acted for “economic reasons”.

      The UN refugee agency said it was “pained” by Gudeta’s death, and that her entrepreneurial spirit “demonstrated how refugees can contribute to the societies that host them”.

      “Despite her tragic end, the UNHCR hopes that Agitu Ideo Gudeta will be remembered and celebrated as a model of success and integration and inspire refugees that struggle to rebuild their lives,” the agency said.

      “We spoke on the phone last week’’, said Ghermandi. “We spent two hours speaking about Ethiopia. We had plans to get together in the spring. Agitu considered Italy her home. She used to say that she had suffered too much in Ethiopia. Now Agitu is gone, but her work mustn’t die. We will soon begin a fundraising campaign to follow her plan for expanding the business so that her dream will live on.”

      Gudeta would have turned 43 on New Year’s Day.

      https://www.theguardian.com/global-development/2021/jan/01/tributes-paid-to-ethiopian-refugee-farmer-who-championed-integration-in

    • Dalla ricerca di eroi alla costruzione di progetti comunitari. Perché è importante cambiare narrazione

      Del bisogno di eroi

      La storia del passato, così come la cronaca quotidiana, pullula di storie di eroi che troneggiano nell’immaginario collettivo. Quello di eroi ed eroine è un bisogno antico, che riflette la necessità di costruire cognitivamente il mondo reale per mezzo di narrative che ci permettano di affidare ruoli e connotati chiari a singoli individui e gruppi sociali, soddisfacendo il nostro bisogno di certezze che affonda le radici tanto nella mitologia classica quanto nel pensiero cristiano e che sostengono la costruzione della nostra moralità culturale e senso dell’etica.

      Si tratta però di un bisogno che è ancora largamente presente nelle società contemporanee, a dispetto dei progressi indotti dal processo di formazione del diritto moderno, che ha portato a distinguere in maniera netta tra ciò che è lecito e ciò che lecito non è. Questo processo non è infatti riuscito, se non in astratto attraverso artifici teorici, a superare la dimensione individualistica (Pisani, 2019). Di qui il perdurare del bisogno di eroi, che continua a essere percepito come rilevante perché offre un’efficace e facile via di fuga. Consente, talvolta inconsapevolmente, di banalizzare situazioni e fenomeni complessi, interpretarli in maniera funzionale alla nostra retorica e giustificare l’inazione.

      Se l’obiettivo è però innescare profondi cambiamenti sociali all’insegna di una maggiore giustizia sociale e lotta alle profonde disuguaglianze del nostro tempo, allora non è di singoli eroi che si dovrebbe andare alla ricerca, ma di una diversa narrazione che faccia assegnamento sull’impegno autentico delle comunità. Comunità locali che sono sempre più chiamate a svolgere un ruolo rilevante nella costruzione sia di sistemi di welfare di prossimità, sia di nuovi modelli di produzione a larga partecipazione, in risposta a una pluralità di bisogni e sfide incompiute che spaziano dall’inclusione di persone vulnerabili fino alla gestione di beni comuni come la salute, il territorio, l’energia.[1]

      Quest’articolo prende le mosse da una convinzione di fondo. Nonostante il ruolo importante che svolgono nel generare benessere sociale, le comunità locali stentano ad essere riconosciute come protagoniste di un processo di cambiamento.

      Responsabile della loro scarsa visibilità e incisività non è solo l’insufficiente riconoscimento politico, ma anche una narrazione incoerente di cui si fanno sovente portatrici anche le organizzazioni di terzo settore che gli interessi delle comunità promuovono. Una narrazione spesso incentrata sul culto di singole personalità che, mettendo in ombra l’ancoraggio comunitario, rischia di incrinare l’impatto generativo del terzo settore.

      Dopo una riflessione sul perché bisognerebbe diffidare delle narrazioni idealizzate e sugli effetti del pathos degli eroi, l’articolo si sofferma su un caso specifico, quello di Agitu Ideo Gudeta, assassinata sul finire del 2020 da un suo collaboratore. Quindi, prendendo le mosse da questa drammatica vicenda, gli autori si soffermano sulle ragioni che farebbero propendere per la sostituzione degli eroi con progetti collettivi, sollecitando le organizzazioni di terzo settore, in primis, a cambiare narrazione.
      Pathos degli eroi

      Gli esempi di persone, professionisti e politici che sono stati idealizzati in virtù di reali o presunti talenti o gesta sono molteplici e coinvolgono frange della società civile – sia conservatrici e reazionarie, sia progressiste – così come il mondo della politica. Eroi che, spesso in virtù di altrettante semplificazioni, da figure mitologiche sono stati di punto in bianco trasformati in demoni o in capri espiatori, lasciando volutamente in ombra la complessità dei contesti, le relazioni, le fragilità, le emozioni e i comportamenti, spesso controversi, che accompagnano ogni essere umano, sia nei momenti di gloria, sia in quelli più bui.

      Nell’ambiente conservatore spicca la parabola di Vincenzo Muccioli, santificato negli anni ’80 come salvatore di migliaia di giovani spezzati dall’eroina, e poi demonizzato dai mezzi di informazione, prescindendo da un’analisi approfondita della sua controversa iniziativa. Tra gli esempi di persone e professionisti che sono stati santificati e poi travolti da un’onda di retorica colpevolista vi sono gli infermieri e i medici, celebrati come supereroi allo scoppio della pandemia Covid-19, passati nel secondo lockdown ad essere additati come appestati e untori, quando non complici di una messa in scena.[2]
      Emblematico è anche il caso dei volontari, portati puntualmente alla ribalta della cronaca come angeli durante catastrofi e crisi naturali, per poi svanire nel nulla in tempi non emergenziali, a dispetto del loro prezioso contributo quotidiano per migliorare la qualità della vita delle persone più vulnerabili.[3]
      Con riferimento all’ambiente più militante e progressista si distingue Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, passato dall’essere innalzato a mito dell’accoglienza dalla stampa e dal sistema SPRAR, in virtù dell’esperienza pionieristica sperimentata dal suo Comune, a essere abbandonato e attaccato da una parte dei media. Il cambio di atteggiamento nei confronti di Lucano coincide con la controversa vicenda giudiziaria che lo vede coinvolto per favoreggiamento dell’immigrazione e per la gestione di progetti di accoglienza, dopo che il suo Comune è stato per anni pressato dal Viminale e dalla Prefettura affinché ospitasse un gran numero di richiedenti asilo, rifiutati da altri progetti di accoglienza (Procacci, 2021). Nel mondo della politica istituzionale primeggia l’attuale santificazione di Mario Draghi, acclamato come unico possibile salvatore di un Paese al collasso dopo essere stato considerato un simbolo dei poteri finanziari forti negli anni della crisi economica globale (Dominjanni, 2021).
      Perché diffidare degli eroi?

      Le ragioni che portano a diffidare degli eroi sono molteplici. I riflettori accesi esclusivamente sulla dimensione dell’eccellenza[4]
      distolgono l’attenzione da tutto ciò che condiziona le azioni dell’eroe, come i contesti istituzionali e ambientali, incluso il bagaglio di risorse, non solo economiche ma anche sociali e culturali, su cui il singolo fa assegnamento. A influenzare i percorsi che portano alle presunte gesta eccezionali di chi viene incoronato come eroe, ci sono comunità e organizzazioni, più o meno coese, composte da una pluralità di individui che si relazionano tra di loro per contribuire, in base al ruolo ricoperto, al raggiungimento di obiettivi condivisi. Anche le scelte dell’imprenditore più autoritario e accentratore, sono condizionate dalle persone e dall’ambiente con cui è interconnesso. Il potenziale innovativo non è quindi un dono che gli dei fanno a pochi eletti (Barbera, 2021), ma un processo complesso che per essere compreso appieno presuppone un’analisi articolata, che ricomprende una pluralità di elementi economici, sociali e relazionali. Elementi che le analisi fondate sugli eroi nella maggior parte dei casi ignorano, riconducendo sovente il successo dell’iniziativa idealizzata esclusivamente a un’intuizione del singolo.

      A fomentare una narrazione personalistica ha contribuito lo storytelling che ha fatto dell’innovazione il mantra dominante (Barbera, 2021). Responsabile è principalmente la retorica di stampo neoliberista, incentrata sul mito dell’imprenditore individuale, che ha assoggettato la maggior parte dei campi del sapere, arrivando a giustificare le disuguaglianze poiché conseguenti a un processo liberamente accettato dove ognuno ha pari opportunità di accesso al mercato e alla proprietà (Piketty, 2020). Di qui la riconversione del cittadino in homo oeconomicus, orientato non più allo scambio come nel liberismo classico, bensì alla valorizzazione di sé stesso in quanto capitale umano (Dominjianni, 2017). Una parte della letteratura sul management del terzo settore ha introiettato questa logica, proiettandola nella figura eroica dell’imprenditore sociale (Waldron et al., 2016; Miller et al., 2012; Dacin et al., 2011; Short et al., 2009; Zahra et al., 2009; Bornstein, 2007; Martin, Osberg, 2007; Austin et al., 2006).[5]
      Sottolineando il connubio tra tratti etici e competenze creative e leadership, che permetterebbero all’imprenditore sociale di assumersi i rischi necessari a raggiungere obiettivi sociali straordinari, questa letteratura ha trascurato i processi organizzativi e decisionali che sono alla base del funzionamento delle diverse organizzazioni (Petrella, Battesti, 2014).

      Il culto degli eroi ha così contribuito ad allontanare l’attenzione da alcune caratteristiche precipue di associazioni e cooperative, tra cui in primis l’adozione di modelli di governo inclusivi ad ampia partecipazione, che dovrebbero favorire il coinvolgimento di una pluralità di portatori di interesse nei processi decisionali, in rappresentanza dei diversi gruppi sociali che abitano un territorio (Sacchetti, 2018; Borzaga e Galera, 2016; Borzaga e Sacchetti, 2015; Defourny e Borzaga, 2001).[6]
      Ciò si verifica, ad esempio, quando una organizzazione di terzo settore costituita su basi democratiche, è identificata con il nome di un singolo eroe: un fondatore, un religioso che – anche quando non ricopra effettivamente cariche formali apicali – si riconosce come ispirazione e figura carismatica. Sono casi in cui talvolta il percorso di sviluppo dell’ente passa in secondo piano rispetto a quello di un singolo individuo il cui nome è di per sé evocativo dell’intera organizzazione.
      Gli effetti delle narrazioni eroicizzate

      L’immediata spendibilità comunicativa delle narrazioni fondate su figure eroiche spiega perché esse siano largamente preferite da una parte rilevante della politica, da molti osservatori e dalla quasi totalità degli operatori dell’informazione rispetto a studi analitici volti a comprendere i fenomeni sociali e a rendere conto ai cittadini e agli attori esterni delle scelte di policy compiute. Di qui l’incapacità di comprendere le problematiche che affliggono la società contemporanea e la proiezione artificiale in una figura erta a simbolo, non senza implicazioni negative.
      Allontanano dall’individuazione di possibili soluzioni

      Oltre a offuscare il contesto di appartenenza, la retorica dell’azione straordinaria allontana l’attenzione da quello che dovrebbe essere il corretto funzionamento di qualsiasi sistema, a livello macro, così come a livello micro. Nelle narrazioni incentrate sugli eroi non c’è spazio né per analisi valutative comparate, né tantomeno per riflessioni su come dovrebbe funzionare, ad esempio, un’organizzazione.

      Scoraggiando la correttezza analitica su temi di rilevanza pubblica e disincentivando qualsiasi tipo di studio volto a misurare l’efficacia di singole iniziative di welfare o il loro impatto sull’occupazione e il benessere della collettività, le narrazioni eroicizzate impediscono di indagare la realtà in maniera approfondita. Di conseguenza, non consentono di comprendere le implicazioni, non solo economiche ma anche in termini di efficacia, che sono connesse alle diverse soluzioni di policy.

      La tendenza ad analizzare la realtà in maniera superficiale, spesso in nome di un’imperante “politica del fare”, ci allontana quindi dall’individuazione di possibili soluzioni ai problemi che affliggono le società contemporanee. I riflettori accesi su una singola esperienza nel campo delle dipendenze hanno per molto tempo impedito un confronto serio sull’efficacia degli interventi di riabilitazione sperimentati dalle diverse realtà di accoglienza, non solo in termini di disintossicazione, ma anche di reinserimento nel tessuto sociale delle persone accolte. L’esaltazione della figura di Vincenzo Muccioli ha contribuito a trascurare negli anni ‘80 le oltre 300 iniziative di accoglienza di tossicodipendenti che in quegli stessi anni stavano sperimentando percorsi di riabilitazione alternativi basati sull’ascolto individuale, la responsabilità e la condivisione comunitaria. Realtà che, basandosi su uno scambio tra contributi volontari e competenze professionali (sociologici, psicologi, educatori, psichiatri, ecc.), prendevano le mosse a partire dall’esperienza di organizzazioni già radicate come il Gruppo Abele, San Benedetto al Porto e la Comunità di Capodarco, così come nuove esperienze, tra cui il Ceis, Exodus, Saman, Villa Maraini a Roma e la comunità Betania a Parma (De Facci, 2021). Tra le tante comunità di accoglienza e recupero nate tra gli anni ’70 e ’80, particolarmente interessante è quella trentina di Camparta, che è stata recentemente raccontata da alcuni dei suoi protagonisti. Promossa su iniziativa di uno psicoterapeuta d’impronta basagliana e animata da ideali libertari e comunitari, Camparta ha sperimentato un metodo di riabilitazione olistico, fondato su un percorso di ricerca interiore, confronto e rifondazione culturale a tutto campo (I ragazzi di Camparta, 2021).

      La narrazione fortemente polarizzata tra posizioni idealizzate pro e anti migranti continua a impedire un’analisi rigorosa e sistematica del fenomeno migratorio che possa fornire utili indicazioni di policy su come andrebbe gestita l’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati entro una visione di sviluppo locale piuttosto che secondo una logica emergenziale. L’idealizzazione di Mimmo Lucano ha distolto l’attenzione dalle tante altre esperienze di accoglienza di cui l’Italia è ricca. Iniziative che, prendendo in alcuni casi ispirazione dall’iniziativa pionieristica di Riace, hanno saputo innescare processi di sviluppo a livello locale grazie ad una proficua collaborazione tra enti di terzo settore e enti locali (Galera, Borzaga, 2019; Lucano, 2020).

      Coprendo le nefandezze e le carenze di un sistema sanitario al collasso, la celebrazione di medici e infermieri come angeli durante il primo lockdown ha ritardato una riflessione quanto mai necessaria su come dovrebbe essere riformato il sistema sanitario per renderlo maggiormente in grado di gestire le attuali sfide socio-sanitarie, così come quelle all’orizzonte per effetto dell’allevamento industriale intensivo, del massiccio impiego di antibiotici in allevamento e dei cambiamenti climatici (Galera, 2020; Tamino, 2020).

      A livello organizzativo, le narrazioni incentrate sull’azione straordinaria degli eroi imprenditori incoraggiano sistematicamente sia l’adozione di strumenti di management, sia l’adesione a culture organizzative che, svilendo la componente della partecipazione, indeboliscono la capacità del terzo settore di incidere a livello locale; e influenza, in modo negativo, pure le politiche, laddove, ad esempio nelle scelte di finanziamento, venga privilegiata l’idea “innovativa”[7]
      rispetto alla capacità di costruire legami di comunità e di rafforzare soggetti collettivi e inclusivi.

      A livello di sistema, l’impatto generativo del terzo settore è nondimeno minato dall’incapacità – insita in ogni idealizzazione – di discernere tra elementi non trasferibili, perché legati a particolari condizioni congiunturali e di contesto favorevoli, ed elementi “esportabili”. Tra questi, ad esempio, modelli di servizio, strumenti di lavoro, strategie di collaborazione o forme dell’abitare che, essendo stati sperimentati con esiti positivi, potrebbero essere modellizzati e replicati su più ampia scala, qualora liberati dal giogo dell’eroe.
      Forniscono l’alibi per rifugiarsi nell’inazione

      Tra i gruppi idealizzati rientrano i volontari e gli operatori impegnati in prima linea nelle situazioni emergenziali generate da catastrofi naturali. Nel caso dei volontari, la tendenza predominante è mitizzarne il coinvolgimento durante le emergenze e ignorarne sistematicamente il contributo nella vita quotidiana a sostegno delle persone più vulnerabili o del territorio che abitiamo per contenerne la fragilità.

      Tra gli esempi di mobilitazioni di volontari idealizzate vi sono quelle avvenute in occasione di nubifragi e terremoti. Tra queste l’alluvione che nel 1966 cosparse Firenze di acqua e fango, causando gravissimi danni sia alle persone sia al patrimonio artistico (Silei, 2013). Ulteriori esempi di mobilitazioni comunitarie sono rappresentati dal terremoto del 2012 in Emilia e dall’alluvione di Genova nel 2014. Catastrofi naturali che hanno attivato una catena di solidarietà in grado di compensare, almeno in parte, l’assenza di un’organizzazione centralizzata capace di gestire opportunamente le emergenze.

      L’uso di espressioni improprie come “angeli” e “eroi” mette tuttavia in ombra la normalità dell’azione di milioni di cittadini che nelle associazioni o individualmente nei loro posti di lavoro, in strada o su internet, chiedono l’attenzione delle istituzioni, anche prima delle emergenze, denunciano gli abusi e si battono per i propri diritti (Campagna #nonsonoangeli, 2014).[8]
      La mitizzazione dei volontari nei momenti di crisi non solo svilisce il loro prezioso contributo nella quotidianità. Appigliandosi al pretesto che l’impegno sia appannaggio di pochi eletti, l’idealizzazione offre ai così detti “cittadini ordinari” l’alibi per rifugiarsi nell’inazione.
      Scoraggiano la costruzione di un sistema valoriale alternativo

      Il pathos suscitato dagli eroi offre nondimeno la scorciatoia per non impegnarsi nella costruzione di un sistema valoriale coerente con i principi e i valori dichiarati. Il sistema di riferimenti valoriali riprodotto dall’eroe permette, infatti, di aggregare consenso in maniera immediata, senza alcuna fatica. Diversamente, un percorso di produzione valoriale sociale in grado di innescare cambiamenti consapevoli richiederebbe sia un impegno rilevante in termini di ascolto, confronti e negoziazioni volti a tracciare un itinerario di azione condiviso, sia tempi considerevoli.

      Di qui l’effimera illusione che l’eroe, consentendo di conseguire approvazione e sostegno nel breve termine, possa aiutarci a sostenere il nostro sistema valoriale in maniera più efficace. Le storie di eroi ci mostrano, invece, come i sistemi basati sull’idealizzazione siano nel medio e lungo periodo destinati a produrre l’effetto contrario. Creando una frattura netta tra gli eroi e i non eroi, influenzano in senso antisociale i comportamenti collettivi e individuali (Bonetti, 2020). E così facendo, ci allontanano da quello che dovrebbe essere il modello di società più rispondente al sistema valoriale che vorremmo promuovere.
      Incoraggiano la polarizzazione tra “buoni” e “cattivi”

      Di conseguenza, oltre a non contribuire a risolvere spinosi problemi sociali, le narrazioni idealizzate favoriscono una polarizzazione tra “buoni” e “cattivi” in cui le posizioni contrapposte si alimentano a vicenda, compromettendo il dialogo e la gestione dei conflitti.

      La tendenza a polarizzare è una prassi diffusa nel settore dell’informazione, incline a esaltare o distruggere personaggi simbolo (Sgaggio, 2011), così come tra opinionisti, osservatori, ricercatori, esperti e tra le organizzazioni della società civile.

      Quella della polarizzazione e categorizzazione è tuttavia una tendenza a cui siamo tutti soggetti, spesso inconsapevolmente. Siamo attratti maggiormente da notizie e informazioni che siano in grado di confermare le nostre interpretazioni del mondo, mentre siamo respinti magneticamente da tutto ciò che mette in discussione le nostre certezze o alimenta dubbi. Elaborare messaggi che si allineano con le nostre ideologie richiede, non a caso, uno sforzo cognitivo considerevolmente minore rispetto alla messa in discussione delle nostre sicurezze (Michetti, 2021).

      L’inclinazione a semplificare e categorizzare è in una certa misura una reazione incontrollata, indotta dall’esigenza di difenderci dal bombardamento di informazioni a cui siamo sottoposti sistematicamente. Una reazione che rischia di essere esasperata dallo stato emotivo di vulnerabilità a livello individuale e collettivo in cui ci troviamo a causa della pandemia. L’essere più fragili ci rende, infatti, più facilmente preda di abbagli e simboli in cui proiettare paure, ambizioni e desideri di cambiamento in positivo.
      Esasperano le fragilità delle persone idealizzate

      In mancanza della consapevolezza di essere oggetto di idealizzazione, la mitizzazione può avere conseguenze deleterie anche sulla persona idealizzata. Come alcune storie di eroi ci mostrano, l’idealizzazione può portare a una progressiva esasperazione di fragilità latenti e, nei casi estremi, a una dissociazione cognitiva. Di qui lo sviluppo – nelle persone borderline – di disturbi narcisistici e megalomani, che possono accelerare la caduta del mito, sempre al varco quando vi è un processo di santificazione in atto.[9]

      A prescindere dall’evoluzione dell’idealizzazione, delle competenze, talenti o accuse di cui può essersi macchiato il presunto eroe, si tratta di un percorso a termine, nella maggior parte dei casi destinato a lasciare spazio alla solitudine non appena la stagione della gloria si esaurisce, talvolta accompagnata dalla dissacrazione della figura dell’eroe.
      Il caso della pastora Agitu Ideo Gudeta e della “Capra Felice”

      La recente idealizzazione della pastora etiope Agitu Ideo Gudeta, titolare dell’azienda agricola “La Capra Felice”, esaltata a seguito della sua uccisione, confermano il bisogno compulsivo di eroi che affligge una rilevante fetta di società, in questo caso quella più militante e attenta alla giustizia sociale, ai valori della solidarietà e dell’antirazzismo. La sua storia è molto conosciuta.

      Agitu Ideo Gudeta nasce nel 1978 in Etiopia. Emigra in Italia per motivi di studio ma, appena laureata, torna nella sua terra d’origine per combattere contro il land-grabbing. Dopo aver ricevuto pesanti minacce per il suo impegno contro le multinazionali, rientra come rifugiata in Italia e avvia in Trentino un allevamento di ovini di razza pezzata mòchena, una specie autoctona a rischio di estinzione, e un caseificio, La Capra Felice, i cui prodotti biologici e gli intenti ambientalisti la portano ad ottenere riconoscimenti anche da Slow Food e da Legambiente. Per la sua attività Agitu Ideo Gudeta recupera un pascolo di oltre 10 ettari in stato di abbandono e occupa nel corso degli anni numerosi giovani richiedenti asilo e rifugiati.

      Quello di Agitu Ideo Gudeta è un racconto ineccepibile di cui tanti attivisti si sono innamorati, estrapolando pezzi della sua storia che calzavano a pennello con la loro retorica. Il suo percorso ha trovato terreno fertile nelle narrazioni sull’inclusione, nelle analisi di buone pratiche di imprenditoria migrante e femminista, nelle storie di rivitalizzazione di aree interne, negli esempi di recupero di specie animali autoctone a rischio di estinzione, e nella lotta contro il land-grabbing.

      La maggior parte delle analisi, in particolare quelle realizzate dopo la sua uccisione, si è tuttavia limitata ad una descrizione superficiale che ha sottovalutato le caratteristiche di un contesto contraddistinto da una molteplicità di sfide e criticità legate in primo luogo al settore di attività, la pastorizia, notoriamente a rischio di sfruttamento per le caratteristiche intrinseche a tutte le attività agricole. Si tratta di attività esposte a una molteplicità di fattori di incertezza; a quelli produttivi e di mercato si aggiungono rischi climatici, ambientali e istituzionali legati al cambio di normative e regolamenti, che condizionano fortemente le entrate economiche, specie delle aziende agricole di piccole dimensioni.

      Tra le caratteristiche di contesto rientra anche il tipo di territorio: la Valle Dei Mòcheni, un’area alpina periferica dove esistono ancora regole antiche che governano i rapporti tra i membri della comunità. Infine, un ulteriore elemento di complessità è legato alla tipologia di lavoratori impiegati dalla Capra Felice: richiedenti asilo e rifugiati, ovvero persone fragili che mostrano, in generale, un’alta vulnerabilità spesso dovuta a disturbi post-traumatici da stress (Barbieri, 2020).[10]
      Queste sfide e criticità si sono intrecciate con le difficoltà legate a un processo di sviluppo imprenditoriale che la Capra Felice ha intrapreso in un momento di grave instabilità e recessione economica.

      A dispetto delle drammatiche circostanze in cui i fatti si sono svolti, la retorica che potremmo chiamare della beatificazione seguita all’uccisione di Agitu Ideo Gudeta non ha lasciato alcuno spazio alla riflessione critica. Non solo le istituzioni pubbliche e gli operatori dell’informazione, ma anche molti politici e organizzazioni di terzo settore si sono rifugiati nella facile consacrazione dell’eroina, piuttosto che interrogarsi sulle fragilità dell’ambiente in cui Agitu Ideo Gudeta operava, sulle difficoltà incontrate da lei e dai suoi collaboratori, e persino sulle concause che potrebbero aver portato alla sua uccisione.

      Mentre si sono sprecate le parole per “eroicizzarla”, nessuno si è interrogato sulla qualità del lavoro, sul tipo di relazione lavorativa che la Capra Felice instaurava con i giovani richiedenti asilo e sull’esito dei loro percorsi di integrazione.

      Chi erano e che ruolo avevano i collaboratori della Capra Felice? Quanti richiedenti asilo hanno lavorato nel corso degli anni e in che misura e da chi erano seguiti nei loro percorsi di inclusione? Qual era il turn over dei lavoratori stranieri? Che rapporto avevano i collaboratori della Capra Felice con il territorio e la comunità locale? Dove vivono e lavorano ora gli ex lavoratori? Nel caso di lavoratori particolarmente fragili, qual era il ruolo dei servizi sociali e sanitari? Il percorso di sviluppo imprenditoriale della Capra Felice è stato seguito da qualche incubatore di impresa e, in caso negativo, perché no?

      Queste sono solo alcune delle domande su cui si sarebbe dovuto a nostro avviso interrogare qualsiasi osservatore non superficiale, interessato a comprendere e a sostenere i percorsi di accoglienza e inclusione sociale e lavorativa delle persone fragili.
      Progetti collettivi al posto di eroi e eroine

      La storia tragica di Agitu Ideo Gudeta sembra essere anche la storia di una società debole e fallimentare nel suo complesso, non solo di un’onda retorica che ha attraversato i mezzi di informazione e i social network per creare al suo centro l’eroina.

      Il fatto che la sua morte abbia generato un bisogno di santificazione e una gogna mediatica nei confronti dell’accusato, invece che sollecitare cordoglio e un esame di coscienza collettiva, smaschera un vuoto su cui forse varrebbe la pena riflettere.

      Un vuoto che può essere riempito solo con azioni concrete e durevoli, che siano il frutto di progetti collettivi a livello comunitario. A questo scopo, servono iniziative di autentica condivisione che aiutino a governare la complessità, a riconoscere le situazioni di fragilità e a prevenire e gestire i conflitti che inevitabilmente abitano i contesti sociali (Sclavi, 2003). A supporto di queste iniziative, c’è bisogno di una nuova narrazione, autentica e costruttiva, che sia innanzi tutto capace di apprendere dagli errori e dai fallimenti affinché le falle del nostro tessuto sociale non permettano più il perpetrarsi di simili tragedie. Quindi, una narrazione che non rifugge il fallimento e non lo percepisce come un pericolo da mascherare a qualsiasi costo, ma come un’opportunità di crescita e di cambiamento.

      Rispetto a quella che nutre gli eroi, è un tipo di narrazione di senso, incline ad alimentare una responsabilità collettiva e una nuova consapevolezza sociale, che può favorire un ribaltamento valoriale in senso solidale. È però una narrazione molto più faticosa da sviluppare. Presuppone, infatti, un’azione collettiva impegnativa in termini di relazioni, negoziazioni e confronti, che deve giocoforza poggiare sulla creazione di spazi di aggregazione e di collaborazione. Questa nuova narrazione non può che nascere da un rinnovato impegno civico di ciascuno di noi, in quanto cittadini responsabili che, praticando la solidarietà, prefigurano un cambiamento e un futuro possibile dove la cittadinanza attiva non è l’eccezione ma la costante.[11]

      Di qui la necessità di sostituire l’emulazione verbale e la ben sedimentata narrativa dell’eroe, normativamente accettata da un uso millenario, con un nuovo ordine normativo significante della realtà.
      Come sostenere la creazione di comunità accoglienti e inclusive

      La crisi della democrazia rappresentativa, la sfiducia nei partiti e l’allontanamento dalla politica hanno da tempo acceso i riflettori sulla società civile, organizzata e non, in quanto spazio di discussione e confronto, finalizzato non solo ad elaborare efficaci strategie in risposta a bisogni sempre più complessi, ma anche a prevenire e gestire le fragilità umane e i conflitti tra gruppi sociali contrapposti.

      Di fronte alla crisi epocale dei modelli politici e produttivi tradizionali, sono sempre più numerosi i dibattiti su come, in quale misura e attraverso quali strumenti, le comunità locali possano intervenire concretamente sulle profonde disuguaglianze economiche, sociali, territoriali che affliggono il nostro Paese, ribaltando i paradigmi dominanti e innescando cambiamenti profondi a vantaggio dei più deboli e della collettività.

      La storia, quella più lontana e quella più recente, ci mostra come spesso la forza della comunità risieda nel bagaglio di valori, tradizioni e relazioni fiduciarie, che sono radicati nel tessuto sociale e vissuto collettivo. Ed è questo bagaglio relazionale e valoriale che ha permesso in moltissimi casi alle comunità di sopravvivere e rigenerarsi nel corso della storia, spesso a seguito di eventi traumatici come calamità naturali, crisi economiche e sanitarie. Ma la storia ci riporta anche molti esempi di comunità in cui la valorizzazione delle identità locali ha originato fenomeni di chiusura particolaristica. Comunità esclusiviste che si sono e in molti casi continuano a identificare l’altro con il male (Bonomi, 2018; Langer, 1994).

      La comunità locali sono, quindi, lontane dall’essere sempre e comunque virtuose.

      Cosa fa pertanto la differenza tra una comunità e l’altra? Per diventare accoglienti e inclusive, le comunità devono potersi esprimere attraverso quelle organizzazioni della società civile che sono proiettate verso il bene comune e si avvalgono del coinvolgimento di una pluralità di portatori di interesse, in rappresentanza dei diversi pezzi di società che abitano un territorio. Sono quindi le organizzazioni di terzo settore maggiormente radicate sul territorio che andrebbero sostenute dalle politiche pubbliche all’interno di una cornice collaborativa in cui, anziché gestire prestazioni per conto dell’ente pubblico (Borzaga, 2019), il terzo settore dovrebbe configurarsi come un attivatore di risposte sociali innovative, che fanno leva sulla prossimità ai territori e alle persone, incluse quelle vulnerabili e disinformate, normalmente ai margini delle dinamiche di cambiamento (Manzini, 2018).

      Se è vero, come da più parti sottolineato, che la politica è in gran parte responsabile dello scarso riconoscimento della società civile organizzata, l’insufficiente apprezzamento del suo valore aggiunto è ascrivibile anche ad alcune prassi, culture e comportamenti organizzativi messi in atto dalle stesse organizzazioni di terzo settore. Tra questi, una retorica – quella degli eroi – incoerente con la loro natura, che ha generato atteggiamenti autoreferenziali e ha alimentato uno scollamento di molte organizzazioni di terzo settore dalle loro comunità di appartenenza. Una delle sfide che il terzo settore dovrebbe far propria è, quindi, a nostro avviso l’archiviazione, una volta per tutte, della retorica dell’eroe e dell’eroina e la sua sostituzione con una narrazione autentica e costruttiva che sia in grado di alimentare un’attiva partecipazione della cittadinanza alla gestione del bene comune.

      DOI: 10.7425/IS.2021.02.10

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      Note

      La nozione di bene comune fa riferimento all’insieme delle risorse necessarie allo sviluppo della persona ed all’esercizio dei suoi diritti fondamentali. Presuppone condizioni di eguaglianza nell’accesso o utilizzo degli stessi. Sul concetto di beni comuni si rimanda ai lavori di E. Olstrom [tra cui: Olstrom E. (1990), Governing the Commons: The Evolution of Institutions for Collective Action, Cambridge University Press, Cambridge UK]. Nel sistema italiano una definizione di riferimento è quella formulata dalla Commissione Rodotà nel 2008: “Cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona”.
      https://nti.apet118.it/home
      “Quanto vale il volontariato in Italia? Istat, CSVnet e FVP lanciano la prima sperimentazione del Manuale ILO sul lavoro volontario”: https://www.csvnet.it/csv/storia/144-notizie/1226-quanto-vale-il-volontariato-in-italia-istat-csvnet-e-fvp-lanciano-i-dati
      Di qui l’elogio di chi ce la fa e “merita” (Piketty, 2020). Per un’analisi critica del “merito” si rimanda a Sandel (2020).
      Con riferimento alle critiche si veda John McClusky (2018).
      Modelli di governance che sono supportati da vincoli normativi o statutari – come il vincolo alla non distribuibilità degli utili (non-profit distribution constraint) e l’asset lock – pensati per garantire la sopravvivenza nel tempo dell’inclusività e dell’interesse generale perseguito.
      Approccio che vede l’intervento sociale in analogia all’innovazione tecnologica, dove una mente geniale, chiusa nel suo garage, inventa qualcosa che rivoluziona la vita di tutti.
      La campagna #nonsonoangeli prese avvio all’indomani dell’ultima alluvione di Genova dall’esigenza di ridefinire il ruolo del volontariato e della percezione di questi per i media, promuovendo da un lato una comunicazione meno stereotipata dell’impegno dei cittadini, in caso di emergenza e non, per il bene comune, e dall’altro una conoscenza del volontariato e della solidarietà così come queste si manifestano. https://nonsonoangeli.wordpress.com/2016/06/08/roma-8-giugno-2016-on-sono-angeli-il-volontariato-tra-stere
      Si veda a questo proposito: https://socialimpactaward.net/breaking-the-myth-of-hero-entrepreneurship - http://tacklingheropreneurship.com
      Si veda anche: https://mediciperidirittiumani.org/studio-salute-mentale-rifugiati - https://archivio.medicisenzafrontiere
      https://www.cesvot.it/comunicazione/dossier/hanno-detto-di-nonsonoangeli

      https://www.rivistaimpresasociale.it/rivista/articolo/dalla-ricerca-di-eroi-alla-costruzione-di-progetti-comunitari

      #héros #narration #imaginaire_collectif #récit #moralité_culturelle #éthique #justice_sociale #contre-récit #communautés_locales #pathos #individualisation #Lucano #Mimmo_Lucano #Domenico_Lucano #excellence #storytelling #innovation #néo-libéralisation #libéralisme #management #leadership #figure_charismatique #charisme #Riace #idéalisation #polarisation #simplification #catégorisation #fragilisation #solitude #Capra_Felice #responsabilité_collective #société_civile

  • Siamo i peggiori del mondo per abbandono scolastico. Ecco la vera emergenza in Italia.

    L’abbandono scolastico è un problema che affligge l’Italia dai tempi della legge Coppino sull’istruzione obbligatoria (1877) e ancora lontano dall’essere risolto, tanto che nel 2017 si è invertito l’andamento positivo, con il rischio che nel 2020 si registri un 15% di rinunce, quando l’obiettivo europeo per l’anno prossimo è di rimanere sotto il 10%. Se guardiamo la situazione degli ultimi 20 anni, con 3 milioni di studenti persi complessivamente siamo addirittura gli ultimi al mondo. Per lo Stato le conseguenze negative di questa situazione sono enormi sul piano economico e sociale, tanto da indebolire la stessa ripresa economica. Strutture inadeguate, materiale didattico non differenziato secondo modalità e velocità di apprendimento e personale scarso e poco preparato a cogliere i segnali d’allarme rendono il nostro Paese incapace di trattenere a scuola i ragazzi a rischio rinuncia. Il risultato nel 2017 è il tasso del 14,5% di abbandono sul totale degli studenti (in crescita rispetto al 13,8 dell’anno prima e quattro punti percentuali più della media europea). Un problema che si ripercuote sull’occupazione: i disoccupati con la licenza media sono il doppio dei diplomati e quasi il quadruplo dei laureati.

    Con una quota di iscritti ai programmi d’istruzione terziaria tra le più basse dell’intera area Ocse e i laureati che sono appena il 26% degli adulti, con dieci punti percentuali in meno rispetto al target europeo. Il nostro Paese è anche poco attraente per gli studenti degli altri Stati Ocse, che nel 2013 risultavano essere solo 16mila contando anche gli immigrati permanenti, circa un terzo e meno di un quarto rispettivamente di Francia e Germania, dove non sono calcolati gli immigrati. Per l’Ocse, si tratta di “ulteriori segni di debolezza del sistema d’istruzione terziaria in Italia”. L’abbandono scolastico – che avviene prima del diploma, considerato il “livello minimo auspicabile” per l’Unione europea, o addirittura prima del compimento dell’obbligo scolastico a 16 anni – contribuisce all’aumento della percentuale del 35% dei neet, i 20-24enni che non studiano, non lavorano e non cercano lavoro. Eppure, secondo le ricerche, un anno in più di studi può aumentare il salario futuro di un valore tra il 4 e il 10%.

    Mentre nove Paesi europei hanno da tempo raggiunto l’obiettivo di contenere l’abbandono scolastico sotto la soglia del 10%, i risultati sono diseguali all’interno dell’Unione, dove complessivamente gli early school leavers superano i quattro milioni. L’Italia paga una strutturale mancanza di investimenti nel settore, che non è considerato prioritario: un errore grave per un Paese dove quasi un quarto dei quindicenni non raggiunge i livelli minimi di competenze matematiche e di lettura e in cui la disoccupazione giovanile è tra le più alte del continente. In Europa nel 2012 il 40% di coloro che avevano lasciato la scuola non aveva un impiego (quasi il doppio del totale dei disoccupati sotto i 25 anni). Una lunga esclusione dal mercato del lavoro, inoltre, peggiora ulteriormente le prospettive di carriera, tanto più che si stima che in futuro solo un mestiere su dieci sarà alla portata di chi ha abbandonato gli studi. Trattare il calo dell’abbandono scolastico come una priorità contribuirebbe a scongiurare il rischio povertà ed emarginazione, che in Italia è concreto per oltre il 28% della popolazione, dato che un solo punto percentuale in meno garantirebbe all’Unione Europea mezzo milione di giovani lavoratori in più ogni anno.

    Anche per lo Stato le conseguenze sono pesantissime. Tra queste, oltre a quelle legate al benessere immateriale dei cittadini – come la mancanza di coesione e di partecipazione, la disgregazione del tessuto economico e sociale e l’ignoranza – ci sono i ridotti introiti provenienti dalle tasse e la crescita delle spese sociali, dai sussidi del welfare al prezzo della giustizia (ad esempio un periodo di studio più lungo fa diminuire i crimini contro la proprietà). A queste si aggiunge l’onere per il sistema sanitario, dato che le persone con un basso livello di istruzione hanno in media più problemi di salute e una minore speranza di vita alla nascita, come emerge dall’Atlante italiano delle disuguaglianze di mortalità per livello di istruzione pubblicato pochi mesi fa. Nel complesso, il costo per lo Stato di ciascuno studente che abbandona precocemente la scuola è tra uno e due milioni di euro nel corso della sua vita. Solo in Italia, azzerare l’abbandono precoce porterebbe a un aumento del Pil compreso tra l’1,4 e il 6,8%.

    Maschio, di status socio-economico basso, membro di gruppi sociali vulnerabili: è questo l’identikit di chi ha maggiori probabilità di lasciare precocemente la scuola, che aumentano ulteriormente in presenza di difficoltà di apprendimento e di gestione dell’ansia. L’abbandono scolastico, però, non è un fatto improvviso, ma è il risultato di un insieme di fattori personali, sociali, economici, educativi e familiari. Per questo serve un sistema di prevenzione che si basi su curricula scolastici di qualità e attraenti per i ragazzi, percorsi educativi flessibili e attenzione alla transizione tra un ciclo scolastico e l’altro, che sono i momenti più critici. Bisogna concentrarsi sullo studente in quanto individuo, puntando al suo benessere a partire da educazione e cure della prima infanzia, dalle politiche a sostegno della famiglia e dall’integrazione dei figli di migranti e rom, che sono tra le categorie più esposte: la collaborazione tra scuola e Ong per realizzare corsi di alfabetizzazione ed educazione per adulti, ad esempio, ha ricadute positive anche sui figli.

    Una prima educazione di buon livello però non basta se nei cicli di istruzione successivi le classi sono sovraffollate e l’insegnante, lasciato solo, non può prestare attenzione alle necessità individuali di ciascuno studente e affrontare le problematiche con risorse scarse. La scuola deve puntare su una struttura il più possibile aperta, con corsi di recupero più organici e regolari, e fornire laboratori pomeridiani non curricolari, come teatro, arte e lettura, che contribuiscono a migliorare l’autostima e i rapporti interpersonali. Difficoltà di apprendimento e brutti voti causano infatti scarsa fiducia in se stessi, che unita a un cattivo rapporto con gli insegnati e a problemi personali (dal rapporto difficile con i genitori ai problemi economici fino ad abusi e tossicodipendenza), sono tra i principali motivi di abbandono. Su queste criticità cercano di intervenire le “scuole popolari” dell’associazione Non Uno di Meno, che tiene corsi di recupero pomeridiani gestiti da volontari con ottimi risultati, e il progetto di Fuoriclasse sviluppato da Save the Children. Una scuola più pratica e più partecipata aiuterebbe a evitare lo straniamento e la disaffezione dei ragazzi, i cui bisogni individuali sono penalizzati dalla standardizzazione didattica. Nonostante il ministro dell’Istruzione Bussetti affermi che la lotta all’abbandono precoce è una priorità del governo, nel Def approvato ad aprile scorso, non si vedono i mezzi per dei cambiamenti strutturali che arrestino l’emorragia nelle aule scolastiche.

    Nel tentativo di risolvere il problema, non si possono solo copiare le soluzioni adottate all’estero, ma occorre conoscere a fondo le caratteristiche del sistema scolastico, sociali e culturali dei diversi Paesi. Gli esempi di chi ha saputo affrontarlo con successo mostrano possibili strade da percorrere, come la diversa organizzazione dell’intero sistema sociale, in cui agli studenti persi lungo il percorso scolastico viene offerta, come in Francia, una seconda opportunità, ad esempio con corsi che facciano da ponte per un reinserimento nel percorso scolastico tradizionale. I Paesi Bassi hanno mantenuto la lotta all’abbandono scolastico come una priorità nonostante i buoni risultati già raggiunti: lo Stato collabora con gli enti regionali e locali e con le scuole per stabilire i target e i fondi, mentre gli istituti scolastici sono liberi di scegliere la strategia migliore per raggiungere gli obiettivi. Le direttive del governo olandese sono coordinate da un organo nazionale e adattate alle necessità locali e i progressi monitorati dagli specialisti del ministero dell’Educazione – che forniscono supporto ai rappresentanti locali – assegnati alle regioni.

    Abbandono e dispersione scolastica sono problemi strutturali, che non si risolvono da un giorno all’altro e la strategia per eliminarli deve essere trasversale rispetto alle appartenenze politiche e non influenzata dai cambi di governo, come riconosce anche il Rapporto sul contrasto del fallimento formativo pubblicato dal Miur lo scorso anno. È inutile esultare per un calo della dispersione scolastica se dopo un paio di anni il dato torna a salire: il traguardo da porsi è il raggiungimento da parte di tutti i cittadini degli obiettivi scolastici e formativi a prescindere da condizione socioeconomica, origini famigliari, geografiche ed etniche, dal genere o dall’orientamento sessuale. Innalzare il livello dell’istruzione e modernizzarlo è fondamentale per essere al passo con l’Europa e con il mondo, ma prima bisogna convincersi che l’eliminazione dell’abbandono scolastico è la chiave per assicurare un futuro dignitoso alle nuove generazioni e uscire da una crisi economica e sociale che rischia di diventare una condizione endemica del nostro Paese.

    https://thevision.com/attualita/emergenza-abbandono-scolastico
    #abandon_scolaire #école #Italie #statistiques #chiffres #éducation #déscolarisation

  • Migranti, 2016: hanno cercato fortuna all’estero 285mila italiani. Più degli stranieri sbarcati sulla Penisola

    Le anticipazioni del Dossier 2017 del centro studi Idos. Se ne sono andati diplomati, laureati e dottori di ricerca nel cui percorso di studi lo Stato aveva investito quasi 9 miliardi, e la stima è per difetto. Due su tre non ritornano. Il danno è in parte compensato dai flussi d’ingresso degli immigrati: sono sempre di più quelli con alti livelli di istruzione.

    https://dirittiumani1.blogspot.ch/2017/07/migranti-2016-hanno-cercato-fortuna.html
    #Italie #solde_migratoire #migrations #émigration #immigration #statistiques #chiffres #2016

    • Lavoro, dal 2008 al 2015 mezzo milione di italiani fuggiti all’estero. E ora se ne vanno anche gli immigrati dell’Est Europa

      Partono soprattutto i giovani laureati, ma anche stranieri che non trovano più economicamente attraente il nostro Paese. Lo conferma il rapporto «Il lavoro dove c’è» dell’Osservatorio statistico dei Consulenti del lavoro

      http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/06/21/lavoro-dal-2008-al-2015-mezzo-milione-di-italiani-fuggiti-allestero-e-ora-se-ne-vanno-anche-gli-immigrati-dellest-europa/3676861
      #2015

    • Se ne vanno giovani e laureati: la nostra vita di genitori nell’Italia dei figli lontani

      Nel 2015 sono partiti più di 100 mila, la metà hanno meno di 40 anni. Un terzo sono laureati. Ammaniti: il senso di colpa dei genitori.


      http://www.corriere.it/scuola/studiare-e-lavorare-all-estero/notizie/se-ne-vanno-giovani-laureati-nostra-vita-genitori-nell-italia-figli-lontani

    • Petit commentaire sur le #vocabulaire #terminologie...

      Pour les jeunes Tunisiens qui font la même chose que les jeunes Italiens, on parle de #émigration_clandestine :
      En Tunisie, le mal-être des jeunes se traduit par un pic d’émigration clandestine

      Hafedh a « vu la mort en face » en tentant d’émigrer clandestinement vers l’Europe, mais ce Tunisien de 26 ans n’a toujours qu’une idée en tête : reprendre la mer. En septembre, les départs ont connu un pic, reflétant un mal-être persistant chez les jeunes.


      https://www.courrierinternational.com/depeche/en-tunisie-le-mal-etre-des-jeunes-se-traduit-par-un-pic-demig
      #mots

    • Fuga dall’Italia, è emorragia di talenti: nel 2016 via 50mila giovani tra i 18 e i 34 anni

      Secondo il rapporto della fondazione Migrantes sono 5 milioni i connazionali residenti all’estero, +3,3% in un anno. Aumentano le partenze ’di famiglia’ e quelle degli under 35. Tra le mete più ricercate il Regno Unito e gli Emirati Arabi

      http://www.repubblica.it/cronaca/2017/10/17/news/emigrati_italiani_nel_mondo_rapporto_migrantes_record_fuga_all_estero-178
      #2016

    • L’Europa dei nuovi emigranti. In 18 milioni cambiano Stato

      Nicola Gatta ha iniziato il 2018 come aveva finito il 2017: mantenendo lo stipendio a zero per se stesso e tutti i suoi assessori. I risparmi servono per far salire il numero dei residenti del suo Comune dai 2.802 attuali, o almeno a evitare nuovi cali. Il sindaco offre duemila euro l’anno — sconti su tassa per i rifiuti, mensa scolastica o asilo nido dei figli — a qualunque famiglia europea decida di stabilirsi a Candela. La condizione è di non provenire da villaggi piccoli come Candela stessa: Gatta non vorrebbe mai spopolarli come è accaduto al suo Comune quando, in questi anni, centinaia di giovani se ne sono andati in Italia del Nord, Germania o Regno Unito.

      in Europa milioni di persone si stanno spostando sempre di più dai territori poveri di reddito e di opportunità — svuotandoli — verso le aree a densità sempre più alta di lavoro, conoscenze e reti sociali.

      In Europa invece la Grande recessione ha innescato una trasformazione del costume che prosegue con la ripresa: secondo Eurostat, nel 2016 vivevano in un altro Stato dell’Unione almeno 18 milioni di europei, il 12,5% più di due anni prima.

      Nel 2015 (ultimo anno registrato da Eurostat) si sono trasferite da un Paese europeo a un altro 1,46 milioni di persone, il 13% più di due anni prima. Gli espatriati europei, oltre il 3% della popolazione, sono la quarta o quinta nazione dell’area euro e a questi ritmi raddoppieranno in dieci anni.

      http://www.corriere.it/digital-edition/CORRIEREFC_NAZIONALE_WEB/2018/01/02/11/leuropa-dei-nuovi-emigranti-in-18-milioni-cambiano-stato_U43420152120325xhH

      #démographie #Italie #europe #dépopulation #migrations #politique_migratoire #attractivité #migrations_en_europe #inégalités #centre #périphérie #géographie_du_vide #géographie_du_plein #exode_rural #émigration #Italie #Bulgarie #Grèce #Roumanie #statistiques #chiffres #Allemagne

    • Oltre 250mila italiani emigrano all’estero, quasi quanti nel Dopoguerra

      Giambattista Vico parlava di corsi e ricorsi storici. Con questa formula il filosofo napoletano sintetizzava la capacità di certe situazioni di ripetersi nella vita degli essere umani. Il Dossier Statistico Immigrazione 2017 elaborato dal centro studi e ricerche Idos e Confronti registra una di queste situazioni: oggi gli emigrati italiani sono tanti quanti erano nell’immediato dopoguerra. In numero, oltre 250.000 l’anno. Corsi e ricorsi della storia, appunto.

      Prima il calo poi la crisi del 2008 e l’inversione di tendenza
      L’emigrazione degli italiani all’estero, dopo gli intensi movimenti degli anni ’50 e ’60, è andato ridimensionandosi negli anni ’70 e fortemente riducendosi nei tre decenni successivi, fino a collocarsi al di sotto delle 40.000 unità annue. Invece, a partire dalla crisi del 2008 e specialmente nell’ultimo triennio, le partenze hanno ripreso vigore e hanno raggiunto gli elevati livelli postbellici, quando erano poco meno di 300.000 l’anno gli italiani in uscita.

      Oltre 114mila persone sono andate all’estero nel 2015
      Sotto l’impatto dell’ultima crisi economica, che l’Italia fa ancora fatica a superare, i trasferimenti all’estero hanno raggiunto le 102.000 unità nel 2015 e le 114.000 unità nel 2016, mentre i rientri si attestano sui 30.000 casi l’anno.

      La fuga dei cervelli
      A emigrare - sottolinea il report - sono sempre più persone giovani con un livello di istruzione superiore. Tra gli italiani con più di 25 anni, registrati nel 2002 in uscita per l’estero, il 51% aveva la licenza media, il 37,1% il diploma e l’11,9% la laurea ma già nel 2013 l’Istat ha riscontrato una modifica radicale dei livelli di istruzione tra le persone in uscita: il 34,6% con la licenza media, il 34,8% con il diploma e il 30,0% con la laurea, per cui si può stimare che nel 2016, su 114.000 italiani emigrati, siano 39.000 i diplomati e 34.000 i laureati.

      Germania e Regno Unito le mete preferite
      Le destinazioni europee più ricorrenti sono la Germania e la Gran Bretagna; quindi, a seguire, l’Austria, il Belgio, la Francia, il Lussemburgo, i Paesi Bassi e la Svizzera (in Europa dove si indirizzano circa i tre quarti delle uscite) mentre, oltreoceano, l’Argentina, il Brasile, il Canada, gli Stati Uniti e il Venezuela.

      L’investimento (perso) da parte dello Stato
      Ogni italiano che emigra rappresenta un investimento per il paese (oltre che per la famiglia): 90.000 euro un diplomato, 158.000 o 170.000 un laureato (rispettivamente laurea triennale o magistrale) e 228.000 un dottore di ricerca, come risulta da una ricerca congiunta condotta nel 2016 da Idos e dall’Istituto di Studi Politici “S. Pio V” sulla base di dati Ocse.

      I flussi effettivi sono ancora più elevati
      A rendere ancora più allarmante il quadro tratteggiato da questo dossier è un’uteriore considerazione: i flussi effettivi sono ben più elevati rispetto a quelli registrati dalle anagrafi comunali, come risulta dagli archivi statistici dei paesi di destinazione, specialmente della Germania e della Gran Bretagna (un passaggio obbligato per chi voglia inserirsi in loco e provvedere alla registrazioni di un contratto, alla copertura previdenziale, all’acquisizione della residenza e così via).

      Il centro studi: i dati Istat vanno aumentati di 2,5 volte
      Il centro studi spiega che rispetto ai dati dello Statistisches Bundesamt tedesco e del registro previdenziale britannico (National Insurance Number), le cancellazioni anagrafiche rilevate in Italia rappresentano appena un terzo degli italiani effettivamente iscritti. Pertanto, i dati dell’Istat sui trasferimenti all’estero dovrebbero essere aumentati almeno di 2,5 volte e di conseguenza nel 2016 si passerebbe da 114.000 cancellazioni a 285.000 trasferimenti all’estero, un livello pari ai flussi dell’immediato dopoguerra e a quelli di fine Ottocento. Peraltro, si legge ancora nel dossier statistico, non va dimenticato che nella stessa Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero il numero dei nuovi registrati nel 2016 (225.663) è più alto rispetto ai dati Istat. Naturalmente, andrebbe effettuata una maggiorazione anche del numero degli espatriati ufficialmente nel 2008-2016, senz’altro superiore ai casi registrati (624.000).

      L’Ocse: Italia ottava in classifica
      Il problema dei tanti italiani che abbandonano l’Italia è stato segnalato qualche giorno fa anche dall’Ocse. Nell’ultimo report sui migranti l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economici ha fatto presente che l’Italia è tornata a essere ai primi posti mondiali come Paese d’origine degli immigrati. Secondo l’Ocse, la Penisola è ottava nella graduatoria mondiale dei Paesi di provenienza di nuovi immigrati. Al primo posto c’è la Cina, davanti a Siria, Romania, Polonia e India. L’Italia è subito dopo il Messico e davanti a Viet Nam e Afghanistan, con un aumento degli emigrati dalla media di 87mila nel decennio 2005-14 a 154mila nel 2014 e a 171mila nel 2015, pari al 2,5% degli afflussi nell’Ocse. In 10 anni l’Italia è “salita” di 5 posti nel ranking di quanti lasciano il proprio Paese per cercare migliori fortune altrove.

      http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-07-06/oltre-250000-italiani-emigrano-all-estero-erano-300000-dopoguerra-09405

    • Il Sud Italia si sta svuotando. Questa è la migrazione che dovrebbe terrorizzarti.

      È piuttosto evidente che il pallino di questa era all’insegna del “cambiamento” siano gli immigrati e tutto ciò che li concerne. La gente è stanca, bisogna fermare l’invasione, c’è un complotto per sterminare la razza europea attraverso sbarchi di africani fannulloni, ladri e stupratori. Si arriva al punto di usare 177 persone come materiale di scambio per gare tra poteri forti e di arrestare a scopi di propaganda gli unici fautori di modelli virtuosi per un’idea di accoglienza e integrazione che non si basi né sullo sfruttamento né su una qualche forma di reclusione temporanea. In tutto ciò, sembra che le conversazioni da bar su quanto questi neri ci stiano rubando lavoro e identità – quelle stesse chiacchiere che portano il partito di Salvini al 33,5% – raramente tengano conto di un dato sull’emigrazione che invece sì, sta incidendo negativamente sul futuro dell’Italia. E non è l’emigrazione dal Continente nero su barconi carichi di delinquenti, ma quella fatta da ragazzi e ragazze con un regolarissimo biglietto Ryanair e una chat di gruppo su Whatsapp con i nuovi coinquilini.

      Il Sud dell’Italia si sta svuotando sempre di più dei suoi giovani, e questa tendenza non prospetta altro che una progressiva desertificazione di un’intera area del nostro Paese. Nei 7 anni della crisi, dal 2008 al 2015, il saldo migratorio netto è stato di 653mila unità: 478mila giovani di cui 133mila laureati, con le donne in misura maggiore rispetto agli uomini. A questi si accompagna una perdita di popolazione di 2 mila unità nella fascia di 0-4 anni in conseguenza al flusso di bambini che si trasferiscono con i genitori. E se l’idea di trovarsi in un inferno terrestre dove gli africani ci sostituiscono definitivamente con le loro barbarie viene visto come un pericolo in atto, non vedo come questa previsione non possa suscitare altrettanto sgomento, considerando anche che il piano Kalergi è un’invenzione, mentre lo spopolamento del Mezzogiorno, purtroppo, no.

      Che una migrazione interna all’Italia sia sempre esistita lo sappiamo tutti: trovare qualcuno al Sud che abbia almeno un parente che negli anni ’60 è andato a lavorare alla Fiat è piuttosto semplice, così come al Nord abbondano i cognomi meridionali e le estati “dai parenti di giù”. Ma allora era un fenomeno diverso, si trattava quasi sempre di poveri che cercavano lavoro nelle zone industrializzate d’Italia, e molto spesso anche all’estero. Capita ancora oggi di incontrare in spiagge del Sud intere famiglie dall’aspetto decisamente poco nord-europeo che alternano dialetto stretto a tedesco, francese o addirittura fiammingo, creando un cortocircuito sorprendente. Ma la questione dell’immigrazione al Nord oggi è diversa, perché non coinvolge più operai e contadini ma neo-diplomati in procinto di cominciare l’università o comunque giovani specializzati. È un campione sociale diverso da quello di sessant’anni fa e il rischio che ne consegue è inquietante: mentre prima anche chi rimaneva al Sud continuava comunque a fare figli, oggi il tasso di natalità è molto più basso. In pratica, c’è molta più gente che muore di quanta decida di mettere al mondo nuovi esseri umani. I giovani piuttosto che rimanere a studiare a casa propria preferiscono andare in una città dove il livello universitario è ritenuto più alto e soprattutto dove una volta laureati avranno un’effettiva prospettiva di lavoro, o quantomeno la speranza di una prospettiva, compresa quella di mettere su una famiglia. Nel frattempo, nelle regioni da cui se ne sono andati non c’è un ricambio generazionale sufficiente a garantire che questo fenomeno non implichi una vera e propria desertificazione. Le cavallette magari non arriveranno, ma i paesi fantasma sì.

      La questione non è tanto quella di biasimare la scelta di chi decide di andare a studiare in un’altra città, come a dire che si sta abbandonando la nave. Anzi, è un fenomeno comprensibile: a diciotto o diciannove anni volersi misurare con un posto diverso da casa propria, in un ateneo che offre qualcosa che altrove non c’è è una scelta che non ha nessun motivo per essere disapprovata. Avendo i mezzi familiari che lo consentono e l’entusiasmo della matricola che fa andare oltre alla perenne pila di piatti sporchi nel lavello della nuova casa in affitto, ben venga. Non è nemmeno un problema legato al fatto che si possano preferire delle città e dei modi di vivere diversi da quelli da cui si proviene, o che il paese sperduto tra le montagne dell’Appennino calabro stia stretto. Anche chi decide di rimanere in molti casi può farlo perché dispone di mezzi economici che glielo consentono, mascherando con un velo di sacrificio per la propria terra quello che in realtà è una semplice condizione di privilegio. Se vieni da una famiglia di avvocati ed erediti lo studio dei tuoi genitori, non è che tu stia compiendo chissà quale missione da martire nel restare, ed è normale che se hai già tutto pronto e apparecchiato per il futuro puoi goderti proprio quei vantaggi che ti offre il Meridione, tra sole, mare, costi della vita bassi e grandi abbuffate.

      Piuttosto, la questione riguarda l’idea di partenza che accompagna chi lascia il Meridione per cui è impossibile tornarvi, perché tanto chi lo trova il lavoro in una parte d’Italia in cui la disoccupazione è doppia rispetto al resto del Paese, in cui già si fa fatica. A perderci, come sempre, sono quei giovani che non hanno abbastanza mezzi in partenza da poter decidere dove stare, che lavoro fare. Ci si trova così davanti a un bivio per cui alla prospettiva di un non-futuro si accetta di vivere lontani dalla propria famiglia, dai propri amici storici che si sparpagliano tra le regioni più promettenti, accontentandosi di quegli incontri programmati per tutti nello stesso momento, e che si concludono sempre con il solito genere di domanda, “E a Pasqua scendi?”. Sì, è vero che c’è chi va via da casa propria anche per scappare da situazioni opprimenti, e trova nella città che lo accoglie una stabilità soddisfacente, una nuova vita molto più adatta alle proprie esigenze, ma – incredibile a dirsi – c’è anche chi vorrebbe fare il lavoro che ha sempre sognato nel posto dove è nato.

      Non si tratta dunque di qualche becero revanscismo neo-borbonico per cui “Viva il Sud, il mare e il sole”, ma semplicemente della realtà di un divario che dagli anni di Franchetti e Sonnino non è ancora stato colmato, un dislivello che priva chi nasce in queste regioni di un banale spazio di manovra esistenziale che dovrebbe essere consentito a chiunque. Che le colpe ricadano su diversi fattori, specialmente quelli interni al Meridione, è noto: sin dall’Ottocento le sue classi dirigenti hanno usato la scusa stessa dell’arretratezza per legittimare un immobilismo sociale, civile ed economico che si è nutrito di voto clientelare e criminalità organizzata. Ma che le conseguenze di questo dislivello si abbattano in particolare sui giovani è invece drammatico.

      Le statistiche Eurostat del 2017 danno un’idea più palpabile di questa situazione: la Calabria ha un tasso di disoccupazione giovanile del 55,6%, la Campania del 54,7%, la Sicilia – in calo rispetto all’anno precedente – del 52,9%. Per capirci meglio, il Nord Est ha un tasso del 20,6%. E così si alimenta quel circolo vizioso per cui meno si lavora, più università si trovano costrette a ridimensionare i costi, più giovani scappano via. I poli decentrati in Sicilia, ad esempio, se in un primo momento sembravano poter dare nuova vita a zone più esposte alla decrescita, adesso cominciano a chiudere per mancanza di fondi e costi troppi elevati, come il caso di Beni culturali e archeologia ad Agrigento, distaccamento dell’Università di Palermo. Quale posto migliore per studiare questo genere di materia se non in uno dei siti archeologici più importanti d’Europa. E invece, niente da fare.

      Tra le altre cose, c’è anche un altro paradosso che si verifica: come rileva un articolo di Limes, anche quando si parla di città in cui le cose funzionano discretamente bene, non si verifica nessun tipo di affluenza da altre zone d’Italia. È una spiegazione concreta alla frustrante sensazione con cui ho sempre avuto a che fare da quando vivo lontano dalla mia città d’origine. Sono nata e cresciuta a Catania, un centro mediamente grande dove nonostante tutti i suoi molteplici difetti si può stare anche molto bene, si può frequentare l’università, si possono prendere ogni giorno voli per qualsiasi aeroporto del mondo. Non è New York, ma non è nemmeno quel buco nero di degrado e tristezza che si è soliti immaginare quando si pensa alle città del Sud: in termini di vivibilità ha diversi vantaggi, dal clima alla varietà sia del patrimonio artistico che naturale, è una di quelle città che si definiscono “a misura d’uomo”, ha una sua economia. Quando sono andata via, l’ho fatto perché volevo misurarmi con qualcosa di diverso della mia cameretta con i poster dell’adolescenza ancora attaccati al muro, ma avrei potuto tranquillamente studiare anche a due passi da casa mia. Eppure, le uniche persone nate da Roma in su che si sono trasferite in questa città che ho conosciuto negli anni sono stranieri rimasti folgorati da qualche visione in stile Italienische Reise. Ma nonostante le eccezioni, è lecito chiedersi perché mai un giovane che ha la possibilità di vivere altrove dovrebbe scegliere di trasferirsi in quella metà di penisola in cui i treni ad alta velocità si trasformano in carri bestiame di fine Ottocento.

      In realtà, i motivi per cui varrebbe la pena tornare o trasferirsi possono esistere: personalmente, ad esempio, penso che grazie a internet e alla possibilità di un tipo di approccio al lavoro diverso che ci consente di intraprendere, l’idea di potersi creare un futuro in posti che non sono famosi per la loro sovrabbondanza di possibilità si fa in certi casi un po’ più concreta. Certo, non penso che il futuro di tutti quei minuscoli centri che si trovano tra una città e un’altra sia dei più rosei, come non credo che sia né saggio né realistico credere di poter arginare un fenomeno inarrestabile come l’afflusso nelle metropoli. Allo stesso tempo però, al di là delle infinite promesse di rinascita del Sud – non ultime quelle della fantasiosa Ministra del Sud Barbara Lezzi – e delle oggettive responsabilità dei suoi abitanti presenti ma soprattutto passati, ci sono dei vuoti professionali che potrebbero essere riempiti proprio da chi è andato a formarsi in zone economicamente più progredite. Ci sarebbero delle risorse gestibili in modo diverso da come è successo finora – come il turismo o l’agricoltura – che magari potrebbero dare spazio proprio a una parte di quei giovani che sono scappati via da una steppa desolata e arida. È una scelta audace, non lo nego, ma potrebbe essere l’unico modo sano per attivare un circolo virtuoso di progresso e crescita. Non so dire se esistano soluzioni davvero efficaci per fare sì che quella distanza atavica tra Nord e Sud si accorci fino a sparire, o se si tratti di un’anatema insanabile che porterà davvero allo svuotamento totale di una porzione enorme d’Italia, ma mi sento in diritto di affermare che il fatto che ancora oggi si vada via da un posto per necessità e non per scelta è inaccettabile, di qualsiasi “Meridione” del mondo si parli.

      Non tutti dunque hanno la fortuna di poter tornare da dove vengono e provare a investire per il proprio futuro, c’è chi una volta andato via non ha altra scelta se non quella di accettare questo compromesso. Quando però mi trovo a parlare con i miei coetanei che sono andati fuori per necessità, molto spesso sento la solita frase: “Io ci tornerei pure giù, ma poi cosa faccio?”. E me lo chiedo spesso pure io quando fantastico su un possibile futuro nella città dove sono nata e che mi piace, “Ma poi cosa faccio?”. Da qualche parte però si deve pur cominciare, e come prima cosa direi che sarebbe il caso di smetterla di lamentarci per chi cerca di migliorare la propria vita andando via dal suo Paese e renderci conto che succede pure a noi, con una forma e delle cause diverse, ma con una sostanza pressoché identica. Lasciare casa propria deve essere una scelta, non un’imposizione, da qualsiasi angolo del mondo si provenga. Quando sulla terra non ci sarà più acqua allora magari avrà senso spostarci tutti sulla luna, ma fino a quando l’acqua c’è e non la si vuole trovare per negligenza allora non c’è nessun motivo di andarsene. Io non credo che il Sud Italia sia ancora completamente a secco, anche se da molti anni ormai abbiamo lasciato i rubinetti aperti.


      https://thevision.com/attualita/sud-migrazione
      #Italie_du_sud

    • 28mila laureati se ne vanno ogni anno. E no, non è retorica: è la prima emergenza dell’Italia

      Sembra un problema da poco, è un disastro. Perché se i cervelli se ne vanno, non ne arrivano. E se non c’è un sistema a misura del talento, nessuno ha più incentivi a diventarlo. E se studiare non serve, non ha senso spendere in istruzione. Rimane solo una domanda: come si torna a crescere?

      Potremmo chiamarla la grande evasione: 28mila laureati hanno lasciato l’Italia nel 2017, il 4% in più rispetto al 2016. Lo dice l’Istat, nel suo report sulla mobilità interna e le migrazioni internazionali della popolazione residente, presentato ieri, 14 dicembre 2018. Eccovela, l’Italia dei cervelli in fuga, o dei suoi migranti economici, se preferite. E no, non è solo una retorica antipatica e snob. Al contrario, è il problema dei problemi del nostro Paese, il sintomo primo della nostra crisi senza sbocchi né vie d’uscita, la tessera del domino che cadendo, le fa crollare tutte.

      Lo è, banalmente, perché più cervelli se ne vanno, meno ne arrivano. Lo dice la logica, prima della sociologia: ognuno sta bene in mezzo ai suoi simili, e difficilmente un talento si sentirà attratto da un Paese che fa scappare le sue intelligenze. E infatti in Italia ci sono solo 500mila laureati stranieri, il 7% sul totale, contro il 10% della Francia, l’11% della Germania, il 17% del Regno Unito, tutti Paesi che hanno molti più laureati di noi.

      Lo è, di conseguenza, perché più laureati se ne vanno, meno gente decide di laurearsi. Anche in questo caso, tutto è perfettamente logico: se il mercato del lavoro italiano non assorbe i laureati e se I lavoratori sovraistruiti rispetto alle mansioni che svolgono sono il 20%, uno ogni cinque, che senso ha laurearsi? Domanda perfettamente legittima. La cui risposta sta nelle 65mila immatricolazioni in meno tra il 2000 e il 2015 e nel dato che ci vede all’ultimo posto come numero di laureati tra i 30 e 34 anni: 23,9% rispetto alla media Ue del 38%.

      Se a un Paese che non ha materie prime, risorse energetiche, riserve illimitate di capitali finanziari togli il capitale umano, il migliore che ha, come diavolo torna a crescere?

      Lo è, al pari, perché meno immatricolazion e meno laureati non risolvono il problema del mancato incrocio tra domanda e offerta di lavoro, semmai lo aggravano. Viva le eccezioni, ma se l’Italia è il Paese della produttività al palo, forse una parte del problema sta anche nel fatto che solo il 25% dei suoi manager d’impresa ha la laurea in tasca, contro una media europea del 54%. E pure nel fatto che nel nostro Paese i ricercatori sono due volte meno che in Francia e Regno Unito, tre volte meno rispetto alla Germania, nove volte meno rispetto al Giappone, tredici volte meno degli Stati Uniti d’America. Date laureati alle imprese, magari dategli pure il timone, e innoveranno le loro strategie, cambieranno strada, riconosceranno il talento e attrarranno i loro simili. Cacciateli fuori, e continuerete per la vostra strada mentre tutto attorno cambia, semplicemente perché non avete gli strumenti per intraprendere la strada nuova.

      Lo è, infine, perché tutto questo è uno spreco enorme di risorse. Perché il nostro petrolio si chiama capitale umano e siamo come una potenza petrolifera che regala il proprio oro nero anziché sfruttarlo per arricchirsi. C’è chi ha fatto i conti ed è arrivato a dire che l’Italia, facendo scappare i suoi cervelli, ha perso sinora 42,8 miliardi di investimenti privati - leggi: famigliari - in capitale umano. Cui si aggiungono circa 15 miliardi ogni anno di investimenti pubblici regalati ai Paesi in cui i nostri giovani cervelli vanno a lavorare. Roba da far venir voglia di smettere di investire nell’istruzione. E infatti, il governo del cambiamento, in legge di bilancio, ha messo sul piatto 7 miliardi per i pensionati, 9 miliardi per i sussidi di disoccupazione e niente per l’istruzione.

      Tutto torna. Peraltro, se il numero dei laureati continua a diminuire, e quei pochi scappano, nessuno ne chiederà mai conto, né in piazza, né nel segreto dell’urna. Rimane un solo dubbio: se a un Paese che non ha materie prime, risorse energetiche, riserve illimitate di capitali finanziari togli il capitale umano, il migliore che ha, come diavolo torna a crescere? Quando avete finito gli alibi, con calma, provate a rispondere.

      https://www.linkiesta.it/it/article/2018/12/15/cervelli-in-fuga-28mila-laureati-via-dall-italia-dati-istat/40449
      #2017

    • Talenti in fuga: come riportarli a casa?

      Nel nostro Paese, resta acceso il dibattito intorno alla migrazione giovanile e puntato il dito contro un mercato del lavoro incapace di rispondere alla domanda di occupazione.

      Ben venga questo dibattito. Ma attenzione ad un dato: le lancette del tempo non sono ritornate al 1876, quando ha avuto avvio quella che la storia ha conosciuto come la più massiccia emigrazione di italiani, conclusasi nel 1976 con 26 milioni di espatri.

      Ed infatti, se nel passato il nostro Paese ha esportato giovane manovalanza, oggi esporta in gran parte giovani cervelli.

      Secondo il rapporto Istat nel 2018, i migranti italiani con più di 24 anni, nel corso del 2016, ammontano a circa 54 mila unità e nella fascia di giovani dai 25 ai 39 anni, quasi il 30 per cento è in possesso di un titolo universitario o post-universitario.

      Le destinazioni europee più ricorrenti sono la Germania e la Gran Bretagna; quindi, a seguire, l’Austria, il Belgio, la Francia, il Lussemburgo, i Paesi Bassi e la Svizzera mentre, oltreoceano, l’Argentina, il Brasile, il Canada, gli Stati Uniti e il Venezuela.

      Si tratta in larga misura di manager, ricercatori, imprenditori. Secondo i dati della Commissione europea, dal 2005 al 2015, hanno lasciato l’Italia per andare a lavorare nel Regno Unito 1.632 architetti.

      Cosa significa tutto questo? Le risposte sono due.

      La prima che il nostro Paese è popolato da giovani altamente talentuosi, in grado di diventare – malgrado gli ostacoli del caso – brillanti professionisti. La seconda che il nostro mercato del lavoro non è in grado di offrire a tutti i “cervelli” occupazioni in linea con le competenze acquisite.

      Un dramma per alcuni versi, un’andatura fisiologica per altri. Un mercato del lavoro infatti, per funzionare, ha bisogno di “cervelli” ma anche di risorse dotate di professionalità tecniche. Come artigiani, tecnici, piu in generale esperti nei mestieri, e cosi via dicendo.

      A conforto di questa tesi militano almeno tre dati. In primo luogo, in Italia, secondo il sistema Excelsior di Unioncamere e ministero del Lavoro, si registrano quasi 100.000 offerte di lavoro che non trovano candidati e di cui una buona parte riguarda falegnami, panettieri, installatori di infissi, sarti, cuochi, operai metalmeccanici ed elettromeccanici, tecnici informatici e progettisti. In secondo luogo, che – come noto – molte di queste professioni sono occupate dai cittadini stranieri: nel 2016, hanno acquisito la cittadinanza italiana circa 201 mila persone. In terzo luogo, – e si tratta della prova “a contrario” – la Germania registra una bassa disoccupazione dei giovani che, quindi, difficilmente emigrano, perchè, grazie al grosso investimento nella formazione tecnica (Fachoberschule: istituto tecnico, Fachhochschule: tecnico superiore, Berufsfachschule: istituto professionale a tempo pieno), ha una geografia dei lavori ben distribuita tra professioni intellettuali e professioni tecniche.

      Ed allora, bisogna chiedersi: quale possibile soluzione per agevolare l’occupazione di chi ambisce a professioni intellettuali in un mercato del lavoro saturo rispetto ad esse? La risposta potrebbe essere: cavalcare il potere della rivoluzione tecnologica.

      Grazie alla possibilità di lavorare ininterrottamente connessi da remoto al luogo di lavoro per mezzo di sofisticati device, infatti, molte professioni intellettuali potranno essere svolte da un luogo qualsiasi, e dunque anche dal proprio Paese, senza necessità di emigrare verso quello estero che le offre.

      Si immaginino le potenzialità dello smart working che oggi consente di connettersi a distanza con il proprio posto di lavoro. Possono farlo un manager ma anche un imprenditore, ad esempio.

      Oppure, si immaginino le potenzialità del crowd work, il lavoro su piattaforma emblema della gig economy che consente ad un committente da una determinata parte del mondo di commissionare un lavoro, anche di natura intellettuale, ad un lavoratore/professionista dalla parte del mondo opposta. Ad esempio, in alcuni casi, non è difficile commissionare attraverso la piattaforma progetti di studio architettonico o di ricerca.

      Una vera e propria disintermediazione dei territori, dunque, che travalica i confini del mercato del lavoro nazionale, ne disegna uno globale e, di conseguenza, impone la costruzione di un diritto del lavoro di nuova matrice, posto che quello attuale è il riflesso di categorie come il luogo di lavoro, in via di estinzione.

      L’Organizzazione internazionale del lavoro, ad esempio, invita alla creazione di statuti di basilari garanzie in favore dei lavoratori, siano essi subordinati, autonomi, occasionali, su un posto o su un altro posto di lavoro, nel segno di quello che ha definito il decent work.

      In conclusione, deve riempirci di orgoglio essere diventato un Paese patria di molti talenti e ciò deve interrogarci su come creare le migliori condizioni perchè questi talenti possano operare in uno spazio più ampio, sul mercato globale, da uno uno più ristretto, quello domestico.

      L’obiettivo, in altri termini, deve essere quello di rendere il nostro Paese un importante hub dell’economia globale, al pari di Inghilterra, Germania e Stati Uniti, e di offrire ai nostri talenti i relativi posti di comando e non semplicemente quello di riportarli a casa.

      Solo allora, sarà valsa la pena di aver “ricucito” le distanze.

      https://www.agoefilo.info/2019/01/talenti-in-fuga-come-riportarli-a-casa