• Ecco gli asilanti in sciopero della fame

    Costretti a uscire «tutto il giorno sotto il sole cocente». La protesta è partita oggi nel bunker della Croce Rossa a #Camorino.

    Questa mattina, gli asilanti non sono scesi dal letto alle 7 come d’abitudine. Non si sono preparati, e non sono usciti all’esterno a passare la giornata. Nel bunker della Protezione civile a Camorino è in corso una protesta contro la gestione del Centro. Secondo i portavoce degli asilanti, sarebbero «una trentina» gli aderenti all’iniziativa.

    Questioni aperte - Le condizioni di vita all’interno del bunker sono finite più volte sotto i riflettori, di recente. Sporcizia, scarsità di aria e luce, servizi scadenti. La tensione tra gli ospiti è salita esponenzialmente nel corso degli ultimi mesi, e oggi ha toccato il culmine in quella che - a giudicare dalle immagini - ha tutta l’aria di una protesta pacifica.

    Tutti fuori - «Non potete trattarci come animali, siamo umani» recitano i manifesti affissi all’interno del centro. «Non vi permetteremo di distruggere le nostre vite». A scatenare la protesta, la decisione da parte del Cantone di chiudere il centro in orari diurni. Dalle 9 alle 18 - è stato comunicato settimana scorsa - nessun ospite può restare all’interno del bunker.

    Clima rovente - «Una decisione forse giustificata dalle temperature elevate che raggiunge la struttura nel periodo estivo» ipotizza l’avvocato Immacolata Rezzonico, attivista per i diritti dei migranti. «Ci si aspetterebbe però che agli asilanti venga offerta una sistemazione alternativa, piuttosto che stare tutto il giorno sotto il sole cocente».

    Digiuno a oltranza - In una nota inviata alla redazione di Tio.ch - 20 minuti, gli asilanti affermano di avere scelto «la protesta non violenta» e la via dello sciopero della fame. Un numero imprecisato di loro - riferisce un portavoce - ha iniziato oggi il digiuno che continuerà «finché non arriveremo a una soluzione».

    Il comunicato degli asilanti:

    Nuove leggi sconvolgenti e inaccettabili vengono introdotte per i rifugiati in Svizzera.

    Il Cantone e la Croce rossa stanno per imporre ai rifugiati un nuovo regolamento che li costringe a lasciare il Centro contro la loro volontà alle 9 del mattino e tornare alle 18:00.

    I rifugiati hanno deciso di respingere questo ordine del Cantone perché sappiamo che ci stanno spingendo verso il muro: vogliono costringerci a fare qualcosa fuori dagli schemi, per dare loro modo di espellerci dalla Svizzera. Questo non è altro che una semplice politica sporca che viene giocata con rifugiati civili e minacciati che stanno affrontando una persecuzione nei loro paesi d’origine.

    Ci hanno già messi in uno stato di depressione. Che cosa vuole fare di più la Croce Rossa con noi? Trovano sempre un nuovo modo di molestare tutti qui creando ostacoli e leggi e problemi spiacevoli. Ci hanno minacciato di chiamare la polizia. Ci minacciano e non ci lasciano uscire. Se le molestie sono un crimine, allora perché è consentito molestare i rifugiati in Svizzera?

    Siamo stanchi del comportamento dello staff. Tuttavia, non faremo nulla di immotivato per danneggiare noi stessi o gli altri in modo che la Croce Rossa trovi una ragione per essere più dura. Abbiamo deciso di resistere a questa ingiustizia. Non usciremo dal campo seguendo questo orario forzato e imposto, anche se chiamano la polizia. Non stiamo facendo nulla di illegale. Iniziamo uno sciopero della fame, ci rifiuteremo di mangiare e protesteremo contro questa illogica imposizione di leggi insensate, e seguiremo tutte le procedure pacifiche per evitarlo.

    Chiediamo a tutti voi di prendere posizione assieme a noi contro questa decisione disumana del Cantone e della Croce Rossa.

    https://www.tio.ch/ticino/attualita/1376883/ecco-gli-asilanti-in-sciopero-della-fame

    #grève_de_la_faim #migrations #asile #réfugiés #Suisse #résistance #Tessin #bunkers #bunker

    –—

    sur ce bunker voir aussi:
    https://seenthis.net/messages/577204
    https://seenthis.net/messages/926614

    • Sciopero a Camorino, i rifugiati saranno spostati

      In vista del periodo estivo, il Dipartimento della sanità e della socialità (DSS), in collaborazione con il Dipartimento delle Istituzioni (DI) ha disposto delle misure volte a migliorare le condizioni dell’alloggio nei centri collettivi per richiedenti l’asilo. Il Ticino dispone di 4 centri collettivi per l’alloggio di richiedenti l’asilo, la cui gestione è affidata alla Croce Rossa Svizzera sezione Sottoceneri. Allo stato attuale, il grado di occupazione dei centri di Cadro, Paradiso e Castione è prossimo al 90%, con un ridotto margine di posti disponibili destinati alle nuove attribuzioni ricorrenti, decise da parte della Segreteria di Stato e della Migrazione (SEM). Mentre, nel centro di Camorino sono attualmente alloggiati 32 uomini soli, di questi: 22 sono in attesa dell’esito alla domanda d’asilo e 10 devono lasciare la Svizzera poiché l’autorità federale competente non ha riconosciuto loro lo statuto di rifugiato.

      Per i richiedenti in attesa dell’esito alla domanda d’asilo è previsto un percorso di integrazione all’interno dei centri collettivi della durata di circa 9 mesi, in vista della loro successiva uscita in appartamento nel caso ottenessero il diritto a restare in Svizzera. Per gli altri, in attesa della partenza dalla Svizzera, è prevista una presa a carico limitata a vitto, alloggio e cure sanitarie. Va sottolineato che nella maggior parte dei casi il rimpatrio di
      queste persone può essere eseguito solo su base volontaria, quindi la loro permanenza sul territorio può durare anche anni.

      Tenuto conto dell’annunciata canicola estiva e considerando la situazione creatasi la scorsa estate, il Dipartimento della sanità e della socialità (DSS), in collaborazione con il Dipartimento delle Istituzioni (DI), ha disposto delle misure per evitare l’innalzamento delle temperature all’interno del Centro. Si prevede in particolare la chiusura della struttura dalle 09:00 alle 18:00 in modo da consentire l’attivazione del sistema di areazione misto in linea con quanto previsto per le strutture protette di questo tipo. Contestualmente alla chiusura diurna, il DSS ha trasferito la distribuzione dei pasti nella struttura esterna adiacente al Centro, dove avevano già luogo le attività d’integrazione. Sono altresì state predisposte delle migliorie logistiche quali l’istallazione di una rete WI-FI e TV, a complemento della possibilità di fruire gli spazi verdi all’esterno.

      La messa in atto di queste misure, finalizzate a migliorare le condizioni di vita degli ospiti, è mstata loro comunicata durante un incontro in presenza di mediatori interculturali e delle autorità preposte. Le competenti autorità hanno preso atto che non è stato purtroppo colto lo spirito costruttivo con cui si è deciso di intervenire in chiave migliorativa. Al fine di ulteriormente migliorare la situazione sono previsti alcuni spostamenti in altri centri collettivi nell’ottica di ristabilire gli equilibri all’interno del Centro.


      https://www.ticinonews.ch/ticino/485465/sciopero-a-camorino-i-rifugiati-saranno-spostati

    • Camorino, «Migranti sempre più disumanizzati e segregati»

      Il CSOA il Molino esprime solidarietà agli asilanti ospitati a Camorino - che da ieri hanno iniziato uno sciopero della fame - e ribadisce la necessità di chiudere il bunker.

      Lodando il «gesto di rivolta e di resistenza», il CSOA invita tutti a ritrovarsi questa sera alla 19 al presidio di solidarietà con gli ospiti del centro di Camorino.

      Di seguito il comunicato stampa completo:

      Da ieri, lunedì 24 giugno, almeno 30 persone rinchiuse nel bunker di Camorino (struttura di segregazione sotterranea della protezione civile, gestita dal DSS e dalla Croce Rossa Svizzera) sono in sciopero della fame per protestare contro le condizioni di vita all’interno del bunker.

      Una fiammata di dignità, una pratica di resistenza attiva, da parte di chi vive in prima persona e sui propri corpi, l’inasprimento massiccio e continuo delle leggi e delle disposizioni di asilo. Leggi e disposizioni che malcelano una sempre più effettiva segregazione e disumanizzazione delle persone migranti.

      Le condizioni nelle quali sono costrette a vivere tra le 50 e le 70 persone nel bunker sono già state ampiamente documentate e denunciate a più riprese, nella totale indifferenza delle istituzioni e dei responsabili diretti.

      Ora, a distanza di un anno, con il ritorno del caldo estivo e il conseguente aggravamento delle condizioni di segregazione, la Croce Rossa impone ulteriori regole e restrizioni sulla libertà di movimento delle persone. Il tutto al solo scopo di continuare a pretendere «un approccio meno ostile» e «per il loro interesse».

      L’unico approccio possibile è la chiusura immediata del bunker!

      Perché gli «interessi» o i bisogni delle persone non possono essere stabiliti dall’arroganza colonialista e paternalista di istituzioni complici, artefici di politiche razziste e di pratiche xenofobe.

      I sempre più frequenti gesti di rivolta e di resistenza contro queste strutture di segregazione (come la recente protesta nel centro di registrazione di Chiasso), dimostrano una volta di più la capacità di autodeterminazione e di ribellione di tutte quelle persone che un sistema di neoapartheid vorrebbe sepolte, invisibili e sottomesse.

      Stiamo dalla parte di chi, con i suoi gesti, ci ricorda di restare umani.

      Sosteniamo e solidarizziamo complici con le persone in sciopero della fame nel bunker di Camorino!

      Sciopero come degna arma già adottata nelle carceri turche dalle/dai prigioniere/i curde/i e nei territori mapuche e ora intrapreso da compagne e compagni detenut* nel carcere dell’Aquila nel regime del 41 bis per opporsi alle vergognose condizioni detentive.

      Ritroviamoci tutti al presidio di solidarietà con le persone rinchiuse nel bunker di Camorino, stasera martedì 25 giugno dalle ore 19 a Camorino.

      https://www.ticinonews.ch/ticino/485426/camorino-migranti-sempre-piu-disumanizzati-e-segregati

    • «Chiudiamo subito il bunker di Camorino!»

      Un’interpellanza dei deputati MPS chiede al Governo di accelerare la chiusura e trovare soluzioni di accoglienza «dignitose»

      «Chiudiamo il bunker di Camorino! E subito!». Con queste parole - che non richiedono grandi spiegazioni - titola l’ultima interrogazione inoltrata al Consiglio di Stato dai deputati del Movimento per il socialismo Angelica Lepori Sergi, Simona Arigoni, Matteo Pronzini.

      Da ieri mattina - come ormai noto - diversi asilanti presenti nel bunker della Protezione civile di Camorino hanno intrapreso lo sciopero della fame per protestare contro la gestione del Centro.

      «Le responsabilità del Cantone (che gestisce con la Croce Rossa questa struttura) sono evidenti e note da tempo: nessun essere umano può accettare che delle persone vengano di fatto segregate in strutture come il bunker di Camorino. È indegno e contrario a qualsiasi principio umanitario», scrive l’MPS chiedendo se le autorità cantonali hanno predisposto dei sopralluoghi «per rendersi conto del peggioramento delle già pessime e inaccettabili condizioni di vita all’interno della struttura» nei periodi estivi e di canicola.

      «Non pensa il governo che sia necessario accelerare in direzione di una chiusura?», chiedono inoltre i deputati MPS, che chiedono pure se il cantone si stia attivando per «trovare soluzioni di accoglienza dignitose e che rispettino i diritti umani» e con quali tempistiche.

      Le domande al Consiglio di Stato

      1. Le autorità cantonali hanno predisposto dei sopralluoghi al centro di Camorino per rendersi conto del peggioramento delle già pessime e inaccettabili condizioni di vita all’interno della struttura in occasione di questi giorni di canicola e, più in generale, del periodo estivo?

      2. Se sì, come viene giudicata situazione?

      3. Se no, come mai? Non si intende procedere con urgenza?

      4. Da più parti si chiede chiudere il centro di Camorino. Malgrado le dichiarazioni generica disponibilità a trovare altre soluzioni, la situazione non è per nulla cambiata e diventa sempre più precaria. Non pensa il governo che sia necessario accelerare in direzione di una chiusura?

      5. Ci si sta attivando per trovare soluzioni di accoglienza dignitose e che rispettino i diritti umani delle persone in attesa del riconoscimento del diritto di asilo? Se sì in che modo e con quali tempi?

      https://www.tio.ch/ticino/politica/1377084/chiudiamo-subito-il-bunker-di-camorino

    • Silenzi imbarazzanti

      Quello preoccupante di Norman Gobbi che dopo le pesanti accuse lanciate al Collettivo R-esistiamo e ai così definiti «immigrazionisti», si è ben guardato – stranamente, vista la sua martellante presenza sui social – di rispondere al comunicato in cui viene smontato il suo farneticante intervento e gli vengono attribuiti legami vicini agli ambienti di estrema destra. Quello vago di Raffaele De Rosa che alla nostra richiesta d’incontro, non ha mai risposto, rimbalzando tutta la questione sui propri funzionari, probabilmente impossibilitati/e a trovare una risposta «politica» alla questione.

      Quello imbarazzato e agitato dei funzionari del DSS che, per la seconda volta nel giro di pochi giorni, hanno annullato un incontro con il Collettivo in quanto, tra le varie scuse balbettate (nomi non forniti e mancanza delle tematiche, poi puntualmente inoltrate), «non si dicono in grado di rispondere alle nostre domande», in quanto la chiusura del bunker sarebbe una questione «politica»
      e non «tecnica».

      Quello sorprendente di Filippo Lombardi, che, dicendosi d’accordo con le politiche migratorie di Gobbi, si dimentica di chinarsi sulle condizioni in cui giacciono delle persone in un bunker, tralasciando gli alti silenzi imbarazzanti di tutta una classe politica. Silenzi che mascherano una pesante e vergognosa situazione di omissioni, mancanze, vendette e persecuzioni che dimostrano un vuoto istituzionale, una pochezza d’idee e una banalità disarmanti e il timore nell’assumersi delle responsabilità concrete di fronte a quella che sempre più, volenti o nolenti, sarà la situazione con la quale ci dovremo confrontare nei prossimi anni.

      Nel mentre la situazione nel bunker di Camorino non accenna a migliorare, anzi. Sempre sette le persone presenti: una in arrivo e una in «partenza». La Wi-Fi tanto cara all’onorevole Gobbi è stata definitivamente tolta e lunedì mancava pure la luce in alcuni locali. Tutti quanti sono molto provati e demoralizzati; ad esempio un signore, in Svizzera da 24 anni e da vari mesi rinchiuso nel bunker, da tempo non esce e si alza solo per lo stretto necessario. E come se non bastasse al medico ancora non è concesso l’entrata, in una condizione generale sempre più deprimente e imbarazzante.

      La persona «in partenza» è stata trasferita per un vecchio fermo amministrativo – guarda caso intimato solo adesso – nel carcere del Canton Soletta. Per lui nei giorni scorsi era stato esplicitamente richiesto, sulla base di un certificato medico, il trasferimento dal bunker in un alloggio più confacente, certo non in una prigione, E’ stato prelevato lunedì mattina dalla polizia cantonale, mentre la funzionaria del DSS dal dito medio facile dichiarava che per il suo status non poteva essere spostato. Coincidenza perlomeno strana ma assolutamente non casuale. Per fare chiarezza e rendere pubbliche le domande che avremmo voluto porre durante l’incontro – con sempre lo stesso obiettivo politico, la chiusura del bunker – le riproponiamo di seguito:

      1) Il bunker sarà immediatamente chiuso?
      2) Le persone lì rimaste saranno immediatamente trasferite?
      3) Nei vari centri d’accoglienza, sarà possibile far entrare quotidianamente i medici che seguono le persone che vivono nelle strutture per verificare il loro stato di salute?
      4) Sarà possibile introdurre interpreti che almeno 4 volte alla settimana si rechino ai centri d’accoglienza per raccogliere esigenze e bisogni di che è dentro?
      5) Sarà possibile richiedere agli infermieri dei centri comunicare i nomi dei farmaci che somministrate? E possibilmente non solo essere informati ma anche scegliere quale terapia farmacologica intraprendere?
      6) Sarà possibile consultare il mandato (anche quello rinnovati annualmente) affidato dal Cantone alla Croce Rossa per la gestione dei centri di accoglienza, così da verificare i compiti loro assegnati?
      7) Sarà possibile vedere com’è stata supervisionata la Croce Rossa in questi anni in tutti i centri d’accoglienza?
      8) Sarà possibile verificare i regolamenti interni della Croce Rossa per comprendere perché è negato l’accesso ai centri a persone amiche ivi alloggiate o almeno comprendere i criteri di «selezione» su
      chi può entrare e chi no?
      9) Sarà possibile fornire un lavoro alle persone in richiesta d’asilo a condizioni più dignitose di quelle attuali che rasentano lo sfruttamento?
      10) Sarà possibile vedere il documento che regolarizza tale tipologia di assegnazione di lavori socialmente utili?
      11) Sarà possibile vedere il mandato assegnato al Soccorso Operaio per la gestione delle persone in richiesta d’asilo nell’assegnazione dei lavori, degli appartamenti, delle casse malati, ecc.?
      12) Sarà possibile aumentare quanto è dato a chi si trova in aiuto d’emergenza?
      13) Sarà possibile vedere e verificare il mandato assegnato alle agenzie di sicurezza per i cosiddetti centri di accoglienza?
      14) Sarà possibile verificare il regolamento e il documento di assegnazione dei compiti alla polizia per i casi di rimpatri?
      15) Sarà possibile “un’amnistia” per le persone definite «Non Entrata in Materia» che vivono nel limbo da anni, in quanto non hanno ricevuto lo status di «rifugiati» ma non possono tornare nel loro paese d’origine?
      16) Chi è attualmente il responsabile della situazione del bunker di Camorino visto che la Croce Rossa non lo è più? Il DSS, il Dipartimento Istituzioni, i Securitas, la polizia cantonale?

      In generale le condizioni nel bunker sono note ormai a tutti e tutte: una petizione firmata da un centinaio di medici che ne chiede la chiusura per ragioni mediche è stata inoltrata a marzo alla cancelleria del Cantone. Pensiamo quindi che occorra veramente alzare la pressione, in quanto risulta evidente che la situazione è sempre più insostenibile e che quel bunker vada chiuso! Vorremmo estendere un invito anche a tutte quelle associazioni e collettività che si dicono sensibili su questa tematica a prendere posizione e a organizzarsi per far sentire la propria voce, per raggiungere tale obiettivo. Che per noi non si limita solamente alla chiusura ma a una generale visione «altra» rispetto alle politiche migratorie e d’accoglienza, che si collocano nella dignità e nella possibilità di autodeterminarsi nel luogo in cui ognunx sceglie di vivere e di raggiungere. Diventa quindi essenziale riconoscere il meccanismo perverso e razzista delle attuali politiche migratorie istituzionali e del sistema disumano e indegno dei «centri di accoglienza». E non è solo cercando di rendere più «umana» l’accoglienza ma è anche e soprattutto lavorando a un intervento alla radice che permetterà di creare nuove condizioni che, partendo dalla libertà di circolazione per tutte e tutti, comprendano la possibilità di restare dove si vuole, arrivando fino all’estensione dei documenti per tutte e tutti.

      Collettivo R-Esistiamo

      https://frecciaspezzata.noblogs.org/post/2019/07/18/silenzi-imbarazzanti

  • #Desmond resta qui

    Il 5 agosto 2018, un giovane uomo annega nelle acque del Ceresio. Era probabilmente originario del Benin, e avrebbe dovuto lasciare la Svizzera a breve, ma chi l’ha conosciuto dice “era uno di qua”. Chi era Desmond? Chi l’ha conosciuto ci mostra i luoghi che ha frequentato nei dieci anni passati nella Svizzera italiana, i legami nati, le tracce che ha lasciato, racconta di come abbia preso in mano il suo destino, malgrado il difficile passato, di come si sia integrato e abbia cercato di costruirsi un futuro. Eppure a volte nemmeno questo sembra bastare.

    https://www.rsi.ch/la1/programmi/cultura/storie/Desmond-resta-qui-11598169.html
    #asile #migrations #réfugiés #Suisse #Tessin #mort #décès #mourir_dans_la_forteresse_europe

    Les mots d’une amie sur Desmond :

    Il s’agit de l’histoire, accompagnée de témoignages de personnes qui l’ont connu, du jeune africain qui s’est noyé, début août de l’an passé dans le #lac_de_Lugano, à #Maroggia.
    Il avait 27 ans et était plein d’espoir.Il avait quitté le Bénin pour un avenir meilleur, portant sur ses épaules de lourds événements vécus dans son pays natal.
    Il avait trouvé un travail dans une entreprise de Lugano où son engagement et sa bonne volonté étaient fort appréciée de ses employeurs..
    Nos autorités, néanmoins, lui refusèrent le droit de rester en Suisse, cela le démolit dans sa santé . Il fut interné dans une clinique psychiatrique.
    Un jour accompagné, d’autres patients, il participa à une sortie à Maroggia. Il disparu dans le lac et on ne pu plus rien faire pour lui.

    #santé_mentale #NEM #Dublin #Dublin_tue #règlement_dublin #suicide (?)

    Desmond repose au #cimetière de #Taverne-Torricella :

    • La storia di Desmond, affogato con il marchio di Nem

      Il giovane africano morto nel Ceresio si era diplomato alla Spai con alti voti e aveva lavorato come asfaltatore. Fino al rigetto della sua richiesta come richiedente l’asilo.

      È una storia d’acqua e d’asfalto quella di Desmond Richard, il ragazzo africano annegato domenica pomeriggio nel Ceresio, a pochi metri da riva, davanti all’ex collegio don Bosco. Una storia di amicizie, integrazione e anche tristezza, perché è ingiusto morire a 27 anni. Integrazione è la parola chiave per capire la sua vita, frettolosamente archiviata come la vicenda di un richiedente l’asilo finito male. Anzi ex richiedente, dopo che la Segreteria di Stato della migrazione lo scorso anno aveva deciso per l’espulsione. Desmond era un “NEM”, l’autorità federale gli aveva chiuso la porta in faccia col sigillo della “non entrata in materia”. Stop, da quel giorno la Svizzera gli ha voltato le spalle.

      Una decisione che fa a pugni col fatto che Desmond era perfettamente integrato. Non opinioni, ma fatti: a partire dal diploma, ottenuto con il cinque e mezzo di media nonostante le difficoltà in italiano, alla Spai di Mendrisio come “costruttore stradale”. Qualificato, perché la formazione triennale gli aveva permesso di ottenere l’attestato federale di capacità.

      Un lavoratore molto capace e apprezzato, come lo ricorda un collega della ditta di asfaltatura, la Cogesa, dove ha lavorato fino al luglio dell’anno scorso. Un lavoro duro, quello dell’asfaltatore, che gli permetteva però di essere autosufficiente. Pagava la sua cassa malati (quanti integrati lo fanno?) e contribuiva col 10 per cento del salario al fondo per la migrazione. Intanto riusciva a mettere da parte anche dei risparmi.

      Desmond aveva un caratteraccio, dicono quelli che gli hanno voluto bene. Poteva mandarti allegramente a quel paese e questi sbalzi, accompagnati da un’aggressività solo verbale, sarebbero stati anche, ma qui avvertiamo il lettore ci siamo fermati, all’origine dei suoi ricoveri all’Osc di Mendrisio. Fino all’ultimo, quello finito tragicamente durante l’uscita a bordo lago a Maroggia con altri pazienti e accompagnatori. Fin qui i fatti, perché il lato più drammatico della vita di Desmond racconta di una madre morta, anzi uccisa, davanti agli occhi di lui bambino, durante l’esodo verso l’Europa. Non amava riaprire quella ferita, e forse molti dei suoi problemi attuali erano riconducibili a quel trauma.

      Persa tragicamente la mamma, mai conosciuto il padre, Desmond era convinto, sino allo scorso anno, di essere originario del Benin.

      Ma qualcosa non quadrava, dal momento che la sua lingua non era il francese (la parlata ufficiale di quel Paese), ma l’inglese. Un mistero che è stato risolto solo lo scorso anno, quando in un consolato africano di Zurigo Desmond ha scoperto le sue radici: Benin sì, ma Benin City, una popolosa città della Nigeria. E la provenienza nigeriana sarebbe diventata uno degli ostacoli per il riconoscimento quale richiedente l’asilo.

      Così, gravato da un decreto di espulsione che lo invitava a lasciare la Svizzera, il giovane aveva ottenuto qualcosa che poteva permettergli di rifarsi un’altra vita altrove. Un passaporto nigeriano. Un pezzo di carta che purtroppo non gli servirà più a niente.

      https://www.tio.ch/ticino/attualita/1313882/la-storia-di-desmond-affogato-con-il-marchio-di-nem?mr=1&ref=

    • La Segreteria dello di Stato della Migrazione uccide ancora

      Lo scorso 5 agosto 2018 – secondo i media – muore a Maroggia un “ex richiedente l’asilo” annegato nelle acque del Ceresio. Un “tragico incidente”, “una fatalità”, “scivolato su una passerella in riva al lago” – dicono – (…)ex richiedente, che la Segreteria di Stato della Migrazione (SEM) lo scorso anno aveva deciso per l’espulsione(…) D. era un “NEM”, l’autorità federale gli aveva chiuso la porta in faccia col sigillo della “Non Entrata in Materia” . Eppure qui qualcosa non quadra, non convince, per l’ennesima volta. Con un trascorso tragico come molti/e migranti, dopo aver conosciuto inferni come la Libia e la traversata del Mar Mediterraneo nel quale ha perso l’unica persona legata a lui ovvero sua madre, (deceduta e gettata in mare come immondizia) e padre mai conosciuto, era da diversi anni in Svizzera, il paese della tanto rinomata ”accoglienza”. Qui ha svolto diversi tirocini e conseguito un diploma da asfaltatore, per diventare solo uno dei tanti sfruttati.

      Se da una parte dopo la sua scomparsa è stato elogiato dai giornali per quanto riguarda la farsa dell’integrazione, dall’altra quest’ultima suona sempre come una dichiarazione di guerra, una sorta di minaccia verso le persone che giungono in un altro paese, un’impresa eroica praticamente irraggiungibile. È ora ben chiaro che nemmeno superarla basta più. Nonostante fosse riuscito ad adeguarsi ai canoni di questa società, diventando un numero fra tanti che si spezza la schiena per alimentare questo accogliente sistema, si è visto ritirare il suo permesso da richiedente l’asilo proveniente dal Benin, poiché, come dicono i giornali: “ (…)qualcosa non quadrava, dal momento che la sua lingua non era il francese (la parlata ufficiale di quel Paese – il Benin ), ma l’inglese. Un mistero che è stato risolto solo lo scorso anno, quando in un consolato africano di Zurigo D. ha scoperto le sue radici: Benin sì, ma Benin City, una popolosa città della Nigeria. E la provenienza nigeriana sarebbe diventata uno degli ostacoli per il riconoscimento quale richiedente l’asilo”. Dunque l’accertamento della sua provenienza ha permesso di sbloccare le pratiche per la sua deportazione. Senza se, senza ma, Richard Desmond poteva quindi essere rimpatriato forzatamente.

      Da qui, con un’espulsione pendente nei suoi confronti verso una terra mai conosciuta e, viste le sue grida di aiuto inascoltate da parte di persone e associazioni, l’unico destino a lui imposto, come accade per molte persone in tali situazioni, è stata quella del ricovero all’ospedale psichiatrico. Bombato di psicofarmaci in modo che non potesse né pensare né reagire a quello che gli stava accadendo. Letteralmente gettato nel dimenticatoio, nel luogo in cui la mente viene annientata dai sedativi e la propria personalità viene calpestata.
      D’altronde si sa, le numerose testimonianze dalle prigioni ai centri di detenzione/espulsione per migranti parlano chiaro: è più facile ottenere ansiolitici o sedativi piuttosto che pastiglie per il mal di testa, per la gioia degli aguzzini e delle case farmaceutiche – come avviene anche nella vita di molte persone bianche occidentali.
      Forse allora non si parla più di “tragico incidente”, o “scivolata dal pontile”, come riportano i media di regime, per quanto ci riguarda si tratta dell’ennesimo omicidio da parte di chi decide delle vite e delle libertà altrui. Ennesimo perché di storie simili ne abbiamo sentite abbastanza, chi si ricorda di Youssouuf Diakité, il ragazzo maliano di 20 anni che il 27 febbraio dello scorso anno rimase folgorato sul tetto di un treno? O del ragazzo marocchino travolto a gennaio da un convoglio – sempre a Balerna – lungo i binari della ferrovia? E del richiedente l’asilo di Brissago morto ammazzato da 3 colpi di pistola (!!) da parte della polizia cantonale ticinese per “legittima difesa”? Per non citare Hervé Mandundu, ucciso il 6 novembre 2016 da tre pallottole sparate da un caporale della polizia del Chablais nel Canton Vaud. O Lamine F. trovato morto in una cella del carcere della Blécherette a Losanna il 24 ottobre 2017 che tre giorni prima, alla stazione di Losanna, era stato fermato per un controllo dalle guardie di confine e trattenuto in carcere perché scambiato per un’altra persona per la quale era stato emanato un decreto di espulsione. O anche Mike, membro del collettivo Jeano Dutoit, morto il 28 febbraio 2018 a Losanna durante un controllo di polizia nel quale viene “immobilizzato” e quante storie ancora di “avventurieri” migranti morti cercando di attraversare i confini di questa maledetta fortezza Europa?
      Tutte persone non vittime di fatalità o incidenti come spesso riportato, ma uccise da questo sistema marcio, dalla Segreteria di Stato della Migrazione, uccise dai confini di Stato, uccise dalla Polizia, uccise dal silenzio di questa società complice… …ma tanto si sa, erano migranti, persone non in regola – senza documenti – dal colore della pelle nera, e le loro vite valgono meno delle vite dei bianchi occidentali, non valgono un cazzo. Ecco l’accoglienza svizzera fatta di razzismo, prigioni, deportazioni e omicidi.
      Il razzismo e le frontiere uccidono, l’indifferenza pure! Per un mondo dove nessuno/a debba morire per una linea tracciata su una cartina o per il fatto di non possedere un pezzo di carta: abbattiamo ogni frontiera!


      https://frecciaspezzata.noblogs.org/post/2018/08/25/la-segreteria-dello-di-stato-della-migrazione-uccide-ancora

  • Gestrandet im Terminal – diese Kurden leben seit 49 Tagen im Transit des Flughafens Zürich

    Vier kurdische Familien wollen in der Schweiz Asyl beantragen. Unbemerkt von der Öffentlichkeit stecken sie in der Transitzone des Flughafens Zürich fest – teilweise seit sieben Wochen. watson hat sie vor Ort besucht.

    «I am going home» – «Ich gehe nach Hause», sagt Tom Hanks in seiner Rolle als Viktor Navorski am Ende des Hollywood-Blockbusters «Terminal» von Steven Spielberg. Er spielt einen im New Yorker Flughafen JFK gestrandeten Touristen aus Osteuropa. Als in seiner Heimat ein Bürgerkrieg ausbricht, wird Navorskis Pass ungültig. Er harrt neun Monate im Transitbereich aus, bevor er endlich wieder nach Hause darf.

    Die Realität der acht kurdischen Kinder und Jugendlichen, vier Frauen und acht Männer, welche sich teilweise seit 49 Tagen im Transitbereich des Flughafens Zürich aufhalten, hat wenig mit Spielbergs Komödie zu tun. In ihren Gesichtern spiegeln sich Anspannung, Müdigkeit, Angst und Apathie.

    Mithilfe eines günstigen One-Way-Tickets verschafft sich das watson-Reporterteam Zugang zum Transitbereich. In einem öffentlichen Wartebereich hinter der Passkontrolle für die B- und D-Gates sitzen die Gestrandeten in kleinen Gruppen verteilt auf Stühlen. Teilweise tragen sie weisse Hausschuhe aus Filz, wie man sie aus Hotels kennt. Gesprochen wird nicht viel. Die Blicke sind ins Leere gerichtet oder aufs Smartphone.
    «Helfen uns, so gut wir können»

    Ein kleines Mädchen drückt sein Gesicht an die Glastüre für das Flughafenpersonal am Rand des Wartebereichs. Immer wieder klopft sie mit ihren kleinen Fäusten ans Glas. Die Angestellten, für welche sich die Türe dank Badge automatisch öffnet, schenken dem Mädchen ein Lächeln oder streichen ihm übers Haar. Doch rauslassen dürfen sie das Kind nicht. Ihm und den anderen Asylbewerbern wurde die Transitzone des Flughafens als Aufenthaltsort zugewiesen, für die Dauer der Überprüfung ihrer Asylgesuche.

    Bis zu 60 Tage können sie laut Gesetz in der Transitzone festgesetzt werden. In dieser Zeit leben sie in der dort von der Asylorganisation Zürich (AOZ) im Auftrag des Staatssekretariats für Migration (SEM) betriebenen Asylunterkunft im Transit. Sie versteckt sich hinter einer unauffälligen Tür in einem Korridor, der zu einer Lounge für Business-Passagiere führt.
    Die vier Familien und die fünf alleine geflüchteten Männer haben sich vor ihrer Ankunft in Zürich nicht gekannt. Doch man versucht sich gegenseitig so gut zu helfen, wie es geht.

    Im Wartebereich gibt sich ein Mann in seinen Dreissigern mit Dreitagebart und Brille als unsere Kontaktperson zu erkennen. Es ist Mustafa Mamay, ein kurdischer Journalist aus der Türkei. Via WhatsApp ruft er eine Bekannte an, welche das Gespräch vom Kurdischen ins Englische übersetzt. Zunächst bedankt er sich für unseren Besuch. Er ist froh, dass sich jemand für die Situation der Gruppe interessiert und gibt bereitwillig Auskunft.

    Der Alltag in der Transitzone sei für alle belastend, sagt Mamay. Die vier Familien und die fünf alleine geflüchteten Männer, insgesamt 20 Personen, hätten sich vor ihrer Ankunft in Zürich nicht gekannt. Doch man versuche sich gegenseitig so gut zu helfen, wie es geht. Die Einöde des Alltags, die engen Platzverhältnisse, der hohe Lärmpegel in den Gemeinschaftsräumen. «Alle Männer schlafen in einem Raum und alle Frauen und Kinder in einem anderen. Fenster gibt es dort keine», so Mamay. Der einzige Fernseher im Speisesaal biete wenig Zerstreuung, da man angesichts der Gesprächslautstärke kaum etwas höre.
    «Kinder müssen oft weinen»

    Besonders für die Kinder sei es hart: «Ihnen macht das Eingeschlossen-Sein besonders zu schaffen.» Das jüngste Mitglied der kurdischen Gruppe ist ein einjähriges Mädchen. Insgesamt acht Minderjährige sind darunter. Viele von ihnen könnten nicht gut schlafen, hätten keinen Appetit und die wenigen Spielzeuge würden sie nach kurzer Zeit beiseitelegen, sagt Mamay. «Sie müssen oft weinen und sehnen sich danach, draussen spielen zu können.»

    Manchmal unternehmen die Mitglieder der Gruppe kleine Spaziergänge durch den Transitbereich. Hin und wieder leisten sie sich etwas Kleines vom Kiosk, doch viel Geld haben sie nach der teuren Flucht nicht zur Verfügung. Für die Erwachsenen ist das Smartphone das wichtigste Beschäftigungsmittel. Um die Computer im Wartebereich vor ihrer Unterkunft nutzen zu können, fragen sie Reisende nach ihren Flugdaten. Denn Zugang zu den PCs gibt es nur mit einer gültigen Boardingkarte.
    «Die Kinder müssen oft weinen und sehnen sich danach, draussen spielen zu können.»

    Mustafa Mamay

    Die gemeinsam in der Asylunterkunft eingenommenen Mahlzeiten geben dem ereignislosen Alltag ein wenig Struktur. Doch als die Betreuerin der Asylunterkunft Mamay während unseres Gesprächs zum Mittagessen bittet, lehnt er ab: «I’m not hungry». Viel wichtiger ist für ihn in diesem Moment das Gespräch mit den watson-Reportern – auch wenn diese bis zum Ende der Mittagspause gewartet hätten. Damit gibt es für Mamay nach dem Morgenkaffee erst am Abend den ersten Bissen zwischen die Zähne. Denn nach den Essenszeiten würden die Nahrungsmittel jeweils weggeschlossen, erklärt er.
    In der Türkei droht Gefängnis

    Am meisten Mühe machen Mustafa Mamay und den anderen die Unsicherheit über die eigene Situation. Mamay ist mit dem Flugzeug aus Südafrika nach Zürich gereist – wie die meisten anderen auch. Zwei Männer sind via Brasilien in die Schweiz eingereist.

    In der Schweiz gelandet, stellten sie sofort ein Asylgesuch. Oftmals wählen kurdische Flüchtlinge solche Routen, weil sie für die direkte Einreise aus der Türkei oder dem Irak ein Visum benötigen, das ihnen nicht ausgestellt wird. Die einzige Möglichkeit ist, über ein anderes Land und von dort aus mit einem Transitflug in die Schweiz zu fliegen. Doch ihre Hoffnungen auf Zuflucht in der Schweiz haben sich bisher nicht erfüllt. Auf die Asylgesuche, die bereits überprüft worden sind, ist das SEM nicht eingetreten. Die Begründung der Migrationsbehörde: Die Einreise sei über einen sicheren Drittstaat erfolgt, in dem sie ein Asylgesuch hätten stellen können.

    Die Fluchtgründe der Kurden widerspiegeln das Schicksal ihres Volkes. Journalist Mamay wurde in der Türkei zu sechs Jahren und drei Monaten Gefängnis verurteilt, weil er als Student ein Statement zur Unterstützung der pro-kurdischen Partei DTP unterzeichnet hatte. Im repressiven Klima wurde er bei seiner Arbeit bedroht. Er floh nach Rojava, dem damals kurdisch kontrollierten Gebiet in Nordwestsyrien. Nach der Invasion türkischer Truppen sei es für ihn auch dort nicht mehr sicher gewesen, sagt Mamay. Die Schweizer Journalistengewerkschaft Syndicom und die European Journalist Federation fordern die Schweiz auf, ihn nicht wegzuweisen.

    Auch der 27-jährige Informatiker Dogan Y. verliess die Türkei aus politischen Gründen. Nach einer Auftragsarbeit für eine Organisation der türkischen Zivilgesellschaft sei ihm vorgeworfen worden, die verbotene kurdische Arbeiterpartei PKK unterstützt zu haben, erklärt er in rudimentärem Englisch.
    Angst vor südafrikanischen Gefängnissen

    Eine der vier kurdischen Familien in der Transitzone stammt aus Syrien und ist laut Mustafa Mamay ebenfalls vor dem Krieg in Syrien geflüchtet. Andere Familien sind türkische Kurden, deren Dörfer während des Konflikts zwischen den türkischen Sicherheitskräften und der kurdischen Arbeiterpartei PKK – in den Augen der Türkei, der EU und der USA eine Terrororganisation – in den 90er-Jahren zerstört wurden. Sie flüchteten in den Nordirak, wo sie in Flüchtlingslagern lebten.

    Ihre Nachkommen wurden als Staatenlose geboren, die türkischen Ausweispapiere der Eltern sind längst abgelaufen. Die Flüchtlingslager gerieten in den letzten Jahren zwischen die Fronten des Konflikts zwischen der Terrorgruppe «Islamischer Staat» und schiitischen Milizen.
    «Die Eltern haben Angst, dass sie von ihren Kindern getrennt untergebracht werden.»

    Mustafa Mamay

    «Going home», nach Hause zurück wie Tom Hanks im Film, das will hier niemand. Die Männer, Frauen und Kinder fürchten eine Ausschaffung nach Südafrika oder nach Brasilien. Dort seien sie nicht sicher. Weil sie sich für ihre Flucht falsche Papiere zugelegt hatten, drohe ihnen Haft in Gefängnissen mit unhaltbaren Zuständen, fasst Mamay die Furcht der Gruppe zusammen. «Die Eltern haben Angst, dass sie von ihren Kindern getrennt untergebracht werden. Die Suizidrate in südafrikanischen Gefängnissen ist erschreckend.» Am meisten fürchten sie sich jedoch davor, in die Türkei ausgeschafft zu werden, wo ihnen Folter und Verfolgung drohten.
    «Südafrika ist kein sicheres Drittland»

    Im Fall der im Sommer 2018 in der Transitzone festgehaltenen kurdischen Journalistin Hülya Emeç ordnete das Bundesverwaltungsgericht das SEM an, ihr Asylgesuch zu prüfen. Und stoppte so die Wegweisung nach Brasilien, wo Emeç die Rückschaffung in die Türkei drohte.

    Gemäss NGOs und Juristen steht es auch in Südafrika schlecht um die Einhaltung des völkerrechtlichen Prinzips, das Abschiebungen in ein unsicheres Land verbietet. Dieses sogenannte Non-Refoulement-Prinzip werde regelmässig verletzt. Gemäss einem Bericht von Menschenrechtsanwälten aus dem Jahr 2016 beantwortet Südafrika nur gerade vier Prozent aller Asylgesuche positiv. Türkische Staatsbürger tauchen in dieser Statistik keine auf.

    «Südafrika ist kein sicheres Drittland für türkische Asylsuchende», sagt die Juristin Nesrin Ulu vom Verein Migration Organisation Recht. Sie vertritt den Journalisten Mustafa Mamay sowie zwei der Familien, die derzeit in der Transitzone ausharren.
    Die Anspannung der Kurdinnen und Kurden im Transit ist mit Händen zu greifen. Trotzdem lässt die Gruppe Reporter nicht gehen, ohne ihnen einen Schwarztee anzubieten.

    Auf das Asylgesuch von Mamay und den beiden Familien ist das SEM nicht eingetreten. Juristisch besteht jetzt im Falle Mamays noch die Option einer Beschwerde beim Bundesverwaltungsgericht. Im Fall der beiden Familien bleibt nur noch die Möglichkeit eines Wiedererwägungsgesuchs. Das hat allerdings keine aufschiebende Wirkung, weswegen eine Ausschaffung jederzeit möglich ist.
    Schwarztee zum Abschied

    Die Anspannung der Kurdinnen und Kurden im Transit ist mit Händen zu greifen. Trotzdem lässt die Gruppe die watson-Reporter am Ende des Gesprächs nicht gehen, ohne ihnen einen Schwarztee anzubieten. Er wird in einer öffentlichen Raucher-Lounge des Flughafens Zürich serviert, wenige Meter vom Eingang zur Asylunterkunft entfernt.

    Mit einem dampfenden Glas gesüssten Schwarztees in der Hand, umhüllt von den leisen Gesprächen der rauchenden Männer, glaubt man für einen kurzen Moment, einen flüchtigen Hauch von Heimat zu spüren. Bei der Verabschiedung vor der Passkontrolle am Ausgang der Transitzone ist das Gefühl wieder verschwunden.

    https://www.watson.ch/!187345199
    #Zurich #Suisse

    Plus sur cette histoire:
    https://www.zsz.ch/ueberregional/kinder-stecken-seit-50-tagen-am-flughafen-fest/story/12171521
    https://www.blick.ch/news/schweiz/zuerich/am-flughafen-zuerich-gestrandet-familien-leben-seit-sieben-wochen-in-der-trans
    https://www.telezueri.ch/zuerinews/transitzone-flughafen-zuerich-was-passiert-nach-ablauf-der-60-tage-frist-1

    • Bloccati da 50 giorni nella zona di transito

      Quattro famiglie curde sono ferme nell’aeroporto di Kloten in attesa di essere rimpatriate.

      Ricorda molto da vicino il film con Tom Hanks, «The Terminal», la vicenda di quattro famiglie curde bloccate nella zona di transito dell’aeroporto di Kloten (ZH). Quanto riportato da Watson.ch, tuttavia, è lungi dall’essere una sceneggiatura hollywoodiana quanto piuttosto la realtà di 20 persone impossibilitate a lasciare l’aeroporto zurighese.

      Le famiglie provengono da Siria, Turchia e Iraq, e sono arrivate in Svizzera passando dal Sud Africa prima di cercare asilo nel nostro paese.

      Per alcune di queste richieste, la Segreteria di Stato per la migrazione (SEM) e il Tribunale amministrativo federale hanno deciso di non entrare nel merito. Le persone interessate devono quindi tornare in Sud Africa. La data di partenza, tuttavia, non è ancora nota. La legge consente al SEM di detenere i rifugiati fino a 60 giorni nella zona di transito.

      «Piangono spesso» - Mustafa Mamay, giornalista curdo proveniente dalla Turchia è una di quelle persone intrappolate a Kloten (ZH). Secondo lui, la vita di tutti i giorni è molto pesante, sia in termini di mancanza di spazio, per il rumore e la noia. «Tutti gli uomini dormono in una stanza e tutte le donne e i bambini dormono in un’altra stanza. Le camere non hanno finestre», spiega. I curdi temono di essere rispediti in Sud Africa, poi in Turchia dove rischiano l’imprigionamento e la tortura.

      Secondo Watson.ch, tra i rifugiati vi sono otto bambini. Mustafa Mamay conferma che la situazione è particolarmente difficile per loro. «Molti dormono male e non mangiano più. Piangono spesso. Vorrebbero andare fuori a giocare, ma non possono».

      «È una vergogna» - Per la consigliera nazionale Sibel Arlsan (Verdi) si tratta di una situazione inaccettabile: «È contrario ai diritti umani, una vera vergogna. È un’esperienza svilente e traumatizzante, soprattutto per i bambini».

      Il rinvio in Sudafrica, secondo lei, resta inammissibile perché, in quella nazione, la loro incolumità non sarebbe garantita: «Non sappiamo se da lì saranno poi rinviati in Turchia dove finirebbero molto probabilmente in carcere».

      Rinvio solo se sicuro - Contattata, la SEM garantisce che ogni richiesta è trattata in maniera individuale, «nel rispetto delle leggi nazionali e internazionali» e «tiene da conto dell’integrità e della sicurezza dei migranti», spiega il portavoce Lukas Rieder. In ogni caso «nessuno viene rimandato in paesi considerati «non sicuri»»

      «Possono muoversi liberamente» - In ogni caso, continua Rieder, la situazione delle famiglie curde a Zurigo è tutt’altro che disumana: «Hanno la possibilità di uscire all’aria aperta e possono muoversi liberamente. Possono anche prendere il trenino-metropolitana fino alla zona E dei gate. Lì ci sono edicole, ristoranti e negozi». Se ve ne fosse bisogno «hanno a disposizione un team medico e psicologico».

      https://www.tio.ch/svizzera/cronaca/1332119/bloccati-da-50-giorni-nella-zona-di-transito

      #limbe #terminal #attente #no-solution #migrations #asile #réfugiés #aéroports #transit #zone-tampon #limbo #rétention #captivité #migrerrance #zone_de_transit

    • Zurich Des enfants bloqués depuis des semaines à l’aéroport

      Quatre familles kurdes se retrouvent coincées à Kloten (ZH) depuis une cinquantaine de jours. Une politicienne est scandalisée. La Confédération, elle, se défend.

      Les témoignages recueillis par Watson.ch sont à peine croyables. Un scénario digne du film « Terminal » dans lequel Tom Hanks se retrouve bloqué à l’aéroport de New York pendant 9 longs mois parce qu’une guerre civile a éclaté dans son pays.

      Or les récits relayés par le site alémanique n’ont rien à voir avec un film hollywoodien, mais reflètent le triste quotidien de vingt Kurdes, actuellement coincés en zone de transit à l’aéroport de Zurich. Certains s’y trouvent depuis sept longues semaines. Les quatre familles, provenant de Syrie, de Turquie et d’Irak, sont arrivées en Suisse via l’Afrique du Sud avant de demander l’asile dans notre pays.

      Pour certaines de ces demandes, le Secrétariat d’État aux migrations (SEM) et le Tribunal administratif fédéral ont décidé de ne pas entrer en matière. Les personnes concernées doivent donc retourner en Afrique du Sud. La date du départ, elle, n’est pas encore connue. La loi autorise le SEM a retenir les réfugiés durant 60 jours au maximum dans la zone de transit.

      « Ils pleurent souvent »

      Mustafa Mamay, un journaliste kurde venant de Turquie, fait partie de ces personnes coincées à Kloten (ZH). Selon lui, le quotidien y est très pesant, tant au niveau du manque de place, du bruit et de l’ennui. « Tous les hommes dorment dans une pièce et toutes les femmes et les enfants dorment dans une autre pièce. Les chambres n’ont pas de fenêtres », explique-t-il au site d’information alémanique. Il explique que tous craignent d’être renvoyés en Afrique du Sud, puis en Turquie où ils risquent l’emprisonnement et la torture.

      Selon Watson.ch, huit enfants figurent parmi les réfugiés kurdes. Mustafa Mamay confirme que la situation est particulièrement difficile pour eux. Nombre d’entre eux dormiraient mal et ne mangeraient plus. « Ils pleurent souvent et veulent aller jouer dehors. »

      « C’est douteux ! »

      Pour la conseillère nationale Sibel Arslan (Verts/BS), cette situation est inacceptable. « Que des familles soient retenues si longtemps alors qu’elles n’ont rien fait et qu’elles ont juste fait usage de leur droit humanitaire est douteux ! Ça peut être traumatisant, surtout pour les enfants. » Renvoyer les familles en Afrique du Sud revient à bafouer la convention relative au statut des réfugiés, critique la Bâloise, qui estime que l’Afrique du Sud ne peut pas être considérée comme un état tiers sûr. « Nous ne savons pas si depuis là les réfugiés sont renvoyés en Turquie, où ils seront très probablement emprisonnés. »

      Contacté, le SEM assure que chaque demande est traitée individuellement dans le cadre des lois nationales et internationales. « Le SEM vérifie si un état tiers est éventuellement responsable et s’assure que la sécurité et l’intégrité des migrants soient garanties », informe le porte-parole Lukas Rieder. Dans tous les cas, dit-il, les personnes ne sont pas renvoyées dans un pays qui n’est pas considéré comme sûr.

      Pris en charge médicale et psychologique

      Lukas Rieder défend par ailleurs les conditions de vie dans l’espace de transit : « A l’aéroport de Zurich, les requérants d’asile ont la possibilité de sortir à l’air libre et ils peuvent se déplacer librement dans la zone. Ils peuvent prendre le métro pour se rendre au dock E où il y a des kiosques, des magasins, des restaurants et une grande terrasse extérieure. »

      Pour finir, le porte-parole rappelle que les migrants ont accès, en cas de besoin, à une prise en charge médicale et psychologique.


      https://www.lematin.ch/suisse/enfants-bloques-semaines-aeroport/story/23427155

  • L’#ONU suspend l’expulsion d’une famille de #réfugiés_syriens

    L’ONU vient d’ordonner la suspension de l’expulsion vers la Grèce d’une famille syrienne résidant au #Tessin. Leur demande d’asile avait été rejetée par le Tribunal administratif fédéral, mais le Comité de l’ONU des droits de l’enfant demande au Secrétariat d’État aux migrations de répondre aux reproches de violation de la Convention internationale relative aux droits de l’enfant, en vigueur dans notre pays depuis le 26 mai 1997.

    Fin mars, le Tribunal administratif fédéral (TAF) avait rejeté définitivement la demande d’asile présentée par une famille syrienne yézidie d’origine kurde, résidant actuellement au Tessin après un bref séjour en Grèce. Ce jugement ne tenait pas compte de la fragilité psychologique du père et des deux enfants les plus jeunes. Le tribunal avait pourtant reconnu les conditions de vie très difficiles auxquelles sont confrontés les réfugiés en Grèce, mais il s’était borné à recommander à cette famille de demander de l’aide aux autorités et aux associations privées de bienfaisance en Grèce, et de s’adresser, le cas échéant, aux juridictions grecque et internationale pour faire valoir ses droits.

    Avec le soutien d’Amnesty International Suisse et l’assistance juridique des avocats Immacolata Iglio Rezzonico et Paolo Bernasconi, la famille a soumis son cas au Comité de l’ONU des droits de l’enfant, mettant en avant la violation de plusieurs articles de la Convention internationale relative aux droits de l’enfant de la part des autorités suisses compétentes en matière d’asile. Le renvoi vers la Grèce, un pays dont les difficultés économiques sont bien connues, menace directement et gravement le droit à la santé et à l’éducation des enfants mineurs de cette famille, qui seront ainsi exposés au risque d’exploitation économique et de traitements inhumains et dégradants.

    Les recherches menées par Amnesty International prouvent qu’en Grèce, les réfugiés reconnus n’accèdent à un soutien de la part de l’État qu’après dix ans de vie dans le pays. Le droit au logement n’est pas garanti, et beaucoup de réfugiés sont contraints de vivre dans des parcs publics ou dans des maisons abandonnées, où ils sont constamment exposés au risque d’agressions. En l’absence de domicile fixe, les enfants n’ont pas la possibilité de fréquenter l’école. La pénurie d’interprètes et de médecins spécialisés rend l’accès aux thérapies médicales et psychologiques, indispensables pour plusieurs membres de cette famille de réfugiés, difficile voire même impossible.

    D’après Denise Graf, coordinatrice asile de la Section suisse d’Amnesty International, « le jugement du TAF est scandaleux : on ne peut pas renvoyer vers la Grèce une famille de réfugiés aussi vulnérable, avec des enfants mineurs, sachant qu’ils seront soumis à des conditions de vie très précaires, ceci d’autant plus qu’ils sont tous très bien intégrés en Suisse. En Grèce, ces enfants n’auront pas de sécurité, et aucune garantie que leurs droits soient respectés. »

    Les autorités suisses n’ont pas pris en considération l’impact d’un renvoi en Grèce sur la personnalité des mineurs concernés et ont en conséquence vraisemblablement violé l’article 3 de la Convention relative aux droits des enfants.

    D’après Immacolata Iglio Rezzonico, qui a cosigné la demande adressée à l’ONU en faveur de cette famille, « la prise en cause des intérêts des enfants mineurs constitue une obligation impérative. Par conséquent, la violation de cet engagement étatique est très grave. »

    Les cinq frères de cette famille parlent couramment l’italien. Les enfants les plus jeunes fréquentent les écoles obligatoires, où ils sont bien intégrés et appréciés par leurs enseignants. Grâce au sport, notamment l’athlétisme et le basket, ils ont créé un réseau d’amitiés et ils ont contribué au succès sportif de leurs équipes respectives.

    « Notre pays a le devoir d’accueillir cette famille, parce que ses membres ont tout mis en œuvre pour s’intégrer, apprenant l’italien pour reconstruire leur vie en Suisse. N’oublions pas que la loi suisse interdit même l’expulsion des délinquants dans des pays où ils seront exposés au risque de traitement inhumains », a rappelé Paolo Bernasconi, ancien procureur, qui a également cosigné la demande adressée au Comité de ONU.

    https://www.amnesty.ch/fr/pays/europe-asie-centrale/suisse/docs/2018/l-onu-suspend-l-expulsion-d-une-famille-de-refugies-syriens#
    #renvois #expulsions #asile #migrations #réfugiés #Suisse #débouté #Gemmo
    cc @isskein

    • Extrait de la lettre que la classe des enfants menacés d’expulsion avaient envoyé au Conseil d’Etat tessinois (j’ai anonymisé la lettre)

      Lettre du 24 juin 2017

      Richiesta di revoca di espulsione della famiglia Gemmo, di origine curda yazida, proveniente dalla Siria.

      Quattro anni fa i genitori Gemmo con 5 bambini minorenni sono scappati dal loro paese a causa della guerra. Ora risiedono da più di un anno in Ticino, dove i 3 fratelli più piccoli hanno potuto finalmente andare a scuola, mentre i 2 ragazzi più grandi nel frattempo sono diventati maggiorenni (19 e 18 anni). Questi ultimi sono di fondamentale importanza per tutta la famiglia. Sono infatti loro che si occupano delle questioni quotidiane perché dopo tutti questi anni di incertezze il padre (43 anni!) non ha retto lo stress e si è ammalato in modo molto grave.
      Questo padre è riuscito a mantenere integra ed unita tutta la famiglia attraversando la Turchia, la Grecia, l’Italia, la Germania e finalmente, come detto, da 1 anno e mezzo circa sono in Svizzera.
      Durante il loro peregrinare, il soggiorno greco è stato il più breve: infatti un mese e mezzo dopo sono riusciti a prendere un barcone in direzione dell’Italia, solo dopo esser stati incarcerati per 2-3 giorni dalle autorità greche.
      In quell’occasione gli hanno “estorto” le impronte digitali “trasformandoli” così, a loro insaputa, in rifugiati politici della Grecia (senza alcuna audizione, senza il loro consenso). Già allora, viste le precarie condizioni umanitarie e sanitarie del paese che li ospitava ma sul quale volevano solo transitare, il loro soggiorno è stato allucinante, senza alcun rispetto dei primari diritti umani.
      Quando sono arrivati in Svizzera, dove sono seguiti in modo egregio da tutto il sistema sanitario, scolastico e giuridico, hanno scoperto che quelle maledette impronte sono state la loro rovina perché, secondo gli Accordi Internazionali, ora “appartengono” alla Grecia.
      Hanno fatto lunghe e costose battaglie legali per cambiare il loro stato di richiedenti l’asilo in Svizzera ma, 1) che ci siano ancora 3 fratelli minorenni,
      2) che il padre sia seriamente malato,
      3) che in Grecia gli abbiano “estorto” lo stato di rifugiati,
      4) che rientrare in un paese in emergenza umanitaria e sanitaria (vd rapporti di Amnesty International e del Greek Council for Refugees punti 3 e 4 validi per il nostro caso) sia deleterio per tutti loro,
      5) che abbiano degli zii già rifugiati in Svizzera, così che questi poveri figli e la madre possano essere sostenuti nella gestone famigliare, nonostante tutto ciò il tribunale amministrativo federale non ha voluto rivedere la decisione presa dalla segreteria di Stato dell’immigrazione di mandarli via dalla Svizzera. La Grecia, sulla carta, è obbligata a fornirgli pari assistenza quindi con questa scusa, assolutamente non vera, si liquida la faccenda e ci si pulisce la coscienza.
      L’ultima novità è che la famiglia Gemmo non viene più considerata come un’unica entità ma come 3 entità differenti:
      – Una composta dai genitori con i figli minori (che chiameremo entità 1)
      – Una composta dal figlio maggiore (19 anni/che chiameremo entità 2)
      – Una composta del secondo figlio (18 anni/ chiameremo entità 3 )
      Anche quest’ultima decisione è alquanto contestabile visto che si può parlare di alienazione del diritto di famiglia.
      Vi immaginate questi poveri genitori che 4 anni fa hanno deciso di mollare tutto e tutti e andarsene con 5 figli minorenni (i 2 più grandi per la Siria erano già arruolabili in guerra), con la speranza di dare un futuro migliore alle loro creature e che ora si ritrovano, dopo anni di attesa, a dover ritornare ad una situazione, seppur senza guerra, comunque precaria, in un paese dove neanche i propri cittadini si possono curare, dove non si riesce ad arrivare a fine mese e dove le risorse per i rifugiati sono nulle, lo ha riconosciuto anche il parlamento europeo e la Presidente Sommaruga.
      La situazione quindi al momento è la seguente: l’entità 1 ha ricevuto il decreto di espulsione ma, pagando, hanno potuto procrastinare la data di partenza, le entità 2 e 3 hanno anche ricevuto il decreto di espulsione ma non la deroga di partenza e quindi a molto breve (si parla del 30 giugno 2017) i ragazzi dovranno dividersi dal resto della famiglia.
      Noi abbiamo la loro età, abbiamo appena ottenuto il nostro diploma di maturità, siamo maggiorenni e ci sentiamo “grandi” ma mai potremmo immaginare di dover sostenere una situazione del genere da soli separati dalla nostra famiglia.
      Quello che vorremmo, come giovani che si affacciano al mondo, è di poter far parte di una società civile che rispetti le regole ma che sappia anche entrare in empatia con le singole situazioni soprattutto quando esse vanno al di fuori dell’ordinario, come in questo caso specifico.
      C’è qualcuno dei nostri politici, che si immedesima nella situazione e che vuole fare in modo che questa famiglia non venga rinviata in Grecia, revocando la decisione di allontanamento immediato e pensando che la famiglia Gemmo potrebbe rimanere in Svizzera almeno fino a che non finisca la guerra in Siria o comunque fino a che non troviamo soluzioni umanitariamente accettabili?
      Ci piacerebbe avere la certezza che il paese nel quale viviamo e dove vorremmo costruire anche il nostro futuro sia veramente un paese umanitario e non solo un’immagine da cartolina per chi la guarda da fuori.
      Confidiamo davvero che l’espulsione della famiglia Gemmo, venga revocata perché in uno stato di diritto come il nostro, ledere i diritti fondamentali delle persone non ci fa onore.

      Con profonda stima,

      4C Liceo 1 anno 2016/2017

      In rappresentanza della ex 4C

    • Commentaire de Denise Graf, Amnesty Suisse :

      Attention, ce n’est pas une jurisprudence, mais en principe, la Suisse suit les recommandations des institutions onusiennes au niveau des procédures individuelles. Elle l’a aussi fait en l’espèce, en accordant l’effet suspensif à la procédure devant l’ONU jusqu’à la fin de cette dernière.

    • Berna revoca l’espulsione dei due ragazzi Gemmo

      La Segreteria di Stato della migrazione ha riaperto la procedura d’asilo per la famiglia curdo-siriana. L’avvocato Paolo Bernasconi: «Soddisfazione oggi, ma quanti casi analoghi finiti male»

      Hanno vissuto col fiato sospeso dallo scorso giugno, quanto l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti dell’uomo aveva imposto al Sem di sospendere l’espulsione dei due giovani maggiorenni. Oggi la famiglia curdo-siriana dei Gemmo, papà, mamma e cinque figli, può tornare a sorridere. Controllata da presso dall’Onu di Ginevra la Segreteria di Stato della migrazione (Sem) ha revocato l’espulsione verso la Grecia dei due figli, tra cui Hassan nella foto, diventati maggiorenni. Per i due ragazzi sostenuti dalla raccolta di firme promossa dai compagni del Liceo di Lugano non è ancora fatta, ma la procedura di asilo per loro e per la famiglia è stata riaperta. Soddisfazione più che palpabile anche tra i legali dei ragazzi - gli avvocati Immacolata Iglio Rezzonico e Paolo Bernasconi - che sono riusciti a riaprire il caso dopo che anche il Tribunale amministrativo federale nel marzo 2018 aveva confermato l’espulsione.

      «Due fattori sono stati importanti - commenta l’avvocato Paolo Bernasconi - la petizione per la quale va il primo ringraziamento ai ragazzi del Liceo e l’idea, dopo che tutte le altre strade erano state esaminate, di portare il caso davanti alle Commissione per la protezione del fanciullo delle Nazioni Unite». C’è sollievo, aggiunge l’avvocato, «per la revoca di questa misura feroce. Ma nel momento della soddisfazione resta la tristezza e la frustazione per i tanti altri casi Gemmo finiti male». Il diritto costituzionale alla protezione giuridica, ricorda Bernasconi, è spesso vanificato dai costi delle procedure di ricorso fuori della portata per queste famiglie che arrivano in Svizzera senza mezzi economici.


      https://www.tio.ch/ticino/attualita/1354027/berna-revoca-l-espulsione-dei-due-ragazzi-gemmo