La nave cargo NIVIN con il suo carico di naufraghi, persone soccorse l’8 novembre scorso in acque internazionali, a circa 60 miglia dalle coste libiche, è ferma nella parte più interna del porto di Misurata, mentre i migranti (uomini, donne e minori, provenienti da paesi diversi non “sicuri”, Etiopia, Eritrea, South Sudan, Pakistan, Bangladesh e Somalia, esseri umani tutti assai vulnerabili per gli abusi subiti già prima della fuga dalla Libia) si rifiutano di sbarcare, temendo di subire ancora altre torture nei centri di detenzione dai quali erano riusciti ad allontanarsi. A Misurata la posizione dei migranti in transito rimane assai critica, tanto che i “dannati” della NIVIN non vogliono scendere a terra, senza garanzie sul loro futuro, sebbene la città non sia interessata da scontri violenti come Tripoli, e si riscontri la presenza in zona di oltre 400 militari italiani (missione MIASIT), sempre che nel frattempo anche questi, come le navi della missione Nauras di base a Tripoli, non siano stati ritirati.
Il segnale transponder della NIVIN (per la identificazione della rotta) è di nuovo acceso da quando la nave è attraccata a Misurata, dopo essere rimasto spento dal giorno del soccorso, l’8 novembre, fino al momento dell’ormeggio in porto due giorni più tardi. Rimangono dunque oscure le circostanze reali dell’intervento di ricerca e soccorso nel quale sono rimaste coinvolte 95 persone in evidente pericolo di vita. A differenza degli anni passati, sono venuti meno i comunicati della Guardia costiera italiana (Imrcc). La NIVIN, che batte bandiera panamense, era in rotta dall’Italia verso Misurata ( ultima posizione riferita prima dello spegnimento del transponder 34,41 Nord, 13,58 Est, con rotta 146 °, a circa 70 miglia da Misurata), quando riceveva una richiesta di intervento dalle autorità di ricerca e salvataggio italiane e maltesi per una operazione SAR ( search and rescue) in favore di un barcone carico di un centinaio circa migranti, alla deriva in alto mare. Dalle rilevazioni che sono rimaste disponibili al pubblico sembra che il soccorso sia avvenuto al limite tra la zona SAR libica e quella maltese. Le stesse autorità italiane e maltesi indicavano successivamente al comandante della nave soccorritrice il trasferimento delle competenze di coordinamento al Comando congiunto della Guardia costiera di Tripoli (JRCC).
Il primo allarme, raccolto nella sera del 7 novembre, era stato rilanciato da ALARMPHONE, e quindi girato dalla nave Jonio dell’operazione Mediterranea alle Centrali di coordinamento (MRCC) delle guardie costiere di Italia e Malta. In in secondo momento queste autorità di coordinamento avevano rilevato la posizione dell’imbarcazione da soccorrere e avevano asserito che la stessa si trovava all’interno della zona SAR libica, Una zona SAR autoproclamata dal governo di Tripoli il 28 giugno scorso e riconosciuta dall’IMO (Organizzazione marittima internazionale) senza alcun rilievo sulla impossibilità, per le autorità tripoline e per la cosiddetta Guardia costiera libica, di garantire una effettiva attività di ricerca e salvataggio in una area che non corrispondeva allo sviluppo costiero del territorio sotto controllo da parte del Governo di riconciliazione nazionale (GNA) con sede a Tripoli.
Eppure ancora nel mese di dicembre del 2017 l’IMO rilevava che le autorità libiche non avevano ancora una effettiva capacità di ricerca e salvataggio in acque internazionali, e il governo di Tripoli ritirava la sua prima dichiarazione sull’esistenza di una zona SAR “libica”. In sei mesi nulla era cambiato nelle dotazioni delle autorità libiche, a parte i corsi di formazione condotti a bordo di navi militari europee, l’arrivo di qualche motovedetta donata dall’Italia e il coordinamento delle attività SAR garantito da unità della Marina militare italiana, presenti nel porto militare di Abu Sittah a Tripoli, nell’ambito della missione NAURAS. Tutte circostanze accertate dai giudici penali che ad aprile scorso hanno dichiarato comunque la Libia come un “paese terzo non sicuro”, quando si è proceduto, prima al sequestro ( a Catania), e poi al dissequestro (a Ragusa) della nave OPEN ARMS della omonima Organizzazione non governativa. Ma nel frattempo infuriava la campagna di criminalizzazione del soccorso umanitario e neppure l’archiviazione delle indagini contro due ONG avviate dalla Procura di Palermo, che pure dichiarava la Libia come un “paese terzo non sicuro”, metteva a tacere gli imprenditori dell’odio che su questa campagna avevano imbastito la propria avanzata elettorale.
In piena estate, una prima grave conseguenza della istituzione di una zona SAR attribuita alle competenze delle autorità tripoline e della corrispondente “Guardia costiera” si era verificata nel caso dei respingimenti eseguiti dal rimorchiatore battente bandiera italiana ASSO 28. Che alla fine di luglio riportava nel porto di Tripoli decine di naufraghi soccorsi a 70 miglia dalla costa, dunque in acque internazionali, nei pressi delle piattaforme offshore gestite dall’ENI e dall’ente per il petrolio libico (NOC) nel bacino di Bouri Field, di fronte alla città di Sabratha. Negli ultimi mesi, a partire dal 28 giugno si calcola che oltre 1.200 persone abbiano perso la vita sulla rotta del Mediterraneo centrale, è un dato che probabilmente è superato dalla realtà di tante altre stragi che sono rimaste nascoste, come stava succedendo anche nel caso del soccorso di Josepha. Un numero di vittime che, in termini percentuali, ormai quasi una persona su sette che tenta la traversata perde la vita, che non ha precedenti negli anni passati. La macchina del fango che lo scorso anno era stata attivata contro le ONG ha continuato a sommergere anche queste vite. Le ONG sono state costrette a ritirare le loro navi, quando non sono incappate, come a Malta, in provvedimenti di sequestro del tutto immotivati.
Il caso della NIVIN appare ancora più grave per le possibili conseguenze sulle persone che si sono asserragliate sulla nave, e rende ancora più evidente le conseguenze della creazione “a tavolino” di una zona SAR libica che non soddisfa esigenze di ricerca e soccorso, privilegiando la salvaguardia della vita umana in mare, ma risponde soltanto alle politiche si chiusura dei porti degli stati europei. Che mirano ad esternalizzare i controlli di frontiera per delegare alle autorità libiche le attività SAR in modo da non dovere più garantire un porto sicuro di sbarco, come sarebbe imposto dalle Convenzioni internazionali. In realtà sia l’Unione Europea che l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati hanno finora escluso che la Libia possa essere considerata un “porto sicuro di sbarco”. Per l’UNHCR la Libia, o meglio nessuno dei governi che si dividono il suo territorio, è attualmente in grado di garantire “porti sicuri di sbarco”. Eppure secondo dati dell’UNHCR la sostanziale cessione di sovranità sulle acque internazionali rientranti nella cd. zona SAR libica aveva come conseguenza che “as of 14 November, the Libyan Coast Guard (LCG) has rescued/intercepted 14,595 refugees and migrants (10,184 men, 2,147 women and 1,408 children) at sea.”
Secondo il più recente rapporto delle Nazioni Unite, con specifico riferimento al caso dei migranti intrappolati a bordo della NIVIN nel porto di Misurata, “the humanitarian community reiterates that disembarkation following search and rescue should be to a place of safety, and calls for the peaceful resolution of the situation. Under all circumstances, obligations under International Human Rights Law must be respected to ensure the safety and protection of all rescued people. The humanitarian community continues to advocate for alternatives to detention and transfer from disembarkation points to appropriate reception facilities for assistance, screening and solutions.
Sorprende che a fronte di posizioni tanto nette delle Nazioni Unite, condivise anche dall’Unione Europea, un organismo internazionale come l’IMO, con sede a Londra, direttamente collegato con le stesse Nazioni Unite, consenta il mantenimento di una finzione, la cosiddetta zona SAR libica, che corrisponde alle esigenze politiche di alcuni paesi che vogliono in questo modo limitare il numero delle persone che fanno ingresso nel loro territorio, anche se si tratta di persone che richiedono una qualsiasi forma di protezione, o sono particolarmente vulnerabili per gli abusi subiti nel loro viaggio. Anche Amnesty International richiama i rischi che correrebbero i migranti ancora a bordo della Nivin, qualora fossero costretti allo sbarco a Misurata.
In realtà se rimane da dimostrare in questa ultima occasione che il soccorso sia avvenuto effettivamente nella SAR libica e non nella zona SAR maltese, peraltro controversa anche in rapporto alle autorità italiane, appare confermato da fonti diverse che le autorità italiane e maltesi hanno risposto alle chiamate di soccorso delegando alla centrale di coordinamento congiunto libica (JRCC) le successive attività di ricerca e salvataggio. Come ha osservato Human Rights Watch, ancora una volta l’esistenza di una zona SAR libica e le dispute sulla competenza nei soccorsi tra gli stati mettono a rischio vite umane.
Secondo quanto riferisce Francesca Mannocchi, “il viaggio dei migranti è iniziato il 6 novembre, quando 95 persone, tra cui 28 minori, sono partite a bordo di un gommone dalla città costiera di Khoms”. Come denunciato dai naufraghi, sei navi li avevano già avvistati, prima dell’intervento della NIVIN, ed hanno proseguito sulla loro rotta. Quando le autorità libiche hanno fatto intervenire la nave cargo per i soccorsi, il gommone aveva quasi raggiunto la zona SAR maltese, se non si trovava già al suo interno.
Ormai da mesi le autorità oscurano i sistemi di rilevazione satellitare durante le attività di ricerca e salvataggio sulle rotte libiche, come se volessero nascondere le loro responsabilità, ed impedire l’accertamento di violazioni sempre più gravi del diritto internazionale e dei Regolamenti Europei. Le attività di monitoraggio aereo sulla rotta del Mediterraneo centrale sono infatti affidate ad assetti appartenenti alle operazioni Sophia di Eunavfor MED e Themis di Frontex, che dovrebbero operare nell’ambito dei Regolamenti europei n.656 del 2014 e 1624 del 2016, che privilegiano la salvaguardia della vita umana in mare, rispetto all’esigenza di difendere i confini e di contrastare l’immigrazione irregolare via mare.
Dopo essere stati soccorsi/intercettati in acque internazionali dalla NIVIN, che si era posta nel frattempo sotto coordinamento SAR delle autorità libiche, per quanto i migranti manifestassero al comandante della nave le conseguenze alle quali sarebbero stati esposti in caso di ritorno in Libia e la volontà di chiedere protezione in Europa, questa si dirigeva verso il porto di Misurata, dove faceva ingresso nella giornata del 10 novembre. Come riferisce un recentissimo statement dell’UNHCR, “on 10 November, a commercial vessel reached the port of Misrata (187 km east of Tripoli) carrying 95 refugees and migrants who refused to disembark the boat. The individuals on board comprise of Ethiopian, Eritrean, South Sudanese, Pakistani, Bangladeshi and Somali nationals. UNHCR is closely following-up on the situation of the 14 individuals who have already disembarked and ensuring the necessary assistance is provided and screening is conducted for solutions. Since the onset, UNHCR has advocated for a peaceful resolution of the situation and provided food, water and core relief items (CRIs) to alleviate the suffering of individuals onboard the vessel.
Le autorità libiche considerano adesso come “illegali” i migranti a bordo della NIVIN, e si arriva alle minacce proferite dal comandante della guardia costiera di Tripoli Qacem che parla anche di “ammutinamento”. Come sono del resto ritenuti “illegali”, tanto da Serraj che da Haftar, e dalle autorità di Misurata, i migranti in transito in Libia. Quattordici dei più disperati a bordo della NIVIN, tra cui una donna ed un bambino, hanno accettato di sbarcare, sempre su richiesta della Guardia costiera libica, e sono stati portati in un centro di detenzione vicino al porto. Le stesse autorità, con l’aiuto della Mezzaluna rossa, dell’OIM e dell’UNHCR, hanno fornito agli altri naufraghi cibo, acqua, coperte e altri generi di prima necessità, ma la situazione rimane ancora bloccata dopo giorni di negoziati. I migranti chiedono di non essere sbarcati in un paese non sicuro, dove la loro integrità fisica, e la loro vita potrebbero essere a rischio.
“Sono disperati – dice Julien Raickmann, capo missione di MSF – ci sono diverse persone, compresi i minori, torturati dai trafficanti per estorcere denaro. Un paziente in gravi condizioni ha rifiutato di essere portato in una struttura medica in Libia. Ha detto che preferirebbe morire sulla nave mercantile”. “Per i 70 migranti ancora a bordo non ci sono bagni, usano le bottiglie di plastica per urinare. Ai giornalisti è interdetto non solo l’accesso alla nave e al porto ma anche l’accesso alla città di Misurata. Chi prova a superare il check point verso Misurata rischia di essere espulso dal paese. I pochi giornalisti presenti in Libia, compresa Repubblica, sono costantemente monitorati dall’intelligence libica”, ha scritto Francesca Mannocchi.
A raccontare al telefono questa storia alla giornalista è stato Dittur, diciannove anni, viene dal Sud Sudan. Il ragazzo ha anche raccontato di essere stato prelevato “dai trafficanti nel centro di detenzione ufficiale di Tariq al Sikka, a Tripoli, gestito dal ministero dell’Interno del governo Serraj. “I trafficanti possono entrare quando vogliono nelle prigioni, entrano a fare accordi con chi vuole partire e entrano per portare via chi può pagare la sua parte, con me hanno fatto così. Due settimane fa”. Come osserva Paolo Salvatore Orru’, “una storia di straordinario dolore e di ordinaria follia”.
La situazione a bordo della NIVIN è ormai insopportabile e va scongiurato il rischio di un intervento violento, di polizia o di milizie, che potrebbe avere conseguenze imprevedibili, con un elevato numero di vittime. Non sembra possibile difendere i migranti che richiedono protezione in Europa seguendo il percorso dell’asilo extraterritoriale, per la evidente contrarietà dei paesi europei a riconoscere il diritto alla vita di chi viene soccorso in mare. Occorre tuttavia insistere, oltre questa vicenda ancora in corso, nella direzione della richiesta di visti umanitariin favore dei migranti intrappolati nei centri di detenzione in Libia. Una questione che va affrontata a livello di Nazioni Unite, se l’Unione Europea continuerà a dimostrare il suo disinteresse, se non la sua sostanziale avversione.
Come hanno dimostrato precedenti anche recenti, tra i tanti il caso dell’intervento della Guardia costiera libica contro la nave umanitaria SEA WATCH del 6 novembre 2017, i ricorsi alla Corte europea dei diritti dell’Uomo non hanno consentito alle vittime alcuna tutela effettiva, ed immediata. Chi subisce una violazione dei diritti sanciti dalla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo, si ritrova costretto a subire in Libia una situazione di grave precarietà, se non di detenzione, che non consente il conferimento della procura ad un legale, e quella tracciabilità dei ricorrenti richiesta dalla Corte di Strasburgo per non cancellare un ricorso dal ruolo. I tempi del ricorso sul caso Hirsi appaiono purtroppo assai lontani. Nel caso della NIVIN, se non si riuscisse a provare una responsabilità diretta di agenti di paesi aderenti al Consiglio d’Europa, si potrebbero porre anche complesse questioni di giurisdizione che non permetterebbero un immediata risposta alla richiesta di aiuto che ancora in questi giorni viene da persone disperate che si ritrovano su una nave nel porto di Misurata nella condizione di essere rigettati da un momento all’altro nella condizione “infernale” dalla quale erano riusciti ad allontanarsi.
Occorre allora porre due questioni urgentialle Nazioni Unite ed alle agenzie che più direttamente seguono il caso dove sono presenti, l‘UNHCR e l’OIM in primo piano, per quanto concerne la situazione nel preteso punto di sbarco a Misurata, e in una prospettiva più ampia, all‘IMO a Londra, che con il suo segretariato vigila sulla ripartizione delle zone SAR (ripetiamo di ricerca e salvataggio, non di respingimento) tra i diversi stati che si dichiarano responsabili. Stati che in base alle Convenzioni internazionali sarebbero obbligati ad un costante coordinamento per garantire soccorsi immediati e lo sbarco in un place of safety, in un porto sicuro, quale in questo momento non può essere definito il porto di Misurata o altro porto libico.
1) Le persone intrappolate a bordo della NIVIN vanno evacuate al più presto attraverso un corridoio umanitario, trattandosi per la loro provenienza e per le condizioni attuali, di persone altamente vulnerabili, come quelle poche decine di persone che sono state evacuate nei giorni scorsi da Tripoli verso Roma, con una cornice di propaganda che le autorità politiche potevano certamente evitare. La loro scelta forzata di non scendere a terra in porto, a Misurata, è dettata dal timore di subire trattamenti disumani e degradanti, non certo dalla volontà di impadronirsi della nave. Se non sarà possibile il loro resettlement in Italia, si dovrà trovare un altro stato europeo disposto ad accoglierli.
2) Le Nazioni Unite, al pari dell’Unione Europea, non possono dichiarare che la Libia non garantisce “porti sicuri di sbarco” e continuare però a legittimare le attività di intercettazione in acque internazionali delegate alle motovedette delle diverse milizie libiche. Non si possono le reali condizioni di abbandono nella zona SAR libica, istituita dall’IMO il 28 giugno di quest’anno, e le condizioni disumane che i migranti ritrovano quando vengono riportati a terra, anche se nei porti, nei quali rimane ancora possibile accedere, UNHCR ed OIM tentano di fornire i primi aiuti e di individuare i casi più vulnerabili. Ma tutti i migranti fuggiti dalla Libia, che vengono riportati a terra dopo essere stati intercettati in alto mare, sono soggetti vulnerabili, come dimostra anche questo ultimo caso della NIVIN. Tutti hanno diritto allo sbarco in un place of safety.
Occorre sospendere immediatamente il riconoscimento di questa zona SAR che di fatto non è garanzia di soccorso e salvaguardia della vita umana in mare, ma solo pretesto per operazioni di respingimento delegate alla sedicente Guardia costiera “libica”, che neppure “libica” riesce ad essere, allo stato della divisione del paese tra diverse autorità politiche e militari. Occorre anche chiarire i limiti dei livelli di assistenza e di coordinamento della stessa Guardia costiera libica da parte di paesi come l’Italia che non solo inviano motovedette da impiegare nelle attività di intercettazione, ma continuano a svolgere un ruolo attivo di coordinamento delle attività operative, anche al di fuori delle operazioni di ricerca e salvataggio (SAR). Sono del resto noti i rilevanti interessi economici italianinei principali porti petroliferi libici e nelle piattaforme offshore situate in acque internazionali. Impianti che in mare sono difesi anche dalle navi della Marina Militare della operazione Mare Sicuro, che sono dispiegate in prossimità degli impianti di estrazione del greggio. E che negli ultimi mesi non si sono fatte certo notare in attività di ricerca e salvataggio di persone in situazione di pericolo, che si è preferito affidare agli interventi delle navi commerciali, dopo l’allontanamento forzato delle ONG.
L’Unione Europea, al di là della campagna elettorale permanente tutta rivolta a negare il diritto alla vita dei migranti intrappolati in Libia, dovrà rivolgere all’IMO una richiesta forte di sospendere il riconoscimento di una zona SAR libica, fino a quando in Libia non si saranno stabilite autorità centrali, e la Libia non avrà aderito, e applicato effettivamente, la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati. Prima di allora, qualunque coinvolgimento di assetti navali o aerei europei in attività di intercettazione in acque internazionali, poi affidate alla sedicente Guardia costiera “libica”, potrebbe configurare oggettivamente una grave violazione dei divieti di respingimento sanciti dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra, dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dell’art. 4 del Quarto Protocollo allegato alla CEDU, che vietano le espulsioni ed i respingimenti collettivi.
Le organizzazioni non governative, ma anche le associazioni di armatori, devono essere ascoltate dal Segretariato dell’IMO, finora chiuso a qualunque sollecitazione, che deve sospendere il riconoscimento di una zona SAR “libica”, fino a quando non esista davvero uno stato libico unitario capace di organizzare coordinamento e mezzi di salvataggio. Va risolta una situazione di incertezza sulle competenze di soccorso e nella individuazione di un porto sicuro di sbarco che mette a rischio vite umane. Questi problemi non si risolvono con accordi bilaterali e rientrano anche nell’area di competenza dell’IMOn e delle Nazioni Unite.
“With the adoption of the International Convention on Maritime Search and Rescue (“SAR Convention”) in 1979, IMO has made great strides in the implementation of that Convention and the development of the global SAR plan, designating SAR regions of responsibility to individual IMO Member States aiming at covering the entire globe. In addition, since 2000, IMO has made continuous efforts to strengthen the global network of search and rescue services and regions established under the SAR Convention, including the establishment of a framework of regional Maritime Rescue Co-ordination Centres and Maritime Rescue Sub-Centres in Africa for carrying out search and rescue operations following accidents at sea”.
Questione che non si può lasciare alle trattative tra stati, o tra questi e ONG o singoli armatori, ogni volta che si verifichi un un incidente, come è successo negli ultimi mesi. Basti pensare ai diversi casi di boicottaggio dei soccorsi operati dalla nave Aquarius, fino alle pressioni italiane su Gibilterrra e Panama per il ritiro della bandiera, ed al blocco dei porti per giorni rispetto ad interventi di soccorso operati da navi commerciali come la Alexander Maersk.
Occorre ricostruire quella collaborazione virtuosa tra navi umanitarie delle Organizzazioni non governative ed unità della Guardia costiera italiana che ha permesso negli ultimi anni di salvare decine di migliaia di vite. Occorre fare finalmente chiarezza sui ricorrenti tentativi di criminalizzazione dell’intervento umanitario, che ancora non sono riusciti a produrre un solo risultato certo in sede processuale.
Gli organismi europei, e soprattutto l’agenzia FRONTEX, oggi definita Guardia di frontiera ecostiera europea, dovranno rispettare rigidamente gli obblighi di salvataggio, sanciti soprattutto dal Regolamento n.656 del 2014, e tutti i suoi assetti, comresi quelli impegnati nell’operazione Sophia di Eunavfor Med, dovranno anteporre la salvaguardia della vita umana in mare, alla finalità del contrasto dell’immigrazione irregolare. Operando diversamente gli agenti responsabili potrebbero esser chiamati a rispondere del loro operato davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, quale che sia l’esito delle prossime elezioni europee. Il rispetto dello stato di diritto, dei principi costituzionali, delle Convenzioni internazionali e dei Regolamenti, come delle Direttive europee, non si può condizionare in base all’andamento dei risultati elettorali. Come dovrebbe essere garantito, anche, a livello nazionale, per l’amministrazione della giustizia. Anche nell’accertamento delle responsabilità degli stati nell’omissione o nel ritardo riscontrabile nelle operazioni di ricerca e salvataggio.
Infine, con la consapevolezza che si tratta di attendere, ma che alla fine si potranno accertare responsabilità internazionali che altrimenti godrebbero della più totale impunità, occorre attivare un circuito permanente di denuncia di quanto sta avvenendo nel Mediterraneo centrale, rivolto alla Corte Penale internazionale,che già si sta occupando della sedicente “Guardia costiera libica”, in casi nei quali i governi nazionali si dimostrano complici o indifferenti. Se qualcuno ha smarrito il valore della vita umana, o pensa di poterlo strumentalizzare a fini politici, è bene che si riesca, anche se in tempi più lunghi, ad accertare fatti e responsabilità.