Il prezzo occulto del cibo a basso costo - Stefano Liberti

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  • Supermercati, il grande inganno del sottocosto

    La scritta campeggia ben visibile all’entrata del supermercato: “Sottocosto”. Bottiglie di passata di pomodoro vendute a 0,49 euro, pacchi di pasta a 0,39, confezioni di tonno da quattro scatolette a 1,99 euro. Il locale è un supermercato di una grande catena, in una zona semi-centrale di Roma. Ma la stessa promozione si può vedere nei suoi innumerevoli punti vendita. Simile a molte altre che si possono trovare in locali gestiti da aziende concorrenti in tutta Italia.


    http://www.internazionale.it/reportage/fabio-ciconte/2017/02/27/supermercati-inganno-sotto-costo

    #prix #coûts #supermarchés #italie #sottocosto
    cc @albertocampiphoto @wizo

    • Con le aste online i supermercati rovinano gli agricoltori

      “Vedete, è come giocare alla slot machine”. Seduto di fronte al suo computer, Francesco Franzese digita freneticamente sui tasti simulando il gioco al quale si è trovato suo malgrado a partecipare in un giorno non troppo lontano. Questo manager di 37 anni, amministratore delegato del gruppo che produce i pelati e la passata La Fiammante, ha il dente avvelenato contro una prassi che si sta sempre più affermando tra gli operatori della grande distribuzione organizzata (gdo): quella delle aste online al doppio ribasso.


      http://www.internazionale.it/reportage/fabio-ciconte/2017/03/13/aste-online-supermercati
      #agriculture #enchère

    • Il prezzo occulto del cibo a #basso_costo

      L’uomo allunga sul tavolo la busta paga. Sul modulo Inail sono indicate cinque giornate di lavoro per un compenso totale di 229 euro. “Questo mese è andata così”, dice sconsolato, “il resto me l’hanno dato in nero”. Su un altro foglio c’è una tabella: accanto alla data, un elenco di cifre moltiplicate per due o tre centesimi di euro. “Sono i mazzetti. Il padrone mi paga a seconda di quanti ne faccio”. Parla di ravanelli, la cui raccolta è regolata da un prezzario preciso: due centesimi per ogni mazzo da dieci, tre se sono quindici.

      Siamo nell’Agro Pontino, in provincia di Latina. Il nostro interlocutore – chiamiamolo Singh – è uno dei circa diecimila braccianti indiani che lavorano nei campi di quest’area resa fertilissima dalla bonifica di mussoliniana memoria. Oggi, la zona tra Sabaudia, Terracina, Fondi e Sezze è uno dei distretti agricoli più produttivi del centro Italia: distese di coltivazioni in serra e in campo aperto, che finiscono sulle tavole italiane e anche all’estero, soprattutto nell’Europa del nord. Molti degli ortaggi che troviamo in bella mostra nei supermercati – le zucchine, le melanzane, i pomodori, oltre che frutti prelibati come i kiwi e le angurie – provengono da qui. E li raccolgono i lavoratori stranieri, soprattutto indiani, ma anche romeni, marocchini e tunisini.

      Gli immigrati sono ormai un elemento imprescindibile dell’Agro Pontino, così come di tutto il comparto agricolo italiano: secondo uno studio del Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (Crea), dal 1989 a oggi il numero di cittadini italiani impiegati in agricoltura è diminuito di due terzi, mentre quello degli stranieri è aumentato di quindici volte.

      I prodotti che raccolgono sui campi finiscono nei mercati rionali, nei piccoli fruttivendoli di quartiere e sempre di più nei punti vendita della grande distribuzione organizzata (gdo). Costano poco, a volte pochissimo. Un mazzetto di ravanelli non arriva a un euro. Lo stesso vale per le zucchine o per l’anguria, pagata pochi centesimi al chilo.

      Ma quello che paghiamo quando compriamo un prodotto non tiene conto di una serie di costi nascosti: perché gran parte del comparto si regge su lavoro grigio non denunciato e su sussidi di disoccupazione illeciti pagati dallo stato, cioè da tutti noi; e perché i braccianti stranieri che lavorano in Italia spesso figurano solo parzialmente negli elenchi dei lavoratori Inps, sostituiti da finti braccianti italiani che non hanno mai messo le mani nella terra eppure beneficiano di sussidi, assegni familiari e pensioni agricole.

      Un vero e proprio sistema
      Torniamo a Singh. A fine giornata i mazzetti di ravanelli sono contati e lui è pagato in base alla quantità raccolta. Eppure, sulla sua busta paga mensile non compariranno i mazzetti. Figurerà invece un numero di giornate lavorate. Singh è regolarmente assunto e non compare in nessuna statistica di lavoratori irregolari in agricoltura. Se un ispettore del lavoro irrompesse nell’azienda dove lavora non avrebbe nulla da ridire: ha un contratto, ha fatto la visita medica e indossa anche gli indumenti necessari per la raccolta.

      Ma alla fine del mese percepisce molto meno di quello che gli spetterebbe di diritto: “Funziona così, non c’è molto da discutere”, dice.

      Quello di Singh non è un caso isolato. Potremmo anzi dire che è la prassi nel settore agricolo. Mentre il lavoro nero – cioè il numero di braccianti che non hanno un contratto di assunzione – diminuisce sempre più, anche come risultato della legge 199 del 2016 (meglio nota come legge anticaporalato) che prevede pene severissime per lo sfruttamento lavorativo, il “lavoro grigio” si diffonde e diventa un vero e proprio sistema, mettendo al riparo il datore di lavoro e, se c’è, il caporale.

      Per alcune colture – come il ravanello, l’anguria, il pomodoro da industria – vige il pagamento informale a cottimo: i lavoratori sono pagati a cassone, mazzetto, quintale, ma il loro salario è conteggiato a giornata. Per altre colture, effettivamente pagate a giornata, vige invece una sorta di “salario di piazza”, cioè una paga inferiore a quella prevista dal contratto, ma che è informalmente accettata dalle parti.

      Il trucco
      Come fanno i datori di lavoro a segnare meno giornate di quelle lavorate e sfuggire ai controlli? Il trucco è che in agricoltura le giornate non sono dichiarate all’Inps contestualmente a quando sono lavorate, ma a posteriori, con il modulo della dichiarazione di manodopera agricola, Dmag, compilato trimestralmente (da gennaio 2019 dovrà essere fatto mensilmente, ma sempre a posteriori).

      In pratica, il lavoro che tu fai oggi, è dichiarato dopo tre mesi. Quindi, se in quel frangente di tempo arriva un controllo dell’ispettorato, l’imprenditore potrà mostrare il contratto di lavoro – che comunque segnala solo indicativamente quante sono le giornate di lavoro previste – e dimostrare che è tutto in regola. In teoria. In pratica l’imprenditore segna il numero di giornate che ritiene opportuno, in base al salario informale imposto o concordato con i braccianti. Oppure, nel caso del cottimo, in base alla quantità effettivamente raccolta.

      Nelle grandi aziende agricole, gli uffici amministrativi fanno uso di varie tabelle di conversione che trasformano le ore lavorate o i cassoni/mazzetti/casse raccolti in giornate secondo il contratto provinciale. Sono queste le tabelle mostrate da Singh. A lui non sono tanto chiare quelle operazioni: l’unica cosa che sa è che ogni mazzo è pagato due o tre centesimi, e che a fine giornata se è stato veloce è riuscito a guadagnare una trentina di euro. Alla somma guadagnata per questo lavoro a cottimo, il bracciante aggiunge poi la disoccupazione agricola, corrisposta in un’unica soluzione l’anno successivo.

      La disoccupazione, infatti, è il grimaldello che rende il meccanismo accettabile per tutti. Perché parte di quello che l’operaio agricolo non percepisce dal datore di lavoro lo ottiene l’anno dopo dallo stato. “Si tratta di un sistema diventato prassi comune, approvato dagli stessi lavoratori. Nessuno vuole essere assunto a tempo indeterminato, perché perderebbe l’accesso alla disoccupazione, che è un’importante integrazione del reddito”, confida un imprenditore della zona, che preferisce rimanere anonimo.

      Poiché la disoccupazione agricola è erogata in base al numero di giornate lavorate ed è tanto più vantaggiosa quanto più ci si avvicina alle 180 giornate – superate le quali comincia invece a diminuire – tutti accettano e a volte richiedono esplicitamente di vedersi registrate un numero di giornate inferiore a quel numero. L’importo della somma è variabile, ma può raggiungere anche i quattromila euro all’anno.

      “È un segreto di Pulcinella. Lo stato integra il salario del lavoratore e permette al datore di lavoro di risparmiare. Tutti sono contenti”, continua l’imprenditore.

      La politica dei bassi prezzi non dà benefici a nessuno degli attori della filiera

      Così a fine anno, il salario complessivo del bracciante è il risultato della somma di tre voci: quella delle giornate segnate in busta paga, la quota data in nero dal datore di lavoro e la disoccupazione agricola.

      Basta analizzare le tabelle provinciali Inps sul numero di persone impiegate in agricoltura per trovare la plastica conferma che si tratta di un meccanismo diffuso: nella provincia di Latina gli operai agricoli assunti a tempo determinato nel 2017 erano 19.330, mentre quelli con contratti a tempo indeterminato erano 3.478.

      Tra i primi, la quasi totalità ha un numero di giornate registrate inferiore a 180. Una circostanza apparentemente sorprendente in un territorio dove quella agricola non è un’attività stagionale, ma è svolta tutto l’anno, con una pausa di massimo un mese nel periodo estivo più caldo.

      L’imprenditore che preferisce non rivelare il proprio nome ammette che il sistema è disfunzionale. Ma aggiunge: “Io sarei ben felice di pagare i salari previsti dai contratti provinciali, ma se lo facessi chiuderei il giorno dopo, perché non riuscirei a starci dentro con i costi. I contratti non tengono conto di quanto pagano il prodotto gli acquirenti, in particolare la grande distribuzione organizzata”.

      Le responsabilità della grande distribuzione
      Le insegne dei supermercati, diventate negli ultimi anni il principale canale di vendita, tendono a pagare sempre meno i prodotti agricoli, generando disfunzioni lungo tutta la filiera. “La discussione sul lavoro in agricoltura e sui bassi salari non è mai inserita in un’ottica più ampia che analizza le cause di questi deplorevoli fenomeni. Si parla tanto di caporalato, di sfruttamento ma raramente si analizza la scarsa valorizzazione del prodotto ortofrutticolo che penalizza la parte agricola”, sottolinea Gennaro Velardo, presidente di Italia Ortofrutta, unione di produttori agricoli molto impegnata nella valorizzazione delle produzioni.

      “La politica dei bassi prezzi non dà benefici a nessuno degli attori della filiera. Anzi, sta erodendo il valore dell’ortofrutta agli occhi del consumatore. I produttori che gestiscono una merce altamente deperibile sostenendone tutti i costi certi della produzione sono la parte debole della filiera, hanno difficoltà a fare reddito e a coprire i costi di produzione, dati di fatto questi che determinano una iniqua distribuzione del valore lungo la filiera”, aggiunge Velardo.

      Gli operatori agricoli, schiacciati dalle imposizioni della grande distribuzione organizzata, tendono a rifarsi sugli anelli più deboli della filiera, in particolare sui braccianti. Risparmiano sul lavoro – e addossano parte dei costi di manodopera sullo stato, che non percepisce parte dei contributi e paga disoccupazioni non dovute. In una specie di gigantesca partita di giro, il cibo venduto ai consumatori ha un prezzo basso, ma è di fatto sovvenzionato da loro stessi attraverso sussidi non dovuti.

      Nella piana del Sele
      Questo sistema è talmente diffuso e strutturato che colpisce anche distretti agricoli a più alta redditività, come quello della piana del Sele, in provincia di Salerno. Con i suoi settemila ettari di serre sparsi tra Eboli, Battipaglia e Pontecagnano, questa zona è diventata il principale polo produttivo della “quarta gamma”, l’insalata in busta pronta al consumo e sempre più diffusa nei supermercati.

      Il prodotto non è venduto a prezzi bassi: le busta di lattuga o di rucola da cento grammi costa almeno un euro, cioè l’equivalente di dieci euro al chilo. Grazie alla valorizzazione del prodotto, le realtà agricole della zona, hanno fatturati importanti. Alcune hanno creato impianti di lavaggio e imbustaggio dei prodotti raccolti. Altre li vendono a grandi gruppi del nord o all’estero.

      Eppure, l’organizzazione del lavoro segue le stesse dinamiche dell’Agro Pontino. I lavoratori – anche qui prevalentemente indiani e marocchini – sono assunti a tempo determinato e hanno buste paga in cui è registrato un numero di giornate inferiore a quelle lavorate. Il resto è pagato in parte al nero, in parte attraverso la disoccupazione agricola, che compensa anche in questo caso il mancato guadagno.

      “Il lavoro grigio è diffuso nell’intero settore produttivo. Aziende di diverse dimensioni e tutti gli stranieri occupati nel settore ne sono interessati: la consuetudine del lavoro grigio è la caratteristica strutturale di ampia parte dell’agricoltura italiana”, sottolinea Gennaro Avallone, ricercatore all’università di Salerno e autore del libro Sfruttamento e resistenze: migrazioni e agricoltura in Europa, Italia, Piana del Sele. “Il lavoro grigio consente di aumentare i profitti, ma anche di tenere costantemente il bracciante in una situazione di ricatto, perché soggetto al rinnovo del contratto necessario per rinnovare anche il permesso di soggiorno”.

      In una casupola vicino a Pontecagnano dove vive insieme a quattro suoi connazionali, un bracciante indiano mostra le sue buste paga. Sono identiche a quelle del connazionale che vive e lavora nell’Agro Pontino, salvo che qui non sono indicate le tabelle di conversione. Sventola quella di settembre: sono segnati 12 giorni. “Ma io ho lavorato tutto il mese!”.

      Keetan, il nome è di fantasia, sottolinea che una parte gli viene data in contanti – cioè in nero – e che poi ogni anno ottiene la disoccupazione agricola. “Ma con questo reddito non raggiungo la cifra necessaria per attivare il ricongiungimento familiare e far venire qui mia moglie e i miei figli”.

      Gli imprenditori della zona interpellati in proposito ammettono tutti – anche se in forma rigorosamente anonima – l’esistenza del lavoro grigio. Alcuni minimizzano, altri sostengono che volentieri farebbero le assunzioni a tempo indeterminato, ma che nessuno dei lavoratori accetterebbe. “Bisognerebbe abolire la disoccupazione agricola per mettere ordine nel sistema!”, dice provocatoriamente uno di loro.

      Cambiare il sistema
      Alla sede centrale dell’Inps hanno ben chiare le dimensioni del fenomeno. “In vaste aree del paese, l’agricoltura è soggetta a un forte grado di opacità nell’erogazione dei sostegni pubblici”, dice il presidente Tito Boeri, mostrando una serie di tabelle e di documenti che già nel 2015 aveva portato all’attenzione delle commissioni riunite lavoro e agricoltura della camera dei deputati.

      “Bisognerebbe cambiare il sistema di registrazione delle giornate e il modo in cui è conteggiata ed erogata la disoccupazione agricola, adeguandola a quella di altri comparti, per i quali vige la nuova assicurazione sociale per l’impiego (un sussidio di disoccupazione pagato su base mensile, ndr)”, continua Boeri.

      Oggi la disoccupazione agricola è corrisposta in un’unica soluzione l’anno successivo a quello in cui si è lavorato ed è versata anche se in quel momento si sta lavorando. Si tratta quindi non tanto di un sussidio – giustamente previsto per compensare le stagioni in cui in cui in agricoltura non si lavora – ma di una vera e propria integrazione del reddito.

      I finti braccianti
      Al danno erariale causato dalle disoccupazioni non dovute e dalla mancata denuncia delle giornate lavorate si aggiunge poi la beffa dei finti braccianti, operai agricoli che non lavorano sulla terra ma percepiscono sussidi e assegni familiari. “I due temi si intrecciano. In alcune aree del paese c’è una coesistenza di lavoro svolto ma non dichiarato e di lavoro fittizio, mai svolto ma dichiarato per beneficiare di sussidi”, sostiene Boeri.

      Nelle provincia di Foggia l’esistenza dei finti braccianti non è un segreto per nessuno. “Io vorrei assumere italiani, ma non li riesco a trovare. Eppure, nelle liste Inps ce ne sono migliaia”, si indigna Raffaele Ferrara, presidente dell’organizzazione dei produttori La Palma, che coltiva duecento ettari a pomodoro nella zona di Lesina. “Quello dei finti braccianti è uno scandalo che grida vendetta. Ma nessuno fa nulla”. Nei campi di pomodoro – e in quelli di asparagi, finocchi, carciofi – si vedono solo stranieri.

      Eppure nella provincia di Foggia su 49.868 braccianti agricoli registrati nel 2017 il 58 per cento (29.143) è di nazionalità italiana, percentuale che raggiunge il 74 per cento se si considerano solo i braccianti che hanno avuto segnate più di 51 giornate, ossia il numero minimo per accedere agli ammortizzatori sociali. Dove sono tutti questi operai agricoli? “A casa a grattarsi la pancia”, scherza Ferrara.

      Ma come funziona il sistema dei finti braccianti? In un contesto completamente deregolamentato – in cui gli stranieri spesso lavorano a cottimo e senza che gli siano registrate tutte le giornate di lavoro nei campi – c’è un vero e proprio scambio di giorni lavorati tra veri e falsi operai agricoli. Insomma le aziende non segnano le giornate ai braccianti stranieri che effettivamente lavorano nei campi, ma le attribuiscono a persone di nazionalità italiana che non hanno mai toccato la terra, e che in cambio danno i soldi alle aziende per pagare i loro contributi previdenziali, più altro denaro per il “favore”.

      Senza mai lavorare queste persone ottengono la disoccupazione, gli assegni familiari e, raggiunta l’età, anche la pensione agricola. Non sono cifre da poco: solo negli ultimi tre anni, l’Inps ha scovato più di 90mila operai agricoli fittizi, per un danno all’erario di centinaia di milioni di euro.

      Tra falsi braccianti che ottengono benefici di cui non avrebbero diritto, braccianti reali che sono pagati meno di quanto gli spetterebbe e che a loro volta integrano il reddito con sussidi che non dovrebbero avere, a perdere sono l’agricoltura e il sistema agricolo in Italia nel suo complesso. Perché un settore che vive di lavoro sfruttato e di sussidi indiretti sarà destinato ad avere sempre una posizione subalterna nei confronti degli altri attori della filiera, dalle industrie di trasformazione alla grande distribuzione organizzata, fino ad arrivare ai consumatori, cioè tutti noi, che compriamo cibo a basso costo senza sapere quello che c’è dietro il nostro apparente risparmio.

      https://www.internazionale.it/reportage/stefano-liberti/2018/11/19/prezzo-occulto-cibo
      #prix #alimentation

    • Chi comanda davvero nella grande distribuzione organizzata italiana

      È notizia di qualche giorno fa: #Conad compra gli oltre 1600 supermercati #Auchan e #Simply in Italia. La quota di mercato del gruppo sale così dal 12,9% al 16,5%, mentre l’aggregato del fatturato passa da 13,4 a 17,1 miliardi di euro. Il gruppo guidato da Francesco Pugliese diventa così leader incontrastato del settore, sopravanzando la rivale Coop. Ma chi comanda davvero nell’universo della grande distribuzione organizzata? Qual è il ruolo dei discount in Italia? E tra sconti, aste e offerte, quali sono gli anelli deboli della catena? Alcune risposte si trovano ne Il grande carrello. Chi decide cosa mangiamo (Laterza, Bari, 2019, pp. 119), firmato da Stefano Liberti, giornalista, e da Fabio Ciconte, direttore dell’associazione Terra! onlus.

      La tesi del libro è che la concorrenza tra supermercati, basata esclusivamente sul prezzo, impone alle catene di sedurre i consumatori con offerte sottocosto. Per garantire prezzi bassi, però, la grande distribuzione si vede costretta a rifornirsi al più basso costo possibile dai produttori, che quindi per tenere in ordine i conti delle loro aziende medio-piccole, si vedono obbligati a ridurre all’osso qualsiasi costo di produzione, in particolare i corrispettivi per la manodopera dei lavoratori. “Perché quando compriamo sottocosto, c’è sempre qualcun altro che quel costo lo sta pagando”, scrivono gli autori.

      A monte della pasta comprata «sottocosto» dal cliente, ci sono inevitabilmente una piccola azienda che entra in affanno e un produttore di grano che non riesce più a vendere il proprio prodotto, perché il pastificio in affanno preferisce comprare il grano canadese, più economico. Dietro la passata di pomodoro venduta in 3×2 ci potrebbe essere un’industria di trasformazione che ha accettato una commessa poco vantaggiosa, pur di non perdere l’accesso al mercato. “E che cercherà poi di pagare meno la materia prima a un produttore agricolo, che a sua volta proverà magari a risparmiare sulla forza lavoro, pagando i braccianti il meno possibile”, scrivono Ciconte e Liberti.

      Il libro resta però fondamentalmente uno studio sui consumi, le nostre abitudini alimentari e l’influenza che la grande distribuzione esercita su consumatori e produttori. Muovendo le leve del marketing emozionale, le grandi insegne orientano le nostre abitudini d’acquisto. Servendosi invece della posizione dominante acquisita sul mercato, le catene impongono ai produttori medio-piccoli modalità di accesso agli scaffali che finiscono per generare lavoro a basso costo e bassa qualità. Tutto in nome di due paroline magiche – “offerta” e “sottocosto” – che rappresentano ormai l’imperativo per distributori e consumatori.

      I rapporti di forza tra piccoli produttori e grande distribuzione pendono a favore delle grandi insegne sostanzialmente perché quasi 3 acquisti alimentari su 4 oggi si verificano in un punto vendita della grande distribuzione organizzata. E sono questi numeri a delineare il potere contrattuale che le insegne esercitano sui piccoli produttori, costretti a fare carte false pur di intercettare la mole di consumatori che si servono esclusivamente nei supermercati. Le insegne così si sentono libere di adoperare meccanismi che mettono in grande difficoltà i “piccoli”. Per ospitare i prodotti sugli scaffali, i supermercati chiedono ai singoli produttori di versare un corrispettivo chiamato listing fee, una sorta di tassa per l’esposizione più o meno in evidenza. “I grandi gruppi industriali non pagano la listing fee, perché un supermercato che non ha la Coca-Cola o la pasta Barilla rischia di perdere clienti. Ma piccole e medie imprese dovranno pagare una tariffa non indifferente per avere l’onore di vedere esposti i propri prodotti”, annotano Ciconte e Liberti.

      Anche il meccanismo delle aste al ribasso contribuisce a mettere in difficoltà i produttori. Per proporre una passata di pomodoro a 0,39 e un pacco di pasta a 0,49 centesimi, le insegne della grande distribuzione, in particolare i discount, mettono contemporaneamente in competizione vari fornitori, per acquistare il prodotto finale al prezzo più basso possibile. Il gruppo manda alle aziende produttrici un’email chiedendo di fare un’offerta. Raccolte tutte le proposte, convoca una nuova gara dove la base d’asta è l’offerta più bassa fra quelle presentate. Il tempo per rilanciare in questa seconda fase è molto limitato. Pochi minuti per dire sì o no a una commessa di milioni di bottiglie o di scatole. Commesse non indifferenti per produttori che hanno come principale canale di vendita proprio i supermercati. “Questi meccanismi possono mettere in difficoltà alcuni produttori o agricoltori, ma la responsabilità è del mercato, che a volte è cattivo”, ha riconosciuto Eurospin.

      Gli autori individuano cinque diverse tipologie di consumatori, che si distinguono per consuetudini d’acquisto differenti. Il «cliente Cacciatore» si sposta da una catena all’altra a caccia di offerte, il «cliente Pragmatico» bada solo alle caratteristiche del prodotto e al costo, il «Prudente» è influenzato da fonti che considera affidabili come negozianti e pubblicità, l’«Esperto» ha capacità di spesa e legge si informa confrontando le etichette, infine i «Brand Fan» che acquistano solo prodotti di marca. Curiosamente nessuna delle categorie fa caso al rincaro pari al 700-800% su un prodotto come l’insalata in busta, venduta al prezzo rassicurante di 0,99 euro, eppure pagata – a conti fatti – non meno di 10 euro al chilo. Nessuno coglie la contraddizione, perché la percezione resta quella del prezzo basso, veicolata dal bollino giallo che comunica una spesa inferiore all’euro.

      Del resto il vantaggio competitivo alla base del successo dell’insalata in busta è il risparmio di tempo. C’è il tempo guadagnato al supermercato, dove il prodotto va solo messo nel carrello, mentre quello sfuso va invece scelto, imbustato, pesato ed etichettato. E poi c’è il tempo risparmiato a casa, dove l’insalata va soltanto condita. “Su questo insistono le strategie dei principali attori del settore, che hanno intercettato il moderno bisogno di non indulgere troppo in cucina, pubblicizzando a chiare lettere lo slogan «Si vende tempo libero». Del resto i prezzi che finiscono con la doppia cifra ‘99’ risvegliano la sensazione subliminale del risparmio: anche se sappiamo che 2,99 è uguale a 3 euro, il nostro cervello registra che il prodotto in questione costa poco più di 2 euro”, scrivono gli autori.

      Un capitolo a parte viene poi riservato all’attenzione per certi versi esasperata alle scelte dietetiche, anche per chi non ne ha bisogno. Del resto viviamo nell’epoca dei cosiddetti consumi «evolutivi», quelli in cui l’aggiunta o l’eliminazione di qualcosa costituisce un tratto distintivo e genera consumi. Gli scaffali abbondano ormai di prodotti in cui la sottrazione diventa marchio distintivo: senza zuccheri aggiunti, senza glutine, senza lattosio, senza grassi idrogenati, senza sale, senza aspartame, senza OGM. Nel 2017 il settore ha registrato acquisti per quasi 7 miliardi di euro in Italia, con un trend in continua ascesa anno per anno. Se si escludono acqua e alcolici, i prodotti “senza” costituiscono oggi il 18,6% degli acquisti alimentari.

      La tendenza è ben riassunta dal caso “olio di palma”. Nel 2014 fa il suo ingresso ufficiale nelle etichette dell’industria alimentare e dei cosmetici, su indicazione del regolamento europeo 1169/11 che obbliga i produttori in tal senso. Secondo buona parte dei nutrizionisti l’assunzione giornaliera di dosi elevate di olio di palma potrebbe risultare dannosa per la salute a causa della presenza dei grassi saturi. Eppure nel gennaio 2018 l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) specifica che «i livelli di consumo tramite gli alimenti sono considerati privi di rischi per la maggior parte dei consumatori». Ragionano Ciconte e Liberti: “Il messaggio però è ormai passato: l’olio di palma è potenzialmente dannoso per la salute e quasi tutte le grandi catene di distribuzione e i produttori industriali bandiscono l’uso dell’olio di palma dai loro prodotti”. Si aprano i festeggiamenti.

      https://forbes.it/2019/05/22/gdo-chi-comanda-davvero-nella-grande-distribuzione-organizzata-in-italia

    • Aste al doppio ribasso, uno strumento che schiaccia i piccoli produttori

      In un mercato agroalimentare dove la grande distribuzione organizzata domina quasi incontrastata, i piccoli e medi produttori sono in difficoltà. Uno dei loro problemi è rappresentato dalle aste online al doppio ribasso.


      https://www.tvsvizzera.it/tvs/qui-italia/filiera-agroalimentare_aste-al-doppio-ribasso--uno-strumento-che-schiaccia-i-piccoli-produttori/44968772