Albania, l’umanità che resta sulla rotta balcanica ⁄ Open Migration

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  • Come il Montenegro si prepara a un’emergenza che non c’è

    La percezione di un’emergenza migranti percorre come una febbre i Balcani, ma in nessun paese assume sembianze surreali come nel piccolo Montenegro, dove si lavora alacremente per affrontare arrivi di massa che almeno per ora non sono ancora avvenuti. Christian Elia ha incontrato per noi i protagonisti dell’accoglienza, i rifugiati che ci sono per ora, e i giornalisti sotto minaccia che si occupano anche di immigrazione.

    Negli ultimi due mesi il governo di Podgorica ha prima dichiarato di valutare la costruzione di un muro al confine con l’Albania, le cui forze dell’ordine lascerebbero passare una quota crescente e preoccupante di migranti rifiutandone il respingimento. Pochi giorni dopo, l’esecutivo montenegrino ha discusso di un’adesione a Frontex, l’agenzia delle frontiere europee. Posizioni pubbliche premiate dal governo ungherese, pronto a donare a Podgorica il filo spinato necessario a mettere in “sicurezza” almeno 25 chilometri del proprio confine meridionale.


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    • Albania, l’umanità che resta sulla rotta balcanica

      Sarà perché il ricordo di quando si era costretti a partire è ancora forte, o perché il paese ha vissuto in prima linea la guerra in Kosovo, ma sui migranti l’Albania non soffre le pressioni dell’opinione pubblica. Se ne parla poco e l’aiuto è tanto, come a Scutari: prima erano i kosovari, ora sono gli afgani e i siriani ad essere assistiti. Le stesse storie, gli stessi incubi e lo stesso bisogno di un giaciglio in cui dormire. Con Christian Elia torniamo sulla rotta balcanica in un reportage a cavallo tra Albania e Montenegro.

      “A volte puoi solo immaginare come ci si possa sentire. Ecco, ricordo in particolare la storia di una signora siriana. Ancora oggi, pensando a lei, ho i brividi. Con i suoi due piccoli figli, a piedi, tentava di passare in Montenegro, nella zona del triplo confine, con Albania e Kosovo. È una zona impervia, boscosa, non aveva più denaro per pagare una guida. Avrà fatto tutto quel che poteva, ma è stata morsa da una vipera. Era terrorizzata, ha iniziato a urlare, come i suoi bambini, che probabilmente neanche capivano bene la dimensione della tragedia. Se non ci fossero stati due ragazzi algerini, a loro volta a piedi, sulla stessa rotta, sarebbe morta là. Lasciando i piccoli da soli. Ecco, uno dei due, nonostante la paura di essere scoperto e respinto, è accorso, salvandole la vita e portandola indietro insieme ai bambini.”

      In Albania, rispetto ai popoli in cammino, c’è un clima molto differente che nel resto della regione e dell’Europa. E’ come se, per l’assenza sostanziale del tema nel conflitto politico, si riuscisse a mantenere quella ragionevole, lucida, umanità che è naturale quando si parla di esseri umani senza il filtro della speculazione politica.

      Per le strade di Tirana, attorno ai due centri di permanenza temporanea, è anche difficile vederli. Tanto che le loro storie restano impresse nella memoria, vengono ricordate, le storie hanno ancora volti, non sono ancora diventate numeri.

      La sede della Caritas, a Tirana, è in Rruga Don Bosco. La storia della Caritas, in Albania, è parallela a quella contemporanea del Paese delle Aquile. C’era al tempo del crollo del regime di Hoxha, c’era durante la guerra civile, che gli albanesi ricordano come ‘anarchia’, c’è oggi, che l’Albania è cambiata tanto, che i migranti arrivano e non partono – quasi – più. Al massimo, da tutto il mondo, tornano. O se partono, possono farlo legalmente.

      Nel caos del traffico cittadino e della vita frenetica dei bar, dei centri commerciali e dei negozi, il centro della Caritas è come un luogo sospeso, dove la vita albanese rallenta. Ariela Mitri è la responsabile per il settore del traffico di esseri umani e delle migrazioni, preparata e accogliente. A luglio 2018, con il sostegno della comunità internazionale, ha collaborato a un rapporto che fotografa la situazione di quello che è un paese di transito per eccellenza. Dalla Grecia alla Croazia e alla Slovenia, lungo la Balkan Route che non è mai davvero chiusa, al di là del racconto dei media. Le persone transitano, via Montenegro, via Kosovo, via Serbia, vengono respinte e si trovano intrappolate, spesso in Bosnia – Erzegovina.

      Il rapporto studia il periodo 2012 – 2017, ma è dal 2009 che i flussi di passaggio (perché solo di questo si tratta) iniziano a salire, in parallelo alla chiusura via via più ferrea di tutte le altre rotte d’accesso all’Europa.

      L’Albania ha aderito alla Convenzione di Ginevra del 1951 e il suo quadro normativo si sta adattando all’acquis europeo. La legge 121/2014 prevede che entro e non oltre quindici giorni dalla presentazione della domanda di protezione internazionale lo stato albanese deve informare il richiedente circa i suoi diritti. Secondo l’ultimo report pubblicato dalla Commissione nel 2017 hanno presentato domanda di asilo in Albania 309 persone, dato in leggera crescita rispetto all’anno prima. Le domande vengono registrate dalle autorità di frontiera, dopodiché passano al Direttorato per l’asilo politico e la cittadinanza. C’è opzione di ricorso, se ne ricordano solo tre.

      Il fronte di ingresso è l’Albania meridionale, quello di uscita è l’Albania settentrionale. Chi non prova la strada – impervia – del Kosovo, si concentra nella zona di Scutari. Ed è proprio là che Cristian, responsabile Caritas a in città, si occupa di molti di loro. “Le storie sono tante, c’è una coppia di fratellini afgani che aspettano la madre, oramai in Svezia, per il ricongiungimento familiare, ma la storia più triste è stata di sicuro quella di una bimba afgana che ha subito l’amputazione del piede per il freddo. Come si fa a dimenticare?”. Cristian racconta, mentre si avvicina al posto di frontiera di Han i Hotit, uno dei tre punti di passaggio dall’Albania al Montenegro. Le colline tutto attorno sono basse. “Capita di vederli camminare, proprio là, sulla cresta”, indica Kristian.

      Un sentiero parte tra due case di questa zona a maggioranza cattolica. Un croce su un cancello aiuta a partecipare all’idea di una mappatura simbolica dei luoghi. Due cani abbaiano all’impazzata, un gregge di pecore bruca pigramente ai margini del sentiero che si inerpica fino a scollinare dall’altra parte.

      Proprio su quella zona c’è la parrocchia di padre Adrian. Faccia da duro, crocefisso al petto. E dietro l’apparenza tanta umanità. “Mi capitava di arrivare qui e trovare, all’alba, donne e bambini, famiglie intere, che dormivano in giardino. Come si può essere indifferenti. Aprivo la sagrestia, che ha una minima struttura attrezzata per passare la notte. Questo è un piccolo paesino, un villaggio, sulla strada per il Montenegro, è ovvio che non si può fare molto. La comunità è accogliente, le donne del villaggio mi aiutano portando cibo e coperte, ma non è questa la soluzione. Le persone passano e bisogna fare qualcosa, non si possono lasciare all’addiaccio né si può pensare che questi ripari di fortuna siano la soluzione”.

      Sono almeno cinque, l’anno scorso, i casi di taxisti arrestati perché portavano (dietro lauto pagamento) i migranti verso il confine. Molti passavano da questa strada, quelli con meno mezzi tentano la fortuna a piedi.

      Il posto di confine, dalla parte del Montenegro, ha ancora l’arco di cemento d’ispirazione socialista. Dalla parte albanese, un caffè con vetrate domina il panorama mozzafiato del lago di Scutari, che durante gli anni duri del regime di Hoxha alcuni temerari provarono a passare a nuoto, in fuga verso quella Jugoslavia che era più libera, ma che spesso li rimandava indietro esponendo loro e le loro famiglie alla vendetta del regime di Tirana. Solo che all’epoca, la stampa e la politica europee, li raccontava come eroi e martiri della libertà. Un mondo a memoria selettiva. Padre Adrian, invece, ha la memoria delle persone. “Anche io sono migrato, quando qui è diventato un inferno durante gli anni della caduta del regime e dell’anarchia. Come posso voltarmi dall’altra parte?”. E a ricordarlo, ogni giorno, quel tempo, sono i cartelli che recitano “Respinti Schengen”, con azzeccagarbugli che spesso finiscono per spillare un sacco di soldi agli albanesi che non possono avere il visto Ue, senza ottenere il risultato promesso.

      I migranti, spesso, seguono il binario che – come una cicatrice del tempo – corre sulla cresta della collina al fianco del confine e porta in Montenegro.

      Tirana e Podgorica, al netto di polemiche che in Montenegro hanno portato addirittura a parlare di costruire un muro, nella realtà della politica hanno stipulato accordi più pragmatici: hanno annunciato l’apertura di un nuovo valico, moderno, che permetta di blindare quelli vetusti esistenti.

      L’Albania, dal punto di vista dei migranti, non ha pressioni dell’opinione pubblica. Se ne parla poco, ma l’esecutivo albanese non è affatto a digiuno di politica. Molti ricorderanno, cinque mesi orsono, la mano tesa del primo ministro albanese Edi Rama al governo italiano. La nave Diciotti era al largo delle coste italiane, vittima del braccio di ferro tra il ministro degli Interni italiano, Matteo Salvini, e l’Unione Europea, colpevole – secondo la vulgata di Roma – di non condividere le quote degli sbarchi. Bene, le cose sono andate diversamente, come ha scritto e dimostrato Nicola Pedrazzi su Osservatorio Balcani Caucaso.

      “Primo: diversamente da quanto si è detto e scritto, nessuna delle persone scese dalla nave Diciotti la notte tra il 25 e il 26 agosto 2018 è mai arrivata sul suolo albanese. Secondo: diversamente da quanto si è detto e scritto, né il governo italiano né il governo albanese hanno mai lavorato al trasferimento in Albania di una quota di quello sbarco”, racconta Pedrazzi.
      I motivi sono diversi, ma di base, in fondo, solo se una delle persone soccorse in mare avesse espressamente chiesto di essere portata in Albania questo poteva accadere.

      “Stando alla legge 121/2014, entro e non oltre quindici giorni dalla presentazione della domanda di protezione internazionale lo stato albanese deve informare il richiedente circa i suoi diritti; da quanto ho potuto constatare la fragilità del sistema albanese non risiede nelle norme, ma eventualmente nello stato delle istituzioni deputate al processo della domanda di asilo, che secondo l’Ue hanno margine di miglioramento”, spiega Pedrazzi nel suo articolo.

      La procedura di ingresso nell’Unione Europea è una posta in gioco che val bene un po’ di propaganda, soprattutto in un paese che ha numeri così bassi da potersi permettere ancora di giocare.

      Già in passato, l’Albania si è resa disponibile a operazioni simili. Prima con l’operazione di ricollocamento dei militanti del Mujahedeen El-Khalq (MEK), oppositori del regime iraniano per anni ospitati dal regime di Saddam in chiave anti-Teheran e divenuti scomodi nell’Iraq filo-iraniano del post invasione Usa del 2003.
      Prima, invece, era stato il caso di ex detenuti di Guantanamo, risultati innocenti dopo anni di una carcerazione drammatica, ma che non potevano tornare nel paese d’origine.

      Operazioni a basso costo di pressione interna e ad alto ritorno di affidabilità esterna.

      Nel mezzo delle piccole e delle grandi cose, come sempre, restano le persone. Alla porte di Scutari, come fosse un villaggio vacanze in cima a un bosco bellissimo, che domina la vista del lago, c’è un posto sicuro. Lo ha allestito la Caritas, negli anni Novanta. E a custodirlo c’è ancora lui, Medi, grandi occhi azzurri, qualche ruga, e mani grandi.

      “Alcune famiglie siriane son partite ieri”, racconta, mentre percorre i sentieri tra i bungalow di legno. “Qui mettiamo i singoli, qui mettiamo le famiglie.” Il posto è pulito, confortevole. Guardando i letti rifatti e i bagni puliti si può solo immaginare il sollievo di chi si concede un momento di riposo. Qui vengono smistati e alloggiati quelli fermati in transito, alcuni dei quali – nonostante le brochure che gli vengono consegnate dalla polizia – non chiedono asilo, o se lo chiedono devono attendere nei piccoli centri di Tirana, che sono due. La Caritas alloggia, rifocilla e organizza il transfer dei richiedenti asilo. Ed è come un guardarsi allo specchio. “È nato tutto ai tempi della guerra in Kosovo”, racconta Medi. “Lavoravo già qui, allora, e ricordo le famiglie in fuga dalla guerra. Per me non fa alcuna differenza: sono le stesse storie, gli stessi incubi. E tutti hanno bisogno di un giaciglio per la notte”.

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