• Gli ostacoli al contrasto della violenza sulle donne

    In Europa gli stereotipi sessisti ostacolano la diffusione di efficaci strumenti di contrasto alla violenza di genere. Nel 2018 la ratifica della Convenzione di Istanbul è stata respinta da Bulgaria e Slovacchia. Ma anche dove la ratifica c’è stata, l’applicazione spesso procede a rilento.

    n Lituania una donna vittima di violenza maschile non saprebbe dove andare a stare, nel caso non avesse modo di sottrarsi autonomamente agli abusi subiti per esempio in famiglia. In questo paese non esistono infatti rifugi per l’accoglienza di donne vittime di violenza ed eventuali figli. Questo vuol dire che non vi è nessuno dei posti letto che sarebbero stabiliti dalla Convenzione di Istanbul, che il paese ha firmato nel 2013 ma mai ratificato.

    Nei paesi dell’Unione europea la Lituania è l’unico dove si registra la totale assenza di uno dei servizi considerati basilari per il contrasto alla violenza di genere: la disponibilità di luoghi protetti e accessibili gratuitamente, dove una donna che ha subito violenza può trovare riparo, protezione e assistenza per uscire dalla condizione di vittima. Tuttavia numerosi paesi sono ancora troppo vicini a questo vuoto: in Polonia manca il 99% dei posti letto attesi, nella Repubblica Ceca ne manca il 91%, in Bulgaria il 90%, mentre l’Italia è ferma all’89%.

    È un momento, quello attuale, in cui le politiche di parità e antidiscriminazione, comprese le azioni per il contrasto alla violenza contro le donne, registrano attacchi anche notevoli e azioni organizzate di contrasto. Come quello che comincia a essere noto come “Agenda Europe ”, un piano transnazionale per la restaurazione di una visione conservatrice e religiosa della società, e per il contrasto di politiche antidiscriminatorie, tra cui viene inclusa la tanto paventata “ideologia gender”.
    La situazione nell’est Europa

    La parola “gender” è oggetto del contendere anche in molti paesi dell’Est Europa in cui si sta dibattendo la ratifica o meno della Convenzione di Istanbul. È proprio su questo termine che in Slovacchia la ratifica è stata rigettata e in Bulgaria la Convenzione è stata dichiarata incostituzionale. Anche in Lituania la ratifica risulta impantanata per il rifiuto di accettare l’articolo 3.c della Convenzione, in cui il genere viene definito come un insieme di regole, comportamenti, attività e attributi che una società considera accettabili per uomini e donne. Un passaggio centrale nella Convenzione, indispensabile per mostrare che alla base della violenza spesso agiscono lo squilibrio di potere e i rapporti di forza e sottomissione tra uomini e donne radicati nella società. In altre parole, per indicare che la violenza di genere è perpetrata contro le donne proprio in quanto tali (art. 3.d).

    In totale i paesi che hanno ratificato la Convenzione di Istanbul sono 33, con Croazia, Grecia, Islanda, Lussemburgo e Macedonia che si sono uniti nel 2018. Ma nonostante le ratifiche sottoscritte da molti paesi est europei, in quest’area dell’Unione ci sono stati anche molti contrasti. Campagne di opposizione alla Convenzione sono state organizzate in diversi paesi: in Croazia ci sono state manifestazioni in piazza, in Bulgaria e Slovacchia si è arrivati al rifiuto della ratifica, mentre in Lituania non si riesce a portare avanti la discussione parlamentare.

    In generale nel paesi dell’est Europa si registra una scarsa conoscenza dei servizi rivolti alle donne vittime di violenza, come riporta un sondaggio 2016 di Eurobarometro sulla violenza di genere. Nel sondaggio tra le altre cose emerge che, considerando tutta l’Europa, un intervistato su cinque condivide punti di vista che tendono a colpevolizzare le vittime stesse - “se la sono cercata” è una narrazione che si sente spesso, persino in sede processuale - o ancora l’idea che quella sulla violenza maschile è una ricostruzione spesso esagerata se non inventata. Punti di vista largamente diffusi nell’Est Europa, sottolinea lo stesso sondaggio, così come è diffusa una certa ritrosia a denunciare gli episodi di violenza: nell’Europa orientale le persone sono generalmente propense a considerare la violenza domestica una questione privata che va gestita all’interno della famiglia; ad esempio si trova d’accordo con questa affermazione il 34% dei bulgari che hanno risposto al sondaggio e il 32% dei romeni.

    E ancora in un recente sondaggio nella Repubblica Ceca emerge che il 58% degli intervistat i pensa che lo stupro possa essere in qualche modo giustificabile da atteggiamenti della vittima stessa, come per esempio camminare da sole di notte o vestire in un modo piuttosto che in un altro. Una mentalità che tende a scoraggiare le denunce: secondo le stime, sempre nella Repubblica Ceca solo tra il 5 e l’8% dei casi di violenza finisce per essere riportato alla polizia, e ancora meno sono poi le storie che da lì finiscono in tribunale.
    Le dimensioni del problema

    In realtà però non si conosce ancora la reale dimensione del problema, le statistiche ufficiali sulle donne vittime di violenza sono ancora molto lacunose, e se si guarda a ciò che arriva nei tribunali si entra nel vivo di una mancanza di informazioni che comprende molti aspetti, dalla grande disomogeneità nel modo in cui sono raccolti i dati - per esempio nel conteggio delle violenze stesse o dei femminicidi - fino all’assenza di statistiche complete su esposti, denunce, cause intentate ed effettive condanne. La notevole varietà dei dati esistenti lascia ipotizzare sia differenze metodologiche di raccolta ed elaborazione, sia marcate differenze di mentalità tra i vari paesi per quanto riguarda la concezione stessa di violenza di genere.

    In generale in Europa sul fronte della fiducia delle donne vittime verso le istituzioni non va molto bene, se si pensa che solo una donna su 3 (il 33%) vittima di violenza grave da parte del partner si rivolge alla polizia o a strutture e organizzazioni dedicate. Percentuale che scende al 26% quando l’aggressore non è il proprio partner.

    Anche nei paesi dove l’emancipazione femminile è generalmente considerata più avanzata, la violenza non è affatto scomparsa, anzi. Spesso ha solo cambiato modalità o situazioni in cui si presenta. Un rapporto europeo pubblicato nel 2007 su violenza di genere e indipendenza economica rileva una situazione molto articolata quando si mettono in relazione emancipazione femminile e violenza. L’avere un lavoro fa registrare una lieve diminuzione della violenza subita in casa, ma solo se non ci sono di mezzo dei figli. E se da un lato le donne con livelli avanzati di istruzione risultano un po’ più al riparo da violenza sessuale e violenza da parte del partner, questa condizione espone maggiormente a molestie sessuali. Da notare inoltre che anche il livello di indipendenza economica conta: quando le donne guadagnano di più del partner, si segnala un consistente aumento della violenza da parte del partner; all’opposto quando la donna guadagna meno, risulta più esposta ad abusi psicologici.

    Molto resta ancora da fare, dunque. Non solo per agevolare firme e ratifiche della Convenzione di Istanbul, ma anche per garantire l’effettiva applicazione dei suoi contenuti. Non a caso la Convenzione stessa prevede un’attività di monitoraggio e valutazione ex post, che proprio quest’anno è stata condotta in Italia. Nel rapporto da poco pubblicato dall’associazione “Dire” si legge di numerosi ostacoli che le donne incontrano sia con le forze dell’ordine sia in ambito sanitario “dovuti ancora a scarsa preparazione e formazione sul fenomeno della violenza, ma soprattutto al substrato culturale italiano, caratterizzato da profondi stereotipi sessisti e diseguaglianze tra i generi, oltre che pregiudizi nei confronti delle donne che denunciano situazioni di violenza, cui ancora si tende a non credere”.

    Il rapporto definisce irrisori i fondi stanziati per contrastare la violenza sulle donne: secondo un dato ripreso dalla Corte dei Conti italiana ai centri antiviolenza e alle case rifugio arriverebbero circa 6.000 € annui, una cifra largamente insufficiente per ottenere gli standard di protezione da garantire alle vittime, e tanto più per pianificare azioni di prevenzione e contrasto di più ampio respiro. Risorse di cui il rapporto segnala anche una costante diminuzione negli anni e una distribuzione “a macchia di leopardo”, che si traduce nella presenza di strutture quasi solo al centro nord e una grave carenza strutturale nel sud e nelle isole.

    https://www.balcanicaucaso.org/aree/Europa/Gli-ostacoli-al-contrasto-della-violenza-sulle-donne-191542
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  • RTS | Les conditions de détention administrative à Granges dénoncées
    https://asile.ch/2017/09/11/rts-conditions-de-detention-administrative-a-granges-denoncees

    Le centre de détention administrative de Granges, en Valais, fait l’objet de nombreuses dénonciations. Les détenus et la commission de justice évoquent promiscuité, manque d’occupation et insalubrité des locaux.

    • CNPT | Conditions de détention administrative jugées non-conformes en Valais

      En 2017, la Commission nationale de prévention de la torture (CNPT) est venue observer, selon son mandat, les conditions de détention administrative au centre #LMC de Granges (Valais). Suite à la constatation de certains points jugés particulièrement problématiques, celle-ci avait émis des recommandations à l’établissement. En janvier 2019, une nouvelle délégation est venue visiter le centre et constate aujourd’hui encore certaines pratiques contraires aux standards nationaux et internationaux. La commission vient de publier un rapport détaillé sur ces constats. Le Conseil d’État valaisan, qui lui répond, ne partage pas entièrement son analyse.

      Il importe tout d’abord de relever que le régime de détention administrative ne relève pas du droit pénal. Les personnes qui sont incarcérées dans cet établissement ne le sont pas suite à un délit, contrairement à ce que laisse croire la réponse du Conseil d’Etat valaisan à Keystone-ATS. Elles subissent cette mesure de contrainte parce que la Suisse souhaite les voir quitter le territoire.

      Il faut également rappeler que la durée maximale actuelle de détention administrative en Suisse est de 18 mois. A l’origine, celle-ci avait été instaurée à 24 mois en Suisse mais l’adoption de la directive retour par l’UE l’avait poussé à restreindre pour mise en conformité. Néanmoins, en condition de privation de liberté, cela reste long.

      Avec ces deux éléments en tête, la lecture du rapport de la CNPT sur les conditions de vie carcérales au centre LMC de Granges inquiète. Certaines améliorations y sont saluées : les femmes et les mineurs n’y sont plus incarcérés et un nouveau bâtiment de détention administrative sera construit… à l’horizon 2022. Mais, plusieurs points sont encore jugés problématiques. Des cloisonnements en cellule de 19-20h par jour, des sanitaires internes aux chambres collectives sans véritable intimité possible, un accès interdit à internet, un accès au téléphone et aux visites très restreint, des repas en chambre et très peu d’activités récréatives. Mais le Conseil d’État valaisan qui prend position ne se laisse pas ébranler par ce que la Commission décrit comme « contraire aux standards nationaux et internationaux ». Il informe qu’une nouvelle salle servant d’atelier d’occupation et de réfectoire sera ouverte pour améliorer la situation. Le reste ? Pas de téléphones portables et d’internet : « … pour des raisons de sécurité évidente », écrit-il. Des cloisonnements trop longs ? « …il existe des tensions entre certains pensionnaires », explique le Conseil d’État. Il est vrai qu’à la lecture des conditions de vie imposées à ces personnes, on peut imaginer qu’une certaine nervosité apparaisse. Même chez les lecteurs.

      https://asile.ch/2019/06/07/cnpt-conditions-de-detention-administrative-jugees-non-conformes-en-valais